Uno Alle undici e venti di sera guardavo Los Angeles dall'alto: il reticolo infinito di punti luminosi. Stanco com'ero cercavo di seguire la vibrazione dei motori, così come arrivava al mio sedile attraverso la struttura di metallo in tensione. Ero sicuro di scoprire qualche cambiamento improvviso di ritmo, o vuoto di frequenza. Cercavo anche di leggere le scritte al neon in basso, man mano che venivano a galla nel buio; i contorni delle freeways vicino al mare. Non mi piaceva girare in circoli nel vuoto, inclinato di tre quarti e quasi senza equilibrio; sospeso in aria per pura brutalità di motori. Non mi piacevano le fodere gialle a fioriviola dei sedili, l'effetto d'insieme che creavano fila dopo fila. Non mi piacevano le hostess che parlavano tra loro e si annodavano foulards al collo e guardavano orologi senza occuparsi deipasseggeri. Siamo scesi ancora, quasi a picco, e la prospettiva mi slittava da tutti i lati. Questo più che paura mi faceva rabbia.Tenevo le mani strette ai braccioli, la testa all'indietro, le gambe distese. Avevo la nausea e volevoessere altrove. C'era una ragazza seduta di fianco a me con una vera faccia di luna: occhi stretti e piccoli, guance larghe. Leggeva un libro e non guardava fuori. Le sembrava scontato atterrare senza problemi. Andavamogiù come precipitare. Alla fine siamo arrivati in basso, quasi sopra le case. Siamo rollati sulla pista. Attraverso il vetro spesso ho visto la pioggia sull'aeroporto, luci di altri aerei nell'acqua. Ho guardatole hostess per capire quanto eranosollevate. Sorridevano false; con soprabiti di cammello sulle divise blu e rosa della Queen Jemina Airlines. Con la mia borsa fotografica a tracolla, sono passato per il tubo grigio di collegamento. Mi sono infilato nel bagnodella sala arrivi a guardarmi la faccia. La luce al neon era falsa e piatta: sembravo teso e stanco più che in realtà. Nemmenola mia abbronzatura veniva fuori come mi ero immaginato. Mi sono passato il pettine tra i capelli, che ho sottili e sensibili all'umidità.Li ho tirati indietro sulla fronte, per controllare la stempiatura.Considerato che avevo venticinque anni e tre mesi, c'era abbastanza spazio libero sopra la linea delle sopracciglia. Gli occhi sotto le sopracciglia invece erano molto azzurri, come capita mi diventino di mattina presto, o dopo un viaggio lungo o scomodo. Non mi sono sembrati privi di luce o di profondità. Ho provato due o tre espressioni allo specchio: dilatato le narici, piegato gli angoli della bocca, gonfiato le guance. Ho controllato i due profili: sinistro e destro, in successione ravvicinata. Alla fine qualcuno è scalpicciato dentro; sono uscito nella sala arrivi. Ho fatto due o tre passi a caso, e subito Tracy mi si è gettata contro, da qualche punto della sala dove era rimasta seduta ad aspettare. Non ho avuto iltempo di vederla arrivare, se non negli ultimi centimetri di percorso: di colpo ini era addosso, a premermi le mani sulle spalle, schiacciarmi il torace, pizzicarmile braccia. Gridava frasi di saluto, mipungolava di domande. Dopo il primo slancio e il primo impatto è tornata indietro di due passi, mi ha guardato con la testa inclinata e mi si è buttata contro di nuovo. Urlava che stavo benissimo, che non ero affatto cambiato. Ero in piedi nella sala verdastra, tra viaggiatori in arrivo che travolti dall'ansia correvano verso le scale mobili,eguardavo Tracy che mi saltellava attorno e raccontava dettagli di avvenimenti. Pensavo a come la sera era umida e piovosa,diversa da quello che mi aspettavo. Ho chiesto a Tracy dov'era Ron. Lei ha detto che era a una riunione di lavoro. Mi sono immaginato Ron alla riunione di lavoro: seduto a un lungo tavolo. Siamo scesi con la scala mobile al ritiro bagagli. Abbiamo 10 aspettato a venti metri dal nastro trasportatore, tra gruppi di viaggiatori nervosi, preoccupati solo di recuperare le proprie valige. GuardavoTracy nella luce di neon: la sua faccia marcata di ragazza californiana, i tratti così espliciti delle sopracciglia e del naso; gli occhi rapidi. Sono filtrato tra la folla, fino al nastro trasportatore. Tracy mi guardava a distanza, bilanciata sui tacchi. C'erano