PIERPAOLO PASOLINI: ACCATTONE Considerazioni introduttive Accattone (1961) nasce dalla suggestione della grande stagione neorealistica (scenari della periferia, volti popolari di attori non professionisti, uso del dialetto, denuncia sociale, mancanza di qualsiasi intento evasivo e spettacolare, rifiuto dello studio e predilezione per gli ambienti naturali), ma sviluppa un progetto stilistico originale che dal neorealismo si discosta notevolmente. Pasolini stesso in vari scritti sottolinea le differenze tra il suo modo di fare cinema e il neorealismo: (pag.33) Inoltre Pasolini non segue l’altro mito neorealista, quello dell’abolizione della sceneggiatura sostituita dall’improvvisazione: dichiara anzi di essersi attenuto rigidamente alla sceneggiatura stessa. Tra i suoi modelli estetici non c’è Rossellini, ma ci sono Dreyer e la pittura (Giotto, Masaccio). Lo spazio rappresentato in Accattone è quello della borgata romana di periferia, dove il poeta elitario e il ragazzo di vita si trovano uniti sullo stesso fronte della diversità, che è sessuale ed estetica per il primo, sociale ed esistenziale per il secondo. Ma in entrambi i casi la distanza dai modelli piccolo-borghesi di integrazione e dai valori correnti è radicale. Nella borgata ritroviamo i reietti, gli emarginati, forme di vita selvagge non integrate nel tessuto urbano, prodotte e insieme cancellate dai processi di civilizzazione. Le sue caratteristiche sono quelle dell’isola, che stabilisce con la città dei rapporti di tipo mercenario, il furto o la prostituzione. Ma questo spazio arcaico, pre-storico, è lo spazio di una resistenza ai processi degenerativi di modernizzazione, ed assume un carattere sacro e mitico. Il sottoproletariato escluso dai processi di integrazione sociale si abbandona alle pulsioni elementari dell’esistenza, è pura energia vitale, fisicità allo stato primordiale e animale, delinquenza piena di innocenza. La sua figura, come quella del paesaggio in cui si immerge, assume una connotazione metafisica e simbolica, così come il linguaggio dialettale, trasfigurato poeticamente; il fondo religioso è quello pagano, contaminato da un cattolicesimo esteriore e pervaso da una forte tensione verso la morte. La borgata ha un aspetto africano e arabo: conserva i tratti di un’era preindustriale ei suoi violenti contrasti sono gli stessi che successivamente Pasolini troverà nel Terzo Mondo. I sottoproletari non hanno il senso del peccato, la loro purezza è tutta affidata all’incoscienza, al loro essere fuori della storia, impegnati nella soddisfazione di bisogni elementari. Così appare a Pasolini la borgata nel 1961, come un universo incontaminato, immerso in una temporalit mitica, ma di lì a pochi anni sarà costretto a registrare la progressiva perdita di questa aura sacrale, sotto la pressione dei modelli di vita provenienti dalla nuova civiltà del benessere e dal consumismo. Accattone è legato indiscutibilmente alla narrativa e alla poesia pasoliniana degli anni ’50; lo stesso autore afferma che Accattone riprende Una vita violenta perché segue il percorso individuale di un personaggio, e Ragazzi di vita perché privo di speranza. Il cinema, oltre che un nuovo mezzo espressivo che impone una riscrittura alle tematiche a lui più care in quegli anni, appare una forma di reazione ad una società letteraria in cui non si riconosce più; rappresenta un linguaggio transnazionale e transclassista, permette inoltre di cogliere la realtà fisica ed esistenziale con maggior pregnanza, è una forma d’arte più vicina alla poesia, alla lirica, che al racconto, come afferma lo stesso autore. Il lavoro di regia Come lavora Pasolini sul set? 1) Si affida ad attori non professionisti e riprende luoghi autentici: questo esprime la volontà di usare il set come luogo di contatto con le forme viventi, di regresso in uno spazio religioso. Agli attori si chiede di recitare se stessi con il linguaggio dei loro gesti e comportamenti. Accattone non è interpretato da Franco Citti, ma è Franco Citti, un ragazzo della Marranella, conosciuto nel ’51, fratello di Sergio a cui Pasolini attribuisce la funzione essenziale di un vero e proprio dizionario vivente. Franco è preda della stessa “incertezza d’esistenza”, dell’angoscia di Accattone, e come lui reagisce ad essa con la “propria violenza e prestanza fisica”, con scatti violenti. Accanto a Franco troviamo una schiera di giovani borgatari, reclutati fra i quartieri romani di Torpignattara e del Pigneto. 