Domenica alle nove e mezza di sera il telefono suona Domenica alle nove e mezza di sera il telefono suona mentre lui è in cucina con un toast al formaggio in mano e un libro sulla tecnica di costruzione delle piramidi egizie aperto davanti e un disco strumentale di Bo Diddley e Chuck Berry sullo stereo. Ci sono solo tre pezzi dove suonano davvero insieme, gli altri sono di uno o dell'altro a turno e abbastanza convenzionali, ma i tre dove suonano insieme valgono il disco. Al quarto o quinto squillo si rende conto che la segreteria telefonica non è inserita o non funziona, così posa tutto e si alza di scatto e urta contro uno sgabello e lo fa cadere e sente una fitta fin nel midollo di una tibia, saltella nel soggiorno pieno di rabbia verso gli oggetti e verso le interferenze che continuano anche a quest'ora. Dice «Sì?». La voce di lei dall'altra parte dice «Pronto?». «Ehi!» dice lui. «Ti avrei chiamata tra poco. Tra cinque minuti.» «Volevo sapere per domani» dice lei. «Certo» dice lui. Si massaggia la gamba dove gli fa male, cerca di raggiungere la porta per tagliare fuori i suoni dallo stereo in cucina ma il filo del te- lefono non è abbastanza lungo, per quanto provi a estendere la mano. Il telefono cade dal tavolo; lui lo raccoglie con ancora più rabbia, dice «Bastardo di un bastardo». «Cos'è successo?» «Niente. Se riesci a sentirmi, niente.» Allunga un piede e alla fine riesce a far sbattere la porta di legno chiaro; l'urto provoca una piccola nuvola di intonaco, riduce a metà il volume della chitarra riverberata sul ritmo rapido di accordi. «Cosa facciamo, allora?» «Quello che vuoi tu.» In realtà è pieno di resistenze, adesso che la loro idea è sul punto di trasformarsi in una concatenazione di dati di fatto in accelerazione progressiva: il lavoro da lasciare e la valigia da preparare e la macchina da guidare e la strada da percorrere e il serbatoio da riempire e le mappe da consultare e il percorso da decidere e la lingua da parlare e i cibi da ordinare e gli alberghi da trovare, le sensazioni da assorbire e quelle da filtrare, quelle da tagliare fuori. Dice «Se hai ancora voglia di an- dare». «Sì che ne ho voglia.» «Non è che invece preferiresti un posto più vicino? Rimandare la Francia a quando fa più caldo e abbiamo un po' più di tempo tutti e due?» «No, no. La Francia mi va benissimo.» «Perfetto. Allora ti passo a prendere domattina verso le dieci. Ti faccio uno squillo quando sono all'angolo, così scendi.» «Va bene.» «Non portarti dieci valigie, non servono.» «Va bene.» «Sono solo pochi giorni.» «Sì.» «Adomattina.» «A domattina.» Quando si parlano al telefono tende a essere ancora più sintetica di lui, e a chiudere in modo altrettanto brusco. Non corre certo il rischio di sentirsi bloccato in una conversazione, con lei. Alcontrario, quasi ogni volta gli rimane l'idea di avere detto o ascoltato troppo poco, vorrebbe richiamarla per aggiungere o farle aggiungere qualcosa. È forse l'unica persona con cui gli succede. Si massaggia la tibia e si guarda i piedi nudi, sul pavimento di legno ingombro di carte storico-geografiche e atlanti e incisioni e riproduzioni e fotografie. Pensa alle telefonate da fare e alle e-mail da mandare •.prima di partire, ai modi di mantenere i contatti a di'; stanza crescente. Quando stanno correndo da mezz'ora sull'autostrada Quando stanno correndo da mezz'ora sull'autostrada, e la città e le stazioni di servizio e i caselli e i centri satellite e i capannoni industriali e il paesaggio agricolo intriso di veleni sono abbastanza lontani alle loro spalle, comincia a sentirsi meglio.Il movimento che gli invade lo sguardo e gli passa nel corpo attraverso le vibrazioni dell'abitacolo dissolve la perplessità di quando era fermo, come una corrente che rompe il calcare in un sistema di tubature. A pensarci adesso gli sembra assurdo avere esitato a partire, essersi fatto bloccare da sentimenti statici. Dice «Meno male che non ti sei lasciata contagiare dalle mieresistenze». Lei fa di sì con la testa, sorride vaga;non c'è verso che possa sentirlo. Lui dice più forte «Brava che non sei stata a sen- tirmi!». Lei ha un piccolo lettore di co acceso, il ritmo di musica ska filtra dagli auricolari in sottili frequenze compresse che si mescolano ai rumori della macchina. Ha un libro sulle ginocchia, anche: un romanzo sudamericano che si è fatta comprare all'autogrill quando si sono fermati per il pieno. io *••• Lui glielo indica, dice «Bello?». Lei alza uno sguardo interrogativo, assorta nella musica e nella storia che ha tra le mani. «Interessante? Ti ha preso?» «Non so ancora.» i - Lui guarda la strada avanti: