Antonio Tabucchi da: Il tempo invecchia in fretta, Milano, Feltrinelli, 2009 7. Festival. Mi chiese cosa ne pensassi. Non era facile trovare le parole, era tardi, la stanchezza pesava, avrei voluto andare a dormire, guardavo le luci del golfo, si era alzata una brezza carica di umidità, sulla terrazza dell’albergo restavano i soliti tre o quattro ritardatari, era faticoso seguirlo, oltretutto in una lingua per entrambi straniera. Ogni tanto faceva una pausa per cercare la parola giusta e in quei vuoti la mia attenzione si perdeva ancora di più, un paese sotto sorveglianza, sperava capissi, certo che capivo, capivo perfettamente, anche se per capire meglio le cose bisogna averle toccate con mano, però sapevo benissimo che in quegli anni il suo era un paese sotto sorveglianza, anzi, un paese poliziesco, per dirla meglio. Proprio così, disse lui, un paese poliziesco, e io ero un povero impiegato dello stato, perché era tutto dello stato, capisce?, vuole sapere perché nella biografia che ho dato alla giuria del festival alla voce professione ho scritto avvocato, è semplice, perché era la mia professione, ero un avvocato dello stato, per conto dello stato difendevo le persone che lo stato voleva condannare, non so se capisce il circolo vizioso, stavo dentro un circolo vizioso, quella era la funzione della mia professione, accettare il circolo vizioso, ero il cane che si mordeva la coda, anzi, ero la coda morsa dal cane. E poi aggiunse: e se bevessimo qualcosa? Davvero un’idea eccellente, acconsentii, per me forse una tisana, le immagini violente dell’ultimo film che ci avevano fatto sorbire quel giorno erano restate in technicolor nelle mie rètine stanche. La violenza in technicolor, continuò lui, da noi invece la violenza era grigia, neanche in bianco e nero, grigia, e io dovevo adeguarmi a quel grigio, perché ero il grigio funzionario di uno stato che per far credere all’estero che la democrazia apparteneva al popolo assicurava agli imputati un avvocato d’ufficio come nelle vere democrazie, solo che gli imputati di cui mi occupavo non avevano commesso furti, truffe, omicidi o gli altri reati che compaiono sul codice penale, avevano commesso il reato di pensare in maniera diversa da come la pensava lo stato e avevano espresso il loro pensiero in pubblico, o in privato, perché magari ne avevano parlato con il cugino o il cognato e quelli erano andati a riferirlo alla polizia di stato. Fece una pausa, e intanto il cameriere era arrivato con le nostre ordinazioni, ma io avevo cambiato idea, preferivo un caffè, un espresso all’italiana, ci sono occasioni in cui si deve essere ben svegli, sono occasioni rare, gli chiesi se conosceva il proverbio italiano, magari c’era una variante simile nel suo paese, evidentemente lo conosceva: se stasera non dorme piglia un pesce insolito, disse sorridendo, un cane a cui mordevano la coda, meglio scherzarci sopra, così non vado troppo sul drammatico, le racconto di un cane a cui mordevano la coda. La brezza era calata all’improvviso lasciando una notte trasparente, sul lungomare passò un gruppetto che cantava Cielito lindo, al mattino avevamo visto una pellicola messicana in concorso, non avrebbe vinto, il regista e gli attori lo sapevano, era un film semplice e molto vero, di quelli che nei festival importanti non hanno premi, magari ne parlerà qualche critico fino. Hanno capito e stanno al gioco, dissi io. Anch’io allora in qualche modo stavo al gioco, disse lui, ma si sta al gioco anche se è truccato quando si spera che un giorno esca la carta vincente, è questa la perversità del circolo vizioso, è come Achille e la tartaruga, sulla carta la tartaruga vince la corsa, la logica è stringente, ma la verità è che Achille è Achille e tu sei la tartaruga, mi perdoni le divagazioni zoologiche, dal cane sono passato alla tartaruga, è che al processo partivamo alla pari, e la tartaruga in teoria poteva arrivare prima di Achille, e il traguardo consisteva nell’assoluzione degli imputati, ma quel traguardo per la tartaruga non arrivava mai, la mia corsa consisteva nell’arrancare penosamente dietro al piè veloce in modo che non tagliasse il