Don Luigi Ciotti Parlami della legge 109 e dei suoi effetti. Grazie alla legge 109 del '96 (che prevede la confisca del patrimonio dei mafiosi e la destinazione a uso sociale dei beni confiscati e che è stata fortemente sostenuta dall'associazione Libera, con oltre un milione di firme) sono sorte iniziativebellissime di contrasto alla corruzione, alla violenza, all'illegalità, alla criminalità organizzata, alle mafie. Quella legge si pone due obiettivi molto chiari: i boss devono restituire i loro patrimoni, frutto di crimine, violenza, di morte e sangue, ma non basta. I beni confiscati, da beni di proprietà esclusiva dei mafiosi, devono tornare a essere condivisi dalla collettività, devono tornare alla gente del posto. C'è una proposta di legge che sta per diventare realtà, e che prevede che i beni non utilizzati - e sono tanti - possano andare all'asta. C'è crisi economica nel paese, abbiamo bisogno di fare cassa, ma la situazione è molto complessa e delicata. I beni non utilizzati infatti nel 37 per cento dei casi sono sotto ipoteca bancaria e quindi appartengono alle banche; nel 30 per cento dei casi sono ancora occupati dai mafiosi o da loro prestanome; infine, in parte sono in comproprietà con altri, e quindi occorrerebbe fare in modo che le amministrazioni comunali, le associazioni, le cooperative - ovvero gli ultimi destinatari di questa legge - siano messe in grado di usufruire davvero di quei beni. Don Luigi Ciotti 27 Un prete contro la mafia. Perché? 10 ho preso un impegno: quello di sporcarmi le mani contro il male, il crimine, la violenza, la sopraffazione, le forme di schiavitù. Quell'impegno deve essere di tutti, non possiamo restare spettatori, è fondamentale per un cristiano non ubbidire all'ingiustizia e neppure rendersene complice. Te ne puoi rendere complice con il silenzio, con l'indifferenza, con lo stare a guardare. Il nostro è anche l'impegno del coraggio, della parola, della denuncia seria, attenta, documentata, e della proposta. Come sacerdote ritengo che per me siaimportante non dimenticare mai quel passo del Vangelo che dice «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia». Il sacerdote è chiamato all'annuncio della parola di Dio, il mio riferimento resta la buona novella, cioè il Vangelo, e il Vangelo è categorico rispetto all'impegno che dobbiamo assumerci. Il mio impegno è illuminare le coscienze, stimolare la gente a farsi carico delle proprie responsabilità, o meglio della corresponsabilità. Il cambiamento deve iniziare in ciascuno di noi e la Chiesa è chiamata a contribuire alla costruzione di grandivalori come giustizia,libertà, dignità, attenzione verso gli altri. Significa lavorare per creare condizioni che consentano alla gente di alzare la testa e ritrovare il senso e il significato profondo della vita. C'è una responsabilità cristiana, ma anche una responsabilità civile, e di fronte alla sopraffazione e all'ingiustizia uno non sta lì a guardare, ma va a fondo, nei problemi e nella storia delle persone. Cosa rispondi a chi pensa:ma questoperché non si limita a fare 11prete al solito modo? Il mio impegno me lo ha affidato il mio vescovo quando mi ha ordinato sacerdote. Avevo vent'anni, sono quarantacinque anni quest'anno, e il mio è stato un cammino nato sulla strada, dal faccia a faccia con la storia dei più poveri, di chi era ai 28 Niente paura margini, di chi si sbatteva sulla strada. Non c'è Luigi Ciotti, Luigi Ciotti è una piccola parte, che ha cercato di spendere la sua vita, con le sue fragilità, con i suoi limiti, nella costruzione di un noi, di una corresponsabilità, di un agire insieme. Ha cercato di moltiplicare questa responsabilità e questa coscienza in tante altre persone. Io credo che sia questo il nostro compito, però sono sempre stato contrario a certe facili definizioni di superficie: prete antidroga, prete antimafia. Il prete è prete punto e basta. Il nostro impegno è stare in mezzo alla gente e per me la strada è stato l'invito; quando il mio vescovo mi ha scelto, mi ha detto tu sei nato lì, con questi ragazzi, con queste ragazze, con chi era ai margini, e io ti affido una parrocchia, la tua parrocchia sarà la strada. Che non vuoi dire solo ti do un piatto di minestra, vuoi dire non dimenticare che la prima dimensione della giustizia è la prossimità, è l'ascolto, è la relazione, e che quella giustizia chiede uno scatto in più: la giustizia sociale. Dobbiamo affermare i diritti, la libertà, la dignità delle persone, dobbiamo essere anche capaci di rinsaldare la carità delle persone, la carità cristiana, indivisibile dalla giustizia. Io ringrazio Dio, ringrazio soprattutto la storia di tanti uomini e donne che ho incontrato, in gran parte giovani, nell'arco di questi anni. Con le loro fatiche