Donne contro la mafia e donne di mafia: complessità di un problema Della mafia durante questi incontri si è detto già tanto: sappiamo che si tratta di un fenomeno complesso. Vi propongo una definizione formulata da Anna Puglisi, una donna da anni impegnata insieme al marito Umberto Santino sul fronte della lotta alla mafia all’interno del Centro siciliano di documentazione da loro fondato a Palermo nel 1977 e successivamente intitolato a “Peppino Impastato”. scrive la Puglisi: “Mafia è un insieme di organizzazioni criminali di cui la più importante ma non l’unica è Cosa Nostra, che agiscono all’interno di un vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all’accumulazione del capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, (un sistema) che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale”. Un fenomeno che si muove tra continuità e innovazione, che continua a tener fede al rigido codice della “mafia tradizionale”, ma si apre alle innovazioni della nuova “mafia imprenditrice” e alle tecnologie della “mafia dell’alta finanza”. Quanto alle donne di cui parleremo, e loro storie assumono declinazioni diverse. Parleremo di donne di mafia, a volte protagoniste inconsapevoli di questa storia, altre volte protagoniste consapevoli; donne che sono le tutrici della tradizione e della continuità, ma in alcuni casi anche le artefici delle trasformazioni in atto nella mafia siciliana; donne in molti casi “spese” sul mercato matrimoniale delle alleanze tra cosche, da sempre incaricate di svolgere quell’indispensabile ruolo di trasmissione della cultura mafiosa, ma che in qualche caso vi si ribellano. E parleremo, infatti, anche di donne contro la mafia, di donne vittime della mafia e di donne che attraverso lo studio del fenomeno mafioso o attraverso l’associazionismo e l’impegno civile hanno dato e continuano coraggiosamente a dare un efficace contributo per combattere la mafia (Anna Puglisi è una di queste). Perché – ripeto – non si può efficacemente contrastare il fenomeno mafioso se non lo si conosce a fondo e se non si denuncia costantemente la cultura di morte e di sottosviluppo di cui è portatore, se non si contribuisce – ciascuno a suo modo – alla diffusione contro il “sentire mafioso” del contrapposto “sentire dell’antimafia”, un’antimafia fatta non solo di parole, ma vissuta giorno per giorno, innanzitutto mettendo in pratica la legalità. Il binomio Donne e mafia è sempre esistito. Il “sentire mafioso” nasce proprio nella famiglia – una famiglia retta da un rigoroso “codice familiare”, da regole ferree violate le quali segue, senza pietà, una sentenza di morte – e le donne sono sempre state le “numi tutelari”, le tutrici dell’ordine e del sistema di valori (o meglio, di disvalori) di Cosa nostra. Ma questo binomio “donne e mafia” ha seguito però la stessa sorte del rapporto delle donne con la storia. Così come le donne nella storia sono stata a lungo “invisibili”, altrettanto “invisibili” sono state le donne di mafia. Il loro ruolo “nelle organizzazioni mafiose – ha scritto Luciano Violante – è stato per lungo tempo sottovalutato, o addirittura ignorato, nelle indagini e nella pubblicistica in materia di criminalità organizzata”, nella giurisprudenza come nella letteratura. Perché? A rispondere sono due donne con professionalità diverse: Teresa Principato, sostituto procuratore presso la direzione Nazionale Antimafia, e la sociologa dell’Università di Palermo Alessandra Dino, le quali, imprimendo una svolta negli studi e nella letteratura in materia, hanno messo in evidenza l’errore di prospettiva per lungo tempo commesso e hanno individuato le cause della sottovalutazione del ruolo delle donne di mafia nello stereotipo, proposto e avallato dalle stesse organizzazioni criminali, secondo cui le figure femminili ne rimanevano escluse perché poco adatte allo svolgimento di mansioni criminali: insomma, le organizzazioni mafiose venivano presentate come cellule rigidamente monosessuali. Le donne della famiglia mafiosa non avevano una loro identità, ma erano le mogli, le figlie, le madri, le sorelle del boss, donne sottomesse, prive di individualità e schiacciate in una posizione di appartenenza all’uomo e al clan che impediva loro qualunque autonomia decisionale. Questo stereotipo, questo luogo comune non solo ha falsato la prospettiva degli studi criminologici, ma ha giocato anche un importante ruolo sul piano giudiziario, assicurando a lungo una quasi