decine di cartoni di ananas hawaiani, che i miei compagni di viaggio avevano comprato all'aeroporto di Honolulu: passavano in circolo sul nastro trasportatore, coricati e coperti di cartellini. La gente aspettava a semicerchio, pronta a liquidare piccole conversazioniper scattare verso le valige. Quando qualcuno riusciva a recuperare le sue, le alzava in aria più del necessario, forse per rivalsa con quelli che attendevano ancora. I cartoni di ananas invece continuavano a girare in tondo, troppo uguali tra loro per essere scelti a colpo d'occhio. Ho raccolto le mie due valige, le ho appoggiate dietro di me. Poi ho visto un cartone di ananas che passava, e senza pensarci molto l'ho preso. Ho guardato in giro per scoprire possibili reazioni. Ma i viaggiatori erano troppo fecalizzati sulle valige, stanchi e tristi all'idea di aver appena esaurito una vacanza. Ho porto il cartone a Tracy, tenendolo per lo spago. Ho detto «È per te».Lei lo ha preso; ha detto «Giovanni». Stava con il cartone tra le braccia, senza sapere dove appoggiarlo. Ho pensato che se lo teneva così in vista qualcuno l'avrebbe notata. L'ho sospinta verso l'uscita. Siamo passati oltre le porte automatiche, attraverso la strada bagnata e lucida, ingombra di taxi. Avevo freddo alle caviglie. Siamo sgusciati tra le macchine del parcheggio: Tracy con gli ananas e la mia borsa fotografica, io con levalige. Camminavo due passi dietro di lei e la vedevo andare avanti con il suo passo marcato sui talloni: incurante e sistematica come la ricordavo da Ibiza l'estate prima. I jeans le stringevano il sedere largo, le cosce spesse, i polpacci che si esaurivano in un paio di scarpe sottili. Non so come sia diventata in questi due anni, ma Tracy non era precisamente grassa. Il problema era nel disegnodei suoi tratti: nella distribuzione delle linee dritte e curve attra- 11 verso la sua persona. Mi ricordo di averla osservata nuda sulla spiaggia dove io lei e Ron ci eravamo conosciuti. C'era un'omogeneità peculiare nel suo modo di essere fatta, una tessitura di luci che la rendeva del tutto impermeabile alla nudità. Era densa, più che grassa: composta di un unico materiale, solido, elastico. La guardavo entrare in acqua, e il suo sedere era una semplice continuazione funzionale della schiena. Avrebbe potuto essere una foca, o un'ampia lontra marina. In ogni caso, eravamo nel parcheggio tra le automobili bagnate, e da due passi dietro le ho detto «sei dimagrita moltissimo». Ho visto che sorrideva, mentre girava la chiave nella portiera. Abbiamo sistemato le valige e la scatola sui sedili di dietro della Mustang. Siamo usciti dal parcheggio. Abbiamoslittato a passo d'uomo nei giri viziosi attorno al terminal. Parlavamo poco: seduti nell'umido della macchina, a guardare fuori come topi bagnati. Poi Tracy ha svoltato a destra e siamo entrati in un flusso di fanali in scorrimento semiveloce. Il resto del paesaggio si è dissolto completamente. Davanti a noi si percepivano solo luci rosse di automobili nella stessa nostra direzione, fari bianchi di quelle che venivano in senso opposto. C'era intorno questo vuoto, riempito di luci e strinamenti di luci, curve di fanali, lampeggiamenti di frecce. Solo a tratti apparivano visioni più ampie, avvolte in un alone opaco; confuse nel buio e l'acqua che scorreva sui finestrini. Avevo un paio di sandali ai piedi e volevotogliermeli e infilarmi delle vere scarpe calde. Mi sono girato a frugare in una delle valige sul sedile dietro. Ho tirato fuori calze di cotone, un paio di mocassini. Tracy parlava, regolava la radio, rideva dei miei gesti obliqui attorno ai mocassini. Mi colpiva la sua capacità di fare i movimenti giusti, ruotare il volante e azionare frecce, cambiare marcia, regolare la radio, e allo stesso tempo condurre una conversazione,anche se moltosuperficiale.Miinterrogava, si guardava la faccia nello specchio retrovisore. Si guardava una porzione di faccia: un occhio, un sopracciglio. Ogni tanto smettevadi parlare e con lo sguardo fisso su un cartello o segnalazionestradale passava da un flusso all'altro di fanali 12 nel buio. Seguivai tempi delle altre macchine in questi aggiustamenti