: 11fiumi àiBabilonia Tante cose che conoscemmo da ragazzi non saranno più. Saranno le più insidiose e più tristi, e i nostri occhi, semplicemente poiché sbalorditi comprenderemo di trovarci in salvo, non dovranno più ascoltarne il suono che irrompe. Solo il noi stesso dormiente, di esse rivivrà in sogno l'ambigua minaccia, fin tanto che l'anima darà al sogno il suo colpo di fiamma. Il sogno, che come l'acqua irromperà fra gli scheggiati della sorgente, sarà lo stesso dei fiumi di Babilonia che molli scorrevano fin dentro il cuore fosforescente della città e convogliavano il limo, il torpido oscuro dei divertimenti notturni, avendo per argini le scalinate bianche di chiese un giorno consacrate ai santi, le alzate d'innumerevoli portici edificati nel corso d'un dimenticato e antichissimo autunno. Quelle acque, che in epoche ancora più remote avevano fecondato la terra, da cento anni erano state ridotte in schiavitù. Costrette dalle chiuse che ne addomesticavano la potenza, dalle dighe volute dalle corporazioni dei commercianti, ogni notte venivano traversate in modo incessante da scialuppe e zattereche traboccavano d'ilari compagnie strillanti divenuteprive di rotta. Per questo, dopo ciascun colpo di remo, si gridava di far ardere una festa a ogni molo. Ovunque vedevi le schiene nude delle donne più giovani e le braccia tatuate dei ragazzi che, in piccole resse frenetiche, volen- 21 tieri si lasciavano inghiottire dalle orbite di mille ritrovi inondati di musica. I fiumi di Babilonialambivanoanche la banchina rischiarata dagli ardenti neon delPrintempo. Scintillanti d'intermittenze, scorrevano dietro le spalle d'uno sbavazucchero che non conoscevi, della ragazza di nome Nico e d'una sua amica dai tratti persiani,non meno bella di lei. Avevano tutti e tre lasciato il locale, ed erano usciti un minuto sotto il portico per respirare. Ma ormai, c'era ressa anche lì. Nico ti salutò. «Dev'esserci» disse, «ancheDemis, in giro là dentro da qualcheparte.» «Il tizio della scuola guida?» rise lo sbavazucchero.«C'era»disse. «L'ho visto.» Passò un braccio dietrole spalle di Nico. Leiaveva guance che rilucevano di brillantini, e s'affacciò di trequarti perché tu la baciassi. Le sue spalle scoperte risero insieme a leisotto le bretelline, poi, come una giovane padrona di casa uscita in terrazza, aveva voluto presentarti i suoiospiti. La ragazza mora dai tratti persiani si chiamava Manica. «Ciao» fece Marika.GuardòNico e disse: «Finalmente me lofai conoscere, un tuo amico più grande». L'elettricità della festa irradiava fin lì, e le braccia sottili di Marika erano tostate di lampade. La mano che ti porgeva era carica d'argenti, e i capelli corvini le scendevano con generosità calcolata dietro le spalle. Un minuscolo diamante, le spiccava dal levigato del naso perfetto. Scambiaste una parola. Ma c'era chiasso. Si faticava a parlare. La ragazza di nome Nico compiva gli anni, e in parte, la festa dentro il locale doveva considerarsi in suo onore. Le facesti gli auguri in mezzo alla ressa. Lei sorrise e ti ringraziò: «Verrai a tirarmi le orecchie, dopo?». «Cosa» le dicesti. Non eri sicuro d'aver capito, ed era quasi impossibile parlare. «Più tardi» rise lei. «Facciamoun brindisi tuttiinsieme.» «Certo. Quando vuoi. Il tempo di trovare Demis e ci sirivede.» Nico e l'amica Marika tornarono indietro, verso il cuore della 22 burrasca, e tu le guardasti sparire nel vortice di teste di quanti, a turno, uscivano all'aperto per rifiatare. La cattiva musica house rimbombava fin lì, e anche lo sbavazucchero era sparito,inghiottito dentro il bum bum del locale. Restasti a galleggiarelà sotto per il tempo che durò la tua attesa. Galleggiando, scostato alla periferia della concitazione,avevi acceso una sigaretta in pace. 23 Quella tua esile pace non s'era ancora spenta del tutto, quando scorgesti l'istruttore Demis. L'incedere di Demis ti costringeva a pensare alla prora rinforzata d'un rompighiaccio, e la sua grossa testa di quarantenne, fitta di capelli, occhieggiava in mezzo al mare di spalle. Il volto aveva i tratti forti, dall'attaccatura del naso al collo breve, scoperto di tendini. Non alto, il suo corpo era massiccio, da guida alpina. Gli andasti incontro, e lui, sbucando oltre un isolotto di confusione ti porse, ridendo, la mano. «Visto» gridò, «che macello?» Pareva euforico, e dalla faccia tonda sudava: «Sono stato costretto a uscire e cercarmiun bar, per bere una cosa. Qui eraimpossibile». «Ho visto Nico, un secondo fa» gli dicesti, «e ho conosciutola tua Marika.» «Già» disse Demis. «E guarda all'ingresso, cosa non è!» L'aveva con dei ragazzi che s'accalcavano per andarsene e altri che sopraggiungevano in senso opposto. «Gesù, non potevi arrivargli nemmeno, vicino, al bancone.» L'onda di musica che irrompeva fin lì dalle stanze sovraffollate del Printempo stordivaogni cosa e bagnava la folla dei figli giovani di Babilonia. Quanti avevanocercato rifugio nel ventre molle del portico, di quell'onda potevanoconsiderarsi la rifluente risacca. Lo scuotersi di spalle e schiene era ovunque, e nel tumulto di braccia levate sopra le teste, tanti più giovani ballavanostringendo in pugno dei bicchierini. 