e le loro speranze, con un peso di sofferenza non indifferentesulle spalle, hanno cambiato la mia vita, e ringrazio Dio che ha curvato le strade della mia vita e mi ha permesso di incontrare tante di queste persone. Quando Ligabue canta Buonanotte all'Italia, due tra lefoto proiettate sulloschermosuscitano sempreforti sentimenti. Sonoquelle di falcone e borsellino. Cosa rappresentano per te? Non basta ricordare, non basta fare memoria, bisogna che quelle emozioni, quei volti, quei vissuti ci entrino dentro e chiedano a noi una coerenza, una credibilità e soprattutto una continuità d'impegno, perché il miglior modo di fare memoDon Luigi Ciotti 29 ria è di impegnarci tutti, non solo talvolta ma 365 giorni all'anno, cominciando dalle piccole cose, dalla quotidianità. Forse Falcone e Borsellino sono diventati un punto di riferimento, una svolta nella storia del nostro paese. Quelle stragi hanno cambiato il cammino di tanta gente, ma hanno anche creato un sussulto in tanti contesti. Libera nasce proprio dopo le stragi per dire agli italiani che il problema delle mafie non riguarda solo qualche area geografica del paese ma appartienea tutti, perché la mafia ha le sue radici al sud ma i suoi affari li fa al nord, il suo denaro lo investe in mezzo mondo e sta calpestando la libertà e la dignità di tante persone. Nino Caponnetto lavorava tranquillamente a Firenze, ma dopo l'uccisione del procuratore capo designato a Palermo Chinnici tornò in Sicilia e costruì questo pool antimafia. Caponnetto considerava Borsellino e Falcone come suoi figli e a loro aveva affidato impegni non indifferenti che hanno portato un contributo straordinario, non solo di conoscenza dell'organizzazione criminale ma anche di chiarimento delle strategiee delle complicità. Grazie a loro abbiamo compreso che il problema non è solo il pesce, ma il bacino d'acqua dentro il quale il pesce si alimenta, ovvero quelle parti del corpo sociale, quei segmenti della politica, quel mondo degli affari che navigano sulle mafie. Sono stati loro i primi a dire: «Attenzione, noi facciamo la nostra parte, ma abbiamo bisogno di aiuto da parte della società civile, che deve essere più responsabile». Il vero problema è che loro sono stati lasciati molto soli, ed è la storia di tanti nel nostro paese, dove si applaude solo quando fa comodo. Infatti adesso tutti celebrano Falcone e Borsellino, ma non dobbiamo dimenticare le umiliazioni, le etichette, i pregiudizi che hanno subito. L'impegno contro le mafie, ieri come oggi, è un impegno collettivo, forte, costante, coerente. Le foto di Falcone e Borsellino ci devono ricordare tanti altrimagistrati, così come uomini e donne della polizia di stato, dei carabinieri, delle forze dell'ordine, che hanno perso la vita per la giustizia e la democrazia, così come i giornalisti morti 30 Niente paura perché cercavano la verità e non restavano in superficie, non si piegavano al servizio di qualcuno, e anche così come quei sacerdoti che hanno avuto la forza, nella radicalità del Vangelo, di chiedere giustizia, stimolare la propria gente e soprattutto saldare i problemi di quaggiù con la dimensione più profonda e spirituale del ciclo. Penso a don Peppino Diana, penso a don Puglisi, penso ad altri sacerdoti meno conosciuti, che per la stessa ragione hanno perso la vita. Dopo la strage, Caponnetto disse a un giornalista: «È finita, adesso è proprio finita». Ma due giorni dopo, davanti alla bara di Paolo Borsellino, Nino Caponnetto chiede perdono e a settantadue anni comincia ad attraversare l'Italia in lungo e in largo per portare, con un filo di voce, la sua parola. È con Caponnetto e con un'altra grande donna, Saveria Antioca, a cui avevano ucciso il figlio, che nasce Libera. Nino Caponnetto ha girato l'Italia fino alla morte. Ho celebrato i suoi funerali a Firenze e la chiesa era strapiena di gente, di giovani, ma non c'era nessun rappresentante ufficiale dello Stato italiano. C'eravamo noi, c'era la gente che gli ha voluto bene, che gli era riconoscente. Non dimenticherò mai le parole che Nino ci ha detto: «La mafia teme più la scuola che la giustizia, l'istruzione taglierebbe i piedi alla cultura mafiosa». Ecco l'importanza della sfida culturale, dei percorsi educativi, del ruolo della scuola, l'importanza del ruolo dell'informazione... Servono politiche sociali. Aveva ragione Carlo Dalla Chiesa, prefetto di Palermo che per sette anni aveva lottato contro il terrorismo. Lui era un generale dei carabinieri, poi improvvisamente, dopo la morte di Chinnici, aveva avuto mandato da superprefetto a Palermo. Ci resterà quattro mesi, insieme alla sua giovane sposa, e in quei quattro mesi capisce tutto. Un giorno alza la voce e dice: «Lo Stato dia come diritto ciò che le mafie danno