di rotta, come in un gioco a incastri. C'eranosvolte da riconoscere e interpretare; grovigli di percorsi. Dopo una ventina di minuti siamo usciti dal nulla. Scendevamo lungo una spirale, e ho visto due o tre medi grattacieli illuminati nella distanza.Tracy ha detto «Siamo quasi a Westwood». Abbiamo attraversato qualche incrocio; Tracy ha accostato a un marciapiede e fermato. Intorno c'era una specie di finto villaggio mediterraneo: edifìci bianchi e bassi, a spigoli smussati. C'era gente che camminava lungo i marciapiedi, si aggruppava ai semafori. Siamo scesi dalla macchina, e la pioggia era svaporata in umidità densa. Abbiamo camminato raso ai muri bianchi del finto villaggio. Tracy adesso era proiettata nell'incontro con Ron: inclinata nella prospettiva. C'erano un paio di automobili parcheggiate lungo il marciapiede, con tubi di scarico cromati, cruscotti di radica. Tracy si è fermata appena oltre un angolo, davanti a una porta a vetri. Ha pressato il tasto di un citofono. Ha detto «Tracy. Di'a Ron di scendere». Si è girata verso di me: con uno sguardo di anticipazione. Siamo stati cinque minuti in attesa, senza muoverci molto. Aun certo punto mi ha irritato aspettare in questo modo. Ho detto a Tracydi raccontare a Ron che non mi aveva trovato all'aeroporto. Mi sono nascosto dietro l'angolo, appoggiato al muro. Ron ha continuato a non scendere; Tracyad affacciarsi e far cenno di non scoprirmi. Alla fine Ron è uscito; ha girato direttamente l'angolo senza farsi trattenere da Tracy. Così con poca sorpresa ci siamo salutati; senza nemmeno molto calore perché lui sembrava stanco e distratto. Si è mosso attorno qualche minuto, ha fatto un paio di domande circa il mio arrivo. Aveva un modo di oscillare la testa mentre parlava, per affrettare la comunicazione forse: scrollava capelli biondi sopra le spalle larghe. Dopo questi saluti Tracy gli ha chiesto coni'era andata. Si vedeva che era in ansia, quasi rovesciata in avanti; lostringeva contro il muro tenendolo per un braccio. Lui ha detto «Bene. Fra tre giorni al massimo mi danno una risposta». Sotto la stanchezza ho notato questa sua euforia di fondo, che gli faceva brillare gli occhi alla luce dellampione. 13 Si è girato verso di me e ha detto «È il soggetto. Ho finito adesso di parlare con Jack Zieler. Dice che gli sembra buono. Dice che fra tre giorni al massimo mi danno una risposta». Tracy lo stava a guardare in ammirazione; beveva il suo accento newyorkese, il suo modo di pronunciare le parole così da suggerire riflessioniparallele più profonde. Lui ci ha smossi dal nostro stare a guardarlo dietro l'angolo. Ha fatto un cenno verso l'altro lato della strada. Ha detto «Be', andiamo, andiamo». Siamo tornati verso la macchina, e nel frattempo un vento sottile aveva preso a smuovere l'umidità a banchi. Mipassava attraverso il golf e la camicia. Tracy ha guidato via veloce; di nuovo eravamo nella freeway. Ron le stava seduto di fianco in atteggiamento di chi si affida ad altri per le attività più meccaniche: adagiato all'indietro, con i piedi sul cruscotto e la testa larga perduta nello schienale. Si girava ogni tanto, non del tutto rivolto a me: mi presentava un profilo di tre quarti. Mi chiedeva «Come va, allora?», oppure «Com'era la Nuova Guinea?». In ogni caso non mi lasciava abbastanza spazio per rispondere; davo risposte moltosemplificate. Un paio di volte ha detto «Stai benissimo».Ho risposto «Anche voi due state benissimo». Tracy guidava adesso senza parlare. Si lasciava andare alla sua natura seconda; pilotava nella freeway come in altre parti del mondo uno può correre o nuotare. Osservavo la tessitura dei suoi gesti, gli sguardi davanti e di lato, i movimenti delle mani. Aveva anche una serie di gesti paralleli, forse indipendenti dalla guida: grattarsi la punta del naso, scorrere le dita sulla coscia sinistra di Ron. Poi siamo usciti dalla freeway; abbiamo girato lungo un anello discendente. Tracy ha percorso un paio di isolati efermato la macchina. Sono sceso con le mie due valige,le ho trascinate per qualche passo raso al marciapiede. Ron si è girato ed è venuto indietro a prenderne una: me l'ha tolta di