DONNE E MAFIA Un rapporto complesso Alcune domande preliminari •Quale immagine della donna di mafia vi viene in mente?Quali ruoli ritenete che la donna abbia o abbia avuto all’interno del clan? •Conoscete il nome di qualche donna legata alla mafia o attiva nella lotta alla mafia? •Da qualche tempo le “donne di mafia” sono uscite allo scoperto e hanno iniziato a parlare. Quando si colloca cronologicamente questo fenomeno e quali, a vostro giudizio, ne sono state le cause? •Quali film sulla mafia conoscete? La messa in discussione di uno stereotipo •Anche se i mafiosi collaboratori di giustizia continuano a sostenere che l'organizzazione mafiosa è monosessuale, basata su un codice patriarcale, e che le donne ricoprono un ruolo marginale, in realtà negli ultimi anni è venuta in luce la rilevanza che le donne, in diversi modi, da sempre hanno avuto nel clan. Errori di prospettiva •Lo stereotipo della marginalità delle donne all’interno del clan non solo ha falsato la prospettiva degli studi criminologici, ma ha giocato anche un importante ruolo sul piano giudiziario, assicurando a lungo una quasi totale impunità alle donne che gravitavano nell’universo mafioso. •Il teorema era in sostanza il seguente: le donne di famiglia, in quanto soggette alla “legge del clan”, non possono essere considerate neppure pienamente complici perché agiscono per “causa di forza maggiore”. Le donne sono uscite dall’ombra •Quando la mafia ha vissuto il suo momento di crisi più acuta grazie ai collaboratori di giustizia, ai sempre più numerosi “pentiti” che con le loro rivelazioni stavano mettendo a repentaglio la stessa esistenza dell’organizzazione – ebbene, in quel momento quelle che per anni erano state mogli, figlie, sorelle o madri silenziose hanno cominciato a parlare. Il conflitto tra “famiglia di sangue” e “famiglia mafiosa” •In sostanza, quando la “famiglia di sangue” entra in conflitto con la “famiglia mafiosa”, ecco che le donne escono allo scoperto. Lo squilibrio che si crea quando il proprio marito, fratello o figlio decide di collaborare con la giustizia impone loro di prendere posizione e di schierarsi con una delle due “famiglie”. Collaboratori e testimoni di giustizia •Esiste una netta differenza tra i collaboratori e i testimoni di giustizia. Infatti, mentre i primi sono persone che hanno un passato di appartenenza ad una organizzazione criminale o mafiosa i secondi sono cittadini incensurati. I collaboratori sottoscrivono un "contratto" con lo Stato basato sulla fornitura di informazioni provenienti dall'interno dell'organizzazione criminale in cambio di benefici processuali, penali e penitenziari, della protezione e del sostegno economico per sé e per i propri famigliari. I testimoni invece forniscono la loro testimonianza relativamente all'accadimento di un fatto delittuoso e per tale ragione godono di una protezione da parte degli organi dello Stato appositamente creati. In molti casi si tratta di commercianti che si rifiutano di pagare il "pizzo" o di persone non più disposte a continuare a pagare interessi a tassi usurai concessi loro da membri dell'organizzazione mafiosa. I collaboratori di giustizia, che in gergo giornalistico vengono definiti "pentiti", sono un elemento indispensabile nella lotta contro le mafie, così come per altri versanti lo sono stati negli anni '70 e '80 del secolo scorso relativamente al fenomeno del terrorismo. (legge 1991) Tipologia delle donne di mafia •. fedeli compagne (tutrici dell’ordine e dei disvalori mafiosi) •madrine (implicate in attività criminali) •supplenti (il familiare in prigione) •Testimoni di giustizia • Le donne e il pentitismo •Molte hanno accettato di condividere la vita blindata dei loro congiunti diventati collaboratori di giustizia, ma tante al contrario hanno preso le distanze, anche in modo eclatante, pubblicizzandolo attraverso l'uso dei media. •Di fronte ad un tale atteggiamento molti hanno parlato di paura di ritorsioni ma soprattutto di donne-vittime, incapaci di sottrarsi a un destino già segnato. Alcuni esempi •La moglie di Pasquale Di Filippo, Giuseppina Spadaro, 29 anni, figlia del boss della Kalsa Tommaso, e quella di Emanuele, Angela Marino, 28 anni, appena sanno quanto è accaduto - la notizia è ancora riservata e i nomi dei due nuovi collaboratori non sono ancora apparsi sulla stampa - telefonano all'Ansa di Roma: "Sono venuti quelli della Dia, ci hanno offerto protezione, abbiamo rifiutato. Scrivetelo, fatelo sapere. Noi non abbiamo fatto nulla di male, siamo brave persone, non abbiamo niente di cui pentirci...". Giuseppina Spadaro •In una riunione di famiglia in casa sua, Giuseppina Spadaro dice ai giornalisti (ma più tardi deciderà di vivere con il marito in una località segreta): "Meglio morti, meglio se li avessero ammazzati. Invece sono due infami pentiti. Ai miei figli l'ho già detto: "Non avete più un