come favore, abbiamo bisogno che quei diritti non siano scritti solo Don Luigi Ciotti 31 sulla carta ma diventino carne, diventino vita, diventino servizi, opportunità, cultura, perché solo così possiamo voltare pagina nel nostro paese». La storia ci ha consegnato nell'arco di questi anni dei grandi risultati: non posso dimenticare il maxi processo, il lavoro del pool antimafia, il lavoro e la generosità delle forze di polizia. Ma proprio nel momento di più grande euforia Paolo Borsellino, in un'intervista, si permise di andare controcorrente e di ammonire di non adagiarsi sulle pericolosissime illusioni. Nel momento del massimo successo dice stiamo attenti, non abbassiamo la guardia, non facciamo venir meno l'impegno, perché loro hanno una capacità di rigenerarsi, di infiltrarsi, di trovare modalità nuove. È importante che queste parole entrino con forza in ciascuno di noi. La memoria deve essere uno stimolo a fare... Sì, il cambiamento ha bisogno del noi, non dell'io, di una società in cui nessuno dimentichi, perché le mafie si alimentano di questo: delle disuguaglianze, della burocrazia esasperata, dei vuoti istituzionali, dell'ignoranza, della disinformazione, della mancanza di politiche sociali e di servizi, dell'assenza di lavoro. Bisogna che si facciano meno parole e più fatti, e si affronti il problema del lavoro, dei diritti a fianco dei doveri, di quegli spazi e di quelle opportunità per le persone che sono importanti e fondamentali. In questo paese vediamo crescere la dimensione punitiva, penale, e decrescere quella sociale. Siparla di 17.000 posti in più nelle carceri. Mi piacerebbe che si investisse di più per evitare che la gente ci finisca dentro. E poi nelle carceri troviamo per la stragrandemaggioranza migranti, ragazzi e ragazze con storie di dipendenza, gli anelli più fragili e più deboli, che hanno sbagliato, certo, ma il carcere dovrebbe essere Vextrema ratio. Servono altri tipi di percorsi, ma la politica di oggi, nel nostro paese, è più penale e meno sociale. Bisogna fare la lotta alla povertà, non ai poveri; si deve fare la lotta a chi sfrutta le ragazze nel giro della 32 Nientepaura prostituzione, non penalizzare queste ragazze. Si faccia la lotta ai grandi trafficanti nel mondo delle sostanze stupefacenti, che è l'unico mercato che negli ultimi cinquant'anni non è mai calato. Oggi tante persone vivono nella solitudine, nella fatica, penso a molti anziani, persone che lottano con grandi fragilità. Penso alle anoressie, bulimie, depressioni, penso alle nuove forme di dipendenza, alla debolezza di chi ha tutto, a livello economico e culturale, ma soffre per una profonda povertà intcriore. C'è un lungo elenco di volti, di situazioni e problemi, e nessuno dica che non lo riguarda. Ognuno con le proprie competenze, tutti dobbiamo avere il coraggio della denuncia di ciò che non va. Cosa pensi dell'articolo 3 della Costituzione, cheparla dei diritti e dei doveri di ogni cittadino, in rapporto al progresso anche morale delpaese? La Costituzione non deve restare lettera scritta solo sulla carta, deve farsi viva. Ma io non credo che un articolo sia più importante di un altro: uno tira l'altro, tutti hanno la stessa forza, la stessa importanza,lo stesso valore. Naturalmente, se dovessi sceglierne qualcuno credo che indicherei l'articolo numero 3, l'uguaglianza, e l'articolo numero 4, che invita ciascuno di noi a mettere in gioco le proprie competenze, la propria parte, anche la propria passione. Oggi più che mai la Costituzione ha bisogno dell'impegno per essere vissuta; di ciascuno di noi, per venire tradotta, codificata, immersa nelle fessure della società e anche difesa, insieme alla Dichiarazione universale dei diritti umani. Io vivo qui, nella città di Torino, lavoro in questa fabbrica e nel corso della sua storia ho avuto la fortuna di incontrare un grande filosofo purtroppo scomparso, Norberto Bobbio. Bobbio diceva che la democrazia vive di buone leggi e buoni costumi: abbiamo bisogno di buone leggi e il fondamento delle leggi è sempre la persona umana. Ma abbiamo anche bisogno di buoni costumi e i noDon Luigi Ciotti 33 stri costumi, il nostro impegno, il nostro metterci in gioco sono tutti in quell'articolo 4 della Costituzione, che ci chiama al servizio dei beni materiali e spirituali del nostro paese. Servizio, non servilismo: un servizio per il bene della collettività, è quello chetutti siamo chiamatia fare come cittadini - uomini, donne, persone, preti - per il bene del paese: spenderci, con umiltà ma anche con molta determinazione. In questo momento credo non sia stonato parlare di resistenza, perché la resistenza ha la stessa radice latina di esistere, significa esserci, fare, mettersi in gioco. Penso che vada fatto innanzitutto