2) Filmando i corpi reali dei sottoproletari, non insegue nessun mito dell’improvvisazione e della spontaneità: i suoi doppiatori pronunciano le stesse battute del copione. Pasolini lavora sulla disintegrazione dell’unità della persona, separando il visivo dall’uditivo, e attribuendo al personaggio in tal modo una dimensione non naturalistica ma trasfigurante. 3) A Pasolini non interessano gli attori, ma i corpi: i segni antropologici ed esistenziali iscritti nelle loro fisionomie. L’attore è prima di tutto un materiale plastico, che è animato dallo sguardo del regista, il quale costruisce la sua figura come un pittore, attraverso il punto di vista e la luce. Più che colto sul vivo, l’attore viene dunque estratto dalla realtà e sottoposto ad un processo di manipolazione stilistica. 4) Più volte Pasolini sottolinea la matrice pittorica del suo gusto cinematografico (pagg.115-117): l’inquadratura è concepita come un quadro, e perciò a lui interessa la grana dell’immagine con gli effetti materici di superficie, come accadrebbe ad un pittore. Privilegia le inquadrature frontali, le mezze figure e i primi piani (anche i campi medi e lunghi), e preferisce la staticità al dinamismo (movimenti di macchina più semplici, panoramica, panoramica a stazioni, carrello quando Accattone cammina per strada). A tal proposito Pasolini parla di “sacralità tecnica” di Accattone, intendendo con questo termine i mezzi stilistico-espressivi usati (panoramiche, frontalità=sacralità, modo di trattare lo schermo come una tela, sottrazione di naturalit all’immagine, insistenza sugli effetti della luce, del chiaroscuro etc), in cui risiede l’intima religiosità del film: in questo modo egli trasforma l’infimo in sublime, trasformando i miserabili personaggi del film in figure di pale d’altare. 5) Anche la musica, tratta dalla Passione secondo Matteo di Bach, contribuisce ad accentuare l’aspetto non realistico ma simbolico ed allegorico del film: secondo Pasolini la musica fornisce una sorta di profondità alle immagini bidimensionali dello schermo, inoltre ponendosi in contrasto con la triviale materia trattata, ci fa capire che per gli emarginati e i malvagi, se esiste la sofferenza e la “passione”, può esistere anche la redenzione. 6) La citazione dantesca dal canto V del Purgatorio, posta ad inizio film, è un altro elemento che ci consente di interpretare il film come una parabola sacra. Bibliografia S.Parigi, Pierpaolo Pasolini/Accattone, Lindau, 2008 G.Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Laterza, 1998 AA.VV. Il filo rosso, Laterza, 2006 Elementi di una simbologia angelica e cristologica Il personaggio di Accattone è una sorta di angelo caduto, come è evidente nella scena iniziale del film, il tuffo dal Ponte Sant’Angelo. A questa scena si richiama quella successiva a conclusione della sequenza della balera: Accattone vuole nuovamente gettarsi dal ponte ma viene fermato in tempo dagli amici. Questa volta la sua voluttà di morte si esprime attraverso l’interramento (il suo volto affondato nella sabbia appare come una maschera funebre e diabolica insieme). Ai rintocchi delle campane della scena iniziale si sostituiscono le note di un blues. In Accattone convivono dunque i contrasti: nero e bianco, basso e alto, diavolo e angelo. Inoltre tutto il film è pervaso dalle immagini della croce, per cui si può dire che la vicenda di Accattone sia una sorta di via crucis e che il personaggio, nelle interpretazioni di vari critici (Miccichè, Parigi), abbia i caratteri della vittima sacrificale. Vediamo i segni della croce presenti nel film: quello di Accattone prima del tuffo dal ponte, del Balilla vicino alla fontana, quando passa Accattone per andare dalla moglie Ascenza, del Balilla nel sogno del funerale, e infine del Balilla sul cadavere non virtuale ma reale di Accattone (si tratta di un segno fatto all’incontrario, mentre sullo sfondo compare il monte del Testaccio con la croce, come a simboleggiare il Golgota). Anche Stella si fa il segno della croce quando passa davanti alla facciata di una chiesa moderna della periferia romana. Il nome di Stella è una maschera verbale piuttosto esplicita: è la versione moderna della donna