totale impunità alle donne che gravitavano nell’universo mafioso. Per anni i magistrati hanno ritenuto che esistesse un’incompatibilità tra la concezione che la mafia nutriva delle donne e la possibilità che esse avessero ruoli penalmente rilevanti. Il teorema era in sostanza il seguente: le donne di famiglia, in quanto soggette alla “legge del clan”, non possono essere considerate neppure pienamente complici perché agiscono per “causa di forza maggiore”. Nel corso degli ultimi anni, invece, gli studi hanno preso una direzione diversa: è emerso con chiarezza come la questione delle figure femminili all’interno della famiglia mafiosa potesse rappresentare un’utilissima chiave di lettura per comprendere lo stesso fenomeno mafioso, per penetrare più a fondo nelle logiche interne alle organizzazioni criminali e seguirne l’evoluzione. Sono state le stesse donne di mafia a contribuire a questo mutamento di prospettiva. Perché? Perché ad un certo momento – precisamente, quando la mafia ha vissuto il suo momento di crisi più acuta grazie ai collaboratori di giustizia, ai sempre più numerosi “pentiti” che con le loro rivelazioni stavano mettendo a repentaglio la stessa esistenza dell’organizzazione – ebbene, In quel momento quelle che per anni erano state mogli, figlie, sorelle o madri silenziose hanno cominciato a parlare. Queste donne, che all’interno di Cosa Nostra erano state e sono le custodi, coloro cui è stata affidata la conservazione e la trasmissione dei disvalori mafiosi, si sarebbero rivelate il più delle volte più conservatrici dei loro uomini. In sostanza, quando la “famiglia di sangue” entra in conflitto con la “famiglia mafiosa”, ecco che le donne escono allo scoperto. Lo squilibrio che si crea quando il proprio marito, fratello o figlio decide di collaborare con la giustizia impone loro di prendere posizione e di schierarsi con una delle due “famiglie”. Si assiste, così, a una sorprendente quantità di dichiarazioni di “scomunica” e di disprezzo verso chi ha tradito. C’è addirittura che, per difendere questo mondo di sopraffazione e di morte, è pronta a maledire e insultare chi tenta di liberarsi dall’abbraccio mortale del vincolo di affiliazione, a mettere in discussione persino il valore familiare “sacro” della maternità e rivoltarsi contro i propri figli (lo farà Giovanna Cannova, la madre di Rita Atria), a denigrare il proprio marito mettendone in dubbio l’affidabilità e persino la virilità. Lo fa Rosaria Basile, moglie di Vincenzo Scarantino, imputato della strage Borsellino e pentito (di recente però sbugiardato da Gaspare Spatuzza, il killer di Brancaccio), che accusa di omosessualit il marito e tenta in ogni modo di delegittimarlo come collaboratore di giustizia. Ma l’elenco è lunghissimo: alcune rinnegano i loro uomini accusandoli di infamità e di aver rovinato molte famiglie, altre riescono talvolta a convincere i loro uomini a ritrattare, a dimostrazione del “potere” che esercitano su quegli uomini, tanto da fare dire allo psicologo Innocenzo Fiore che il più delle volte per la riuscita o meno (del processo di pentimento) molto dipende dallo schierarsi delle donne a favore o contro. Improvvisamente le donne di mafia si “materializzano”, ma ciò induce gli studiosi e le studiose a riflettere: le terribili accuse lanciate contro i loro uomini delle parenti dei pentiti hanno infatti permesso di mettere a fuoco quanto importante sia sempre stato il ruolo delle donne di mafia, a riconsiderare la posizione marginale loro assegnata in passato e a parlare di una vera e propria “centralità sommersa” delle donne nell’organizzazione mafiosa. “Cosa nostra” non è affatto un mondo immutabile, tutt’altro: è assolutamente al passo con i tempi. Tant’è che, anche se la concezione della donna all’interno della cultura mafiosa continua ad essere, in condizioni di normalità assolutamente “arcaica” – l’uomo protegge e comanda, la donna si fa proteggere, obbedisce ed è assolutamente fedele (pena la morte) – nei momenti di necessit finisce, invece, per corrispondere ad una più generale evoluzione del ruolo della donna nella società contemporanea. Un’emancipazione che ha assunto forme ed esiti diversi, anzi addirittura contrapposti. In molti casi le donne di mafia si sono sostituite ai loro uomini, identificandosi pienamente nei valori negativi della “famiglia mafiosa”, divenendo a pieno titolo “l’altra metà della cupola mafiosa”, trasformandosi da affidabili fiancheggiatrici in