un esame di coscienza, perché credo che ognuno di noi è chiamato a interrogarsi. Quello che vorrei dire è non piangiamoci addosso, non continuiamo a dire che tocca agli altri agire. L'estendersi dell'individualismo è direttamente proporzionale all'eclissi della legalità nel nostro paese. Questo ripiegamento, questo bisogno di sicurezza è un diritto sacrosanto di chiunque, ma per qualcuno significa cercare la sicurezza solo per^sé, per i propri giochi, il proprio benessere, la propria vita. È questa la grande crisi del paese: è la povertà culturale, la deriva, la stagnazione della cultura. C'è un vento di demagogia razzista che soffia sulla nostra società e ad alimentarlo sono leggi come quella che rende la clandestinità del migrante un crimine. Ritengo che sia una legge non solo immorale ma anche incostituzionale, in quanto non tiene conto dei suoi principi fondamentali. È un clima pericoloso, e credo che sia necessario criticarlo con chiarezza, smascherare questo peccato del sapere, come lo chiamo io, una mancanza di profondità, una faciloneria che lascia tutto in superficie: tutto ci arriva di seconda mano, tutto per sentito dire. Siamo imbottiti da un orizzonte culturale per cui ciò che conta è solo l'immagine, il potere, il possesso, la forza, il denaro, la bellezza a oltranza. Occorre una risposta propositiva, una grande sfida culturale che riempia di vita, che riaffermi parole di impegno e di condivisione. Tanta gente che sta spendendo la propria vita solo per se stessa, e invece noi dovremmo capovolgere 34 Niente paura Don Luigi Ciotti 35 tutto, recuperare la solidarietà, l'impegno a garanzia della giustizia, per liberare chi è schiacciato da una situazione di non libertà. In questo paese troppe persone non sono libere: la presenzamafiosa non consente un'impresa libera, uno sviluppo libero, impedisce la dignità di tanti, crea ostaggi epaure. Noi abbiamo avviato e sostenuto cooperative sorte sui beni confiscati ai boss delle mafie e non c'è un bene che non sia stato minacciato,distrutto, vandalizzato. Ma la cosa meravigliosa, anche nello sbandamento generale, è stato assisterealla progressiva crescita del numero di persone che, nonostante il disorientamento e la fatica, hanno capito che non si poteva lasciare soli i ragazzi, in quella grande sfida. Ecco di cosa ha bisogno l'Italia: non di grandi proclami ma di fatti, fatti concreti, nella continuità e nella coerenza. Ci sono stati momenti in cui ti sei sentito frustrato? Certamente sì. Quando senti certi giudizi affrettati, a destra come a sinistra, facili etichette, pregiudizi, talvolta vera diffamazione e calunnia, non puoi non fermarti e interrogarti. Ma sono solo momenti, perché poi guardo il volto di tutti coloro che si stanno spendendo, sento quella responsabilità di quel noi, quel condividere la speranza, la giustizia, la democrazia e questo percorso verso la liberazione, e senti la responsabilità verso di loro. Perché quando uniamo le forze, anche se è dura, la gioia trasmessa dai volti di quelle persone che risorgono,che tornano alla loro libertà, alla loro dignità, da tutta la forza che serve. Per me la forza è andare alsupermercato e vedere l'olio di Libera, i prodotti che sono segni tangibili di liberazione, coltivati su terre confiscate alle mafie, restituiti alla collettività. Devo ringraziare il Padreterno, perché continua a darmi delle pedate nei momenti difficili per farmi andare avanti:le pedate di Dio ci scuotono, ci fanno sentire che siamo piccoli ma che se uniamo le forze è tutto possibile. Gaber cantava che gli schiaffi di Dio fanno male... L.C.: Dio non da schiaffi, ma non è muto. Se uno vuole, lo sente tutti i giorni, perché parla attraversola storia di chi soffre e lotta. In ogni persona ci sono frammenti di Dio. Pochi giorni fa, a Torino, il mio gruppo ha salutato Brasil. Io non l'avevo conosciuto di persona. Era arrivato dal Brasile, dove aveva una moglie giovane e un bambino, con un sogno: lavorare, mandare qualche soldo a casa, costruire un futuro per sé e per gli altri. Qui è stato travolto dalla clandestinità: dormiva in una casa che si era fatto da sé, alta come una cuccia per i cani. Si è sentito male ed è venuto a morire sulla porta di un nostro dormitorio: allora tutto il gruppo Abele si è fermato e ci siamo dati appuntamento per salutare Brasil nel modo più solenne. Era necessario, perché spesso ci si dimentica degli ultimi, ma loro hanno bisogno che noi non dimentichiamo, poiché dentro ciascuno di loro ci sono frammenti di Dio. Poi la gente si preoccupa del crocifisso,che sia attaccato al muro di questo o quel posto. Il crocifisso,certo, è un punto di riferimento importante, simboleggia la vita e la morte, il sacrificio di quel Dio che si è speso per la giustizia, la libertà, la dignità delle persone. Ma oggi di lui diremo che ha combattuto per i diritti e ha pagato con la vita il suo coraggio di andare controcorrente e di saldare verità e giustizia. Vorrei che tutti imparassero a dare attenzione ai crocifissiviventi che incontriamo lungo la strada: gli ultimi, i poveri, quelli che fanno fatica. Qual è il tuo credo personale? Il mio credo quotidiano è fare in modo che tutti i giorni sia Natale, perché tutti i giorni ci sono uomini e donne su questa terra che chiedono di rinascere. Per un cristiano il Natale è la nascita di Gesù Cristo, è Dio che entra nella storia dell'uomo, la reincarnazione, ma quella reincarnazione a me fa pensare . 