angelicata che indica la via del bene e dell’amore. Pensiamo all’atteggiamento di Accattone quando la vede per la prima volta: si stropiccia gli occhi come davanti ad una visione ultraterrena, è incredulo che sia romana, la percepisce come una straniera venuta da lontano. L’amore è sottolineato sempre dal Concerto brandeburghese n.2. Maddalena invece è la prostituta tragica del Vangelo, a cui però è negata qualunque redenzione. Le allusioni biblico-evangeliche sono molto presenti anche nei dialoghi del film. Anche il banchetto iniziale è una sorta di parodia dell’ultima cena. Sono inoltre presenti nel film immagini di bambini con forme di putti pagani o angioletti cristiani. Da sottolineare però che i simboli cristiani si innestano su un terreno profondamente pagano, che forma la religiosità istintiva dei personaggi della borgata. La struttura del testo filmico: l’anafora La struttura ritmica del film: il calvario e la tragedia Sia nel film che nei romanzi il tempo appare più rituale (ciclico, legato all’alternanza del giorno e della notte), che lineare e narrativo. Da sottolineare la ciclica presenza del bar con il gruppo di amici, che Miccichè ha paragonato al coro della tragedia greca (funzione di commento delle azioni di Accattone). In questo senso la dinamica del film può essere assimilata più ad una tragedia che ad un romanzo. Attraverso la scena del bar la storia di Accattone si configura come un calvario di cui vengono scandite le diverse stazioni: la scommessa con la morte, il fermo di polizia, la perdita del sostentamento, la fame, l’amore, l’abbruttimento del lavoro. L’anafora è la chiave espressiva di Accattone, responsabile del suo ritmo: per alcuni critici la ripetizione della scena del bar è assimilabile al ritornello di una poesia, che separa le strofe (poesia religiosa, recita del rosario). Non è forse un caso che nella scena iniziale del bar gli amici siano dodici, come gli Apostoli, e che il banchetto evochi una parodia dell’ultima cena; ma si tratta di discepoli eretici che accompagnano, come compagni di sventura, le stazioni della degradazione di Accattone. Simmetrie e ripetizioni nel film * Due scene sul fiume, legate ad una scommessa e al salto dal ponte * Il ponte del Testaccio è legato al suo incidente mortale * Per tre volte appare la strada delle prostitute * Il ritorno di Accattone a casa è caratterizzato quasi sempre dalla comparsa di un ragazzino * Al deposito di bottiglie il protagonista si reca due volte, e in entrambi i casi si tratta della fine del lavoro (tempo dell’attesa); segue una camminata, con Ascenza o con Stella * L’incontro con il Balilla alla fontana e la visione del funerale sono ripetuti due volte con piccoli cambiamenti dovuti al trapasso dalla realtà alla dimensione del sogno * Scucchia compare all’inizio del film con i fiori mentre commenta la morte, e analogamente nella sequenza finale, quasi a prefigurare la morte di Accattone * L’intermittenza caratterizza anche l’inquadratura degli occhi del poliziotto che spia Accattone (compare per ben cinque volte) * La panoramica sui volti compare più volte nel film * Sono frequenti i movimenti di andata e ritorno delle panoramiche in successione (da destra a sinistra e viceversa) Questi movimenti di macchina hanno una funzione ritmica e rituale, non descrittiva e narrativa, tendono a creare un ritmo, dei ritornelli, conferendo al tutto un carattere sacrale. Spunti di riflessione 1) Identifica nel film i simboli del cattolicesimo, talora intesi anche in modo parodistico. 2) Quali strutture o immagini si ripetono più frequentemente nel film? 3) Qual è la funzione della musica nel film? Come cambia la musica a seconda delle scene? 4) La critica ha parlato di contaminazione degli stili per Pasolini, cioè di mescolanza dell’alto e del basso: come si realizza concretamente tale contaminazione?Grazie a quali mezzi? 5) Ci sono elementi di morte che prefigurano il tragico epilogo diffusi in tutto il film: puoi evidenziarne qualcuno? 6) Perché, a tuo avviso, Pasolini ha rappresentato la vicenda di Accattone con simboli tratti dall’immaginario cristiano? 7) Quale significato attribuisci al sogno di Accattone? 8) Come si caratterizza la luce nel film? 9) Secondo te esiste una possibilità di redenzione per Accattone? 10) Quali sono gli spazi nel film? Prova a identificarli e descriverli. 