LE DOMANDE DI BASAGLIA Come faccio a sapere che malattia ha una persona legata in un letto di contenzione da 15 anni? Come faccio a sapere di che cosa soffre un individuo a cui sono stati tolti, oltre ai suoi abiti, tutti gli oggetti personali, in cui poter rintracciare una pallida memoria di sé? E che dire di quanti, in occasione di una crisi, venivano immersi in un bagno d’acqua gelata, o sottoposti a elettroshock? Erano queste alcune domande che Franco Basaglia si era posto quando, escluso dalla carriera universitaria per le sue idee non proprio in linea con la psichiatria vigente, giunse a Gorizia a dirigere il manicomio di quella città. Marco Turco, regista della fiction televisiva, la cui prima puntata è andata in onda su RaiUno ieri sera, descrive con precisione, efficacia e commozione le pratiche di punizione, di controllo e persino di tortura che si praticavano nei manicomi in nome della scienza psichiatrica, ma soprattutto coglie e mette bene in evidenza che la chiusura dei manicomi era, negli intenti dello psichiatra veneziano, solo un primo passo verso una rivisitazione dei rapporti sociali a partire dalla "clinica", la quale, per tranquillizzare la società, non aveva trovato di meglio che incaricare la psichiatria di fornire le giustificazioni scientifiche che rendessero ovvia e da tutti condivisa la reclusione dei folli entro mura ben cintate. Entro queste mura Basaglia, prima della follia, incontrò la miseria, l’indigenza, il degrado, l’emarginazione, l’abbandono, la spersonalizzazione, a cui la follia non di rado si imparenta. Infatti la follia dei ricchi non si esprime con la "segregazione", ma tutt’al più con l’"interdizione", qualora intacchi gli interessi patrimoniali. E allora non è che per controllare e contenere questa miseria non s’è trovato modo migliore che renderla muta come "miseria" e farla parlare solo come "malattia"? Questo tema è messo bene in evidenza dallo sceneggiato televisivo che ha colto perfettamente l’intenzione di Basaglia secondo il quale: se la clinica ha messo il suo sapere al servizio di una società che non vuole occuparsi dei suoi disagi, non è il caso di tentare l’operazione opposta, ossia l’accettazione da parte della società di quella figura, da sempre inquietante, che è la follia, dal momento che, scrive Basaglia: "La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la ‘follia’ in ‘malattia’ allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere che è poi quella di far diventare razionale l’irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere ‘folle’ per trasformarsi in ‘malato’. Diventa razionale in quanto malato". L’ansia di accreditarsi come scienza sul modello della medicina ha fatto sì che la psichiatria trascurasse, senza curarsene, la "soggettività" dei folli, i quali furono tutti "oggettivati" di fronte a quell’unica soggettività salvaguardata che è quella del medico. Ma è davvero credibile che, negando istituzionalmente la soggettività del folle, sia possibile guarirlo, cioè restaurarlo nella sua soggettività? Di qui l’invito agli operatori sanitari di togliersi i camici, simboli del potere medico che non può operare, dice lo sceneggiato, se prima non si smonta il lager. "Ma i pazienti sono muti" obiettano gli infermieri. E allora, risponde Basaglia: "Avresti voglia di parlare quando nessuno ti ascolta?". E ancora: "Le anime di questi pazienti non sono ‘vuote’, come voi dite, ma semplicemente ‘svuotate’, in questo carcere di cui voi siete ‘buoni’ carcerieri, ma sempre carcerieri". E poi perché non restituire ai ricoverati gli abiti e i loro effetti personali. "Se a voi, medici e infermieri, togliessero tutte le cose più care che avete in casa, che cosa resta di voi?" Accettando la condizione di parità tra medico e paziente Basaglia scopre che, restituendo al folle la sua soggettività, questi diventa un uomo con cui si può entrare in relazione. Scopre che il folle ha bisogno non solo delle cure per la malattia, ma anche di un rapporto umano con chi lo cura, di risposte reali per il suo essere, di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche il medico che lo cura ha bisogno. Insomma, dice Basaglia: "Il malato non è solamente un malato, ma un uomo con tutte le sue necessità". L’utopia di Basaglia di fare della clinica un laboratorio per rendere "umane" e non "oggettivanti" le relazioni tra gli uomini, attraverso la creazione di servizi di salute mentale diffusi sul territorio, residenze comunitarie, gruppi di convivenza, con la partecipazione di maestri, educatori, accompagnatori, attori motivati, oggi sembra in procinto di naufragare e fallire. Anche se l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che nel 2003 ha definito la legge Basaglia che ha chiuso i manicomi come "uno dei pochi eventi innovativi nel campo della psichiatria su scala mondiale", ci informa che un giovane su cinque in Occidente soffre di disturbi mentali, che nel 2020 i disturbi neuropsichiatrici cresceranno in una misura superiore al 50 per cento, divenendo una delle cinque principali cause di malattia, di disabilità e di morte. Che facciamo? Mettiamo tutti in manicomio o facciamo recuperare loro quel rapporto col mondo che il manicomio preclude definitivamente e i servizi di salute mentale, così come sono oggi, non garantiscono, per