36 Niente paura che bisogna creare condizioni di rinascita per tanti che sono ai margini, che vivono la solitudine, la fragilità. Io sento questo Natale tutti i giorni dell'anno: non è un modo di dire ma quello che provo, perché ogni giorno, in giro per l'Italia e non solo, incontri volti, persone, storie, a volte ti fermi, osservi, magari passi di corsa perché stai facendo altro, ma quel volto, quegli occhi, quelle fatiche ti accompagnano lungo ilviaggio. In questi anni ne ho incontrati tanti, e ho sempre sentito prepotente dentro di me il bisogno che fosse Natale, creare la condizione perché la gente possa nascere rinascere, e forse anche risorgere. Beppino Englaro Era il 25 novembre 1970. Io non avevo ancora compiuto trent'anni quando ho vissuto questo evento straordinario, la paternità, che ha impresso un nuovo corso alla mia vita. La prima volta che ho visto Eluana non ero solo, ero con mio fratello. Vedere una creatura così perfetta, con il ciuffetto di capelli neri e quegli occhioni scuri, mi ha lasciato senza parole. È il ricordo più indelebile della mia esistenza. L'ho vista crescere vivace, piena di vita e aperta al mondo. Era così già da piccolissima. Voleva salutare qualunque persona incontrasse, perché amava il mondo e il mondo non poteva che riamarla, e questa sua carica ha veramente sorpreso me e la madre, fin dal principio. Abbiamo lasciato che questa creatura esprimesse fino in fondo la sua indole, con naturalezza, con quel suo modo spontaneo di vivere... Eluana era così: dava delle risposte che ti folgoravano, aveva un istinto per capire le cose e chiunque la incontrava ne restava colpito. Crescendo poi questa sua caratteristica, questa qualità carismatica è andata aumentando... Viveva in simbiosi con la madre, anche perché era la persona con cui passava più tempo, dal momento che il lavoro non mi permetteva di stare a lungo a casa. Davvero, era bello, era strepitoso vederle così unite, e lei, piccina, così aperta e così bella. Per questo suo atteggiamento irriducibilmente libero noi 38 Niente paura Beppino Englaro 39 l'avevamo ribattezzata «il purosangue della libertà», perché lei non poteva sopportare i soprusi, le violenze, il rifiuto al dialogo. Lei era l'esatto opposto: cercava sempre il dialogo, amava chiacchierare, capire. In lei il rispetto degli altri era un istinto naturale e le sembrava logico ricevere un analogo rispetto incambio. Ricordo perfettamente che unavolta - Eluana non aveva ancora compiuto dieci anni - nel corso diuna discussione in famiglia guardò me e sua madre e ci disse, come fosse la cosa più naturale del mondo: «Cosa c'entrate voi con la mia vita? Io ho la mia dignità, ricordatevelo». Era sorprendente sentirle dire una cosa del genere, ma era la cosa giusta da dire. Comunque noi l'avevamogià capito da tempo, che con Eluana non funzionava il metodo di imporle degli ordini senza prima cercare il dialogo, senza spiegare le nostre motivazioni, senza sforzarci di farle capire il motivo. Se non capiva il ragionamento, non accettavaciò che le dicevamoo le chiedevamo di fare. Aveva veramenteun istinto innato per la libertà. Ecco perché l'avevamodefinita un autentico purosangue della libertà. Il carattere ribelle di Eluana è emerso subito anchea scuola.A casa la capivamo, la rispettavamo perché era fatta così, ma ovviamente lo scontro con il mondo della scuola è stato forte. Già alle scuole medie ci sono stati i primi screzi, perché non si sentiva rispettata e capita. Allora la madre mi chiese di fare da intermediario, perché Eluana avevabisogno di me, voleva che fossi io a parlare con gli insegnanti. Poi, al liceo linguistico, le cose si sono fatte anche più complicate. Il primo anno emezzo è trascorso pacifico, è stato un bellissimo periodo per Eluana. Era in una scuola sperimentale,tenuta dalle suore. All'iniziola apprezzavano, apprezzavano il suo splendore particolare, il suo modo di essere, così vivace, ma poi è scattato qualcosa, un qualche tipo di meccanismo.Prima era benvista dagli insegnanti, e dopo non lo era più, e io ho capito