11) Come si struttura il tempo nel film? 12) Quale valutazione del personaggio sei in grado di dare? 13) Qual è la tua personale interpretazione del film? 14) Quale sequenza o scena ti ha colpito particolarmente e perché? Uno sguardo a ritroso: «Il mio "Accattone" in tv dopo il genocidio» Quando Accattone è uscito, benché fossimo agli inizi di quello che veniva chiamato «boom» (parola che ci fa già sorridere come «belle epoque» o «stile aerodinamico»), eravamo in un'altra età. Un'età repressiva. Niente era in realtà cambiato - attraverso tutti gli anni '50 - di ciò che aveva caratterizzato 1'Italia negli anni '40 e prima. La continuità tra il Regime fascista e il Regime de-mocristiano era ancora perfetta. In Accattone due fenomeni di tale continuità sono impressionanti: primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia. [...] Nel 1961 Accattone ha scatenato fenomeni di «razzismo» per la prima volta espliciti in Italia. [...] Nel 1961 i borghesi vedevano nel sottoproletariato il male, esattamente come i razzisti americani lo vedevano nell'universo negro. E allora, del resto, i sottoproletari erano «negri» a tutti gli effetti. La loro «cultura» - una «cultura particolaristica», nel quadro di una più vasta cultura a sua volta «particolaristica», quella contadina meridionale - dava ai sottoproletari romani non solo degli originali «tratti» psicologici, ma addirittura degli originali «tratti» fisici. Creava una vera e propria «razza». Lo spettatore di oggi può constatarlo vedendo i personaggi di Accattone. Nessuno dei quali - lo ripeto per la millesima volta - era attore: e in quanto se stesso era proprio se stesso. La sua realtà veniva rappresentata attraverso la sua realtà. Quei «corpi» erano così nella vita come nello schermo. La loro «culrura», tanto profondamente diversa da creare addirittura una «razza», forniva ai sottoproletari romani una morale e una filosofia da classe «dominata», che la classe «dominante» si accontentava di «dominare» poliziescamente, senza curarsi di evangelizzarla, cioé di costringerla ad assorbire la propria ideologia (nella fattispecie un ripugnante cattolicesimo puramente formale). Lasciata per secoli a se stessa, cioe alla propria immobilità, quella cultura aveva elaborato valori e modelli di comportamento assoluti. Niente poteva metterli in discussione. Come in tutte le culture popolari, i «figli» ricreavano i «padri»: prendevano il loro posto, ripetendoli (cosa che costituisce il senso delle «caste», che noi razzisticamente, e con tanto sprezzante razionalismo «eurocentrico» ci gratifichiamo di condannare). Mai nessuna rivoluzione interna a quella cultura, dunque. La tradizione era la vita stessa. Valori e modelli passavano immutabili dai padri ai figli. Eppure c'era una continua rigenerazione. Basta osservare la loro lingua (che ora non esiste più): essa era continuamente in-ventata, benche i modelli lessicali e grammaticali fossero sempre gli stessi. Non c'era un solo istante della giornata - nella cerchia delle borgate che costituivano una grandiosa metropoli plebea -in cui non risuonasse nelle strade o nei lotti una «invenzione» linguistica. Segno che si trattava di una «cultura viva». In Accattone tutto ciò è rappresentato fedelmente (e lo si vede soprattutto se si legge Accattone in un certo modo, escludendo la presenza del mio estetismo funebre). Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. E si tratta precisamente di uno di quei genocidi culturali che avevano preceduto i genocidi fisici di Hitler. Se io avessi fatto un lungo viaggio, e fossi tornato dopo alcuni anni, andando in giro per la «grandiosa metropoli plebea», avrei avuto 1'impressione che tutti i suoi abitanti fossero stati deportati e sterminati, sostituiti, per le strade e nei lotti, da slavati, feroci, infelici fantasmi. Le SS di Hitler, appunto. I giovani - svuotati dei loro valori e dei loro modelli - come del loro sangue - e divenuti larvali calchi di un altro modo di essere e di concepire 1'essere: quello piccolo-borghese. Se io oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo «corpo» neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato se stessi in Accattone. Non troverei più un solo giovane che sapesse dire, con quella voce, quelle battute. Non soltanto egli non avrebbe lo spirito e la mentalità