l'asfalto e i camion e ;; le automobili, il guard-rail che scorre via veloce. La \. loro macchina è un semifuoristrada giapponese, i non particolarmente stabile né silenzioso, con so; spensioni troppo morbide, un motore appena ade; guato. Ma lo conosce abbastanza bene da tirarlo al massimo dei giri lungo la corsia di sorpasso senza : preoccuparsi di non farcela o di finire fuori. Pensa 'che forse starebbero meglio su una macchina più fessa e fluida e potente, una grossa sogliola tecnologica su ruote, con un impianto stereo da centinaia di watt al posto dello spazio vuoto sul cruscotto (un'altra cosa che ha rimandato e rimandato di faj, re). Ci si immagina dentro, con lei sul sedile di fian:co e le valigie ben riposte nel bagagliaio: il cervello gli si occupa di riflessioni meccaniche, che si so;.; vrappongono senza nessun criterio. Contrae i muscoli della pancia, inarca la schiena . all'indietro, fa forza sulle braccia. Quando è in viaggio gli sembra di essere incapace di pensieri compiuti, nel senso di idee che si evolvono fino a essere esportabili in un territorio di parole. Il tipo di idee che gli vengono mentre guida affiorano e vanno avanti di poco e poi si fermano o tornano indietro; I;, producono immagini ripetute, prospettive schiac';: date, frammenti di sensazioni. Ogni tanto pensa '•che sarebbe bello riuscire a usare in modo creativo almeno parte dei tempi di spostamento da un luogo all'altro, eppure non ci riesce quasi mai. Avolte ca- li pita che gli venga un'intuizione improvvisa, ma di solito non dura abbastanza a lungo, perde presto le sue qualità apparenti nel rombo continuo dell'aria e delle ruote e del motore. Però guidare su lunghe distanze gli piace, perché gli permette di abitare in uno stato intermedio, tra luoghi e tempi diversi, non facile da classificare. Spesso gli sembra che sia questa la dimensione in cui si trova più a suo agio: un presente in allontanamento rapido dal passato verso un futuro che continua a spostarsi. Finché è in viaggio gli sembra che la vita possa solo inseguirlo senza raggiungerlo, per poi cercare di bloccarlo a terra e premerlo con richieste e pretese fino a non lasciarlo più respirare. Il suo telefono cellulare suona, nella tasca della giacca di pelle sul sedile di dietro. Lui allunga una mano senza rallentare, il semifuoristrada ondeggia sulle sospensioni. Ogni volta prova la stessa miscela di senso d'intrusione e desiderio di contatto, nel breve spazio tra il suono e i gesti per rispondere. Lo tira fuori dalla tasca quando ormai sembra troppo tardi; legge il nome sul minuscolo schermo e subito schiaccia il tasto OK. G.: Ehi! Stavo per chiamarti. (Guarda lei seduta alla sua destra, ma non gli sembra che possa sentirlo.) M.: Come va? (La sua voce attraversata da impulsi contrastanti di incertezza, slancio, disappunto, attenzione foca- lizzata.) G.: Bene. In viaggio. (Si rende conto di come le parole gli suonano rigide. Se fosse da solo avrebbe un tono diverso, ma con lei di fianco è il massimo che gli viene.) 12 M.: Da quanto sei partito? (Nei primi tempi in cui si frequentavano lo colpiva il suo modo di cambiare tono e timbro a seconda del luogo o del momento o dell'interlocutore, al punto da sembrare persone completamente diverse tra loro, e suscitargli reazioni altrettanto diverse.) G.: Da un po'. (Il fatto è che non ha più idea di quali siano le loro posizioni,dopo quello che si sono eletti negli ultimi giorni:di quale grado di familiarità irrimediabile o distacco irrimediabile ci sia tra loro.) M.: A che ora? G.: Non lo so. Non me lo ricordo. (Il bisogno che ha di coordinate precise, e le viene dall'essere nata e vissuta circondata da una vaghezza estrema. Lui lo sa, ma lo stesso ogni volta si sente messo alle strette, spinto a essere meticolosamente accurato o a contraddirsi come un ladro sotto inter- rogatorio.) M.: Perché hai questotono? Se ti disturbo ti saluto. G.: Non mi disturbi. È solo che sto guidando a centosettanta all'ora. M.: Volevo solo sapere come stavi. (E non è solo così, naturalmente: la sua voce è una sonda sottile, che attraversa lo spazio e gli stati d'animo, gli fa quasi solleticoalle costole adesso.) G.: Sto bene, grazie. E tu? M.: Bene, bene. Ti saluto, buon viaggio.Ciao. G.: Ciao. G.: Ehi? Chiude il piccolo telefono cellulare, lo butta sul sedile di dietro. Lei non dice niente, ma è probabile che abbia capito con chi parlava. 