che aveva bisogno che io le stessi accanto, che la sostenessi. L'ho fatto perché vedevo con chiarezza che stavano snaturando una creatura splendida, le creavano delle difficoltà pretestuose, volevano domarla, cambiarla. Allora mi sono confrontato con i professori e loro naturalmente mi spiegarono che la scuola aveva un proprio schema di regole, un sistema rigido a cui Eluana doveva adeguarsi. Io tentai di aiutarla ad accettare le loro regole senza che quelle regole violentassero la sua natura, ed è stato difficile perché lei a un certo punto mi disse che non poteva più sopportare quella situazione e volevamollare. Ma io le dissi che la scuola, purtroppo, è una palestra di vita e che doveva prenderla così. «Il nostro supporto» le dissi, «non ti mancherà mai. Io e la mammacapiamo ed è anche giusto che tu ti ribelli a questo stato di cose, ma devi capire che prima o poi dovrai accettare il fatto che la vita ti riserveràdelle difficoltà. Queste non sono che le prime.»Insomma,non fu facile ma alla fine la convincemmo a restare e combattere e dopo lei ci ha detto grazie, per questo. Grazie per avermi aiutata a capire. Altri genitoriavrebbero reagito diversamentea questa grande voglia di libertà.Mi piacerebbe che ci raccontassi la sorpresa, poi l'entusiasmo e in qualche modo la passione con cui avete preso atto e deciso che avreste sempre rispettato e assecondato questa sua inclinazione. Lei era felicissima della comprensione che trovavain casa e lo diceva sempre. Diceva di sentirsi davvero nostra figlia, perché in fatto di libertà non eravamo secondi a lei. Una volta maggiorenne le abbiamo detto che poteva andare a vivere da sola, se lo desiderava, e che non le sarebbe mai mancato il nostro sostegno, né umano né economico. Ma Eluana non l'ha fatto perché a casa stava davvero bene. C'era qualche piccolo conflitto, è naturale, ma era sempre risolvibile. Perciò Eluana ha vissuto serenamente con noi, fino a ventun anni, quando ha avuto l'incidente. Ma è stata una sua scelta, aveva avuto la possibilità di andare a vivere da sola e poteva farlo in qualsia- 40 Niente paura si momento. Non avremmo potuto fare diversamente, perché Eluana non sopportava che si andasse contro la sua coscienza, non sopportava di venire trattata da persona non responsabile. Sapeva assumersi le sue responsabilità; sotto certi aspetti possedeva una saggezza da «vecchina», io glielo dicevo sempre. Però era anche irruenta, era incontenibile, non stava mai ferma, doveva muoversi in continuazione. E poi, accanto a questa vitalità, c'era il suo lato saggio: era sorprendente questo paradosso, questa convivenza degli opposti. In lei c'era un'irruenza che avrebbe spaccato il mondo, poi questa ponderatezza,questa capacità di comprensione. Sapeva perfettamente che non poteva misurare il mondo con il suo metro, perché lei era veramente un autentico purosangue. Poi, l'incidente, II 18 gennaio del 1992 non eravamoa Lecco ma in Val Pusteria, per la settimana bianca. Sentivamo Eluana più volte al giorno e l'avevamo chiamata anche la sera prima dell'incidente, verso le dieci e mezza. È stata l'ultima volta che abbiamo parlato con lei. Ci aveva detto che stava andando a letto. Poi invece ha cambiato idea ed è uscita. Aveva la mia macchina e io la sua. Non abbiamo saputo niente fino all'indomani mattina. Erano circa le dieci e noi stavamo facendo colazione. Dovevamo rientrare a casa quel giorno stesso, ma avevamo in programma di passare dal mio paese natale per salutarei miei famigliari e poi proseguire per Lecco. Mentre facevamo colazione ci arrivò la telefonata di mio fratello, che mi disse che Eluana aveva avuto un incidente grave e che dovevomettermi subito in contatto con l'ospedale di Lecco. Era successo tutto verso le quattro del mattino, ma nessuno sapeva come rintracciarci. Hanno trovato prima mio fratello, verso le nove e mezza. Ricordo la sensazione che il mondo ci stesse cascando addosso. Eravamo a tavola ma mi hanno chiamato da parte e quando sono rientrato nella sala, quando sono tornato al tavolino dove mia moglie stava bevendo il caffè, le ho detto: Beppino Englaro 41 «Dobbiamo cambiare programma, andiamo direttamente a Lecco». Lei ha capito subito, e ha risposto: «Cos'è successo a Eluana?». Non ho potuto nasconderle niente: ci sembrava di impazzire solo all'idea che quella splendida creatura avesse avuto un incidente. Si pensa sempre al peggio, in casi simili, e anche noi, in quella situazione, ci aspettavamo il peggio. Chiamai la rianimazione ma non riuscirono a dirmi grandi cose. Dissero solo di andare subito lì, perché la situazioneera molto grave e non potevano aggiungere altro. Solo di andare il più presto possibile perché volevano parlare con me, di persona. Sono state quasi cinque ore