traguardo troppi metri davanti a me, tanto la corsa era sua, diciamo che mi accontentavo di centimetri, lavoravo in centimetri, non so se mi spiego, le faccio un’equazione: un centimetro, un anno di campo di lavoro in meno, due centimetri, due anni in meno, e così via, a volte bisognava accontentarsi addirittura di millimetri, tentavo di rosicchiare qualche millimetro, due o tre mesi in meno di galera sono tanti nella vita di un uomo, ad esempio: il mio difeso non intendeva assolutamente attentare alla sicurezza dello stato, è vero che i libri trovati nel suo appartamento sono pubblicati in Francia, ma faccio notare a questa rispettabile corte che si tratta di testi sulla rivoluzione francese, che come sappiamo ha messo fine alla monarchia assoluta: cose di questo genere, e mai che il pubblico ministero facesse un’obiezione, un’interrogazione, una domanda, tanto la corsa era già vinta in partenza, la sentenza era già scritta, ai giudici bastavano pochi minuti di finta riunione in camera di consiglio per leggere un foglio che avevano già in tasca, però con quanta compunzione ascoltavano la mia arringa, i miei discorsi che chiedevano clemenza o rivendicavano il diritto di pensare, a seconda dei millimetri che dovevo rosicchiare nella circostanza. Fece un cenno con la mano come per dire basta, raccolse dal tavolo le sigarette e l’accendino, mise una banconota sul piattino del conto. Non vorrei annoiarla oltre, disse a bassa voce, lei è stanco, e questa è una storia scaduta. E allora, con un gesto di intimità non adeguato alla nostra recente conoscenza, lo fermai trattenendolo per un braccio. Non possiamo lasciare che questa storia se la inghiotta la notte, dissi, per favore. Mi stavo perdendo in troppi dettagli, disse lui, mi scusi, cercherò di essere sintetico, del resto questa vecchia storia in fondo è semplice, o almeno vista da qui ora mi sembra semplice e i dettagli la impoveriscono, è che un certo giorno, un giorno fatidico, non avevo proprio millimetri da rosicchiare, erano zero assoluto, sarei rimasto sulla linea di partenza, avrei potuto sostenere che il mio assistito era incapace di intendere e di volere, ma anche questo era insostenibile, non era un’attenuante adatta a un giornalista di talento noto per non avere mai dissentito dal regime, ma come, un uomo così non era responsabile delle proprie azioni?, mi avrebbero persino riso in faccia. Il caso era questo: il mio assistito aveva fatto filtrare a un settimanale tedesco certi documenti sulla repressione del regime, aveva una talpa al ministero degli Interni e aveva preparato le cose con cura, aveva chiesto il passaporto per recarsi a Francoforte a fare un servizio sulla decadenza della Germania occidentale, si figuri, avrebbe attraversato la frontiera il dieci di gennaio e il dodici gennaio, un sabato, il settimanale avrebbe pubblicato le fotocopie dei documenti con un servizio firmato da uno pseudonimo, che poi era lui. Non so cosa fosse successo, il settimanale aveva le fotocopie da tempo e forse temeva che andassero a male, la vostra stampa ha sempre paura che la notizia invecchi, l’inevitabile non succede mai, l’imprevisto sempre, ha scritto qualcuno, e l’imprevisto era stato questo, un banale fatto di anticipo, questa era la situazione della tartaruga, non si trattava più di rosicchiare millimetri, potevo forse ottenergli il manicomio giudiziario, un po’ meglio del campo di lavoro, perché gli intellettuali che finivano lì faticavano meno ed erano trattati con più rispetto, ma da un punto di vista morale era ancora peggio, quando mi alzai per la mia arringa non mi sentivo né cane né tartaruga, mi sentivo proprio un verme, tanto per scendere nella scala biologica, ma come dicevo prima l’inevitabile non succede mai, l’imprevisto sempre. E l’imprevisto fu che la porta dell’aula si aprì, un usciere entrò precedendo un signore fino al banco della corte, era un uomo alto, con qualche filo grigio nei capelli, pensai fosse un ufficiale giudiziario, teneva in mano un foglio che mostrò ai giudici, i togati lo lessero a turno e si misero a confabulare fra di loro, il presidente del tribunale fece un cenno