13 Lui accelera ancora, guarda avanti. Si chiede se è tutta colpa del suo carattere, o se è M. troppo concentrata sulla registrazione di particolari minuti a cui dare grandi significati. Si chiede se avrebbe dovuto trovare il tempo di chiamarla per primo; se è vero che non riesce mai ad allargare gli spazi del cuore e dell'attenzione per farci stare più di un interesse o un'attività o un affetto alla volta. Una e-mail (ricevuta cinque notti fa) Da: M.@mailcom.it Ore: 1.45 Caro Giovanni, mi dispiace che la nostra ultima telefonatasia finita ancora una volta in elenchi furiosi di dare e avere e scambi di accusee controaccuse che in fondo non ci somigliano. Ma pare che non riusciamo proprio più a parlarci in altri modi. Al punto in cui siamo (grandi) credo che ognuno dei due sappia di cosa ha bisogno, ed è ovvio che cerchi di ottenerlo o, se già ce l'ha, di difenderlo. lo so di avere bisogno di una vita fatta di grandi sogni, di obbiettivi alti, incontriinteressanti; devo sentirmi impegnata e gratificata in maniera evidente. Devo avere uno scopo, un senso che vada al di là di quello che faccio di momento in momento. Forse è un limite, ma è la mia natura, che altrimenti si spegne. Però non sono una costruttrice solitària, non ho il piglio del navigatore a vela che circumnaviga il mondo per conto suo,in cerca di gloria e di successo. Perché io sono una donna, e alla fine è questo, senza nessuna frustrazione, che so essere. So progettare, ideare, alimentare, anche condurreforse, ma non da sola, non per una causa unicamente mia. Pensavo che insieme a te avrei avuto il coraggio e la forza di costruire attenzione e passione è il presente. Ma il presente si consuma di continuo come un nastro che scorre, caro Giovanni, e diistante in istante diventa passato senza che neanche ce ne accorgiamo. Con tristezza, M. 18 La guarda a intervalli La guarda a intervalli, con i suoi auricolari stereo e il libro tra le mani sottili. Gli sembra che il viaggio vada benissimo così; poi gli sembra invece che dovrebbero usare meglio il tèmpo che hanno a disposizione, approfittarne per comunicare nel modo più intensopossibile. Dice «Non potresti leggere in un altro momento, magari?». Istinto di lasciarla in pace; istinto di interferire. E certo non gli dispiace che sia una che legge, invecedi una che guarda fuori senza interesse o si guarda le unghie, ma non riesce a stare zitto. Dice «Non potremmo parlare, invece?». Lei si toglie un auricolare, sembra incerta. Dice «Cosa?». «Niente.» Fa un cenno verso l'autostrada, e in effetti non c'è niente da vedere o da commentare, solo asfalto e altre macchine e camion in corsa, guardrail guard-rail guard-rail. E un non-paesaggio, un puro canale neutro di scorrimento che occupa il campo visivo senza arricchirlo in nessun modo. Le colline ai lati sono lontane e con un'altra gradazione di luce, anche se fossero interessanti richiederebbero una diversa messa a fuoco dello sguardo e una diversa apertura dellepupille. 19 Allunga una mano, le da un colpetto sulla spalla. Lei sorride appena; si rimette l'auricolare, tornea leggere il suo libro. Gli viene in mente di quando leggeva con la stessa intensità, per anelarsene via da quello che aveva intorno. Se qualcuno lo chiamava o cercava di parlargli, non lo sentiva neanche. Seguiva un flusso diimmagini e sensazioni e non era più lì, era a migliaia di chilometri e centinaia d'anni di distanza. Maera essenziale che il flusso fosse attendibile, perchéfunzionasse; le fantasie di seconda o terza mano non lo facevano arrivare da nessuna parte. Dice forte «Ehi!». «Ehi» dice lei, con un paio di secondi di ritardo. Poi dato che lui continua a guardarla, si toglie di nuovo un auricolare. «Facciamo un gioco. Spegni un po' quell'affare.» «Quale gioco?» Ma intanto preme il tasto stop del suo lettore di musica. «Facciamo un elenco dei nostri difetti.» «Un elenco?» «Sì, metti via il libro e la musica e prendi una penna e un foglio. » «Dove?» «La penna è lì nel cassetto. Un foglio non ce l'hai?»«No.» «Da nessuna parte?» «Non so.» «Non hai nessun foglio o quaderno o blocchettocon te?» «Forse nella valigia, dietro.» «Va be', non è indis_pensabile. Possiamo anche farlo a voce. Chi comincia?» «Comincia tu. L'idea è tua.» «Però se hai così poco entusiasmo non c'è gusto.» «Mano.» «Se lo fai come se fosse un dovere.» «Non è vero.» «Sì invece. Lasciamo perdere.» «Perché?» «Perché così non è divertente. Doveva essere un gioco.» «Eh, appunto. Facciamolo.» . «Non importa.Davvero.» «Ti sei offeso.» «Non mi sono offeso.» «Invecesì.» «Ti dico di no. Guarda.» Davanti a loro il paesaggio si sta aprendo: c'è il mare all'orizzonte, dello stesso azzurro sbiancato e luminoso del cielo, anche se la terra è invasa da forme mosti-uose di svincoli e cavalcavia e sovrappassi, piloni giganti di cemento armato. 