24 La ragazza di nome Nico uscì di nuovo dal locale quasi danzando. L'amica Marika camminava e ballava con lei spalla a spalla. L'istruttore Demis, scorgendole, s'era sbracciato per salutarle, e le ragazze s'erano fatte incontro. Lo sbavazucchero che non conoscevi, un suo amico ventenne combinato da gladiatoree un paio di ragazze carine figlie di avvocati costosi, fluivano, dietro Marika e Nico, come sospinte fuori dal beat macchinicod'un remix anni Ottanta. Per un po' ballaste tutti insieme, e anche l'istruttore ballò. Com'era vero il diavolo, il vecchio Demis ci dava dentro con furia esudava. Seguivi la ragazza di nome Nico che ballava un paio di schiene avanti a te e cercavi di non comportarti da stupido, farti notare il meno possibile, e con la tua camicia Ben Sherman a maniche lunghe sudavi pure se stavi calmo. «Ehi» venne a dirti Demis a un bel momento. Era ridotto a una maschera. Grondava. «Pensi ci farebbe male, rallentare un minuto per bere una cosa?» Eri cotto non meno di lui, e d'improvviso scorgesti questo varco provvisorio che, per un tratto, poteva condurvi fin quasi al bar: ti voltasti verso Nico e Marika per invitarle,ma la massa dell'istruttore Demis ti spinse avanti. «Tanto loro due da sole non vanno in nessun posto» venne a sussurrarti da sopra la spalla. Guadagnaste il banco, e non servì neppure lo scontrino, che il barista trentenne t'aveva riconosciuto e proprio insisteva per offrirvi, a te e il tuo amico, un paio di chupiti. «Potevo anche morire» gorgogliò Demis. Indicò indietro col mento le arcate di portico trasformate in discoteca. «Fortuna che s'èun po' svuotato qua dentro.» Passò il sedere di una e lui lo guardò. «Marika» gli dicesti. «È graziosa, lei.Consapevole e tutto quanto.» «Ciascuna di loro è graziosa» sospirò Demis. Brindaste coi chupiti offerti: «Poiché l'età è quella giusta». Non ti ripugnava ascoltare queste considerazioni da un uomo che, insieme alla sua compagna, aveva in casa la figlia adolescente 25 di lei, e, solo, te ne stavi ancorato al bancone scuro del Printempo e alla malinconia di coccodrilloper tua moglieche a quell'ora, in compagnia del cane Lepanto, era in villa dal padre. In trasferta sui colli,, non in mezzo album bum di ragazzine e insidiatori diragazzine. «Cos'è questa faccia scura?» ti disse Demis. «Goditi la festa e pensa a quando sarà troppo tardi!» Guardava i sederi in mezzo a questa specie di Sodoma e Gomorra da supermercato. Guardavale ragazzesbracciate. «Pensa a quando vorrai tornare indietro» si disperava per scherzo, «epotraifarlo solo una voltaogni tanto.Come me adesso.» Cercavi, da lontano, la testa bionda di Nico. I suoi capelli cortie le spalle nude che ti sarebbe piaciuto carezzare. Sarebbe stato da stupido non provarci neppure, e Demis si fece sotto di nuovo. «Adesso, però» disse, «dovrestivenire,un minutino in macchina da me, che per una volta festeggiamo insieme come due antichi.» «Vediamo se indovino» dicesti. Percepivi la tua voce gioviale che remotamente vibrava, e già seguivi la schiena larga di Demis che lasciava il solco dietro, e in quel solco, prima che il muro di schiene si richiudesse, passavi anche tu. Trascorse del tempo, e finalmente foste fuori dalla bolla di musica. C'era sempre la penembra dei portici, a vegliarvi sopra le teste e voi camminavatein direzione del recinto che proteggeva letombe ad arca dei glossatori posate sui piedistalli massicci. L'istruttore Dernis ti precedeva d'un mezzo passo. «Facciamo quel che vogliono le femmine» disse piano. «Le lasciamo cuocere nel loro brodo un minuto. Se segui la regola, con le ventenni proprio non puoi sbagliare.» Parlava un po' confuso, arrotolatodi bevute, e tu lo seguivi senza fretta per l'asfalto smangiatoche fiancheggiava la chiesa gotica di San Francesco. Oltre il recinto che chiudeva alle spalle il coro, sulle tettoie a spiovente che vegliavano le tombe dei giuristi medioevali,guardavisparire e accendersi i bagliori di luna; poco più avanti, la strada descriveva un'ampia curva e aggirava il sagrato dove, nelle mattine di primavera, sbocciavano le bancarelle che vendevano fiori. 26 Ti fece uno strano effetto vedere Demis aprire la portiera di un'auto che non era la Golf della scuola guida. «Saab 9000» ghignò, come ci fosse un doppio senso che dovevi capire. «Settembre '91. Quando prendi la patente te la vendo, se vuoi.» Tu avresti preferito guidare una vecchia Mini Cooper. O uno spider affilato. «Ma infatti» disse l'istruttore Demis. «Perché no. Alla fine, amico mio,ciascunodi noi ha il sacrosanto diritto di capottarsi col trespolo che meglio crede.» C'era una bustina, nel portaoggetti, insieme ai Ray-Ban e una confezione di cioccolatini alliquore. «E se qualcuno ti ferma?» gli dissi. «Offriamo un giro di cioccolatini anche a lui» rise. «Basta non essere avari.» «No» domandasti. «Sul serio.» «Guardami in faccia» disse Demis. «Ho quarantadue anni, e nessuno perquisisce un istruttore di scuola guida di quarantadue anni. Fermano voialtri musicisti» rise, «che tenete a sembrare dei matti, non un signore come me.» Chiuse a chiave lo sportello e per un po' se ne stette lì a guardarti dov'era. «Va bene» disse. «Non ce l'ho per abitudine. Non tocco certa roba da quindici anni. Non è mia, è di una persona. Una femmina. 