vere e proprie guide: sono diventate donne-manager, abili amministratrici delle attività economiche dei loro uomini se non addirittura “boss in gonnella”, capaci legittimarsi come eredi del marito o del padre arrestato e di porsi a capo del crimine organizzato occupando il posto lasciato momentaneamente vuoto dai loro uomini. La più nota tra tutte è Giusy Vitale. Non è un caso che siano in netto aumento il numero delle donne denunciate per associazione mafiosa e non a caso dal 1996 hanno avuto inizio le prime applicazioni ad una donna del regime carcerario “duro” previsto dall’art. 41 bis del codice penale. Segno di una mutata prospettiva in ambiti giudiziario, ma anche dell’uso paradossale che queste donne hanno fatto di quella libertà notevolmente cresciuta in assenza dei loro “uomini8-padrtoni”. Per fortuna, accanto a queste donne che accusano i loro mariti o persino i loro figli di aver tradito le regole dell’onore o a quelle che prendono il posto dei loro uomini finiti nelle mani della giustizia, vene sono altre che, invece, hanno assunto una posizione diversa, alcune schierandosi pubblicamente a favore del pentitismo e dando sostegno al proprio uomo nella scelta di collaborazione, altre diventando esse stesse collaboratrici di giustizia. Quindi con una svolta a 360°, da donne di mafia sono diventate donne contro la mafia. Di alcune di queste donne ha tratteggiato una ricostruzione e commovente Nando Dalla Chiesa nel libro Le ribelli, il cui eloquente sottotitolo è Storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore. Sono sei ritratti di donne che “hanno saputo trasformare il loro dolore in testimonianza contro la mafia”: tre madri e tre sorelle. Le madri sono: Francesca Serio, Felicia Bartolotta e Saveria Antiochia. Francesca Serio era la madre del sindacalista Turiddu Carnevale, ucciso il 16 maggio 1955 dalla mafia di Sciara, la mafia del latifondo, o meglio dagli uomini della nobile famiglia Notarbartolo. Francesca fa i nomi degli assassini del figlio, divenendo – anche grazie al libro di Carlo Levi, Le parole sono pietre – un’icona dell’’antimafia e riuscendo a “conquistare” a conclusione del giudizio di primo grado una condanna all’ergastolo a carico sia degli autori materiali dell’omicidio del figlio, sia degli altri due mafiosi, rei di “concorso morale” quali istigatori di quel delitto. Felicia Bartolotta è la madre di Peppino Impastato, ucciso dai sicari di Tano Badalamenti la notte tra l’8 e il 9 maggio 1978. Con tenacia Felicia chiede e ottiene giustizia per il figlio Peppino: ergastolo per Gaetano Badalamenti e 30 anni per il suo vice Vito Palazzolo. E dopo il film di Marco Tullio Giordana, I cento passi, ottiene anche di più: quella solidarietà che le era stata a lungo negata nella piccola comunità di Cinisi. Saveria Antiochia è la madre di Roberto, il poliziotto ucciso a 23 anni il 6 agosto 1985 insieme al “suo” commissario, Ninni Cassarà, da una mafia diversa, sanguinaria, con forti coperture istituzionali, che aveva iniziato già da qualche anno una vera e propria mattanza con gli uomini dello Stato che svolgevano con onestà il proprio lavoro. Anche Saveria “dalle bellissime rughe” è protagonista di qualcosa di nuovo: non solo non si rinchiude nel suo dolore, ma lo scrive…In quel terribile agosto 1985, in cui oltretutto divampava la polemica per le contestazioni dei poliziotti della Squadra mobile di Palermo che denunciavano di sentirsi abbandonati in trincea a combattere da soli contro la mafia, abbandonati da uno Stato che in realtà, con i fatti, sembrava non volerla annientare, ebbene, in quei giorni drammatici Saveria Antiochia affida alle pagine del quotidiano “La Repubblica” una lettera durissima indirizzata al ministro degli Interni (Oscar Luigi Scalfaro) che – osserva Dalla Chiesa – “metteva insieme il lucido dolore della vittima e la rabbia dei poliziotti”. Inizia così la sua ribellione e il duo impegno nella lotta alla mafia, che diviene lotta per la legalità, tra i ragazzi delle scuole insieme all’associazione Libera fondata da Don Ciotti. Le sorelle sono Michela Buscemi, Rita Borsellino e Rita Atria. Michela Buscemi è sorella di Salvatore, contrabbandiere rissoso, ucciso dagli uomini di Filippo Marchese nel 1975, presumibilmente “per futili motivi”, e sorella quasi-madre di Rodolfo, ucciso nell’82 perché – scrive Dalla Chiesa_ “aveva il chiodo f isso di sapere chi avesse ucciso il fratello maggiore”. Michela, la sua svolta la