20 21 Alla dogana non ci sono più dogamen Alla dogana non ci sono più doganieri. Le automobili e i camion rallentano lo stesso, frenati dal lieve restringimento della strada e da un'idea astratta di demarcazione che aleggia ancora nell'aria, intorno alle pensiline e alle costruzioni basse già avviate alla rovina. Lui dice «Non è incredibile?». «Cosa?» Non si è rimessa gli auricolari da quando sono arrivati in vista del mare, ha chiuso il libroanche se continua a tenerlo sulle ginocchia. «Che non ci siano più quei bastardi in divisache ti chiedevano i documenti e ti controllavano il nome e la faccia due volte, con l'aria di poter deciderese lasciarti passare o no.» «Già.» «Ci pensi? Si sono ammazzati, per questo cavolo di linea. Come se fosse un dato di fatto &di principio fondamentale,da difendere a ogni costo.» «Quando?» «Tante volte. L'ultima volta quando i tedeschi hanno invaso la Francia e gli italiani vigliacchi sono entrati in guerra all'ultimo momento possibile per rubarsi un pezzo di costa.» 22 Lei lo guarda e fa di sì con la testa; non è chiaro se lo sapeva già oppure no. D'altra parte ogni volta che luiparla di storia tende a essere cauta per paura di venire sommersa da troppi dettagli, la sua è una reazione di difesa. Lui guardadalla parte del mare: i cartelli e i nomi, i paesi abbarbicatisulla costa più in basso. Si chiede se è vero che c'è una differenza visibile nella qualità del paesaggio da un lato e dall'altro della frontiera, o se è solo un'idea dovuta ai suo spirito antipatriottico. Ma gli sembra che sia così: la costa italiana è devastata in modo più sconnesso e barbaro eli quella francese, che pure è devastata. Gli viene in mente un racconto ricorrente di M., tra i tanti loro racconti ricorrenti, di quando era passata di lì a sedici anni in moto con il suo ragazzo, in viaggio verso l'Inghilterra. Diceva «Perfino il colore del mare era diverso, dopo il confine. Diun azzurro migliore, non so». Insieme al colore del mare altre immagini gli attraversano la testa: lei ragazzina aggrappata al suo ragazzo, la sua attenzione appassionatae rapida, la moto sulla strada a curve, il loro mododi respirarsi vicini. Dice «II filo sottileche tiene insieme due persone». «Quale filo?» dice lei, come se tornasse a terra da una grande distanza. «Il filo di tutto quello che le tiene collegate anche quando sono lontane. Anche quando non si vedono e non si parlano.» «Perché dici il filo?» «Perché è una cosa molto sottile e molto resistente, no? Che puoi anche non vedere, ed è estensibile quasi senza limiti attraverso la distanza e il tempo e l'affollamento delle altre persone che occupano lo spazio e lo attraversano in ogni direzione.» 23 Lei lo guarda. Lui pensa a quello che succede ogni volta che con M. decidono di non sentirsi più e il filo che li collega sembra sul punto di spezzarsi: al senso di vuoto che gli cresce intorno e gli premesui timpani e gli risucchia l'aria dai polmoni e gli impedisce di stare fermo in un punto. Dice «Però non è affatto scontato che ci sia, il filo», «No?» «No. Magari due pensano di essere molto legati, poi appena provano ad allontanarsi scoprono che in realtà stanno benissimo ognuno per conto suo.» «E allora perché pensavano di essere legati?» «Perché erano tenuti insiemeda una colla di pura abitudine e oggetti e luoghi condivisi e gesti stratificati. È una colla così forte da sembrare una saldatura permanente, ma appena uno dei due prova a staccarsi non c'è nessun filo che lo segua.» «Che triste.» «Sì. La maggior parte dei legami sono di questo genere, credo.» «Come fai a sapere che invece il filo c'è?» «Quando provi a romperlo, e ti trovi in caduta libera attraverso il senso delle cose.» «E di cos'è fatto, questo filo?» «Di uno scambio continuodi domande erisposte. Sguardi, anche solo immaginati.Assonanze e intuizioni e sorprese, curiosità reciproca che non si esaurisce. E similitudini,no? E differenze.» Lei fa per dire qualcosa, ma il suo cellularesuona, con la buffa musichetta sincopata che ha scelto tra le tante suonerie possibili. Subito dopo suona quello di lui. Si mettono a parlare tutti e due, ognuno inclinato verso il proprio finestrino per schermarsi dalla voce dell'altro. 