: L'altre Sono iscritto alla Freie Univesitat di Berlino. Studio sociologia da tre mesi e ancora non ho combinato niente. Dopo un po' che non combino niente, uno mi elice di questo posto a Kreuzberg. Il posto è un ex asilo. È un posto occupato in un quartiere di case occupate. Il quartiere è una specie di carie nel sorriso non tanto bello della nuova vecchia capitale. Un quartiere dove per quarant'anni quasi tutto è stato tollerato. Un angolo di Germania lontano dalla Germania, finché Berlino è stata un'isola e Kreuzberg una trincea a ridosso del muro, la grande casa di Turchi e punk e artisti in disperato anticipo su ogni avanguardia. È un quartiere che, quando comincio a frequentarlo io,sta appena svegliandosi, sbalordito dal fatto di ritrovarsi, dopo un sonno tormentoso durato decenni, di nuovo al centro d'una grande capitale. Infatti cominciano ad arrivare le ordinanze di sgombero per i clandestini e per gli asylanten. Vengono demoliti i primi casermoni, ma la sera, le roride di dieci persone coi fazzoletti rossi e le spranghe di ferro, ci sono sempre. Sono roride silenziose, e pattugliano le strade per prevenire le incursioni dei nazi che alle volte arrivano in gruppo a fare le spedizioni punitive e se la prendono con la gente per strada e spaccano tutto. Quando comincio a frequentarla io, Kreuzberg, le vetrine dei piccoli negozi gestiti dagli autonomi dove ti vendono le fionde, i passamontagna e le magliette celebrative della battaglia di Los 253 Angeles con le scritte sbirri uguale Ku Klux Klan, ci sono ancora, di fianco alle tavole calde dove servono falafel e carne di montone arrostita su spiedi verticali. Ti colpisce l'odore di disinfettante e di spezie, tutto il rosso degli sJogan verniciatidi notte dai giovani Curdi contro i Turchi che popolino il quartiere. Quando ci vado io, a Kreuzberg regna la musica d'un gruppo chiamato Edifìci nuovi che crollano. I! leader di questo gruppo si chiama Blixa Bargeld, e dicono sia una specie di angelo custode dell'artista totale Nick Cave. Qui, il rock 'n' roll non c'è. La cosa più vicina al rock 'n' roll è la musica dei Sonic Youth. Per il resto, a Kreuzberg, gli artisti scolpiscono il rumore, e le fonti d'ispirazione sono i macchinati delle grandi acciaierie, il fischio dei treni in partenza, le grida di dolore delle giovani donne vittime d'incidenti stradali. Comunque, vengo a sapere di questo posto interessante dove fanno musica. Questo ex asilo. Allora vado lì e mi fanno il timbro sul dorso della mano, così se vuoi esci quando ti pare e per tornare dentro non ti chiedono più niente. All'inizio, coni'o logico, gli occupanti ti squadrano un po' per capire chi sei e come la pensi. Dopo però, appena gli fai comprendere che non sei un poliziotto né uno stronzo che va a provocare, ti trattano come uno del posto. No. Meglio di uno del posto. Perché loro qui ci vivono, e te, invece, ci vieni come sostenitore. Dal loro punto di vista, anche solo frequentando quel posto, sostieni il diritto che hanno di vivere lì. L'asilo l'hanno occupatoquand'era deserto da dieci anni. L'hanno rimesso a posto e poi abitato.Non è giusto che le ruspe dei costruttori miliardari a un bel momento ci ripensano, arrivano, e buttano giù tutto. Non ne hanno il diritto, ma poiché questa cosa che riescono a capire tutti, i costruttori proprio non vogliono mettersela in testa, tocca difendersi:qui non si butta giù niente, finché ci siamo noi. Finché ci raduniamo in tanti, le ruspe andranno a preparare gli spazi per i parcheggi e i supermercati da qualche altra parte. In questo senso, gli occupanti ci consideranodei sostenitori. Come dico, una sera ci faccio un salto, e aJ piano terra dell'ex