padre, rinnegatelo, dimenticatevi di lui". … Quando ho sentito bussare la polizia, ho pensato: "Ora mi dicono che mio marito è stato ucciso". Invece no, invece è stato peggio. se lui fosse morto avrei avuto più onore. Meglio morto che pentito, non ho dubbi" ("GdS" 28 giugno 1995). Angela Marino •La moglie di Emanuele Di Filippo, Angela Marino, fa un quadro idilliaco della vita familiare prima del pentimento del marito: "La nostra era una vita normalissima. Vivevamo tranquilli e beati, gestivamo un distributore di benzina, non ci mancava niente, credetemi. Non capisco perché hanno fatto questa scelta, cosa li abbia spinti a dire quello che hanno detto. Quando non sapevo che "quello" si era pentito dicevo ai miei figli che il padre sarebbe tornato presto, ma adesso lo devono dimenticare, anzi, l'hanno già dimenticato. Per loro è morto, come se un padre non l'avessero mai avuto" (ibidem). La madre di Rita Atria •Di fronte alla fedeltà, o alla sudditanza, alla mafia può cedere anche l'amore della madre verso il figlio. Lo ritroviamo in Giovanna Cannova, che per dissuadere la figlia Rita Atria ha fatto di tutto, arrivando anche lei a minacciarla di morte, dicendo che le avrebbe fatto fare la fine del fratello Nicola. Dopo il suicidio di Rita, qualche giorno dopo la morte del giudice Borsellino, la Cannova non partecipa al funerale; poi il 2 novembre 1992, giorno dei morti, rompe a martellate la fotografia della figlia sulla tomba degli Aiello dove è stata seppellita; alla fine riesce a portare nella tomba della famiglia Atria il corpo della figlia. A chi l'ha denunciata per aver profanato la tomba di Rita, frantumando il suo ritratto, Giovanna Cannova risponde: "Non è vero che ho profanato la tomba di mia figlia. Volevo solo far sparire dalla sua tomba quella fotografia. La figlia era mia e alla foto devo pensarci io e non quella lì": si riferisce alla nuora Piera Aiello ("GdS", 23 novembre 1992). È la rivendicazione di un diritto di proprietà materna che la figlia, a suo dire per istigazione della nuora, i magistrati, la polizia, le donne delle associazioni antimafia che hanno portato a spalla la bara di Rita, hanno violato. Donne testimoni di giustizia •La maggior parte delle donne testimoni di giustizia sono vedove, orfane, madri a cui hanno ucciso i figli, che solo dopo un avvenimento traumatico come la morte violenta di un loro congiunto, passano dal lutto privato alla testimonianza pubblica. •Solo alcune sono collaboratrici di giustizia o pentite in relazione alle azioni criminali di cui sono state artefici o complici. Perché questa scelta? •Alcune per spirito di vendetta •Altre senza un calcolo preciso •Alcune perché hanno partecipato in qualche misura alle attività della mafia e, dopo l'arresto, o perché hanno temuto per la propria vita, hanno deciso di parlare. Donne contro •La componente femminile è presente nel movimento antimafia fin dai primi anni '80, con la nascita dell'Associazione donne siciliane per la lotta contro la mafia, promossa da donne che hanno voluto continuare in modo diverso una militanza iniziata in partiti e movimenti politici e da vedove di magistrati e di altri funzionari dello Stato uccisi dalla mafia. Donne contro la mafia •Donne di estrazione borghese e popolare si sono ritrovate all'interno dell'Associazione donne contro la mafia e più in generale del movimento antimafia, ma non sono mancati problemi, come quello dell'isolamento di Michela Buscemi e Vita Rugnetta, le uniche donne del popolo palermitano costituitesi parte civile nel primo maxiprocesso; di Piera Lo Verso, che ha accusato quello che riteneva fosse il mandante dell'uccisione del marito, ucciso con altre sette persone: lei è stata l'unica tra i parenti delle otto persone uccise a fare la scelta di costituirsi parte civile. Per tutte la scelta di costituirsi parte civile è stata causa di isolamento nella famiglia, nella parentela, nel vicinato. Michela Buscemi, Piera Lo Verso, Vita Rugnetta hanno visto scomparire i clienti dei loro esercizi commerciali e sono state costrette a chiuderli andando incontro ad una grave situazione economica. Il centro Peppino Impastato • Ad aiutare queste donne nel momento di maggiore esposizione sono stati soltanto il Centro Impastato e l'Associazione donne contro la mafia Alcuni libri sull’argomento •Nando Dalla Chiesa, Le ribelli, Edizioni Melampo, 2006 •Puglisi Anna, Sole contro la mafia, La Luna, Palermo 1990. •Anna Puglisi, Donne, mafia, antimafia, Centro Impastato, Palermo 1994 •Bartolotta Impastato Felicia, La mafia in casa mia, intervista di A. Puglisi e U. Santino, La Luna, Palermo 1986. Alcuni film •La siciliana ribelle, 2009 (Marco Amenta) •Donne di mafia, 2005 (Giuseppe Ferrara) •Angela, 2002 (Roberta Torre) •I cento passi, 200 (Marco Tullio Giordana) Due siti fondamentali •http://www.ritaatria.it/RitaAtria.aspx •http://www.centroimpastato.it/ • •