27 Cos'altro dovrei dirti. Se dicessi qualcosa verrebbe fuori che sono un moralista.Non sono un moralista, cazzo!» «Guarda che vabenissimo.» «No, non va benissimo. Sono un istruttore»mi disse, «e ho anch'io i miei principi. Lo so da me che non va benissimo.» «Di che tipreoccupi.» «Io? Di niente, mi preoccupo. Sono uno scemo di quarantadue anni che guarda i sederi delle ragazze e gira con le bustine in macchina come un adolescente, ma non mi preoccupo.» Si rabbuiò, grattò la testa. «Porca miseria» disse. «Sono una specie di matto.» «Così ti verrà un colpo» dicesti. «Già.» «Non mi farei venire un colpo per un po' d'erba.» Doveva sentirsi la coscienza sporca d'una vedova recente che ha commesso un'infrazione grave nei confronti del morto. «Travis» disse poi. «Il vostro ex amico. Con quel cappello da stupido. Lui lo fermavano volentieri, sì?» «Non lo fermavanoper via del cappello. Il suo cappello era una delle poche cose che andava bene, insieme alla giacchettaUnion Jack.» «Ma cos'era poi? Pezzi della bandiera inglese cucitiinsieme?» «Un cugino gliela portò da Genova. Aveva la fodera e tutto quanto. Era una giacca vera.» «Come ti pare. Però è incontrovertibile quasi come una scienza» disse. «Ècoi matti così, che i poliziotti vanno a nozze più volentieri. Si sentono presi in giro, e prendere in giro la gente che lavora non va tanto bene.» S'interruppe, e nascose nel portafoglio la bustina. «Immagina come si sentì il padre, la volta che il deficiente finì dritto dritto sul giornale.» «Restò dentro cinque giorni, alla fine» dissi. «Non fu esattamente una tragedia.» «Accoltellò un ragazzo.» «Lo pugnalò a una natica, non cercò d'ammazzarlo. E quello non era un ragazzo. Aveva trentanove anni e gli aveva venduto delborotalco.» «Il tuo ex amico era un tossico. Tu sai come sono. Puoi trattarli da fratelli, ma sentiranno sempre una voce più forte dell'amicizia e del rispetto, dentro la loro cavolo di testa marcia.» Rise. «Cappelli da stupido o non cappelli.» Tornaste indietro al Printempo, e la seconda sigaretta della serata ardeva avanti a te nella sua brace minuscola. La ressa sotto il portico pareva meno ossessiva, ma una volta all'interno del locale, v'accorgeste che il caos non era affatto diminuito: proprio dovevi lottare, per farti largo. Al centro della musica, vedesti due bionde farcite dì mascara che ballavano su un tavolo senza più i reggiseni, e intorno a loro, come giovani adoratori, gli sbavazucchero benzinati di gin tonic, ognuno sperando per sé contro l'amico, dimenando nella danza i sederi facevano a gara nelcompiacerle. Defilato sulla soglia del locale, un mecenate in giacca gialla proteggeva il riscaldamento delle due artiste, ma nessuno di voi gli badò. Demis aveva la buona bustina nel portafoglio.E a voialtribastava solo trovare un posticino. Ci prendeva gusto, Demis, a fare il largo intorno twistando come un bullo. T'incantava, vederlo muovere i suoi passi da gigante alternati a dei passetti improvvisi e quasi segreti di sua invenzione. Girava su se stesso nell'occhio vuoto del vortice, e c'erano questi sguardi rapaci e languidi che coglievi di lui in un istante e subi- todimenticavi. Si sentiva padrone della situazione. Ballerinodi salsa sovrappeso che si esibiva per gli occhi di Marika e della ragazza di nome Nico. Si fece sotto a entrambe, divertito che ridessero. Non avevi mai visto una polo color salmone leopardata di sudore a quel modo. Sembrava una carta geografica disegnata per scherzo, e Demis era ebbro. Era grosso. Era brutto come mai più sarebbe stato. «Marika!» gridò di contentezza. «Guardami, Dio santo! Ho quarantadueanni!» Ci dava sotto coi pestoni. Pigiava l'uva. «Ho creduto in te fin dalla prima volta, tesoro! Guardami, Dio santo, tesoro!» All'improvviso, capisti che facevi meglio a non stuzzicarlo. Lo sapesti un istante prima che gli prendesse male. «Fascisti!» gridò. Cosa cavolo andava cercando. Faceva l'aliantee urlava.Pareva contento soprattuttodi sestesso. Poi si rivolse ai ragazzetti di vent'anni che smielavano dietro le 30 ; artiste senza reggisene: «Cagasotto figli del servosterzo!» «Figli di :centomila lire!» «Pettinati come la merda!». Gesù. Girava e decollava sul posto. Gonfiava le guance e faceva il verso dell'aria con la bocca. Dalla zona degli sbavazucchero, qualcuno tirò una cosa. Una moneta. O un accendino. Non capisti bene. Qualsiasi cosa fosse, colpì Demis sotto lo zigomo, e proprio non ci fu più tempo di fare niente. Gli sbavazucchero che non c'entravano si misero da parte, e Demis si fece sotto a questo palestrato di vent'anni che rideva. «Ci sono un paio di favori che vorrei chiederti» disse Demis al ragazzo. Solo la musica andava ancora. Tutto il resto era fermo. «Siamo tra amici,no?» disse il ragazzo. «Mica l'ho fatto apposta.» «Demis!» Gli andasti vicino.«Non è niente.» Perdeva sangue da uno zigomo. Appena appena, e tu ti guardasti bene dal dirglielo: «Su. Lascia stare». «Tu sei un uomo» fece Demis al ragazzo. «Ti hanno pettinato come la merda, signorsì sissignore, ma sei pur sempre un uomo.» «Smamma» disse il ragazzo. Cercò gli sguardi degli amici. «Sgombra, scemotto, perché io ti rovino, sai?» Era più alto di Demis di quasi un palmo, ma la voce gli uscì incrinata lo stesso. «Vattene» ripetè. «Se no ti rovino.» Demis non disse niente. «Sì» disse poi. E colpì il ragazzo. Se non sentisti il rumore che produsse la sua faccia, fu per via della musica. Il ragazzo finì seduto a terra. Era un tipo ben piazzato, e da seduto pareva si sforzasse di dire ancora qualcosa. «Demis!» gli dicesti. «Porca puttana.» Provasti a prenderlo per un braccio. «Shhh!» fece lui. Ti guardò in modo ravvicinato. «Non è niente» sussurrò. «Sfa' buono.» Il tizio