asiJo c'è già un gruppo che suona. La musica è pesante. Sul modesto rialzo del palco, ci sono due bassisti e un asiatico che suona un bidone vuoto della Shell. Vedi girare i cani. Girano al largo dalle casse dell'impianto, indifferenti. O forse, storditi dentro la loro pace di animali. Non capisci subitochi vive veramentequi e chi è solo un sostenitore. Non capisci nemmeno chi sta insieme a chi, poiché non è un problema. Questo è l'ultimo posto al mondo, dove una ragazza corre il rischio che un prepotente venga a darle fastidio. Proprio non ti viene in mente, qui, eli dare fastidio a una ragazza né a nessun altro. Ai piani di sopra, ci sono gli alloggi degli occupanti. I fissi sono una ventina, e diversi di loro sono coppie. Ciascun nucleo s'è ricavato una sua stanza, così mi elicono Udo e Werner, il paio di ragazzi con cui faccio amicizia quasi subito, dividendo una birra. «Kreuzberg» mi dice Werner «è un posto dove c'è molto dolore, ma anche molta solidarietà.» È un ragazzo dai lineamenti aperti, morbidi, e non ha un filo di barba. 1suoi capelli decolorati, per una strana alchimia, rendono ancor più vivo il lampo onesto degli occhi grigi. «In un mondo in cui il dolore è moneta corrente» dice il suo amico Udo, «la solidarietà è cosa rara.» «Sì» dico io. Seguo l'asiatico che picchia le sue martellate contro il bidone Shell, le note scure e sovrapposte dei due bassi flangerati. «Sì.È importante, credo.» , 254 255 II ::. C'è un vecchio mobile bar rimediato chissà dove, che funziona da banco di mescita. Dietro, a servire da bere, vedo questa ragazza che ha l'aria d'essere distante anni luce dal pensarsi come un'inserviente. Indossa una canottiera color bordeaux, e le sue spalle, alla luce dei faretti, sono agili e svelte come purpuree stelle. Lì per lì, riescono a mandarti in paranoia, e nella penembra dei lampi rossi assorbiti, credi di vederle un tatuaggio, e un attimo dopo non capisci più se ce l'ha o no, come una rosa che ti tatui da sola, creando la curiosità di chi ti guarda. E un istante più tardi, già non sei più in quell'ombra di musica pesante. Ti accorgi appena degli applausi lenti che salutano la fine dell'esibizione, e per un po', per non guardare lei in modo troppo insistito, guardi i due barili d'alluminio opaco, il disegno agile delle manopole che governano le spine delle birre. Sarò troppo goffo, mi dico, proprio ora? Vorrei lasciare Udo e Werner ai loro discorsi e bere in fretta l'ultimo sorso per poter raggiungere il banco e rivolgere una parola alla ragazza, fossi pure più smarrito di quanto mi sento, vacillante e balbettante. Come una macchietta non voluta da nessuno che esca da dietro una tenda, indietro,perso lungo una pistasbagliata. Vorrei essere una nota di colore tra i ragazziche affollano ilbancone. Potessi scegliere davvero, vorrei essere l'accenno d'un colore che a lei piace. Il suo preferito. Qualsiasi cosa, e non la povera persona che sento di essere adesso. 256 Guardando lei, di tutto il rumore del locale non percepisco che il mio stesso crepuscolo, come una gioventù, un'adolescenza non ancora del tutto spenta sotto la schiuma delle abitudini. La ragazza dalla canottierabordeaux porta al seno un cordoncino d'oro simile a un giglio d'acqua, e io proprio non voglio pensare cosa succede alla mia testa: so solo che i suoi capélli sono spartiti in due trecce scure, e che le trecce è come scendessero a interrogarle il profilo tenue delle spalle. Ci fosse un altro, che abita insieme a me la mia testa, riderebbe di quel che penso e provo. Subito, infatti, ho vergogna delle mie sciocche domande, del mio stesso trasporto, come fossero sguardi in macchina, un'indecenza minuscola che