mano, l'ha portata in alto con il suo braccio spesso. La freeway era ancora a pochi passi, appena al di là di una linea di casette collegate tra loro da minuscoligiardini. Ron ha indicato la casetta di fronte a noi. Ha detto «Ecco 14 la nostra incredibile villa», in tono di sarcasmo. Abbiamo attraversato il prato che univa la casetta alla strada; il rumore è diventato più forte. Quando siamo stati davanti alla porta d'ingresso ho visto che in realtà la casetta era quasi sotto la freeway: quasi toccava i piloni della sopraelevata. Le macchine passavano pochi metri più in là e più in alto. Da sotto si vedevano i fari che schizzavano avanti; si trascinavano via intere strisce di buio nella distanza. Appena oltre la porta Ron eTracyhanno preso ad assumere i loro atteggiamentida dentro-casa: gesti alla ricerca di oggetti, appendimenti di giacche all'attaccapanni. Mi sono seduto per terra a guardarlimentre giravano per ilsalotto ela cucina. Il pavimento era ricoperto di moquette rossa, che con gli anni e l'aria della freeway si era versata su un tono violastro opaco. Questomutamento di colore era stato combattuto con ripassaggi profondi di aspirapolvere, che avevano lasciato tracce parallele per la lunghezza della stanza. C'era un divano rifoderato contro il muro. Glialtri oggetti di arredamento erano uno sgabello e un tavolo con due sedie combinate davanti alla finestra. C'era una macchina da scrivere ibm sul tavolo,e una pigna di fogli bianchi. Sopra il divano era appeso un manifesto di James Dean, ritoccato in diversi punti con un pennarello rosa, così da creare accenti di coloritura che a distanza parevano incomprensibili. Mi sono alzato e sono andato in cucina. Le gambe mi tremavano ancora per il volo; non mi sembrava vero di stare in piedi sul sicuro. Sullo scaffale sopra il lavello era impuntinata una pattina a forma di anitra in costume svizzero. In basso vicino alla finestra c'era una targhetta di porcellana che a caratteri blu e oro diceva "II mio cuore è in camera da letto; il mio stomaco in cucina". Dalla finestra si vedevano vampate di luce, quasi sopra la testa. Ron e Tracy si aggiravano per questo scenario come due tassi nella tana. Ogniloro gesto sottolineava la loro relazione con il posto, con gli oggetti e i particolari. Aun certo punto si sono messi a litigare, a proposito di alcune spese che Tracy voleva fare per mettere a posto la Mustang. Si sono spostati litigando verso il bagno, lungo un piccolo corridoio. Da lì le due voci, avvinghiate e piene di rabbia, mi arrivavano come grovigli di bisbigliamenti. 15 Ron diceva «Stai a sentire, Tracy. Tracy starami a sentire Ripeteva le stesse parole, come una macchina. Tracyaveva „„ a scrollare gì, mftss, dilam una voce acuta, che acquistava consistenza solo a tratti: vano più forti a ogni passagg , n i c'era un intervallo. ' * . . . . , ,.,'^tenc ,à furiosa, uuanuo uci^ emergevano singole parole, o porzioni di parole. Dopo cinque minuti Ron è venuto fuori dal bagno. Ha fatto un paio di giri vaghi attorno al punto dove ero seduto; si è seduto anche lui sul pavimento, con la schiena alla parete. Non dicevamo molto: nascosti tutti e due dietro piccoli schermi di stanchezza ostentata. Lui oscillava lo sguardo per diversi punti della stanza. Poi ha scosso la testa, ha detto «Mi dispiace. Ogni tanto capitano queste discussioni. Tracy dice che le uso la macchina e me ne frego delle riparazioni. Non è vero. Il mese scorso ho pagato io il carburatore e una batteria nuova». Mi colpiva il suo continuo spostare gli occhi attraverso la stanza; mi irritava. Ha acceso una sigaretta, dopo aver socchiuso la finestra a ghigliottina per far uscire il fumo. Entrava in cambio un filo di notte umida, e frecciate di rumore a ogni passaggio di macchina. Abbiamo avuto una breve conversazione, fatta di scambi di dati e notizie, senza grande interesse. Avevo sonno e non sapevo come fare per andarmene a dormire. Tracy è uscita dal bagno, con occhi arrossati. È passata attraverso il salotto due o tre volte con il pretesto di andare in cucina, finché le abbiamo detto di sedersi con noi.Si è lamentata ancora per la macchina; ha ripetuto gli argomenti