Così è nato l’amore-odio per la capitale Simonetta Fiori intervista Claudio Pavone, autore di due saggi sulla storia di Roma, in merito al ruolo della capitale nella storia d’Italia dall’Unità a oggi. La designazione di Roma come capitale dell’Italia unita non fu una scelta pacifica, poiché la citt presentava numerose problematiche. In particolare il ruolo di rilievo politico e simbolico di Roma non coincideva con una pari preminenza a livello economico. Inoltre Roma fu sempre un luogo complesso, dove convivevano potere religioso e potere temporale, spesso in conflitto tra loro. «Il mio rapporto con Roma? Odi et amo, un sentimento che discende da un amore deluso ed è condiviso da molti romani». Claudio Pavone, nato nella capitale novant’anni fa, famiglia cilentana, il nonno patriota risorgimentale insieme a Silvio Spaventa, ripubblica due saggi su Roma capitale e le origini dello Stato nazionale. «In fondo molte delle questioni sorte il 20 settembre del 1870, con la perdita del potere temporale della Chiesa, sono rimaste aperte». Scritte sul finire degli anni cinquanta, in un clima culturale segnato da Gramsci ma anche da Federico Chabod, quelle pagine sono state ora raccolte da Bollati Boringhieri in un nuovo volume della collana Temi, Gli inizi di Roma capitale (pp. 234, € 18). […] Perché fu scelta Roma, una città che non spiccava per il suo profilo economico? «Perché, come diceva Cavour, non se ne poteva fare a meno, anche se questo comportò che l’Italia avesse una capitale molto particolare. Splendida, ingombrante e ineludibile. Non c’era altra citt che, proprio per le sue contraddizioni, potesse meglio rappresentare l’Italia». C’è chi dice che Roma fu scelta proprio per le sue manchevolezze. «Anche Quintino Sella, il ministro più filoromano, non voleva che diventasse una città industriale per paura delle masse operaie. Spaventata dalla Comune di Parigi, la classe dirigente vuole una capitale tranquilla. D’altra parte la scelta di Roma deriva anche dalla necessità di fronteggiare il Papa: non si poteva farlo da nessun’altra città». Se dovessimo fare un bilancio, centoquarant’anni dopo? Allora s’annunciava la capitale laica, oggi le celebrazioni cadono in un momento di straordinario vigore del potere della Chiesa sullo Stato nazionale. «Nell’anniversario di Porta Pia, lo scorso settembre, sullo stesso palco c’erano il capo dello Stato italiano, erede degli scomunicati, e il cardinale Segretario dello Stato vaticano, erede degli scomunicatori. Nel pubblico erano evidenti due atteggiamenti opposti: “Finalmente!” e “Che scandalo!”. Io ho pensato che fosse una cosa positiva. È la Chiesa che s’è adeguata allo Stato italiano, non viceversa. Anche se in questo adeguamento ci sono molti veleni». Fin dal principio fu difficile sottrarre Roma alla sua tradizione di città sacra. «Le prime parole della formula del plebiscito proposta dal governo (“Con la certezza che il governo italiano assicurerà l’indipendenza dell’autorità spirituale del Papa”) furono respinte dai romani, sia democratici che moderati, che vi videro un’annessione condizionata. L’indipendenza papale sar poco dopo pienamente assicurata dalla civilissima Legge delle Guarentigie che peraltro il Papa respinse. La sacralità di Roma si sarebbe presa la sua rivincita sotto il fascismo con il Concordato». E i romani come accolsero queste trasformazioni? «Con grande serenità. La millenaria temporalità della Chiesa ne aveva largamente usurato la sacralità». Giulio Carlo Argan, illustre sindaco della capitale, lo disse in modo efficace. «Argan era piemontese, laico e democratico, ma non certo sospettabile di antiromanità. Era convinto che Roma non fosse una città religiosa. D’altra parte i sonetti del Belli ci dicono molto su come i romani vivessero la religione cattolica, apostolica, romana. Gli stessi cattolici liberali erano scandalizzati per il fatto che le chiese fossero piene di monumenti e deserte di popolo. Un’incoerenza tra fede e vita che permane ancora oggi: i romani si riversano in massa in piazza San Pietro, poi fanno quello che vogliono». Le mollezze della città suscitarono fin dal principio l’ostilità dei piemontesi. «Predominava l’immagine d’una città corrotta, che vivacchiava di elemosine. Il luogotenente del re, il generale Alfonso La Marmora, dichiarò: “Anche il famoso Campidoglio quanto mi parve piccino!”. Il primato economico apparteneva al Nord: i settentrionali temevano che il trasferimento della capitale a Roma avrebbe minacciato la loro primazia». Ma c’è una continuità con gli argomenti antiromani dei leghisti? «Sì, in fondo li accomuna il disprezzo per una città levantina, assimilata al resto del Mezzogiorno». L’antiromanità attraversa geografie culturali differenti. Nell’Orologio di Carlo Levi, romanzo dell’azionismo, Roma è una città malata, ripiegata sulle sue cancrene. «Sì, anche nell’azionismo c’era questa venatura di diffidenza per la città della burocrazia e dei palazzi del potere. In realtà il carattere accentrato dello Stato italiano non fu opera dei romani perché era stato già adottato dal Regno d’Italia. Fu il toscano Bettino Ricasoli a seppellire il progetto regionalistico di Marco Minghetti, nella convinzione che solo uno Stato fortemente accentrato potesse evitare che si perpetuassero le divisioni fra gli Stati preunitari. Roma divenne il simbolo d’un meccanismo accentratore di cui in realtà non era stata responsabile». […] Capitale dello Stato italiano. Capitale del cattolicesimo. Capitale della classicità e dell’arte. Secondo molti studiosi l’instabilità di Roma deriva da questa tripla anima. «La capitale dello Stato nazionale è sottoposta a una pressione crescente da parte della citt sacra, oggi ancora più forte rispetto all’epoca della mediazione democristiana. La Chiesa, abbandonate le assurde pretese restauratrici di Pio IX, persegue dai tempi di Leone XIII un piano di riconquista della società civile. L’attuale deficienza nel nostro paese di senso civico e di forti ideali favorisce questo progetto». Lei si considera un laico? «Sì, e anche ateo. Dopo una breve esperienza giovanile di fede – mia madre era cattolica – me ne sono allontanato anche grazie alla lettura di Kant. Come diceva mio padre, non sento il bisogno di pensare a Dio neppure come ipotesi». Claudio Pavone, Gli inizi di Roma capitale, Bollati Boringhieri, pp. 234, € 18. Fonte: la Repubblica - 25 febbraio 2011