che metteva i dischi disse qualcosa al microfono, sfumò il finale del pezzo e poi vide che Demis teneva in alto le mani. 31 «È caduto per conto suo» disse distruttore. «Volevo solo aiutarlo[ a rialzarsi.» Annuì con la testa. «Equesti ragazzi sono venuti qui iru pace. Persone miti che vogliono soltanto bere una cosa e ballare.» i Ti prese sottobraccio. «Sta' calmo, Raul» disse. I suoi occhi era-i no gli occhi più rossi che avevi mai visto. «Facevo meglio a star-; mene buono» bisbigliò. La musica riprese, e qualcuno aiutò il ragazzo a rimettersi in-, piedi. «Brutto pezzo di merda» disse piano. Ma stavolta Demis non gli badò. «Stronzi rimbambiti!» vi gridò dietro quando ormai eravate di-1 stanti. «Beviamo» disse Demis. «Eh?» Andò incontro alle ragazze. «Mi | dispiace» disse, «d'aver fatto questa bella figura da frustrato.» Pa- { reva affranto, e subito ne profittò per abbracciarela giovane Ma-; rika. Bofonchiòperdono. Chiese scusa trevolte. Poi ti guardò e disse che aveva sete. «Avanti» ti diceva, «Raul.» La sua Marika se la teneva sempre: «Offriamo qualcosa alle ragaz- i ze, prima che comincino a vergognarsi enormemente di noi». 32 Nel semibuio del Printempo, di signorine sole non ne vedevi più, e dal tempio a cuspide dell'impianto saliva, non reso opaco dagli anni, il divertimento rumoroso e saltellante d'una vecchia canzone di AlbertoCamerini. Al vostro tavolo, appartato in un'ombra di luce adatta, i flussi concentrici dei più giovani e i movimenti principali dei viavai e le risate d'amicizia di quanti volevano farsi benvolere dai grugniti dei carismatici giungevano attutiti. «Prima» disse Demis alle ragazze, «durante un giretto da orfani, secondo me vi abbiamo pensatoininterrottamente.» Marika fece di no col capo, e poi, come lusingata di una cosa, morbida nel raggio dell'istruttorerise. Demis abbozzò un inchinò, cerimonioso d'intenzioni, quasi desiderasse invitarla a un ballo. I jeans attillati di Nico risalivano oltre l'ombra del tavolinetto, e tu guardavi la grazia di lei, il nitido sbalzato delle spalle e delle braccia lisce, magre e tonde. Avevi ventotto anni, ma il fiume di quell'estrema giovinezza lambiva anche te. Nico disse qualcosa a Marika.Pareva divertita. Per un istante le parlòall'orecchio. «Aspettate un momento» disse Demis. «Voglio sia chiaro che ci troviamo fra persone adulte!» Rise. «Non è carino parlarsi all'orecchio in presenza degli altri.» 33 Allora le ragazze si separarono, e quel modo speciale di sorridere, che scambiando una confidenza ben si addice a due amiche tanto giovani, subito svanì lontano, come una barchetta di carta portata via dentro un'onda. «Cos'è che vi fa ridere» protestò Demis. «Coraggio. Sentiamo.» «Niente» disse Marika. «È colpa di Nico. Ha fifa.» «Ha fifa. E di cosa?» «Lo sai» disse Marika.«Dell'esame.» «Allora è una posa» rispose Demis. «Nico ce la farà brillantemente, e lei lo sa.» Si rivolse all'allieva e le fece cenno di sì in modo pastoso, raccolto nelle spalle larghe. «Piuttosto» considerò, «Gesù, credevo fossimo qui per festeggiare un compleanno.» Accese una sigaretta e soffiò il fumo dal naso come fosse un concetto, da filosofo autodidatta che sieda al banco d'un pub, e la nicotina lo avvolse. «E allora» rise tra il fumo, «festeggiamo e brindiamo, porca miseria.» C'era la ragazza di nome Nico, seduta accanto a te, e la vicinanza di lei ti stupiva - talmente abitata dalla giovinezza, che se pure ripeteva le parole della canzone di Camerini, era perché le aveva imparate tutte dopo, ascoltando la radio. «Me ne occupo io» disse Demis. «Però niente più chupiti. Basta mattane. Brinderemo come delle personcine un po' responsabili, accidenti.» Raggiunse il bancone e ordinò da bere. Il barista gli servì un chupito e lui bevve un lungo sorso dal bicchierino in modo ostentato, tirando bene indietro la testa. Finì di bere e si voltò a guardarvi. Aveva uno stile talmente irregolare che ti faceva diventare matto, o forse, doveva essere un momento della sua vita in cui non voleva saperne di passare inosservato. Ghignò, e vi salutava con quel braccioalzato. Tornò al tavolo con una bottiglia di spumante, e quattro piccoli calici, avendo assunto l'appiombo d'un maìtre che in gioventù s'era occupato di pallanuoto, gli spiccavano capovolti fra le dita della destra. Sedette, e versò lo spumante nei calici. 34 Certi ragazzi ballavano ancora, ma la ressa di due ore prima era di sicuro finita altrove, in qualche discoteca vera lungo la costa, in posti che sarebbero rimasti aperti fino amattina. 11 ventenne ben piazzato non lo vedevi più. Né lui, né i suoi amici. Altri sbavazucchero che s'ostinavano a sedere al banco davanti a una bottiglietta di birra scura, tacevano e parevano lì, sospesi e fermi, come dentro un rimorso di carni stanche. «Be'» disse Demis, «questo brindisi è in onore di Nico, ovviamente.» Levò il calice, e aspettò che i calici si toccassero tutti. «Un milione di auguri alla nostra Nico» disse. «Per i suoi diciannove anni e l'esame di guida mercoledì. Per la cavolo di patente e per tutto.» «Grazie, Maestro» disse Nico. Accostò il calice alle labbra e fece per bere un sorso, ma poi ci ripensò e s'interruppe. «Brrr!» rise. Guardò Marika e guardò te. «All'esame» brindò, «certo. E all'istruttore di guida più incoraggiativo e quadrato delpianeta.» 