all’usciere, costui andò alla porta dell’aula e fece entrare un giovanotto che portava una macchina da presa e un microfono, il giovanotto piazzò il microfono in mezzo all’aula, poi aprì il cavalletto e vi collocò la macchina da presa in modo che filmasse la corte di fronte e me e l’imputato di spalle, il presidente del tribunale mi fece cenno di alzarmi, toccava a me, la toga sulle spalle mi sembrò troppo pesante e all’improvviso sentii un caldo esagerato in quell’aula dove si gelava, difendevo un caso davvero difficile ma feci la mia arringa con convinzione anche se non sarebbe valsa a nulla, come le ho detto in camera di consiglio ci stavano pochi minuti, i giudici di quella democrazia avevano fretta di ritornare a casa, soprattutto d’inverno, quando le strade di Varsavia sono piene di neve ghiacciata ed è meglio rientrare prima che annotti. E invece tardavano a rientrare, e i minuti passavano. C’era un silenzio, in quell’aula, lei non se lo immagina, dire un silenzio di tomba è un luogo comune ma non trovo altre parole, anzi, per fare un omaggio a uno scrittore del paese in cui ci troviamo le dirò che c’era un silenzio d’oltretomba. Finalmente la corte rientrò, ma prima di leggere il verdetto il presidente ebbe cura di dire che errare è umano, è il perseverare che è diabolico, e la corte era certa che l’imputato non avrebbe perseverato, era persona troppo stimata dal governo e dal popolo per perseverare nel suo errore e che, questo era il verdetto, l’ammenda che ci si aspettava da lui era un pubblico riconoscimento del proprio errore, eventualmente sul quotidiano del Partito che gli offriva tutta la sua generosa ospitalità. Anche se avevano trovato una via d’uscita perfida, perché come nei processi staliniani volevano che egli stesso si riconoscesse colpevole, tuttavia non lo avevano condannato, non avevano avuto il coraggio di condannarlo, e quello era davvero insolito a quei tempi, nel mio paese. Mi complimentai con il mio assistito che aveva sul volto un’espressione incredula, avevo fretta di uscire dall’aula per conoscere quel signore elegante, l’illusionista che aveva incantato le fiere cambiando sotto gli occhi degli spettatori il numero del circo. Lui non ci aveva trovato nulla di strano, a volte gli artisti sono così, quel cineasta non l’avevo mai visto di persona, lo conoscevo solo di nome, il perché di quell’irruzione, era questo che volevo sapere, ma che domanda, non era affatto un’irruzione, lui era semplicemente uno dei registi degli Studi di Stato per il Documentario, un istituto di stato, e gli era venuta l’idea di fare un documentario sui processi a cittadini accusati di attività contro lo stato, e così aveva chiesto regolare permesso allo stato, e lo stato ovviamente glielo aveva concesso, perché un’istituzione statale non può negare a un suo regista di filmare i processi che riguardano lo stato. Naturalmente tutto il materiale filmato passava al vaglio di alti funzionari dello stato per ricevere l’approvazione prima di essere montato, era sicuro che l’approvazione non l’avrebbe mai ottenuta ma era un fatto secondario, perché l’importante è filmare la realtà, e quei funzionari la realtà dovevano metterla negli archivi, non potevano buttarla via, e io sapevo come lui che ai funzionari dello stato, in questo caso ai giudici, non piace essere giudicati da altri funzionari dello stato, perché il nostro era uno stato fondato sul reciproco sospetto, l’unico elemento di coesione che lo teneva in piedi: ecco, lo scopo era questo, filmare per lasciare negli archivi il nostro presente, ero soddisfatto? E a quel punto io gli chiesi se poteva darmi il suo indirizzo, il telefono era meglio evitarlo, mi sarebbe piaciuto parlare con lui, ero un appassionato di cinema. Ma non ci andai subito, in realtà il cinema mi interessava poco, ci andai quando venne il momento, sarò breve, altrimenti finisco per farne una sceneggiatura, era la fine dell’inverno, mi ricevette nel suo appartamento, un luogo sobrio, c’erano solo libri e manifesti, a quell’epoca eravamo tutti poveri. Gli dissi che avevo un altro caso da proporgli per il suo documentario, un processo anche