nelle adatte discipline preoccuperebbe i giovani critici all'esordio. Eppure è vero, le sue spalle ridicono una poesia che non conosco e tuttavia vorrei abitare. Sincera, pura. E io non so nulla d'una poesia così, tranne il colore del viso calmo e variato di lei che per il semplice istantein cui ti guarda, quasi t'invita dentro il tremulo di foglie del suo giardino. Altri ragazzi s'accalcano intorno al banco del bar, mentre da qualche parte la musica registrata risale, come un intervallo, dai coni dell'impianto. Le sopracciglia dei ragazzi sono imperlate di sudore. Sono accaldati e vogliono bere. Nella calca,distante un braccio da te, riconosci uno dei due che suonava i! basso. Ha sete, e domanda da bere prima degli altri, e subito vede Werner, lo chiama per nome e vuole stringergli la mano. Scambiano qualche parola che non capisci. Werner ride, e forse, a sua volta, pronuncia un nome. Per un po' si guardano da capo a piedi senza parlare, e da come si guardano capisci che si trovanoentrambicambiati, già, un poco, invecchiati. Quasi fosse un giovane uomo deciso ad annoiarsi ovunque e d'ogni cosa, Udo sembra stia nuotando oltre il sipario di teste che lo separa dal banco di mescita. Mi guarda ironico, distante dall'affetto che sembra legare Werner al suo vecchio amico. Un istante più tordi, senza sapere come, lui e Werner hanno già 257 raggiunto il palco, e anche la ragazza che t'invitava nel suo giardino è già lontana, come per via d'un segnale concertato, d'un sortilegio di cui non so e che si fa beffe della mia sete, della volontà di rivolgere, a chiunque di questi ragazzi, una parola. Sono in uno scherzo, penso, e qualcuno, per motivi oscuri, m'ha portato fin qua dentro a vederlo succedere, ben sapendo come sto, ben sapendo come si sente uno da solo in un posto complicato. Come dentro uno scherzo, invece di fare qualcosa come le pulizie, o andare a mettere a posto, Udo, Werner e la ragazza dalla canottiera bordeaux sono già sul piccolo palco, e qualcuno, potrebbe essere un nano, una creatura del sogno, un uomo piccolissimo, si preoccupa di far rotolare via, oltre un tramezzo rivestito d'una rete mimetica farcita di foglie finte, il bidone con cui suonava l'asia- tico. Assisti a questa recita che non ti aspetti, e la ragazza fa un gesto, come chiedesse di abbassare l'audio. Arriva un chitarrista. Un ragazzo, un uomo che potrà avere dieci anni più di me. O un po' meno, forse, poiché non lo capisciimmediatamente. Essendo estremamente povero e sicuro di sé, ricco di un'esperienza rovinata, ha indosso, un paio di pantaloni scozzesi d'una stoffa che spela, sotto i quali, come toppe all'incontrano,intravedi la tela elettrica dei jeans. È a torso nudo, e debole come appare per via delle braccia tatuate, quasi ne soffrisse un impossibile peso, trasmette tuttavia una sua forza. Ha una cresta corta di mohicano che brilla sotto la luce dei faretti artigianali sopravvissuti a quasi tutto, rave, sgomberi e migliaia d'ore accese. E poi c'è Werner, che mi vede e saluta da lontano come fossimo già amici. Mi piace Kreuzberg, e mi piace essere qui, È la prima volta che qualcuno mi saluta da un palco. Werner impugna uno dei bassi elettrici lasciati sul palco dai compagni del percussionista asiatico e fa girare una linea sconnessa d'accordi saturi. Ride, e guarda Udo che ha in mano un tamburo pescato da chissà dove. 258 II nano rientra sul palco e sistema vicino a Udo un djambé, gli porge in fretta uno sgabello e il concerto è già cominciato. La voce della ragazza dalla canottiera bordeaux è la sola cosa che vedi. Nel semibuio sceso ad avvolgere il viavai dei ragazzi che raggiungono il banco dietro cui ora s'affaccia frenetico sulle punte il nano, fiorisce limpida la voce pura di lei. E il chitarrista mohicano ha esperienza. Produce muri di suoni corruschi, varchi e spirali. La misura della sua bravura, è nel farti intravedere il guscio potente di silenzio da cui irradia il suono. 