35 r I * Camminavate seguendo l'onda lenta dei vostri stessi pensieri/I guardati dalla luce indiretta di caute e remote stelle, e di sicuro J dovevate sembrare coppie un po' strane, voi due uomini condue, i ragazzette. Coppie distanti e sghembe rispetto alla conveniente % sensatezza delle cose, edunque sospese, o prorogate, peruno | scherzo d'alchimia di cui non sapevi, fin dentro il palmo d'una $• possibilità che adesso ti riguardava. Camminavi in compagnia della ragazza di nome Nico, elei scherzava di niente e tu, piano, rispondevi qualcosa, le voci basse d'entrambi rese come più vive, più umane, dalla curva inanellata d'auto dormienti che nella tregua della notte si lasciavano vegliare dall'ombra folta e in pace della chiesa di San Francesco. Demis e Marika camminavano avanti a voi di dieci passi, ela schiena larga dell'istnittorc, il modo che aveva d'accostarsi aMarika in un raggio, trasmettevano, insieme all'idea stessa d'una pazienza esercitata,l'altra, contraddittoria, d'una libertà restituitagli di colpo, per il tempo d'una notte, in un luogo che non poteva più essere il suo. Abitato com'era dalla scontrosità smaniosa dei ragazzi, dall'elettricità veloce delle loro autoironie e sfrontatezze e dai troppigesti stilizzati, in questo luogo che riguardava la giovinezza c'era tuttavia qualcosa di cui Demis pareva ancora riconoscere il timbro - il suono della prima vita come cade esattamente, unavibrazione 36 con cui in modo misterioso gli riusciva, da dentro una differenza, d'accordarsi. La ragazza di nome Nico tacque, e tu le dicesti che avevi un gruppo e che il vostro genere di musica era il famoso genere ska. La ragazza di nome Nico non sapeva nulla di ska. I Madness, per esempio. Era impossibile avere diciannove anni e non conoscere i Madness!... Facesti altri nomi. Qualche anno prima con gli amici Travis, Dillinger e Corda avevate inciso dei dischi, registrato dei video. Uno s'intitolavaSka Matador, era famoso ed era stato in classifica. Niente. Non conosceva nessuno. Però era interessata. Ti chiese se potevi registrarle qualcosa di vostro. Be'/certamente. Volentieri, anzi. Poi la ragazza di nome Nico ti disse che il tizio messo a posto da Demis, lei e Marika lo conoscevano dalla seconda media. Era esattamente uno stronzo. Di più. Era il figlio stronzo d'un notaio stronzo, e dai suoi modi da fighetto affiorava quel non so che di brutale che veniva dal saper dominare le cose facili a metà, dove s'esercitava la forza e la vanità si compiaceva: il guidare da deficienti automobili sportive o fare i cascamorti con determinate ragazze che dentro di te disprezzavi. Demis aveva fatto benissimo a dargli una lezione. «Hai visto anche i suoi amici» fece Nico, «quant'erano belli da guardare.» Per questo, disse, lei, attualmente,preferiva non stare con nes- suno. Lieve nel palmo lieve da cui ognuno spicca quando si mostra il palmo della vicinanza, ti camminava vicina, sottilee fresca com'era. Stringere nella tua mano la mano morbida di lei, ti dicesti. Cosa avresti dato per poterlo fare? Confonderti nel tenero della sua bocca rosa, spostato via nel posto lento e meraviglioso in cui abita lo scambio d'un primo bacio. Carezzarle il liscio della pancia, il collo che profumava come un giacinto al sole. 37 «Tu che tipo saresti» domandò Nico. Poiché non rispondesti subito, lei rise, e poi, guardandoti negli occhi in un modo che per un istante ticancellò di bocca tutte leparole, «Siamotra persone adulte»disse, «e tu non ti devi preoccupare.»«Io?» le rispondesti da vicino lontano. Dal piccolo fiore del suo orecchio brillava il simbolino cinese.in cui si fondevano lo Yin e lo Yang. Era stupefacente non averlono-, tato prima, e l'istruttore, sottobraccio a Marika, avendo doppiato una sua boa immaginaria vi si faceva incontro. «Scusate» disse, «piccioncini,ma la signorina Marika e il sottoscritto che domani lavora, con enorme dispiacere dovrebbero sa- lutarvi.» Le due meno un quarto. Nemmeno di questo ti eri accorto. «Ciao, allora» ti disse Marika, sporgendosi a ricevere un bacio. Percepisti l'odore d'agrumi del suo profumo, e poi fu Demis a stringerti la mano. «Non c'è bisogno che mi raccomando»dissealla ragazza di nome Nico. «Andatepiano, quando tornate, con quel cavolo di scooter, che Raul è ancora una specie di convalescente.» Dopo, ci furono le traiettoriedi baci che Nico e Marika scambiavano, gli ultimi saluti di tutti, da più distanti, con la mano. < Dopo, tu e la ragazza di nome Nico camminaste indietro fino al Printempo, e sotto un alberello,adesso che la musica taceva e iragazzi bevevano fuori l'ultimo bicchiere in pattuglie d'amici più separate, c'era lo scooter che vi aspettava. «Allora t'accompagno» disse lei. «Dov'è che stai.» L'aria mite della notte v'avvolgeva, e tutte le foglie vibravano piano. Dicesti a Nico dov'era casa tua, e pensasti che a quell'ora tua moglie doveva già essere rientrata. Qualcosa ti stava confondendo. Qualcosa, ti dicesti, era venuta fin lì per provare a spostarti. Dopo, quando dicesti alla ragazza di nome Nico che poteva lasciarti all'altezza d'un piccolo ristorante a un passo da casa, un lo-: cale con meno di due dozzine di tavoli dove per tante sere avevi, cenato con tua moglie, il buio che ti teneva in piedi ti mostrò di che pasta era fatto il quasi niente. 