Uno sguardo a ritroso: «Il mio "Accattone" in tv dopo il genocidio» Quando Accattone è uscito, benché fossimo agli inizi di quello che veniva chiamato «boom» (parola che ci fa già sorridere come «belle epoque» o «stile aerodinamico»), eravamo in un'altra età. Un'età repressiva. Niente era in realtà cambiato - attraverso tutti gli anni '50 - di ciò che aveva caratterizzato 1'Italia negli anni '40 e prima. La continuità tra il Regime fascista e il Regime de-mocristiano era ancora perfetta. In Accattone due fenomeni di tale continuità sono impressionanti: primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia. [...] Nel 1961 Accattone ha scatenato fenomeni di «razzismo» per la prima volta espliciti in Italia. [...] Nel 1961 i borghesi vedevano nel sottoproletariato il male, esattamente come i razzisti americani lo vedevano nell'universo negro. E allora, del resto, i sottoproletari erano «negri» a tutti gli effetti. La loro «cultura» - una «cultura particolaristica», nel quadro di una più vasta cultura a sua volta «particolaristica», quella contadina meridionale - dava ai sottoproletari romani non solo degli originali «tratti» psicologici, ma addirittura degli originali «tratti» fisici. Creava una vera e propria «razza». Lo spettatore di oggi può constatarlo vedendo i personaggi di Accattone. Nessuno dei quali - lo ripeto per la millesima volta - era attore: e in quanto se stesso era proprio se stesso. La sua realtà veniva rappresentata attraverso la sua realtà. Quei «corpi» erano così nella vita come nello schermo. La loro «culrura», tanto profondamente diversa da creare addirittura una «razza», forniva ai sottoproletari romani una morale e una filosofia da classe «dominata», che la classe «dominante» si accontentava di «dominare» poliziescamente, senza curarsi di evangelizzarla, cioé di costringerla ad assorbire la propria ideologia (nella fattispecie un ripugnante cattolicesimo puramente formale). Lasciata per secoli a se stessa, cioe alla propria immobilità, quella cultura aveva elaborato valori e modelli di comportamento assoluti. Niente poteva metterli in discussione. Come in tutte le culture popolari, i «figli» ricreavano i «padri»: prendevano il loro posto, ripetendoli (cosa che costituisce il senso delle «caste», che noi razzisticamente, e con tanto sprezzante razionalismo «eurocentrico» ci gratifichiamo di condannare). Mai nessuna rivoluzione interna a quella cultura, dunque. La tradizione era la vita stessa. Valori e modelli passavano immutabili dai padri ai figli. Eppure c'era una continua rigenerazione. Basta osservare la loro lingua (che ora non esiste più): essa era continuamente in-ventata, benche i modelli lessicali e grammaticali fossero sempre gli stessi. Non c'era un solo istante della giornata - nella cerchia delle borgate che costituivano una grandiosa metropoli plebea -in cui non risuonasse nelle strade o nei lotti una «invenzione» linguistica. Segno che si trattava di una «cultura viva». In Accattone tutto ciò è rappresentato fedelmente (e lo si vede soprattutto se si legge Accattone in un certo modo, escludendo la presenza del mio estetismo funebre). Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. E si tratta precisamente di uno di quei genocidi culturali che avevano preceduto i genocidi fisici di Hitler. Se io avessi fatto un lungo viaggio, e fossi tornato dopo alcuni anni, andando in giro per la «grandiosa metropoli plebea», avrei avuto 1'impressione che tutti i suoi abitanti fossero stati deportati e sterminati, sostituiti, per le strade e nei lotti, da slavati, feroci, infelici fantasmi. Le SS di Hitler, appunto. I giovani - svuotati dei loro valori e dei loro modelli - come del loro sangue - e divenuti larvali calchi di un altro modo di essere e di concepire 1'essere: quello piccolo-borghese. Se io oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo «corpo» neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato se stessi in Accattone. Non troverei più un solo giovane che sapesse dire, con quella voce, quelle battute. Non soltanto egli non avrebbe lo spirito e la mentalità per dirle, ma addirittura non le capirebbe nemmeno. [...] È difficile immaginare gente simpatica (al di fuori dei sentimentalismi borghesi) come quella del mondo di Accattone, cioé della cultura sottoproletaria e proletaria di Roma fino a dieci anni fa. II genocidio ha cancellato per sempre dalla faccia della terra quei personaggi. Al loro posto ci sono quei loro «sostituti», che, come ho avuto già occasione di dire, sono invece i personaggi più odiosi del mondo. Ecco perché dicevo che Accattone, visto come un reperto sociologico, non può che essere un fenomeno tragico. Da P. Pasolini, Il mio «Accattone» in tv dopo il genocidio, «Corriere della Sera», 8 ottobre 1975.