che già avevo sentito. Diceva «Io lo rispetto, ma anche lui deve rispettare me». Passava e ripassava su questo concetto, guardandomi in cerca di conferme. Ron la guardava e poi guardava me, con espressioni diverse. Nelle occhiate a me mescolava tracce di insofferenza; quando si rivolgevaaTracy appariva mortificato. Di colpo mi è sembrato ridicolo restare lì seduto ad ascoltarli. Ho detto che me ne sarei andato a dormire volentieri. Loro hanno detto «Certo, dopo il viaggio. Certo». Hanno sgomberato il salottino. Tracy è tornata un minuto dopo a portarmi coperte e lenzuola, le ha disposte suldivano. Poco dopo ero sdraiato e guardavo in alto tra le pieghe di due grandi cuscini a fiori. Dovevano essere ormai le quattro; la stanchezza mi aveva informicato le gambe. Ogni passaggio di camion sulla freeway smuoveva onde di vibrazioni che 16 notte con un intensità furiosa sopraelcvata, 17 . Due La prima volta che ho visto Ron e Tracy, erano seduti in un bar all'aperto: adagiati all'indietro su sedie bianche. Ron parlava con un ibizano ubriaco, a due tavoli di distanza. Mi ricordo bene il loro modo di essere; il loro modo di essere vestiti. Si muovevano con la più incredibile naturalezza, come se conoscessero il posto da sempre, nelle piccole sfumature. Ron parlava uno spagnolo grottesco, che più tardi mi ha detto di aver imparato durante una vacanza di venti giorni in Messico. Conosceva pochi termini chiave; li pronunciava male, senza riflettere. L'ibizano era ostile; sconnesso, oscillante. Ricorreva a piccoli trucchi per tirare la conversazione dalla sua. Legava le parole due a due, le accentuava in modo da venaiie di ridicolo; giocava sugli accostamenti per creare altri significati. Ron era impermeabile a queste sottigliezze: gliscivolavano addosso come piccole frecce senza punta. Raccoglieva a caso pochi elementi della conversazione e li ricomponeva secondo un ordine lineare. L'ibizano era costretto a un discorso ingenuo, amichevole; indipendentemente da quello che diceva, dal suo modo di dirlo. Girava in circoli inutili. Ron lo ascoltava e sorrideva, faceva cenni di mano. Alla fine l'ibizano si è messo a bestemmiare per la frustrazione; si è alzato in piedi gridando. Ron è riuscito a cambiare anche il senso di questo scatto, lo ha interpretato come una manifestazione di giovialità rozza. Si è alzato anche lui, con un bicchiere di Madeira in mano; ha gridato parole a caso. 18 Tracy era perduta nella contemplazione di Ron; nella cura di se stessa di fronte all'estate spagnola. Stava appoggiata sul gomito sinistro, così da allungare la gamba discosto al tavolino: dorata, lucida. Aveva un vestito di cotone bianco in stile Roma antica, stretto in vita da una cintura marocchina. Il -colore dei suoi seni abbronzati filtrava attraverso la trama del tessuto, emergeva alle punte dei capezzoli. Anche così non era attraente: priva di eleganza, poco sensibile. Ma la sua sicurezza mi colpiva, il suo modo di muoversi attorno come se non potesse sbagliare in ogni caso. Anche lei ricomponeva la realtà come voleva, senza curarsi delle sfumature. Questo le dava una forza incredibile. La ragazza italiana che era in vacanza con me mi è sembrata incerta al confronto, piena di esitazioni. Mi è venuto in mente che ho continuato per sette mesi a visualizzare Ron e Tracy come li avevo conosciuti d'estate. 19 Tracy ha esaurito tutto il suo entusiasmo per me la sera che mi è venuta a prendere, quando sosteneva di avere infinite cose da dirmi. Si è irrigidita progressivamente, fino adiventare ostile. Quando tornava a casa, verso le cinque e mezza, di solito stavo guardando la televisione: seduto per terra nella sua stanza, appoggiato di schiena al suo letto. Lei mi guardava con aria di dire che non c'era abbastanza spazio per tutti etre. Era come se ogni pomeriggio lo scoprisse per la prima volta. Appena entrata si metteva a distribuire gesti di riappropriazione: spostava oggetti, apriva armadi, faceva domande con voce irritata. Mi sentivo come uno su una sedia quando gli lavano il pavimento di sotto, e deve bilanciarsi avanti e indietro, far finta di nulla finché la scopa è passata. Tracy trafficava per un'ora