imprime muovendosi all’interno di un ambiente che, se non è mafioso, certamente è terreno di coltura per la mafia. Ci vuole più coraggio, perciò, perché il rischio dell’isolamento ti stravolge la vita. Sostenuta dal marito o osteggiata dall’intera famiglia d’origine, Michela si costituisce parte civile nel maxi-processo che vede alla sbarra, tra Luciano Liggio e Michele Greco, anche gli assassini dei fratelli. E ottiene giustizia, almeno in primo grado: poi le minacce e il vuoto di attenzione durante il giudizio d’appello la costringeranno, infine, a ritirare la costituzione di parte civile… Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo, ucciso il 19 luglio 1992, è oggi nota per aver intrapreso la carriera politica. Ma la sua esistenza di tranquilla farmacista era già cambiata quello stesso 19 luglio 1992 quando – scriverà – nasceva a nuova vita: “da farmacista a testimone civile”, divenendo simbolo – insieme a tante altre donne che non possiamo qui ricordare tutte – della determinazione di condurre la lotta alla mafia con metodi e volti nuovi. Rita Atria, sorella di Nicola, che a differenza del padre, don Vito, uomo d’onore di Partanna, aveva fatto il salto di qualità ed era divenuto un giovane boss dello spaccio, ucciso il 24 giugno 1991. Alcune di queste donne avrebbero volentieri fatto a meno di entrare nella storia: è stata la storia che ne ha invaso tragicamente le vite trascinandole dentro di sé. Ma a quel punto sono diventate protagoniste: “si ribellano, sfidano la mafia per amore”, e in questa nostra terra non è cosa poco. Attraverso le loro storie, viene raccontata la storia della Repubblica che si intreccia con la storia della mafia e con la storia della lotta alla mafia, segnandone una svolta: dalla mafia del feudo – per intenderci, quella degli uomini al servizio del latifondo, campieri o gabelloti che controllavano il territorio e che, come il padre di Rita Atria, si alimentavano di potere e di prestigio più che di soldi e come tali erano onorati, riveriti, interpellati, assumendo anche le funzioni di giudici e mediatori, ricoprendo nella Sicilia rurale gli interstizi lasciati vuoti dallo Stato – a quella degli anni Sessanta e Settanta, quella del sacco edilizio, dei grandi appalti pubblici, frutto di un’alleanza forte e consolidata con uomini politici e amministratori locali, fino alla svolta del grande business venuto dall’America: il traffico di droga, che mette radici profonde nel terreno sterile della depressa economia siciliana e si intreccia con la mafia del racket, assumendo un volto sempre più violento e sanguinario. Ma vorrei ricordare anche altre due donne, meno note di quelle tratteggiate da Dalla Chiesa: Emanuela Loi, una giovanissima ragazza sarda che voleva emanciparsi attraverso il lavoro. Aveva preso il diploma di maestra elementare, ma è solo in polizia che trova una “sistemazione”. Non era diventata poliziotta per vocazione, ma perché voleva lavorare e il “posto” lo trova in polizia. L’assegnano al servizio scorte: farà parte della scorta del giudice Borsellino e anche a lei spetterà un primato: dopo quel tragico 19 luglio, sarà la prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio. Aveva 24 anni. (…) E infine parliamo di Rita Atria, la giovanissima Rita Atria, una ragazza di 17 anni diventata, dopo l’uccisione del padre e poi del fratello Nicola, testimone di giustizia come la cognata; Rita che, con determinata lucidità, dopo quel 29 luglio 1992, per l’immensa solitudine da cui si sarebbe sentita schiacciata, avrebbe deciso di togliersi la vita. (…) Spero che questo incontro, oltre a risarcire le donne di cui abbiamo parlato del vuoto di memoria che si addensa sulla loro persona, possa servire anche a sollecitare una cultura della legalità vissuta in prima persona, capace di sconfiggere la quotidiana cultura mafiosa così come si sconfigge un cancro, con tenacia, sapendo che può anche tornare. Vorrei concludere il mio intervento riprendendo il titolo di questo incontro, e in particolare l’ultimo dei tre termini: la legalità. Nel linguaggi giuridico e politico, il principio di legalità è una conquista della modernità: dopo la Rivoluzione Francese e il crollo dell’antico regime, in tutto il mondo occidentale si affermò il principio che “la legge è uguale per tutti” e che, pertanto anche tutti gli organi dello Stato sono tenuti ad agire secondo la legge e non in modo arbitrario. Nel linguaggio comune, ha assunto il significato