259 Ili Quando torno di nuovo all'ex asilo, il tipo all'ingresso che mette i timbri sui dorsi delle mani, è Werner. Sembra contento di rivedermi, e per un po' parliamo del loro concerto due sere fa. Dopo un po' che parliamo, dice che secondo lui, per stanotte, non arriverà più nessuno. «C'è anche Udo, di là» dice, «Vieni.» M'invita a bere, e sostiene che le serate di musica goa, non sa perché, non stanno funzionandocome dovrebbero. «Sarà la concorrenza delle discoteche» commenta. Ha ragione, c'è poca gente, dentro, e i pochi che ci sono preferiscono non ballare. Seguo Werner fino al mobile bar, e il barista stasera è Udo.«Venite qua dietro» dice Udo a entrambi. «Beviamo qualcosa e mi tenete compagnia per un po'.» Facciamo come dice. «Cosa c'è» chiede Werner. «Soffri la solitu- dine?» Udo sistema i bicchieri sullo scolatoio della spina e scuote la testa. «La solitudinenon c'entra»dice. «Travis, piuttosto. Quello mi sta facendo diventare matto». Sospira. «Lui e i suoi investimenti del cavolo.» «Non dirmelo» dice Werner. «Ti scongiuro. Niente brutte notizìe, per piacere. Non stasera.» «Non sono delle semplici brutte notizie» risponde Udo. «Maga- 260 ri lo fossero.» Ha questa spatola in mano, e con la sua spatola toglie via dai bicchieridi birra il po' di schiuma. «E allora facciamo conto che mi hai già detto tutto» dice Werner. Udo ciporge lebirre. «Abbiamo perso quattrocento marchi» dice. «Grazie» gli elice Werner. «Sei come un fratello, per me.» «Già» dice Udo. «Io lo sapevo fin dall'inizio che non bisognava mescolare la musica con l'imprenditoria.» Siamo lì che parliamo, e il chitarrista di due sere prima s'affaccia contro il banco. «Da dove sbuchi, te» dice Udo. «Lo sai» risponde quello. La sua cresta corta di mohicano sembra stia su col sapone, «Non è stata colpa mia.» «Già. Non è stata colpa di nessuno, scommetto.» «Non mia» elice il chitarrista. «Abbiamo rimesso quattrocento marchi, Travis» dice Werner. «Li abbiamo buttati dalla finestra. È così?» «Non dalla finestra, amico mio» risponde il chitarrista. «Fratello, considerali piuttosto una semina.» «Vorrei non fossi tu a seminare i nostri soldi, Travis. Vorrei non fossi tu il contadino.» Non sono arrabbiati.Sembrano dispiaciuti. Come dentro una fatalità superiore alla volontà degli uomini, e nessuno è ostile o alza la voce con l'altro. C'è, anzi, nel chitarrista Travis, qualcosa che lo rende orgogliosamente saldo. Una fermezza serena: «Da un certo punto di vista» dice ispirato, «i soldi persi ci torneranno indietro addirittura moltiplicati, se stiamo calmi». «Io» dice Udo, «non volevo diventare ricco. Mi bastava tenere in tasca quel po' che avevo. Ti sembro un vero investitore?» «No» dice Travis. «Non vedo in te un riccone. Non pensavo volessi diventare un riccone.» «Volevo diventare un riccone, secondo te?» mi chiede Udo. «Non credo» gli dico. «Penso di no.» «Esattamente» dice Udo. Guarda Travis e sistema un nuovo bicchiere sullo scolatoio delle spine. «Né un riccone, né un contadino, accidenti.» 