in cucina, con una pentola a vapore cinese che riempiva di verdure e salsa di soia. Cercavo sempre di mangiare prima di loro, perché l'idea di stare lì seduto a fare conversazione mi riusciva insopportabile. In questi momenti di affollamento facevamo finta di non vederci; ci pestavamo i piedi ma seguivamo fili diversi. Frugavo direttamente nel frigorifero e mi scaldavo un sandwich nel forno, in modo da finire prima che loro si sedessero a tavola. Di sera io e Tracy guardavamo la televisione, sdraiati a pancia in giù sul letto. Il letto aveva una consistenza molto migliore del divano su cui dormivo, che in realtà stava andando in pezzi. Ogni volta arrivavo al punto in cui mi sembrava innaturale lasciare il letto per andare a dormire sullo scomodo. Ho cominciato a detestare Ron e Tracy per il loro materasso a molle. Spesso Tracy parlava al telefono mentre guardava la televisione. Stava seduta con i piedi per aria e la testa vicina allo schermo e mormorava nella cornetta. Aveva la stessa capacità di sdoppiamento di quando guidava sulla freeway: perfettamente concentrata su due azioni parallele. Anche Ron guardava la televisione, ma non voleva riconoscerlo apertamente. Ogni volta diceva «Stasera devo scrivere». Oscillava la testa larga e biondastra, per rimproverarmi di non essere altrettanto attivo intellettualmente. Andava a sedersi al tavolo a guardare la ibm, e poi si alzava ogni cinque minuti per venire a vedere cos'era successo alla televisione. Dovevamo continuamente aggiornarlo sugli sviluppi.Allo stesso tempo ironizzava sul mio interesse; diceva «Giovanni, sei un video-tossicomane». Un'altra cosa che faceva era mettersi a filosofeggiare ogni volta che stavamo per andarcene a dormire. Si sedeva sul mio divano, così da togliermi vie d'uscita. Sortiva le parole dopo averle ricercate a lungo, credo per il suono; non parlava mai con naturalezza. Quando lo ascoltavo avevo la sensazione di uno sforzo continuo da parte sua. Cercava di essere all'altezza di qualche modello che si era posto. Era come quando mi indicava il paesaggio, credo. Tirava fuori parole, curvo in avanti sul divano con le sue spalle massicce; recitava in gran parte per Tracy. Tracy a volte gli chiedeva il significato di un termine, in atteggiamento di scolara di fronte al maestro. Avevano sviluppato i loro ruoli come due attori che lavorano sempre insieme e ritoccano e ritoccano i propri modi di fare finché si compendiano in modo perfetto. Ron allineava in ordine di tempo gli episodi della sua attività di scrittore per il cinema da quando si era stabilito a Los Angeles; disponeva a seguito una gamma di possibili sviluppi. A seconda del suo umore, questi sviluppi diventavano molto reali e vicini, o remoti come prospettive lunari. In questo caso si spostava vicino alla finestra e fumava marijuana. Soffiava il fumo fuori dalla finestra, perché Tracy non voleva che la moquette si impregnasse. Tutti e due tendevano ad assumere un tono didascalico nei miei confronti: mi illustravano gli errori che stavo facendo in America, le radici dei miei atteggiamenti sbagliati. In questi casi li stavo ad ascoltare con enorme irritazione. Annuivo con la testa, senza guardarli direttamente. Una mattina Tracy mi ha svegliatoper chiedermi se volevo accompagnarla a Beverly Hills, visto che doveva andarci per una commissione. Siamo saliti con la Mustang lungo una strada che seguiva il profilo di un canyon. Man mano che ci alzavamo sopra la 29 valle le case diventavano più consistenti, i giardini più ampi, le siepi più spesse. Più avanti c'erano colonne sulle facciate, cancelli elettronici. Quando siamo stati al calmine della salita si vedeva la San Fernando Valley in basso, avvolta in una foschia densa e giallastra; sgranata in migliaia di tetti di piccole case, chiazze verdi di giardini intorno alle case. Tracy ha guidato in discesa dal lato opposto del crinale, Manipolava i tasti della radio senza mai essere davverocontenta elei risultato. Le case da questo lato erano più ricche, con architetture più elaborate. Davanti ai garages c'erano grandi automobili importate. Quando siamo calati in piano i giardini si sono ristretti, ma