24 Appena usciti dall'autostrada e scesi per lo svincolo Appena usciti dall'autostrada e scesi per lo svincolo il traffico rallenta in una lunga coda che a strappi e stop procedeverso il centro della città di mare. Tutti e due guardano le scritte e le macchine e i negozi e gli edifici e le facce della periferia urbana. Lui indica e fa commenti su dettagli di persone e scritte e insegne, ma l'ironia che ci mette non lo protegge come vorrebbe.Gli sembra di essere già contagiato in parte dalla tristezza del paesaggio, adesso che sono fuori dalla protezione del movimento veloce: gli sembra di essere troppo esposto e troppo ricettivo rispetto all'ordinarietà umida che devono attraversare nella luce del pomeriggio. Dice «Possiamofare un giro a piedi per il centro. Vediamo il museo di arte contemporanea, se vuoi». Progetti di gesti e di sensazioni messi civanti per amicarsi lo spazio, immagini mentali fabbricate come antidoti. «Eh.» «Oppure fare due passi sul lungomare e bere qualcosa in un bar.» «Va bene.» Ma più vanno avanti nel traffico rallentato, meno 25 lo attira l'idea di fermarsi. La meccanica della cosa sembra complicata, perché non c'è spazio lungo i marciapiedi e i parcheggi sono pieni; ma naturai" mente non è solo questo. È che non riesce a vedersicamminare nelle vie esangui di una grossa città di mare fuori stagione, come un turista o un visitatore volonteroso. Quando sono ormai nel centro dice «Hai voglia che cerchiamo un posto dove fermarci, o andiamo più avanti?». «Più avanti.» Poi anche quando arrivano al lungomare dovele macchine scorrono nei due sensi tra gli edifici ele palme, nessuna delle facciate e nessuna delle vetrine dei bar gli fa venire voglia di scendere econsegnarsi alle leggi del luogo. Anche qui gli sembra che ci siano doveri a cui sottrarsi: la pressione sorda delle cose che ci si aspetta in un viaggio, gli impegni non scritti. Dice «E se invece andassimo oltre? Se ci fermassimo in un paesino?». «Sì. Meglio.» «Davvero? Non ci tieni a visitare la città?» «Per niente.» «E allora andiamo!» . Accelera sul lungomare, in un lampo di sollievo & di riconoscenza per come lei gli è simile in queste cose. Già non si sente più in debito con lo scenario, non gli sembra di dover scendere a patti per negoziare un passaggio. Dice «Non sono per niente una persona da week- end,io». «No?» «Neanche un po'. I weekend mi mettono una tristezza terribile.» 26 «Perché?» «Perché ogni volta mi sembrano finiti prima ancora di cominciare.» I «Hanno la fine già dentro il nome.» «Sì! Parti, e hai già in testa il ritorno. Come una condanna stabilita in partenza, che esclude qualunque possibilesoluzione diversa.» «Tipo?» «Tipo sapere che ci sono dei margini aperti. Non piccoli margini, margini illimitati. Sapere che se ti viene voglia di fermarti in un altro posto per sempre, lo puoi fare.» «Ti succede?» «Quasi ogni volta, anche quando l'altro posto non mi piace particolarmente.» «Non hai nostalgia di casa?» «Dopo due o tre giorni, nessuna.» I «Non cel'avevi neanche da piccolo?» - «No.» «E neanche allora ti piacevano i weekend?» «No. Ma i miei non ne facevano quasi mai. Non erano abbastanza organizzati, e non avevano posti dove andare. È sempre stata una famiglia così, senza grandi attitudini pratiche e senza molti punti di appoggio.» «Non andavatemai via? » «Qualche rara volta facevamouna gita fuori città, la domenica. Ma era sai come attraversare uno di quei documentari in bianco e nero sulle periferie urbane e le campagne piatte della bassa Lombardia?» «Cosìdesolante?» «Sì. I preparativi, i discorsi e i gesti, i vestiti, la macchina, la strada, il paesaggio lungo la strada. L'umore dei miei.» 27 «Che umore avevano?» «Uno spirito da soldati in territorio nemico, pronti a costruire trincee tutto il tempo, anche per difendersi uno dall'altro.» «Litigavano?» «C'era una tensione continua, veniva fuori quasi ogni volta che qualcuno avanzava il genere di richieste ordinarie che ci si può rivolgere in una famiglia.» «Tipo andare fuori città per un weekend?» «Sì. E il clima della nostra famiglia era peggiorato un milione di volte dalla straordinaria bruttezza persecutoria della città.» «Così non andavate via spesso?» «Andavamo via d'estate, dalla fine della scuola a metà settembre. Sono gli unici periodi della mia infanzia che mi ricordo.» «Perché?» «Perché il resto l'ho cancellato tutto, oquasi.» «Non hai nessun ricordo di quando eri bambino in città?» «Solo qualche immagine, e la memoria di qualche sensazione. Di nuovo in bianco e nero. Più che un film, sai quelle animazioni rudimentali di vecchie foto che fai scorrere girando una manovella?» «Tipo?» «Non so, io che cammino in un giardinetto pubblico bruciato dalla fuliggine e dal gelo e stretto tra viali pieni di traffico, con addosso un cappotto troppo pesante e troppo grande e con un berretto umiliante in testa. O io che scaravento la mia cartella di pelle verde sul cemento del cortile di scuola il primo giorno della prima elementare, come se scaraventassi via l'idea di doverci andare.» «Delle estati invece ti ricordi di più?» 28 «Delle estati quasi tutto.» «Nel villaggio di pescatori alla foce del fiume dove mi hai portata?» «Sì, ma è cambiato, naturalmente. Allora era abbastanza selvaggio.» «In che modo?» «Era quasi il villaggio delle origini, no? Un'organizzazione tribale, più o meno. C'era tutto. I clan familiari, il rapporto degli abitanti con gli elementi e con gli animali. La pianura e il monte, l'acqua dolce e l'acqua salata, i pesci e i gamberi, l'olio degli olivi e il vino nella botte e le pesche nel frutteto, il sole che batteva e la pioggia, i sentieri tra i campi e i boschi. Le variazionidi luce e di temperatura e di umidità, milioni di sensazioni tattili e olfattive.» «E ci stavi bene?» «Come un animale cresciuto nella gabbia di un laboratorio seminterrato che di colpo viene lasciato libero, e all'inizio non capisce neanche dove sia e poi si mette a correre intorno e fare salti, con tutti i suoi istinti naturali che gli rifluiscono dentro.» «Diventavi una specie diselvaggio?» «Ritornavo a me stesso. Mi toglievo le scarpe appena arrivato e per tre mesi non me le rimettevo più. Stavo con il minimo indispensabile di vestiti addosso, assorbivo le sensazioni della terra e dell'aria e dell'acqua e delle piante e degli animali, lontano dai materiali e dalle forme e dagli odori e dalle attività e dai rapporti innaturali della città che detestavo così tanto. Non credo che sarei diventato quello che sono, senza quelle estati.» «In che senso?» «Nel senso che sarei rimasto chiuso per sempre in una sensibilità atrofizzata e in un corpo incapace 29 di espansione. Tutto cervello e reazioni mediate e sensazioni attenuate, come una povera larva urbana distrutta dalla civilizzazione.» «Qual è il tuo primo ricordo?» «Credo che sia un falso ricordo. Sai quei ricordi ricostruiti?» «Come fai a dirlo?» «Perché mi vedo sdraiato in una carrozzina e guardo da sotto un androne una via dove passano delle persone. Ma quasi tutti gli psicologi sostengono che prima dei due anni non siamo affatto in grado di fissare dei ricordi.» «E allora qual è il primo vero ricordo che hai?» «Databile?» «Sì.» «Io in piedi di fianco a mio nonno paterno in una tabaccheria di Trieste, con il tabaccaio che da dietro il suo bancone mi chiede "Quanti anni hai?". Ha la definizione di un film a 35 millimetri, tutti i dettagli ingrandibili senza perdere di qualità. Io che guardo in alto verso questo sconosciuto invadente e insistente, la sua faccia da sotto in su, il legno scuro del bancone, la lana del cappotto grigio del nonno, la montatura d'oro sottile dei suoi occhiali. Il nonno che dice "Su, digli: ho tre anni".» «E tu?» «Io faccio appena di sì con la testa, irrigidito dal- l'ostilità.» «Perché ostilità?» «Perché ero così in generale.» «Perché?» «Timidezza e difesa, credo. Non-partecipazione ai meccanismi del mondo.» 30 «Come mai questo ricordo, tra tutti i primi ricordi che potrestiavere?» «Non lo so. Non è che li scegliamo noi, i nostri ri- cordi.» «E chi li sceglie, allora?» «Si scelgonoda soli. Per qualche ragionevengono fuori tra tutti i dati che abbiamo accumulato secondo dopo secondo, si aprono una finestra su uno strato più accessibile dellamemoria.» «Eri ostile anche con la tua famiglia?» «Sì.» «Cosa non ti piaceva?» «L'idea di essere ostaggio di altre persone, che potevano decidere per me in base ai loro umori e alle loro convinzioni.» «E cosa decidevano?» : «Le cose che decide una famiglia. I criteri in base a cui vivere, i criteri in base a cui ridere. I criteri in base a cui considerare bella o brutta una cosa, interessante o noiosa. Il che è perfettamente naturale da un punto di vista evolutivo e anche da un punto di vista morale, ma non mi piaceva.» «Però è così in tutte le famiglie, no?» «Sì. Ed è probabile che ce ne fossero di molto peggiori della mia. Alcune erano forse più allegre, altre più organizzate, altre infinitamente più meschine o ignoranti.» «Eallora?» «Quello che non mi piaceva era il principio di prevaricazione sistematica. Tu non ne hai idea, perché hai avuto la fortuna di crescere con due genitori separati.» «Che fortuna!» 