261 t: • -: «Dove avete seminato i vostri soldi» chiedo. «Che t'importa» dice il chitarristi!. «Nel campo dei miracoli» ride. «Ai piedi dell'albero dove s'impiccano i burattini.» «Mi va benissimo» dico. Magari divento pure rosso come uno scemo: «Scusa. Non volevo mettermi in mezzo». «Era già un buon affare all'inizio» insiste Travis. «Di cosa vi preoccupate. Stiamo calmi,e diventerà un ottimo affare.» «Preferirei di no» dice Udo. «Sarebbe orribile svegliarsi in una villa coi rubinetti d'oro e le piscine.» «Ci sveglieremo in un campo di grano, allora» ride Travis. «Un campo di spighe» dice Udo, «mi va già moltomeglio.» IV Travis, Werner e Udo diventano miei amici. Una notte, saranno le quattro, all'ex asilo siamo rimasti in pochi. Con Travis e gli altri abbiamo appena finito di aiutare quelli dell'ultimo gruppo, dei ragazzi olandesi che hanno suonato stasera, a caricarel'amplificazionee la batteria sul furgone. I ragazzi olandesi sono andati via da poco, e noi quattro fumiamo a turno e parliamo, seduti a un tavolino d'alluminio che qualcuno degli occupanti avrà portato fin lì da chissà dove. Mouche, la ragazza col cordoncino d'oro a forma di giglio d'acqua, è al banco. Anchela sua serataè finita, e ilbanco è ormai pulito. Dopo un po' che si discorre della nuova scena hardcore olandese, lei prende delle lattine di birra e viene a sedersi con noi. Quando finiamo di discorrere, parliamo del passato. Dopo un pc)' che parliamo del passato, Travis racconta d'un vecchio gruppo che aveva in Italia. Ride, quando mi guarda, e dice che si trattava di un gruppo ska. «C'è stato un periodo della mia vita» dice, «in cui pensavo di diventare un musicista professionista. Sempre in giro. Col manager che ti prenota l'albergo, gli appuntamenti per le interviste e tutto quanto. C'è stato un periodo della mia vita in cui mi figuravo come un chitarristaintroverso sempre in viaggio, sempre lontano da casa.» Beve un sorso e dice che in quel periodo provava per il destino e per la morte un certo disprezzo. «Un disprezzo intimo» ride. «Immagino fosse per via della familiarità che avevo con determinati disastri.» I 262 263 Ride anche Mouche, e Udo e Werner se ne stanno lì senza dire niente, finiscono di fumare, a capo chino come due capi indiani. «Travis ha lasciato tutto quel che aveva per vivere con me» dice Mouche, e se le guardi gli occhi,il disegno leggero delle ciglia,capisci che non parla per compiacere ilsuo uomo né nessuno. «Be'» dice, «avevo sedici anni e non tornavo più a casa da un sacco di tempo. Mi piaceva stare qui.Èqui che Travise io ci siamo conosciuti.» «Parlami del tuo gruppo ska» dico al chitarrista. Lui si stringe nelle spalle magre. «Cos'è che vuoi sapere» dice. «Qualunque cosa» dico. «In Italia, un'estate, fummo primi in classifica per sei settimane» dice. «Sesentivi il manager e quelli della casa discografica, pareva dovesse durare. Sarebbe bastato mantenersi nel solco e non deludere il pubblico, non farlo aspettare troppo per il secondo disco. Alla gente non devi lasciargli il tempo di dimenticarti.Era questo il refrain.» «Va' avanti» gli dico. «È semplice. Gli altri e io eravamo amici fin dall'inizio. Stesso quartiere e stesse scuole. Sai come va. Dopo il primo disco ci spedirono qui a Berlino per registrarne un secondo, solo che a quel punto non andavamo più tanto d'accordo. Il nostro secondo disco non uscì mai, né con me, né, a quanto ne so, con nessun altrochitarrista. 1miei amici tornarono a casa e io rimasiqui.» «Sembra una storia triste» gli dico. «Infatti» ride Werner.