ei'a chiaro che valevano ancora più degli altri. Tracy ha preso a indicare le case, raccontarmi la storia dei proprietari, o almeno il loro nome. Ogni tanto capitava di vedere un uomo sui trentacinque anni mentre usciva da una macchina o trafficava davanti alla porta d'ingresso: vestito con camicie aperte sul petto; i capelli tagliati corti e tirati indietro sulla fronte. Tracy rallentava e si spostava verso di me per vedere meglio. A voce bassa mi chiedeva «Hai visto?». Mi spiegava di che attore si trattava, a quale attrice più famosa era legato. Molti dei nomi non li conoscevo, perché erano celebrità troppo recenti per essere già note in Europa; in gran parte celebrità della televisione. Pensavo che i loro film a puntate sarebbero arrivati in Italia quando ormai in America nessuno se li ricordava più. Alla fine siamo arrivati ai negozi di Beverly Hills, incanalati nel traffico di grandi automobili. Abbiamo lasciato la Mustang in uno spazio a parchimetri lungo il marciapiede. Tracy mi ha guidato alla svelta attraverso la strada e lungo una viavetrinata. Guardavo i negozi italiani di abiti che si affacciavano sulla strada in forma di immense scatole di confetti. C'erano gioiellerie come ambasciate ottocentesche: con pilastri e marmi sulle facciate, tende di velluto negli ati"ii. Altri edifici erano inconsistenti, fragili; bianchi e squadrati. Era un giorno grigio, di luce opaca diffusa, di bassa pressione. Andavo dietro a Tracy e respiravo con una certa difficoltà; guardavo in giro in preda a una strana ansia morbosa. 30 Tracy camminava davanti a me, veloce; marcava il passo con un'oscillazione delle braccia. Cercava di trascinarmi dove voleva anelare, senza curarsi del mio interesse per il paesaggio. L'ho seguita per qualche minuto in atteggiamento eli pecora condotta in giro: svogliato, lento agli incroci. A un cerio punto il suo modo di camminare e strattonarmi avanti mi è diventato insopportabile. All'altezza di un negozio di orologi le ho detto che potevamo vederci alla macchina più tardi. Lei mi ha guardato alla svelta; ha detto «Vabene, va bene». Sono tornato verso la strada che avevo visto all'inizio. Guardavo la gente davanti e dietro alle vetrine; le grandi macchine che passavano raso al marciapiede e si fermavano per qualcheminuto senza aprire le portiere. Fermo a un angolo ho osservato una signora mentre parcheggiava una Rolls Royce grigia in uno spazio ristretto tra due altre automobili. Cercavo eli registrare i suoi gesti, il suo modo di inclinare la testa per vedere nello specchio retrovisore chi guidava dietro eli lei e chi invece arrivava lungo il marciapiede. C'era una connessione tra i vestiti che aveva, la lentezza dei suoi movimenti, i riflessi sui vetri della sua macchina. Guardavo gli oggetti esposti nelle vetrine:mi colpiva la loro consistenza, la loro densità nella luce. Guardavo ragazze che camminavano veloci, con calzoni larghi chiusi alle caviglie e guance arrossate; signore eli mezz'età con occhiali pesanti e sandali sottili; uomini con pance e abbronzature di diverso spessore. Non riuscivo bene a capire chi faceva davvero parte della scena, e chi invece era ai margini e si limitava a indossare modi di fare e abiti di ruolo. Quasi tutti avevano espressioni che li legavano al posto, alle sfumature elei posto. Pensavo che alcuni dovevano essere in realtà commessi di negozio, o segretarie ad alto livello, o ragazzine dei suburbi; ma avevano assorbito abbastanza dallo scenario da assumerne i caratteri. Si erano rivoltolati nella brillantezza abbastanza a lungo da divenire brillanti a loro volta. Dopo qualche minuto il ciclo si è incrinato e aperto; nel giro di poco era azzurro. La strada ha acquistato contrasto di colpo. Dal punto dov'ero i dettagli venivano fuori tridimensionali, brillanti. Cercavo di assorbirli più che potevo; di inalarli, e]uasi. 31 . .