31 «Lo è. Avresti dovuto provare nell'altro modo, per capirlo.» «Perché?» «Perché hai avuto a che fare con due persone, invece che con un fronte unico compattato dalla complicità e dall'omertà e dalla distribuzionedelle parti.» «Ma una famiglia non deve per forza essere così.» «Eppure lo è, quasisempre.» «Perché?» «Perché i ruoli sono più forti delle persone. Mettono muri tra loro e il mondo, con finestre e porte apribili solo da dentro.» «E dentro i muri?» «Dentro i muri ogni famiglia diventa un teatrino privato. Un tempo i padri facevano l'impresario e il regista e lo scenografoe l'attore principale. Nessuno poteva uscire, anche se il repertorio era limitato ed era stato ripetuto così tante volte che tutti lo conoscevano a memoria.» «Dai.» «Era così. Anche nelle famiglie migliori. Magari cambiava la qualità del copione e il taglio della regia e la capacità degli attori, ma l'idea del minuscolo teatro privato rimaneva. Il fatto di lavorare su un buon copione aumentava l'impegno. Dava l'idea di avere messo insieme una fantastica rappresentazione, per il bene di chi aveva la fortuna di assistere.» «E le madri cosa facevano?» «Dipendeva dalla compagnia. A volte la coprotagonista e a volte la spalla. A volte curavano i costumi o le scene. A volte dovevano solo pulire il palcoscenico e spostare gli attrezzi. A volte potevano anche prendersi il ruolo principale, quando l'impresario e regista e scenografo e protagonista non ne aveva voglia o era impegnato su un'altra piazza.» «E i figli?» «I figli erano arruolati a forza nei ruoli secondari e come spettatori fissi. Così ogni volta che andava in scena una rappresentazione di conoscenze e aspirazioni e doti autentiche o presunte c'era sempre qualcuno a guardare e ascoltare.» «E adesso?» «Adesso mi sembra sia cambiato il genere di teatro, ma non è molto meglio.» «Qual è?» «Quello dove il regista e la costumista si infiacchiscono e si distraggono e si fanno suggestionare da ogni tipo di consigli e suggerimenti di specialisti, fino a ritirarsi in platea a fare gli spettatori. E gli ex attori secondari ed ex spettatori obbligati occupano la scena e vanno avanti a improvvisare, anche se biascicano le battute e si muovono come scimmie. Tanto sanno di ricevere applausi e noccioline a ogni gesto e suono che producono.» «Vuoi dire i figli?» «Eh.» «E come dovrebbe essere una famiglia, per non essere così?» «Non lo so. Forse un bambino dovrebbe potersi scegliere quella che preferisce, da quando comincia a capire qualcosa. Dovrebbe poter girare per il suo villaggio o paese o città e guardare una grande varietà di famiglie costituite in forme diverse e in base a criteri diversi, e scegliere quella a cui vorrebbe appartenere. Quella che gli corrisponde di più, no?» «Tipo?» «Tipo magari una famiglia allargata, una tribù 33 più che una famiglia. O una famiglia con una madre e nessun padre. Una famiglia con un padre e nessuna madre. Una famiglia con due madri. Una famiglia di soli fratelli e sorelle.Una famiglia di soli zii e nipoti e cugini, come nelle storie di Walt Disney.» «Ha!» «E naturalmente nessuno potrebbe pretendere di essere accettato come figlio per obbligo, da nessuna di queste famiglie. Dovrebbe conquistarsi il suo posto, e poi continuare a guadagnarselo giorno dopo giorno.» «E se a un certo punto non ne avesse più voglia?» «Se ne potrebbe andare. A cercarsi una famiglia diversa o a stare da solo.» «E se non volesse andarsene? Se volesse restare nella famiglia che ha scelto senza guadagnarsi mente giorno dopo giorno?» «Lo caccerebbero a calci, spero. Non ci sarebbero più genitori che tengono in ostaggio i figli, e nemmeno figli che tengono in ostaggio i genitori. Ci sarebbero solo libere scelte tra libere persone, basta. Nessun obbligo e nessun ricatto.» Lei guarda verso il mare alla sua sinistra, dove un gruppo di grandi costruzioni saldate tra loro forma il profilo innaturale di una collina ad angoli retti. «Non seid'accordo?» «Non so.» «Cos'è che ti lascia perplessa?» «Che non ci sarebbe più niente di sicuro.» «Nel senso di protetto o nel senso digarantito?» «Nel senso di sicuro.» «Non ti sembra meglionon essere sicuri che schiavi, scusa?Schiavi dei genitori o schiavi dei figli?» «E chi sarebbe schiavo dei figli?» 34 «Be', la maggior parte delle famiglie italiane di oggi, per esempio. Stanno lì tutto il tempo ad assecondare ogni loro minimo desiderio, cercare di anticiparlo ogni volta che possono. Gli fanno da servi e gli fanno da sudditi, non importa quali siano le conseguenze. Li vedono andare all'indietro nella scala dell'evoluzione, e ne sono compiaciuti.» «Peresempio?» «Lasciano che si comportino nei modi più rozzi e volgari e privi di intelligenza. Li lasciano regredire gradino dopo gradino, li incoraggiano a diventare egocentrici ai limiti dell'autismo. Se qualcunoglielo fa notare dicono "Che ci vuoi fare? Sono i ragazzi di oggi". Scuotono la testa e sorridono, come i proprietari di un cane aggressivo che fa la cacca sui marciapiedi e morde la gente ai giardinetti.» «Ma di chi parli?» «Dei genitori e dei figli che vedo in giro.» «Dove?» «Davanti a qualsiasi scuola o bar o in qualsiasi strada. I padri e le madri sciatti e vili, e le bamboccione e i bamboccioni narcisi e ottusi e aggressivi e regressivi che sanno solo preoccuparsi di sé stessi e non hanno la minima curiosità o interesse per nient'altro almondo.» «E sarebbe colpa delle famiglie, secondo te?» «È un circolo vizioso, è difficile capire dove cominci. Tu cosa dici?» «Dico che esageri. E semmai è colpa della società o della scuola.» «La società è una parola così generica che non vuoi dire quasi niente. La scuola è come un vecchio autobus sfasciato che va per una strada a fondo chiuso guidato da autisti moribondi.» 