di rispetto delle leggi dello Stato, io credo invece che legalità sia qualcosa in più dell’osservanza della legge. E’ insieme un concetto appreso – in famiglia, nei casi migliori ma non necessariamente, o a scuola o grazie ed un incontro con la persona o le persone giuste, capaci di infonderne il profondo senso etico e la funzione di garanzia della libertà individuale e collettiva – dicevo un concetto appreso che diventa sentimento, che assume il valore della “presa di coscienza”. Significa acquisire consapevolezza della necessaria reciprocità dei diritti fra persone della stessa dignità, una consapevolezza che finisce per insinuarsi in ogni nostra azione quotidiana, che “cambia la percezione dei colori”. LEGALITA’ significa, quindi, non solo astenersi dal commettere un reato o una qualsiasi altra violazione di legge, ma significa ripudiare la prepotenza e la prevaricazione e comportarsi, pressoché d’istinto, secondo principi come il “senso di giustizia” e il “rispetto per tutti”: per i nostrr4i simili e per coloro che sono diversi da noi. Se la legalità è dentro di noi, è parte del nostro quotidiano, si esprimerà in mille modi: sia cercando un cestino dove gettare un fazzolettino di carta, per evitare di buttarlo a terra, sia pagando le tasse, sia denunciando l’estorsore che chiede il pizzo o evitando di chiedete la raccomandazione, il favore piuttosto che pretendere che siano riconosciuti i nostri diritti di cittadino. Legalità è anche strumento di libertà, in particolare libertà dalla mafia, che nei nostri territori significa soprattutto libertà di fare impresa e di contribuire allo sviluppo dell’intera comunità. legalità significa, insomma, vivere liberi, vivere nella normalità il senso di giustizia, il senso del dovere, cose che invece in questo nostro Paese sono sempre più “anormali” e fanno diventare eroi ed eroine quelle persone – poche e rare – che così si comportano. E tra queste Piera Aiello, che ci ha fatto l’enorme regalo è di essere qui con noi a raccontare, con semplicità, la sua storia, la storia della sua vita, che semplice non è davvero. M. Antonella Cocchiara APPUNTI La componente femminile è presente nel movimento antimafia fin dai primi anni '80, con la nascita dell'Associazione donne siciliane per la lotta contro la mafia, promossa da donne che hanno voluto continuare in modo diverso una militanza iniziata in partiti e movimenti politici e da vedove di magistrati e di altri funzionari dello Stato uccisi dalla mafia. Ad aiutare queste donne nel momento di maggiore esposizione sono stati soltanto il Centro Impastato e l'Associazione donne contro la mafia BIBLIOGRAFIA • Nando Dalla Chiesa, Le ribelli, Edizioni Melampo, 2006 • Puglisi Anna, Sole contro la mafia, La Luna, Palermo 1990. • Anna Puglisi, Donne, mafia, antimafia, Centro Impastato, Palermo 1994 • Bartolotta Impastato Felicia, La mafia in casa mia, intervista di A. Puglisi e U. Santino, La Luna, Palermo 1986. FILMOGRAFIA • La siciliana ribelle, 2009 (Marco Amenta) • Donne di mafia, 2005 (Giuseppe Ferrara) • Angela, 2002 (Roberta Torre) • I cento passi, 200 (Marco Tullio Giordana) SITOGRAFIA • http://www.ritaatria.it/RitaAtria.aspx • http://www.centroimpastato.it/ COLLABORATORI E TESTIMONI DI GIUSTIZIA Esiste una netta differenza tra i collaboratori e i testimoni di giustizia. Infatti, mentre i primi sono persone che hanno un passato di appartenenza ad una organizzazione criminale o mafiosa i secondi sono cittadini incensurati. I collaboratori sottoscrivono un "contratto" con lo Stato basato sulla fornitura di informazioni provenienti dall'interno dell'organizzazione criminale in cambio di benefici processuali, penali e penitenziari, della protezione e del sostegno economico per sé e per i propri famigliari. I testimoni invece forniscono la loro testimonianza relativamente all'accadimento di un fatto delittuoso e per tale ragione godono di una protezione da parte degli organi dello Stato appositamente creati. In molti casi si tratta di commercianti che si rifiutano di pagare il "pizzo" o di persone non più disposte a continuare a pagare interessi a tassi usurai concessi loro da membri dell'organizzazione mafiosa. I collaboratori di giustizia, che in gergo giornalistico vengono definiti "pentiti", sono un elemento indispensabile nella lotta contro le mafie, così come per altri versanti lo sono stati negli anni '70 e '80 del secolo scorso relativamente al fenomeno del terrorismo. (legge 1991)