38 Venne su questo sentimento di dispiacere mischiato, di separatezza imprecisa e indecisione. Nico spense lo scooter, e quello galleggiò docile nella sospensione del cavalietto. Scambiaste una parola e un bacio che non dovevi. Leggeri come in un movimento tenue di foglie. E tu, lo volessi o no, eri già stato tirato via da dov'eri. Spostato nel posto dove avresti rivisto la ragazza di nome Nico l'indomani. E il giorno dopo. E il giorno dopo ancora. Saliva un vento fresco. E tu piano piano, da solo, camminavi dentro il tuo strano regno. 39 IL Mia moglie disse al figliolo Mia moglie disse al figliolo di aspettarmi a letto, poiché suo padre sarebbe andato a salutarlo solo se faceva il buono, e il figliolo aveva .ubbidito. Quando il momento venne, andai a sedermi accanto al suo lettoe per un po' gli parlai. . Aveva sette anni e mezzo, ed era un ragazzine sveglio. Le cose che non era possibile dirgli adesso, le avrebbe sapute da mia moglie al momento opportuno. Quando finimmo di parlare, piano piano gli carezzai la testa. Continuai a quel modo finché non si fu addormentato. Chiuse gli occhi, e io lo baciai. Mi alzai dalla sedia, spensi la piccola abat-jour e per un po' lo guardai mentre dormiva al buio. Non sapevo quando l'avrei rivisto, e avevo un sacco di idee non tanto belle in testa. Me ne andai e chiusi la porta facendo attenzione. Mia moglie doveva aver abbassato la luce dell'alogena in corridoio. Sentivo i suoi traffici in cucina. Per quanto assurdo fosse, m'immaginai che se correvo subito di là e mi buttavo in ginocchio come un matto, lei magari cambiava idea. Dovevo finire di preparare la valigia, non farmi venire in mente leassurdità. Il mio treno partiva alle due e tre quarti, e se non mi comportavo come un matto e me ne andavo di casa con calma, magari più 41 avanti, dopo un mese, o fra un anno, sarebbe saltato fuori qualcosa. Una possibilità con lei. L'ultima dopo l'ultima. Andai in camera. La grossa valigia era aperta ai piedi del letto.I Cinque camicie in tinta unita spiccavano, impilate, contro il verde) della coperta estiva. Dovevo trovare un posto, nello spalancatoi sarcofago, anche per loro. Al resto della roba avrebbe pensato mia moglie. C'erano scatoIoni, miei, per tutta la casa. Non era un trasloco in piena regola. D tempo di trovare un appartamento in affitto con l'aiuto di mio fratello e, dopo, sarebbe bastato il furgone d'un trasportatore. Le abat-jour sui comodini ardevano, e io, proseguendo a sistemare le cose che avrei portato con me quella notte, nel silenzio di' pietra della camera dove per anni e anni avevo riposato accanto al corpo di lei, percepivo il mio respiro disigarette. Faceva caldo, e avevo un sacco di idee non tanto belle in testa, C'era ancora del tempo. Se mi andava di farlo, potevo sedermi sulla sponda del letto e rifiatare un pochino. C'era una sveglia a pile, sul comodino dalla mia parte. Era non più grande d'un pugno, e se pigiavi un tasto una luce azzurra illuminava l'ora. Mancavano ventisei minuti alle dieci. Se volevo, potevo addirittura sdraiarmi un po'. Gli occhi bruciavano, ma mentirei se dicessi che mi sentivo stanco. Potevo essere disperato, potevo sentirmi mortalmente triste, ma non ero stanco. La luce della sveglia si spense. Faceva caldo, ma dalla finestra accostata veniva a esalarmi sul collo il soffio fresco d'un vento che piano piano t'intorpidiva. Non avevo più giacche. Me ne restavano un paio che non mettevo da tempo. Antiquate. Non c'era motivo di preoccuparsi di due giacche antiquate. Però era una questionee bisognava risolverla. Non volevo saperne d'addormentarmi, per questo tenevo gli occhi bene aperti. Trascorse del tempo, e il mio respiro di sigarette era ancora lì. Produceva un effetto curioso, come se un altro, un piccoletto, non io, respirasse al mio posto. 42 Era una specie di fischio sommerso che tornava indietro per il giro d'un arco. Se lo ascoltavi come io l'ascoltavo, comprendevi che biforcava, risalendo il più lento la corda, risalendo la curva del polmone quell'altro. Passò, su me, un'enorme ala scura. •- II giovane Corda guidava lungo i tornanti che conducevano alla chiesa di San Luca, e voi ragazzi, poiché la strada inerpicava un pendio difficile e vertiginoso, salivate piano. Il motore faticava, e la guardinga lentezza del vostro salire conferiva alla marcia qualcosa dì misterioso, di cauto. Poi, come chi s'avventuri dentro la giravolta d'un salto, avendo sui fianchi la vegetazione che dietro quel salto saliva, lo spiazzo che voi ragazzi chiamavate la terrazza del quartiere s'aprì d'im- provviso. Proseguiste fino a raggiungerne il centro, vegliati dalla luce indiretta delle altissime stelle. Il profumo verde dell'erba che risaliva la collina nel vento mite della buona stagione, in piccole onde che non vedevi, in una risacca remota di foglie, piano piano saliva a lambire di quel tetto la pace. Nessuno di voialtri parlava. Nessuno di voi aveva fretta di niente. I fari vennero spenti, e la piccola Rover fermò. II giovane Corda sfilò da una tasca dello sportello una Tdk senza custodia e lasciò che la bocca del mangianastri la catturasse. «Dillinger m'ha dato questa» sussurrò ridendo. «Registrato qua dentro, c'è tutto.» Abbassaste i finestrini, e anche Marzia rise. Rise come un anellino di fumo dentro la rotazione che la legava alcompagno. Rise dentro le note iniziali di No Man is an Island d'un pioniere che nessuno di voi conosceva, che forse era un giamaicano o forse un nero britannico che in ogni caso si chiamava D. Brown. Il giovaneCorda disse che quando nessuno di voi andava ancora a scuola, quel pezzo, in Giamaica, aveva sbancato leclassifiche. 