più difficile del primo, una cosa degna di restare negli archivi perché l’imputato stavolta non era neppure una persona, era una recita, non so bene se dramma o commedia, lo chiamasse come preferiva, era del teatro, uno spettacolo praticamente senza copione, quasi non si diceva parola, si parlava col corpo, c’era un regista, è vero, ma nello spettacolo ci sono gli attori che lo interpretano, l’autore delle musiche, il direttore delle luci, lo scenografo, impossibile portare tutta questa gente sul banco degli imputati, insomma, neppure una parola contraria agli ideali dello stato, l’imputato, se così si può dire, era la maniera di mettere in scena quello spettacolo, considerata sovversiva, ma perfino l’imputazione era poco chiara, come si fa ad accusare una maniera? Venga a filmare un processo alla finzione, gli dissi, un processo alla pura finzione. Lui venne, e filmò la lettura dell’atto d’accusa da parte del pubblico ministero, una lettura che risultò così grottesca che perfino il pubblico ministero se ne accorse e a un certo punto cominciò ad esitare, la corte non ebbe bisogno di ritirarsi in camera di consiglio, il presidente del tribunale obiettò che l’accusa non aveva consistenza giuridica e che la rappresentazione si poteva fare. Poi passarono dei mesi, forse un anno, durante i quali non ebbi bisogno di andarlo a trovare. Fino a un bel giorno in cui fui di nuovo costretto a suonare alla sua porta. Ma questa volta non si trattava di una recita, si trattava della realtà, della vita di un uomo, così dissi, perché con la condanna che gli avrebbero inflitto era come seppellirlo vivo. Gli esposi il caso, e lui mi ascoltò con attenzione. Che peccato, disse, sarebbe venuto con molto piacere, purtroppo il suo documentario per il momento era fermo, l’Istituto del Cinema aveva finito la pellicola, ne aveva fatto richiesta alle autorità competenti da più di un mese e ancora non avevano provveduto a rifornirlo, conoscevo meglio di lui le more della nostra burocrazia, magari la pellicola gli sarebbe arrivata dopo l’estate. Da parte mia fu un impulso, credo che non ebbi neppure il tempo di pensare a quello che dicevo, dissi: venga anche senza pellicola, maestro. Fece una pausa. Si accese una sigaretta, esitava come chi teme di non essere creduto. Fu così che vennero filmati i miei processi successivi, continuò, con la macchina da presa vuota, e ogni volta le sentenze furono generosamente indulgenti. Di quel breve documentario, neppure mezz’ora, che aveva effettivamente filmato e che resta sepolto negli archivi di uno stato defunto, tutto il seguito, almeno un paio d’ore di film, cioè le immagini girate senza pellicola, sono le più emozionanti, ma queste vivono solo nell’archivio della mia memoria e a un certo punto mi è sembrato quasi di vederle proiettate sullo schermo di questa chiara notte di maggio. Tacque, facendomi intendere che non aveva altro da aggiungere, alzò il bicchiere in un brindisi a qualcosa che sapeva solo lui e poi disse: ora capisce perché nella mia scheda biografica non ho scritto sceneggiatore, ma questo non ha importanza, la cosa più buffa di tutta questa storia è la frase che gli dissi per convincerlo a venire a filmare senza pellicola: maestro, qui si tratta della realtà, non di un film. Pensi un po’ alla sciocchezza che dissi: qui si tratta della realtà, non di un film. Ora che lui non è più tra noi e questo festival dedica una retrospettiva a tutta la sua cinematografia, escluso il suo film più importante, quello che non è rimasto sulla pellicola, mi è venuto un desiderio che non so se è nostalgia o rimpianto: vorrei che per un sortilegio sbucasse dalla notte, anche solo per un attimo, per ridere con me di quella mia frase. Si era alzato in piedi. Fece un gesto ampio che mi parve senza significato, come se abbracciasse la notte. Di quella mia frase, aggiunse, ma non solo di quella, di tante altre cose potremmo ridere solo io e lui, davvero di tante cose, ora che non è più possibile, ma temo di avere abusato della sua pazienza e della sua stanchezza, ci vediamo domattina alla prima proiezione, è un film tratto da un best-seller, buonanotte.