di viaggio. Cinque ore nel corso delle quali ci è ripassato sotto gli occhi tutto: tutta la vita di Eluana, dal giorno in cui è nata al giorno che ci eravamo lasciati, una settimana prima. Veramente tutti e due parlammo poco, in macchina. Volevamo solamente ricordarla. E la cosa più sorprendente è che entrambi pensammo, per prima cosa, a come Eluana ci aveva raccontato e spiegato il suo punto di vista sugli incidenti gravi che erano capitati ad alcuni suoi amici; il modo in cui aveva vissuto quelle situazioni. Anche solo nel pronunciare la parola «rianimazione», ci venne subito in mente quello che era successo un anno prima a un amico di Eluana. Lei era andata a trovarlo in rianimazione e in quella circostanza si era fatta un'idea chiara di cosa significasse stare in rianimazione.Adesso, pensarla in rianimazione, conoscendo la sua idea in proposito, la sua opinione sulle terapie rianimative, sulla loro invasività... ci faceva star male. Erano tutte questioni che lei aveva già affrontato e si era espressa sempre con grande nettezza, in proposito. Aveva detto chiaramente che pensava fossero stati più fortunati quei suoi amici che erano morti sul colpo, a seguito di incidenti molto gravi.La riteneva una fine migliore, rispetto alla degenza in rianimazione. Noi sapevamo bene che lei non avrebbe mai potuto accettare una vita compromessa, ce l'aveva detto chiaramente. Lei non avrebbe mai voluto vivere diversamente da quel purosangue della libertà che era... 42 Niente paura Quando tornammo a Lecco andammo subito in ospedale. Ci accolse una dottoressa che da sempre abitava nello stesso stabile dove abitavamo noi, nello stesso condominio. Lei conosceva bene Eluana... La dottoressa ci presentò la situazione, il quadro clinico. Ma noi eravamo sconvolti. La vista di questa creatura inerme, con gliocchi chiusi, in rianimazioneè un altro ricordo che mi sarà impossibile cancellare. Cispiegarono approfonditamente ogni cosa e restammo in silenzio ad ascoltare, attoniti e muti di fronte a quel dolore. Ci dissero che le prime quarantotto ore sarebbero state determinanti, ma dissero anche che non sapevano se sarebbero riusciti a strapparla alla morte. La cosa più singolare è stata il primo colloquio con il primario. Lui ci confermò il quadro che ci aveva già delineato la dottoressa, ma disse che l'indomani avrebbero proceduto con la tracheotomia. E stato il primo segnale che le terapie rianimative sarebbero state portate avanti a oltranza.Noi, cheavevamo già un'idea precisa su questo tema, gli chiedemmo solo se non fosse opportuno spostare Eluana in una struttura più adeguata per trattare un caso del genere. Lui rispose di no, e che la struttura era perfettamente adeguata. Allora gli chiedemmo quale fosse lo stato dell'arte della medicina su situazioni di quel tipo, e lui rispose: «Guardi, sene sa poco o niente. Il sapere scientifico è poco superiore allo zero, in queste circostanze, e le incognite riguardanti i possibili sviluppi del quadro clinico di vostra figlia sono a trecentosessanta gradi». Dal momentoche Eluana aveva idee molto precisein merito al coma irreversibile e alla rianimazione, dato che in quello stesso ospedale era andata a trovare il suo amico Alessandro un anno prima e lo aveva visto sottoposto alla rianimazione a oltranza senza risultati concreti, noi abbiamo fatto presente al primario che nostra figlia si era espressa chiaramentecontro quella pratica. Volevamo sapere fino a che punto si potevano spingere, perché lui ci aveva detto che non aveva bisogno di nessun consenso per farlo. Non stava chiedendo il nostro conBeppino Englaro 43 senso, ci stava semplicemente informando. Ma anche noi volevamo solo informarlo. Volevamo dar voce a questacreatura, a quello che Eluana avrebbe potuto accettare per se stessa e a quello che non avrebbe mai potuto tollerare. «Per lei» gli dicemmo, «sarebbe la cosa più naturaledel mondo prendere in considerazione l'idea di essere lasciata morire.» Questo lo sorprese. Ma se l'istinto del primario era per la vita,l'istinto di Eluana invece era per la libertà, e noi lo sapevamo bene. Cercammo di spiegarlo al primario, ma capimmo che non c'era possibilità di riuscita.Il suo parereera che siprocedesse a oltranza. Capire che in una situazione del genere la medicina si sarebbe posta al servizio della non-morte,a ogni costo, ci ha angosciati immediatamente. Non si poteva dialogare, non si poteva dare voce al desiderio di Eluana. In tutte le discussioni noi e il primario ci siamo trovatiin posizioni diametralmente opposte: lui parlava della cultura della vita, affermava che tutto ciò che non è morte è vita e va salvaguardata senza porsi domande. Sono trascorsi parecchi mesi, Eluana è stata quasi quattro mesi in rianimazione. Esattamente