35 «Non dirlo a me. Ma cosa cavolo c'entrano i ra-gazzi?» «C'entrano. Per come si prestano a diventare dei trogloditi consumatori dominati da una fame e da una frivolezza inarrestabili; scafati in tutte le tecniche del ricatto e dell'ingannopur di ottenere quello che vogliono. Ci sono forze colossali che lavorano a favore della loro stupidità, e riescono a ottenere risultati fantastici.» «Quali forze?» «I produttori di patatine e scooter e wurstel e surgelati e magliette e scarpe e occhiali firmati e musica industriale e bibite e gelati e stereo e gel per capelli e qualunque altro oggetto o sostanza inutile venga buttata sul mercato. L'unica cosa che chiedono ai ragazzi è di mangiare e bere e indossare e guidare e ascoltare e sorridere. Ma gliela chiedono con molta insistenza, e le famiglie sono sempre pronte a dare una mano, pur di non avere problemi.» «Tipo?» «Tipo avere dei figli non-consumatori e pieni di domande. Sono disposte a tutto per evitarlo. Sono disposte a commissioni e incombenze di ogni genere, con uno spirito di servilismo abietto.» «Non ti sembra di esagerare?» «Guardati intorno, e dimmi seesagero.» «Un sacco di genitori sono ancora delle carogne. Schiacciano i figli e li perseguitano e non li fanno uscire la sera e non provano neanche una volta a comunicare con loro alla pari. Continuano a mandare avanti il loro teatrino privato come dicevi tu.» «Non sto dicendo che non ci siano dei genitori bastardi. Ma un tempo la bastardaggine era tutta dalla loro parte. Erano gli unici schiavisti che c'era- 36 no. Adesso ci sono schiavisti dai due lati. È una forma perversa e moderna di schiavitù incrociata.» Stanno zitti tutti e due, guardano fuori. Lui si rende conto di come il suo tono sia del tipo che fa dire a M. «Stai cercando di sopraffarmi», anche se non gli sembra affatto di avere questo genere di intenzioni. Dice «Non volevo farti discorsi da rompiballe implacabile in guerra con ilmondo». Lei inclina appena la testa, non lo guarda. Lui dice «Anche essere quello che guida la macchina in un viaggio è un modo di tenere qualcun altro in ostaggio.Non puoi buttarti giù se sei esasperata da quello che dico, no?». «No» dice lei. Sorride, lo guarda solo per un attimo. «Una volta tanti anni fa un mio amico faceva l'autostop in cima a un passo di montagna e lo ha tirato su uno che aveva appena scoperto che la moglie lo tradiva. Guidavacome un pazzo giù per i tornanti, a ogni curva diceva "Io tiro dritto, la faccio finita".» . «Eil tuo amico?» «Era terrorizzato. Cercava di far ragionare il tipo, ma quello si irritava sempre più.» «Cosa diceva, il tuo amico?» «Diceva "Provi a guardare le cose con distacco", e il tipo diceva "Appunto, è proprio quello che voglio fare. Con distacco totale".» «E alla fine?» «Alla fine non ha poi tirato dritto, perché il mio amico mi ha raccontato la storia.» Ridono tutti e due, guardano fuori. Anche qui lo spazio è sempre più assediato e intaccato dalle costruzioni e dalle strade, dalla bruttezza invadente di materiali e forme.Non corrisponde molto alle immagini che gli vengono in mente quando pensa "Rivierafrancese". 37 Quattro SMS Vanno avanti lenti per la strada costiera DA: M. ORE: 12.15 VOLEVO SOLO SALUTARTI INVECE AVEVI UN TONO DA CANE. ». DA: GIOVANNI ORE: 12.18 MA ANCHE TU. G. DA: M. ORE: 12.23 ILTUO ERA PEGGIO. M. DA: GIOVANNI ORE: 12.28 È SOLO CHE STAVO GUIDANDO VELOCE. G. Vanno avantilenti perla strada costiera, guardano il paesaggio senza cominentarlo. Il ciclo è velato, la luce diffusa. Lui dice «Hai vogliadi lare quel gioco dei difetti?». «Adesso?» «Sì. Comincio io a parlarè\dei miei.* «Va bene.» «Devo metterli in ordine di importanza?» «In ordine di come ti vengono\jn mente.» «D'accordo.» «Allora?» «Eh, un attimo. Lasciami pensare.^ «Non pensarci troppo. Vai.> «OK: 1) Pigrizia. 2) Tendenza a rimangiare le cose che mi costanofatica.» «Non è la stessa cosa?x «Non proprio. Se vuoiposso riformularli rn modo più preciso: 1) Pigrizia. 2) Tendenza a rimuovere i pensieri faticosi.» «È di nuovo la stessa cosa.» «No.» «Sì,invece.» 38 39