I linguaggi del bosco (V. Consolo) «Deve cambiare aria» sentenziò il dottor Liotta, il medico di famiglia. «Aria di montagna. Al bosco, al bosco della Miraglia!» La sentenza riguardava me, appena uscito da una polmonite che mi aveva debilitato, lasciato piccolo e magro, con un toracino d’uccello. Zigaga era il soprannome che mi avevano appioppato i fratelli, zirlo, pìspola. E devo essere grato a quel vecchio medico paterno che ci aveva curato tutti noi otto figli (malaria, morbillo, rosolìa, orecchioni, ferite, frattura d’ossa), perché mi diede modo così di andare “a cambiamento d’aria” al bosco della Miraglia. Era l’estate del ’38. «Ho parlato col casellante di Ciccardo. Ci dà in affitto il primo piano» disse mio padre, che allora faceva viaggi col suo camion nuovo fiammante nel bosco e trasportava legna per la centrale elettrica del mio paese. [...] Alloggiammo dunque al casello di Ciccardo, io, mia madre e due mie sorelle, al primo piano, sopra la famiglia forestale. Era una famiglia di San Piero Patti, padre, madre e due figlie. Avevano nomi da regine, le due figlie: Eleonora e Amalia. Ed Eleonora, la grande, una signorina di diciassette o diciott’anni, mi sembrava proprio una regina. Era alta, bella, chiara, ordinata e dignitosa, i capelli dorati raccolti in una grande crocchia sulla nuca. Eleonora lavorava in casa, usciva solo davanti allo spiazzo del casello, e si metteva alla finestra a pianterreno, il pomeriggio, quando scendevano verso San Fratello, passando a cavallo sulla strada, pastori, carbonai e boscaioli. Si capiva che Eleonora era entrata da poco in quella fase di ritiro e compostezza in cui qualcuno sarebbe presentato a chiedere la sua mano. Uno di quei cavalieri sanfratellani vestiti di velluto, che si fermavano all’abbeveratoio accanto al casello per dissetare l’animale e salutavano togliendosi la coppola, oppure davanti alla porta del casello per offrire alla madre d’Eleonora, seduta sui gradini, un cestino di lazzeruole, di fichidindia o di corbezzoli. Quei frutti erano naturalmente segni d’un linguaggio che intercorreva tra di loro, i cavalieri, la madre di Eleonora, segni carichi di significato, oltre che di significante, come dicono i linguisti, per la loro bellezza e dolcezza, più carichi, sicuramente, dei segni, delle parole di questa scrittura che io vado stendendo. [...] Amalia, la piccola, una ragazza di dodici o tredici anni, era invece nera nera, magra, i capelli crespi e arruffati e i piedi duri e nervosi. Era lei a fare i lavori esterni e più pesanti: trasportare l’acqua dalla fonte, raccogliere frasche e tagliare la legna per la cucina e il forno, governare una coppia di maiali e tre caprette. Scelsi subito Amalia come mia compagna. O fu lei a scegliere me. Ché selvatica com’era e solitaria, aveva una sua sottile seduzione e una sua autorevole ed esclusiva possessività. Divenimmo inseparabili. Dietro i porci e le capre al pascolo, fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti... E appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero. Nominava in una lingua di sua invenzione, una lingua unica e personale, che ora a poco a poco insegnava a me e con la quale per la prima volta comunicava. Ma Amalia poi conosceva altri linguaggi: quello sonoro, contratto, allitterato con cui parlava alle bestie; conosceva il sanpieroto, col quale comunicava con la famiglia; conosceva il sanfratellano e il siciliano coi quali comunicava cogli estranei. In quella sua lingua d’invenzione, che s’era forgiata nelle lunghe ore del pascolo, nella solitudine del bosco, chiamava per esempio sossi i maiali, beli le capre, scipe le serpi, aleppi i cavalli, fràuni gli alberi, golli le ghiande, cici gli uccelli, fèibe le volpi, zimpi le lepri e i conigli, lammi le mucche... [...] Mi obbligava poi a camminare e camminare, correre, salire sulle alture di levante, da dove si scorgeva l’Etna, su quella di ponente, da dove si vedeva la valle del Furiano, il bosco di Caronìa e tutta la costa giù fino a Santo Stefano e alla rocca di Cefalù. Mi faceva mangiare bacche, erbe, more, mirtilli, succhiare fiori, masticare radici. E bere latte di pecora o di capra, che lei mi faceva schizzare diritto nella bocca dalle mammelle gonfie dell’animale. E salire su una quercia, un faggio o un acero, restare a cavalcioni su un ramo a sentire immobile e muto il linguaggio del bosco. Ch’era di scricchiolii, fruscii, crepitii, frullii, sibili, tonfi, pigolii, scalpitii... Amalia a un certo punto, rompeva quel concerto sommesso con un urlo improvviso che mi faceva balzare e quasi precipitare dall’albero. C’erano i giorni poi in cui passava mio padre col camion. Si fermava al casello e mi portava con sé nel posto dove caricava la legna. [...] Il giorno dopo Amalia mi faceva pagare l’assenza, il tradimento. Tirava avanti nel bosco veloce, senza parlarmi, si nascondeva dietro macchie o in anfratti per disperdermi o procurarmi paura. Parlava solo alle bestie, con quel suo linguaggio di suoni e di urla. E poi, sul ciglio di un fosso nero dov’era stato fatto il carbone, chiedeva alle capre se si ricordavano che da lì una volta era sbucato il diavolo venendo sotto terra dall’Etna; e altrove di un lupo, d’un serpente gigante o d’un aquila che artiglia bestie e uomini e se li porta su in alto; oppure di una donna ammazzata dentro un pagliaro e del suo fantasma che al calar della sera piangeva e urlava. «Jea ‘n gh’ crar, na, na!» (Io non ci credo, no, no!) Le dicevo in sanfratellano ogni volta, ostinato. Alla fine di settembre lasciamo Ciccardo. E io ho impressa per sempre nella memoria la faccia d’Amalia. Facendo finta di legare fascine, teneva fisso lo sguardo nella cabina. E quando il camion fu messo in moto e cominciò a sussultare, lei lasciò lì le frasche e fuggì, sparì nel bosco, scalza, la testa nera e caprigna, la vesticciola rossa. Vincenzo Consolo: Il linguaggio del bosco In: Le pietre di Pantalica, Oscar Mondadori (Scrittori del Novecento), 1990, pp. 147-154