43 Le note rotonde della linea di basso, palpitando fiorivano in compagnia del buio buono, e la voce di questo D. Brown che nessuno di voi conosceva, saliva, familiare e colma di giuste rivendicazioni, a circonfonderedi meravigliaogni cosa. Nessun uomo era un'isola, disse il giovane Corda. E Marzia disse che solo i paninari storditi di chiacchieree paghette milionarie davanti al Caffè Zanarini potevano non capirlo. Lei e il giovane Corda erano i tuoi amici, ed essere d'accordo con loro era come essere nel giusto, e qualunque cosa stesse cantando D. Brown, dal punto di vista di voi ragazzi poteva solo venire da un posto dove mentire non aveva senso. La musica andava. Potevate ascoltarla tenendo gli sportelli aperti. Potevate scendere dalla piccola Rover e annusare l'aria ancora fresca della prima estate. Avevate con voi il tabacco per le sigarette artigianali. Buone sigarette proibite. Marzia sedette sull'erba e ne confezionò una. Quand'ebbe finito, passò la sigaretta al suo amore, e quello,brillando nel tenue acceso d'una fiammella, sedette ridendo sull'erba, e l'accese. Poiché eravate ragazzi, c'erano tante cose, familiari e colme di giuste rivendicazioni,di cui il fumo v'invitava a parlare:Marzia che lavorava come commessa in un negozio d'abiti confezionati frequentato da quarantenni narcisiste e odiose; il giovane Corda che l'aveva col centro storico caduto in mano alle simmachie d'affittacamere e negozianti. Poiché eravate ragazzi, il suono delle vostre voci e i discorsi vibravano dentro il fuoco dell'amicizia. «Comunque» soffiò via il fumo il giovane Corda, «ha detto Dillinger che lui sarebbe arcistufodi aspettare Godot.» «Cioè?» «Travis. Secondo Dillinger, aspettare Travis è addirittura peggio che aspettareGodot.» «Proprio non so come dargli torto.» «Be', neanch'io fratello» annuì il giovane Corda. «Se poi consideri che mai, Dillinger, avrebbe prestato la sua Vespa a Godot... 44 Intendo dire che non convinci un caro amico a darti la Vespa per andare a San Giovanni a comprare dell'erba e dopo cinque giorni ancora non sai se sei vivo o sei morto o hai trovato da ridire coica- rabinieri.» «È Travis. Cos'alerò vorresti dire. È lui, no?» «Sua madre» disse il giovane Corda «ha chiamato a casa di mia madre, l'altra sera che stavamo in osteria da Dillinger. Cercava la testa di cazzo sparita, e a un certo punto ha pure pianto. Che motivo ha, lui, di comportarsi da mostro così. Adesso che il padre è andato via di casa, poi.» «Bastava una telefonata,alla fine.» «Non penso di essere una persona moralista, se dico che gli bastava chiamare a casa, per una volta. Non è tanto difficile chiamare a casa, per una volta.» «Anche solo per dire mamma vaffanculo sono vivo, voglio dire.» Giravano delle voci su Travis. Tutti voi amici lo sapevate, e Marzia disse che una sua conoscente proprio l'aveva visto che ciondolava come ciondoleresti all'infernodalle parti dei giardinidel Guasto. Dietro l'università. Stava con un gruppetto di sdentati, disperati di trent'anni che si litigavano il flaconcino di sciroppo Darkene. Erano tanti, in quegli anni, disposti a credere che potevi farti una volta alla settimana. Come diversivo. Se ci parlavi, coi tossici, venivano a dirti questo. Pronti a giurare.Convintissimi. Scommet- tevano. Il giovane Corda disse che Travis coi tossici non c'entrava veramente. Disse che per Travis, se mai, era una questione d'estetica. Se mai, disse, lui lo faceva per le donne. Sai quante diciassettenni col papa ingegnere si lasciavano affascinare dal giovane chitarristafiglio del popolo che flirtava con le polverine? Erano mesi che avreste dovuto parlargli, a Travis. Metterlo di fronte alle sue responsabilità: ne aveva come chitarrista e come unico uomo rimasto a vivere in casa con la madre. Non occorrevano gli studiosi. Una responsabilità del genere, se proprio non ti andava di comportarti da stronzo, la capivi anche prima dei di- ciott'anni. 45 j II vento mite proseguiva a salire fin lì nella sua risacca di foglie, Saliva piano piano dal fianco del dirupo scosceso. Era dal dirupo, che inerpicava la notte. Faceva vibrare le foglie, giù in basso e traversava il folto di querce come i capelli fitti da ragazzi che vi ere-; scevano in testa. Lo sapeste o no, aspettavate là in cima a quella terrazza d'erba come giovani barbari seduti nel cerchio della tribù, e poiché sentivate di vivere una stagione che mai più sarebbe tornata indietro a riunirvi a quel modo, provavate dispiacere che Travis non fosse al suo posto, seduto con voi a vegliare sul tetto della vostra città liscia delfina dormiente, il pulviscolo di luci, di sogni a migliaia che lievi risalivano lo scosceso della collina. La buona sigaretta proibita finì, e una seconda, in silenzio, fu ; preparata. Marzia te la passò affinchè l'accendessi e poi camminò fino allo : steccato. Aveva poggiato i palmi contro il legno rugoso e umido \e faceva da balaustra. Guardò su, per un po', e tu trattenevi il fumo. 46 Numbers and faces, dicevano i londinesi. Diventare, da numeri, facce. Trasformarsi da un numero qualsiasi, da uno dei tanti, in una magnifica faccia. Un signore inglese che faceva il cantante e si chiamava Paul Weller, quand'eravate ancora ragazzi era divenuto certamente una faccia. Pete Townshend, col suo giusto mix