per dirle, ma addirittura non le capirebbe nemmeno. [...] È difficile immaginare gente simpatica (al di fuori dei sentimentalismi borghesi) come quella del mondo di Accattone, cioé della cultura sottoproletaria e proletaria di Roma fino a dieci anni fa. II genocidio ha cancellato per sempre dalla faccia della terra quei personaggi. Al loro posto ci sono quei loro «sostituti», che, come ho avuto già occasione di dire, sono invece i personaggi più odiosi del mondo. Ecco perché dicevo che Accattone, visto come un reperto sociologico, non può che essere un fenomeno tragico. Da P. Pasolini, Il mio «Accattone» in tv dopo il genocidio, «Corriere della Sera», 8 ottobre 1975. ACCATTONE SECONDO PASOLINI Accattone è nato in un momento di sconforto, cioé durante l´estate del governo Tambroni, e perciò in un certo senso Accattone è una regressione rispetto a Una vita violenta. Una vita violen-ta era nata negli anni '50 prima della crisi stalinista, cioé quando ancora la speranza, così come si era configurata prospetticamen-te con la Resistenza e nell'immediato dopoguerra, era ancora viva, era un fatto reale, che rendeva parimenti viva e reale la pro-spettiva di Una vita violenta, cioé il passaggio di Tommaso Puz-zilli attraverso fasi contraddittorie, dal puro teppismo-fascismo, alla tentazione della vita per bene democratica, finalmente al comunismo. Questo in Accattone non c'è; ed effettivamente da un punto di vista strettamente, diciamo così, di precettistica co-munista, Accattone torna indietro ed è un po' un'involuzione rispetto a Una vita violenta. Nel libro avevo fornito, oltre a una denuncia sociale, descri-vendo un certo ambiente, anche esplicitamente una soluzione dei problemi di questo mondo, facendo sì che il mio personag-gio facesse una scelta dichiarata, scegliesse cioé il partito comunista, benché confusamente. Invece in Accattone, un po' come in Ragazzi di vita, il problema sociale si limita a essere una denuncia, un dato di fatto, che assume maggiore importanza in quanto Ragazzi di vita era ancora una denuncia che avveniva nel tramonto del dopoguerra, era una cosa un po' ovvia; mentre Accattone si presenta nel tempo del benessere capitalistico, quindi la stessa denuncia è più cruda, ovvero viene a dire che metà Italia, da Roma in giù, non è 1'Italia del benessere capitalistico. Ma non c'è il problema affrontato esplicitamente, e il problema politico rimane incarnato, incorporato, impastato nella vicenda stessa di Accattone^2. In realtà la «crisi» di Accattone e una crisi totalmente individuale: si compie non solo nell'ambito della sua irriflessa e inconscia personalità, ma nell'ambito della sua irriflessa e inconscia condizione sociale. [...] Mi sono affacciato a guardare quello che succedeva dentro l´anima di un sottoproletario della periferia ro-mana (insisto a dire che non si tratta di una eccezione ma di un caso tipico di almeno metà Italia) e vi ho riconosciuto tutti gli antichi mali (e tutto 1'antico, innocente bene della pura vita). Non potevo non constatare: la sua miseria materiale e morale, la sua feroce e inutile ironia, la sua ansia sbandata e ossessa, la sua pigrizia sprezzante, la sua sessualità senza ideali, e, insieme a tutto questo, il suo atavico, superstizioso cattolicesimo di pagano. Perciò egli sogna di morire e di andare in Paradiso. Perciò soltanto la morte può «fissare» un suo pallido e confuso atto di reden-zione. Non c'è altra soluzione intorno a lui, come intorno a un enorme numero di persone simili a lui. È molto, ma molto più raro, un caso come quello di Tommasino che un caso come quello di Accattone. Con Tommasino ho dato un dramma, con Accattone una tragedia: una tragedia senza speranza, perché mi auguro che pochi saranno gli spettatori che vedranno un significato di speranza nel segno della croce con cui il film si conclude^3. II sottoproletariato [...] è solo apparentemente contemporaneo alla nostra storia, le caratteristiche del sottoproletariato sono preistoriche, addirittura precristiane, il mondo morale di un sottoproletario non conosce cristianesimo. I miei personaggi, per esempio, non sanno cos'è 1'amore in senso cristiano, la loro morale è la morale tipica di tutto il meridione d'ltalia, che è fondata sull'onore. La filosofia di questi personaggi, benché ridotta a brandelli, ai minimi termini, è una filosofia