«Gesù.» «Quella volta avevo in tasca dei milioni»dice Travis. «Non di marchi, purtroppo. Ecomunque, non m'importava di quei milioni.» «1 soldi vanno e vengono» dico io. «Può darsi» dice Udo. «Si vede che mi sono perso il pezzo di quando vengono.» «Secondo voi è una storia triste?» chiede Mouche. Abbraccia Travis, gli da un piccolo bacio e mi guarda. «Forse sì» dice Werner. «Ma non poi così triste. Alla fine» ride, «è servita a preparare un'altra cosa, no?» 264 V Arrivo all'asilo occupato e ci sono due neri che giocano a dama seduti sul linoleum dell'atrio. Dico loro che ho bisogno di parlare con Travis, e la mia faccia non deve apparirgli nuova.Con un cenno del capo, il più giovane dei due mi invita a entrare. «La stanza che cerchi» dice «è in cima alla scala. Devi salire da dietro il palco- scenico.» Attraverso il silenzio del piano terra facendo attenzione a non svegliare la pattuglia di ragazzi imbozzolati nei sacchi a pelo. Ci sono delle sporte di plastica con dentro forse dei vestiti, abbandonate sul rialzo del palco. Qualcuno deve avere spazzato per terra, e a ridosso del banco di mescita vedi una piramide tutta sbagliata di lattine peste e bottiglie. Da uno dei sacchi a pelo sale un respiro profondo e irregolare come una sequela d'implorazioni. Implorazioni o rimproveri. Salgo rapido i gradini della prima rampa. Sul pianerottolo a metà strada m'imbatto in un busto in gesso che svetta da un piedistallo coperto di graffiti. Chiunque sia stato da vivo, adesso che è una statua può solo rimanere lì ad affacciarsi, ridicolo di finte cicatrici a pennarello, un vecchio berretto da poliziotto poggiato per scherzo sulla testa. Con le pupille che gli hanno disegnato negli occhi senza luce, sorveglia i passi di chi arriva. Continuo a sentirmi addosso il suo strano sguardo di statua punk mentre salgo a passi doppi il resto di rampa che rimane, già in vista della porta che m'interessa. 265 Busso piano, e nessuno mi risponde. Quando riprovo, sento da dentro la voce di Monche che domanda chi è. Gli dico chi sono, e lei risponde che adesso arriva. Tempo di liberarsi dal groviglio eli plaid che le intrappola i piedi, ride, e viene subito ad aprirmi. Nel semibuio, non realizzo subito che dev'essere sola. Non so perché, mi figuro ci sia Travis, che dorme con lei sprofondato in un suo coma, ma guardo il letto e Travis non c'è, e lei è sorpresa di vedermi. Allegra nel suo mondo di sonno risvegliato. Ha indosso una maglietta di cotone blu psichedelicache sembra due volte la sua taglia. «Entra» dice. «Siediti,» Guardo attorno, mentre Mouche scivola oltre un comodino di bambù ingombro di vestiti. Nella stanza non c'è un vero posto per sedersi, e io resto lì come sono, a guardarla mentre in un cenno del polso lieve apre la maniglia della finestra. Ha gambe e piedi nudi. Caviglie sottili eia creatura di foglie e d'acqua, leggera sulla terra. 11 semplice gesto con cui lascia entrare nella stanza quel po' di luce, luce di nubi primaverili, la grazia naturale che abita i suoi movimenti, è un'offerta al mondo di povere cose dentro cui fiorisce. A vedermi ancora 11 in piedi, sorride, dice che se ho voglia mi offre un caffè. C'è un fornello elettrico a piastra, su un tavolino. Dei barattoli d'alluminio e un pacchetto di zucchero. Di bere un caffè mi va. Glielo elico. C'è un armadioin plastica a cerniere, di fianco alla specie di letto matrimoniale con le due reti metalliche forse legate insieme. «Cosa c'è» dice ridendo. Accende il fornello elettrico e si volta a guardarmi. «Niente» dico. «Spero di non averti disturbato.» «Puoi passare a trovarmi quando vuoi» dice, e d'improvviso, sento il cuore che scende in un'altezza. Il letto è fresco, quando ci scivoliamo dentro. 