incuria, trascuratezza, indifferenza, per la paura che la società ha della diversità che ospita nelle figure degli immigrati, dei tossici, dei senzatetto, degli emarginati? Questo Basaglia lo temeva e perciò, un anno prima di morire scrisse: "Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo ‘vincere’, perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo ‘convincere’. Nel momento in cui convinciamo, vinciamo, cioè determiniamo una situazione da cui sarà più difficile tornare indietro". E il contributo dello sceneggiato televisivo, bellissimo nel suo ritmo, nelle sue cadenze e nella sua documentazione, va nella direzione di convincerci a non tornare indietro. U. Galimberti Verifica se le seguenti affermazioni sono vere o false: 1) Basaglia fu escluso dalla carriera universitaria in quanto ritenuto non adatto alla ricerca scientifica 2) La chiusura dei manicomi doveva essere collegata, nelle intenzioni dello psichiatra, ad un progetto generale di ridefinizione dei rapporti sociali 3) Basaglia ritiene la psichiatria funzionale all’egoismo di una società che rimuove la follia trasformandola in malattia e isolandola tra le mura di una clinica 4) La psichiatria è ritenuta da Basaglia una scienza contradditoria e inefficace perché annulla la soggettività del folle, ricorrendo anche a pratiche disumane 5) Secondo Basaglia l’alternativa al manicomio è solo la famiglia 6) I servizi di salute mentale sparsi sul territorio sono attualmente soddisfacenti 7) Basaglia riteneva che, anche nell’eventualità di una riapertura dei manicomi, l’esperienza di un diverso modo di trattare il folle avesse ormai aperto una nuova strada Identifica nei seguenti gruppi le parole estranee o di senso contrario: 1) disagio, malessere, disturbo, omologazione, emarginazione 2) Comunità terapeutica, centro di igiene mentale, dipartimento di salute mentale, centri di identificazione ed espulsione, manicomio 3) emarginati, rampanti, senzatetto, tossicodipendenti, squilibrati 4) reclusione, isolamento, segregazione, ghettizzazione, integrazione I malati di mente senza assistenza Manca il 30 per cento del personale necessario Un milione di casi, torna la tentazione del manicomio MILANO - Sono quindici milioni gli italiani ai quali capita, durante la vita, di andare da uno psichiatra, un neurologo, o fare uso di psicofarmaci per problemi legati alla loro psiche. Dall’attacco di ansia al piccolo, e momentaneo, abuso alcolico, da una crisi sentimentale passeggera ai disagi perché c’è il mutuo da pagare. Disagi lievi. Un milione, invece, soffrono di schizofrenia (500 mila) o di disturbi mentali severi: dalla depressione grave agli squilibri di personalità. Dati italiani. Poco più di 30 anni fa sarebbero tutti stati rinchiusi in manicomio. Anche una parte di coloro assolutamente non gravi, come gli smemorati. Poi è arrivato Franco Basaglia con la sua battaglia che si è trasformata in legge nel 1978. Ma che ancora oggi, trent’anni dopo, è incompiuta. Anzi, qualcuno vorrebbe ricreare i manicomi: con nome diverso, moderni e attrezzati, ma pur sempre manicomi. E la cronaca segnala casi limite tutt’ora esistenti con camicie di forza, pazienti legati, elettroshock. Basaglia non lo crederebbe. Incompiuta, la sua riforma, anche perché a livello nazionale dovrebbe essere attivo un operatore ogni 1.500 abitanti; in realtà sono all’incirca uno ogni 5.000, oltre il 30% in meno. Un film recente: “Si può fare” “Si può fare”, ambientato nei primi anni Ottanta, racconta la storia di Nello (interpretato da un bravissimo Claudio Bisio), sindacalista atipico, contrario all'assistenzialismo e convinto assertore della necessità di un mercato non privo di valori etici. Per le sue idee Nello viene isolato dal sindacato e spedito a dirigere una cooperativa di ex malati mentali nata dalla legge 180. Nonostante gli inizi siano disastrosi e i “picchiatelli” ne combinino di tutti i colori, Nello non si perde d'animo e continua a dare loro fiducia. Finché non scopre le loro “diverse capacità” e impara a metterle a frutto, creando dal nulla un'azienda di parquettisti che saprà distinguersi sul mercato proprio grazie alle sue peculiarità. E il “parquet a mosaico” creato dai ”picchiatelli” diventerà un must della Milano da bere. “Con Si può fare ho voluto raccontare una storia di speranza – spiega il regista Giulio Manfredonia -, che dimostrasse come con l'attenzione, il lavoro, la fantasia si possano fare tante cose, anche trasformare dei malati di mente in un'azienda che funziona. E non si tratta di una favola, perché quello che racconto nel film a Noncello è successo davvero”. La Coop Noncello è stata fondata nel 1981, su iniziativa del Centro di Salute Mentale della Provincia di Pordenone, da personale del centro medesimo insieme ad alcuni utenti ed operatori locali. L’obiettivo perseguito: lavorare a favore della inclusione sociale di cittadini emarginati che trovano ostacolo nell’accesso alle opportunità lavorative nel mercato di lavoro ordinario, integrandoli o reintegrandoli nel mondo del lavoro con finalità terapeutico-riabilitative e di integrazione sociale. Rispondi alle seguenti domande: 1) A tuo avviso, qual è il merito principale di Basaglia? 2) Quali sono i limiti della legge 180 nata dalle idee di Basaglia? 3) Come valuti le iniziative nate su ispirazione della Cooperativa Noncello?