precristiana di tipo storico epicureo, soprawissuta al mondo romano e passata indenne attraverso le dominazioni bizantine, papaline e borboniche. Praticamente il mondo psicologico del sottoproletariato è preistorico, mentre il mondo borghese è evidentemente il mondo della storia. [...] La mia visione del mondo è sempre nel suo fondo di tipo epico-religioso; quindi anche e soprattutto in personaggi miserabili, personaggi che sono al di fuori di una coscienza storica, e nella fattispecie, di una coscienza borghese, questi elementi epico-religiosi giocano un ruolo molto importante. La miseria è sempre, per sua intima caratteristica, epica, e gli elementi che giocano nella psicologia di un miserabile, di un povero, di un sottoproletario, sono sempre in certo qual modo puri perché privi di coscienza e quindi essenziali. La musica, diciamo, è l'elemento di punta, l'elemento clamoroso, la veste quasi esteriore di un fatto linguistico più interno. [...] Non è che la veste, ripeto, di un modo di girare, di vedere le cose, di sentire i personaggi, modo che si realizza nella fissità, in un certo senso ieratica, delle mie inquadrature [...], fissità - che io scherzosamente chiamo romanica - dei personaggi, nella frontalità delle inquadrature, nella semplicità quasi austera, quasi solenne delle panoramiche^4. In tanti hanno parlato dell'intima religione di Accattone, della fatalità della sua psicologia [...]. Solo attraverso i procedimenti tecnici e gli stilismi è riconoscibile il valore reale di quella religiosità: che si fa approssimativa e «giornalistica» in chi la identifichi nei contenuti, espliciti o impliciti. In definitiva, la religiosità non era tanto nel supremo bisogno di salvezza perso-nale del personaggio (da sfruttatore a ladro!). O, dall'esterno, nella fatalità che tutto determina e conclude, di un segno di cro-ce finale, ma era «nel modo di vedere il mondo»: nella sacralità tecnica del vederlo^5. In Accattone mancano moltissimi degli accorgimenti tecnici che vengono generalmente usati: in Accattone non c'è mai un'in-quadratura, in primo piano o no, in cui si veda una persona di spalle o di quinta; non c'è mai un personaggio che entri in cam-po e poi esca di campo; non c'è mai 1'uso del dolly, con i suoi movimenti sinuosi, «impressionistici», rarissimamente vi sono dei primi piani di profilo o, se ci sono, sono in movimento. [...] Per me tutte queste caratteristiche che ho qui elencato fret-tolosamente, sono dovute al fatto che il mio gusto cinematogra-fico non è di origine cinematografica, ma figurativa. Quello che io ho in testa come visione, come campo visivo, sono gli affre-schi di Masaccio, di Giotto - che sono i pittori che amo di più, assieme a certi manieristi (per esempio il Pontormo). E non rie-sco a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica, che ha 1'uomo come centro di ogni prospettiva. Quindi, quando le mie immagini sono in movimento, sono in movimento un po' come se 1'obiettivo si muovesse su loro sopra un quadro; concepisco sempre il fondo come il fondo di un quadro, come uno scenario, e per questo lo aggredisco sempre frontalmente. E le figure si muovono su questo fondo sempre in maniera simmetrica, per quanto è possibile: primo piano contro primo piano, panoramica di andata contro panoramica di ritorno, ritmi regolari (possibilmente ternari) di campi, ecc. ecc. Non c'è quasi mai un accavallarsi di primi piani e di campi lunghi. Le figure in campo lungo sono sfondo e le figure in primo piano si muovono in questo sfondo, seguite da panoramiche, ripeto, quasi sempre simmetriche, come se io in un quadro - dove, appunto, le figure non possono essere che ferme - girassi lo sguardo per vedere meglio i particolari. Sicché la mia macchina da presa si muove su fondi e figure sentiti sostanzialmente come immobili e profondamente chiaroscurati^6. ^1 Una visione del mondo epico-religiosa, colloquio con gli studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia, «Bianco e Nero», n. 6, giugno 1964. ^ ^2 Le opinioni di Pasolini su..., «Sirena», supplemento, dicembre 1961. ^3 Accattone e Tommasino, «Vie Nuove», 1° luglio 1961. ^4 Una visione del mondo epico-religiosa cit. 5 Confessioni tecniche, in P.P.P., Uccellacci e uccellini, Garzanti, Milano 1966. ^ ^6 Diario al registratore, in P.P.P., Mamma Roma, Rizzoli, Milano 1962.^