-- I • • • j C'erano gruppi di persone sedute ai tavoli di un bar all'aperto: radiavano attorno quantità enormi di benessere e sicu-! rezza di sé. Si rigiravano nel piacere di essere seduti in quei punto particolare a quell'ora del giorno, come uno può rigirarsi in un bagno di schiuma. La schiumaera costituitadai loro vestiti, dalle espressioni di quelliche passavano, le automobili in costa al marciapiede, i bicchieri guarniti suitavolini. Il sole mi passava attraverso; mi sentivo vestito in modo inadeguato, leggermente goffo e opaco. Non sapevo bene cosa fare o come reagire. Tutta la scena comunicava una sensazione strana di accessibilità, e allo stesso tempo mi spingevi alla sua periferia come una centrifuga. Poco alla volta la mia convivenzacon Ron e Tracy è diventata difficile; si è venata di tracce di irritazione sempre piùfrequenti. Ron e Tracy erano come due giovani squali insicuri, risso-si, frenetici att™-n~ -' *-i-*_.__, ^«*,u ^uuie uue giovani squali insicuri, rissosi, frenetici attorno al telefono ogni volta che squillava. Erano sempre sul chi vive, attenti a non tradirsi o dimostrarsi troppo ingenui. Vedevano Los Angeles come una pista a ostacoli, e ogni salto come l'ultimo di una serie;suddividevano il numero sconfinato di salti necessari ad arrivare in generi e sottogeneri. Giravano in circolo alla ricerca di frani-! menti di successo da divorare subito per crescere a giovani squali di maggiore dimensione. Da ogni minuto episodio si aspettavano conseguenze di qualche importanza per le loro vite. In certi momenti di frenesia totale i numeri di telefono sulle agendine non bastavano a calmare la loro fame di occasioni o spunti per esporsi e farsi conoscere in qualche modo. Poco alla volta questa loro ansia mi si è comunicata; credo di averla assorbita dall'aria. Vivevamo nella casettti di Sherman Oaks ed eravamo tesi tutto il tempo; involti in una competizione astratta. Il bagno era l'unico spazio davvero privato della casa, e ciascuno di noi cercava di passarci più tempo possibile. A | volte mi chiudevo dentro, aprivo il rubinetto e stavo sempli- \e a guardare lo specchio; non fecalizzato sulla mia immagine, ma oltre. Quando uscivo era come essere esposto ; da tutti i lati, senza il minimo riparo. In ogni caso, mi lavavo molto spesso i capelli; stavo mezz'ora sotto l'acqua calda e mi lasciavo scorrere via i problemi. Dopo una settimana ho trovato sul lavandino un piccolo cartello con scritto "Giovanni per piacere ricordati di comprare lo shampoo". Non so bene perché, ma questa nota mi ha infastidito in modo quasi intollerabile. Tracy teneva il suo shampoo in un barattolo di vetro da un litro sotto la finestra del bagno. Era uno shampoo naturale opaco, che produceva pochissima schiuma. Dopo il cartello ho preso a usarne molto più di quanto me ne serviva; mi lavavo la testa anche due volte al giorno. Credo di avere una tendenza a esasperare le tensioni che già esistono. Non è una tendenza ragionata. Ogni volta che entravo in bagno avevo l'impressione di peggiorare le cose. Una sera ho sentito Tracy piangere in camera da letto. Diceva «Mi sta consumando tutto lo shampoo, non ne posso più di questa situazione». Questo èsolo per spiegare come lenostre tensioni erano sminuzzate e circoscritte. Sembrava che se avessi comprato anch'io lo shampoo la nostra convivenzasarebbe diventata facile. Un giorno Tracyha scoperto che un negozio di cibi naturali aveva bisogno di due persone per una breve iniziativa pubblicitaria. Era attaccata al telefono e faceva gesti a me e Ron;indicava con le dita quanto avrebbero pagato all'ora. Ron faceva finta di non vederla. Stava aggrappato alla ibm con aria sorda, in attesa che qualcuno lo venisse a cercare per ilsoggetto. Ho detto subito a Tracy che il lavoro mi interessava. Mi restavano non più di una trentina di dollari nella vita. Tracy ha dettato il mio nome al telefono, scandendolo lettera per lettera. Anche lei era attirata; chiedeva particolari sul lavoro, ma apparentemente era un segreto. Dopo aver messo giù la cornetta ha continuato a pensarci. Diceva «Certo che mi incuriosiva l'idea». Alla fine non ha resistito; ha telefonato all'ufficio di suo padre per chiedere un giorno di permesso. Mi ha detto «Non è tanto per i soldi». Aveva sempre questaattitudine, di aspettarsi svolte o coincidenze da ogni singola occasione che le capittiva. Il giorno dopo ci siamo alzati presto, perché dovevamoessere a Westwood prima delle nove. 33