266 VI Torno a trovarla, e ogni volta che è possibile, con Mouche facciamo l'amore. Ho diciannove anni, e i gesti di Mouche esprimono sospiri. Facciamo il nostro amore piano, e quando l'accarezzi senti i piedi leggeri di lei che scivolano contro il fresco del lenzuolo. Trascorro i mesi di aprile e maggio al riparo del suo amore come in un sogno di languidezza, e anche quando non siamo insieme ho negli orecchi la sua voce, il respiro di lei che respira piano dentro un soffio, un sussurro che si spezza. Dopo, la sera, al piano terra dell'ex asilo, sono daccapo lì per guardarla, col cuore stretto di paura perché non so cosa dire o fare con Travis. Trascorro quelle notti come uno che non trova più la via di casa, ma se c'è da parlare con Udo, o con Werner, parlo volentieri. Ogni volta che m'invitano a bere, bevo con loro. Pago i giri che devo, e se c'è da accarezzare uno dei cani lo accarezzo, se c'è da fargli le feste gliele faccio. Qualche volta, con Udo e Werner, si discorre d'un viaggio insieme. Adesso. Fra poco. Quando l'estate viene. E un paio eli sere la settimana Mouche serve da bere dietro il mobile bar. I concerti sono molto diminuiti, e i sostenitori che vengono a trovarci sono pochi, ora che è quasi giugno. Le volte che Mouche è di servizio al banco, raramentevado a parlarle, e quan- 267 do mi viene chiesto, sto io all'ingresso col timbro per i ragazzi sostenitori che arrivano. «Perché la chiamano Mouche» chiedo a Werner una sera. «Mouche?» dice Werner. «Come altro vorresti chiamarla?Lei èla bellezza soave che si posa su tutte le carogne. Anche quel che marcisce» dice guardandomi negli occhi, «ha diritto che la pioggia lo bagni e il sole lo baci, qualche volta. Mouche è stata creata per questo. E non c'è motivo di non ringraziareogni giorno il suo destino.» Allora il sangue mi si gela. Vorrei ridere, ma non ci riesco. Werner mi guarda e ride, ma io devo avere la faccia come cera. D'improvviso, con il mio inutile bicchiere di birra in mano, sono una persona remota, portata in un abisso. Ho la mia birra in mano, queste mie labbra morte, e sono in un posto più remoto dell'abisso. Qualcosa d'oscuro esce piano dall'albero,e tutto quel po' di festa che c'è attorno è notte,palpebra spietata che guarda,cacciatore che stana un animale bianco come neve. Sono io, quell'animale. Questo mi dico. E i piccoli occhi grigi di Werner, che non capisco, invece di comandare per me la giusta punizione d'una gogna, ridono dell'allegria di Kreuzberg, che adesso comprendo per la prima volta. «Non devi aver paura di Travis» dice. «Non ho paura di Travis» rispondono le mie labbra morte. «Fratello, perchédovrei?» «Non ti ha detto niente, Mouche?» «Niente» dico. «Cosa doveva dirmi?» «È stata dal dottore.» «E malata?» «Non malata.Anzi. Lei sta già fiorendo come un fiore d'acqua.» «Cosa significa» dico, e la mia voce piano piano smuore. Ho il mio viso di cera, e per la vergogna dovrei coprirlo con le mani, poiché sono io, certamente, l'animale bianco a cui si da la caccia. «È successo qualcosa d'inaspettato» dice Werner, «e lei terrà il bambino.» «Che ne sai, tu?» «Potrei essere il padre» dice. «O un amico del padre, forse.» Vie- 268 ne avanti col suo brindisi di birra, e proprio non l'ha con me né con nessuno, «È uno scherzo» dico. «Oh, è quel che è successo, invece. Amico mio, è così.» «Che accadrà adesso?» Parlo da dentro il fiato delle mìe labbra morte, ho sete, e sono stanco. «Sei pallido» dice Werner. Un cane viene vicino e lui l'accarezza. È un lupo, e la sua pelliccia è color miele. «Cosa devo fare, Werner» chiedo.«C'è qualcosa che devo fare?» «Puoi parlare con Mouche. La sua decisione è presa, e tu, in ogni caso, non devi preoccuparti di niente.In questo posto saremo in tanti a occuparci del bambino.» «Potrebbe essere mio figlio» dico. «Potrei essere ilpadre.» «Sì» dice Werner. «È così.» Poi dice: «Coraggio,finiamo di bere. E quando ti senti pronto, vai a parlarle». «Capisco» dico. «Certo. Lo farò.» Finiamo di bere la nostra birra e per un po' nessuno dice niente. Fuori, dev'esserci una notte azzurra che non vedo, e i cani girano, sostenuti dal peso d'uno stesso silenzio, dentro questo strano giardino d'ombre. 269