d'aggressività e alienazione, era una faccia da sempre. Il più ingegnoso fra gli ingegnosi evocatori di suoni, lo stregone nero Lee Perry, era, per voi diciassettenni, una faccia. I tuoi amici e te, coi vostri cinquanta dischi a testa disposti in ordine religioso sulle mensole delle camere da letto, volentieri avreste dato un braccio per venir via dal soffocante regno dei numeri e trasformarvi, da numbers, in faces. A diciassette anni, gli scudi dei vostri Special vi annunciavano al mondo. Potevi considerarli dei medaglieri.Ciascuno ne aveva uno suo, e il compito principale era conservarlo nel migliore dei modi earricchirlo. Anche il cuore dei vostri Special, bisognava arricchire. Per sentirne meglio il battito potevi migliorare la testata; sostituire quella standard con una da settantacinque: coi meccanici, pur trattandosi di elaborazioni illegali, non c'era bisogno d'insistere: s'erano già prodigati per gli scooter dei vostri padri e dei 47 fratelli maggiori, così che ben conoscevano questa necessità, il particolare tipo di febbre chel'abitava. Prima di diventare musicisti, con Travis, Dillinger e il giovane Corda, avevate navigato un mondo preparatorio. Seduti sulle scalette a un passo dal vicolo dell'Orso, ascoltavate i più grandi discutere di musica. Alcuni di costoro lavoravano in una radio, oppure avevanogià un gruppo, oppure, essendo ospiti nel regno dei pochissimi, dei migliori di tutti, riuscivano a mantenersi suonando in giro. Queste cose le hai sognate tante volte. Se pure stai dormendo, sai perfettamente di cosa si parla. Chiunque da giovane si sia interessato di musica, conosceva a meraviglia anche questo secondo particolare tipo di febbre, il nudo fatto - venivate a incoraggiarvil'un l'altro nei momenti di più sfolgorante lucidità - che voi eravate mods e nel vostro stile c'era la forza, e nelle Fred Perry e i Levi's stretti, il vostro vivere pulito sotto il peso di circostanze difficili. Queste cose le dicevate quando ancora si andava a scuola, e tu non le hai più ascoltateda allora. 48 C'era una saletta prove che potevi usare, se ti mettevi d'accordo coi lagnosi del rockabilly,i punk e i metallari. La saletta prove era gratis, e si trovava nel cuore verde d'un parco. La batteria e i tre amplificatori Marshall che servivano, li trovavi già lì, messi a disposizione dal quartiere, ed eranogli stessi con cui,da anni e anni, suonavano a turno decine di band dilettanti. Da quella saletta gratuita erano passati quasi tutti i giovani musicisti della città - non si sta parlando dei pettinati del conservatorio; sia i gruppi che avevano mollato subito, sia i pochi che, col tempo, avrebbero proseguito a suonare in uno studio tutto loro. Anche voi dei Parka Power avevate cominciatoda lì. Travis alla chitarra, Dillinger dietro la batteria, il giovane Corda al Jazzma- ster. E tu, poiché s'era sparsa in giro la voce che non sapevi suonare, cantavi. In quegli anni, occuparvi dei Parka Power vi appariva come la sola via d'uscita per non dover scegliere tra un lavoro dal lunedì al venerdì e qualche stagione in campeggio all'università. Era semplice. Era così. V'era sembrato giusto, allora, andare avanti a suonare comunque, senza un contratto e senza un lavoro, a parte Dillinger,che aveva ereditato una piccola osteria da un parente. Accettavate volentieri anche gli inviti di ripiego in locali-meteo- 49 i ra che non erano in grado di ripagarti neppure la benzina. Poi, le volte che da un po' di settimane nessuno vi chiamava in giro, eravate voi a organizzare delle feste, pur di procurarvi un po' di pubblico davanti a cui suonare. Più tardi, vennero un agente e un produttore. Faceva un certo effetto vedere gli adesivi dei Parka Power sugli scudi delle Vespe dei più giovani, attaccati di straforo da fan sconosciuti nelle stazioni di servizio in autostrada o in certe sale giochi della Riviera. Una settimana dopo il tuo ventunesimo compleanno, un'etichetta specializzata aveva accettato di stampare, in duemila copie, un quarantacinque giri dei Parka Power che trovò il sostegno di buona parte delle radio indipendenti di allora. Quella stessa estate, vi venne offerto di suonare in posti che, prima, nessuno di voi aveva neppure osato sognare. All'inizio del nuovo anno, l'etichetta specializzata che aveva prodotto il vostro primo quarantacinque vi propose di riunire in raccolta una selezione dei brani suonati in concerto nel corso della precedente stagione. Lavoraste in sala d'incisione per poco più d'una settimana, stupiti, ridendo fra voi di riuscire a soddisfare i tecnici semplicemente suonando un pezzo dopo l'altro come eravate abituati a fare dall'epoca della saletta prove sprofondatanel parco. Adesso, veniva a strillarti tutti i giorni al telefono il vecchio Dillinger, i Parka Power avevano cominciato a scorrazzare per leclassifiche nazionali di vendita insidiando il primato atirannosauri del Pop che si chiamavano Alberto Camerini, Righeira, o Donatella Rettore. I Parka Power furono invitati in tv.Per due volte dai conduttori di Rock Box, e, una terza, nel corso del programma di maggiore ascolto della domenica pomeriggio. 50 Ma erano i festival indipendenti e i concerti negli stadi di provincia, le occasioni più adatte per far conoscere in giro la vostra devota, partecipe vocazione, nei confronti dei ritmi in levare. Le cose andarono bene, per voi, ancora un paio d'anni. 51