come era accaduto al suo amico Alessandro, anche per lei non si registrava nessun miglioramento. È caduta sin dal primo momentoin uno stato di coma, non ha avuto nessuna percezione del mondo che lacircondava. Proprio ciò che lei temeva di più, da quando aveva visto Alessandro in quelle condizioni, in balia di manialtrui. Abbiamo chiesto che la lasciassero morire ma ci hanno risposto di no, che non potevano procedere diversamente e che trovavano singolare questo nostro comportamento. Poi hanno stabilito che occorrevano due anni per arrivare a diagnosi e prognosi definitive.Normalmentebasta un anno e, dal momento che Eluana aveva ricevuto le migliori cure possibili in una strutturaperfettamenteadeguata e ciononostante aveva ottenuto il peggior risultato possibile, lo stato vegetativo permanente era una diagnosi facilmente prevedibile. Ma loro attesero fino al gennaio 1994, per pronunciarsi. 44 Niente paura ino Englaro 45 A quel punto credevamo che sarebbero state prese in considerazione le indicazioni di Eluana, le sue precise disposizioni su come comportarsi in una situazione del genere: ovvero credevamo che si sarebbe decisa l'interruzione del processo di rianimazione a oltranza. Invece ci risposero che non era possibile. Questo stato vegetativo permanente andavaaccettato e veniva considerato una sorta di evoluzione facenteparte del progresso della medicina. Non poter rifiutare la terapia è un fatto di una violenza inaudita. Fino al pronunciamento dei medici, fino alla prognosi definitiva,potevo capire che mi chiedessero di prendere ancora tempo, di lasciare a mia figlia un'altra opportunità, come la chiamavanoloro. Ma dopo no. Dopo abbiamo subito una violenza pura e semplice, e arrivati a quel punto per me era impossibile sopportare oltre. È stato allora che mi sono scatenato. Quando ho cercato di capire che possibilità ci fossero di far valere i desideri di Eluana mi sono accorto di essere un randagio che abbaiava alla luna. Non avevo interlocutori. Sono andato dappertutto, ho cercato ovunque qualcuno che mi aiutasse a sboccare la situazione. Sono stati gli anni più diffi- cili. Quando sei capace di intendere e di volere puoi dare o levare il tuo consenso a qualsiasiterapia. Ma adesso che Eluana non era più capace di intendere e di volere, anche se era sempre la stessa persona di prima, non aveva difese contro la violenza terapeutica. È così che l'ho sempre definita: «violenza terapeutica». Perché non la si può rifiutare. Volevo essere ascoltato e volevo delle risposte: con quale diritto stavanofacendo tutto questo? Poi, eravamo già nell'ottobre 1995, in una trasmissione televisiva ho sentito che parlavano di queste problematiche e c'era il presidente del comitato nazionale per la bioetica, professor Francesco D'Agostino, che dialogava con un neurologo, professor Carlo Alberto Defanti. In quell'occasione sentii per la prima volta un medico ammettere che si trattava di una problematica irrisolta. Allora contattai quel neurologo, presi appuntamento e gli portai le cartelle cliniche di mia figlia. Lui mi disse che purtroppo all'estero casi del genere trovavano una soluzione, ma in Italia non era mai stato fatto. Ero il primo e l'unico a sollevare il problema e per questo mi consigliò di nominare un tutore per Eluana. In questo modo finalmenteio e mia moglie avremmo avuto un interlocutore ufficiale, e avremmo potuto dare o negare il nostro assenso alle terapie, per il principio del consenso informato.È stata una procedura giuridica che ha preso del tempo ma finalmente, nel dicembre 1999, abbiamo ottenuto una sentenza della Corte d'Appello di Milano che motivavail rifiuto ad accettare la nostra richiesta sostenendo che dal punto di vista giuridico non era ancora chiaro se l'alimentazione e l'idratazione forzata fossero una terapia o un mezzo disostentamento. Di conseguenza a quello stadio la Corte non poteva autorizzare il tutore a sospendere i trattamenti. Nel 2000 il primo numero della rivista della Consulta di Bioetica fu interamente dedicato al lungo iter che avevamo affrontato per ottenere quella sentenza. Poi, il 14giugno2000, abbiamo organizzatoun incontro all'UniversitàStataledi Milano: gli interlocutori erano la Consulta di Bioetica e la Facoltà di Filosofia del diritto. Il nostro desiderio era informare la gente su come stavano le cose, perché i giornali e i media fino a quel momento non si erano voluti occupare del tema. Volevamo che entrasse nell'agenda della pubblica opinione. Pochi giorni prima dell'incontro in Statale Giovanni Maria Pace, un giornalista scientifico molto noto, che scriveva sulla «Repubblica», ha avuto un colloquio con l'avvocato Maria Cristina Morelli, che ci aveva seguiti attraverso il lungo iter giuridico di quegli anni. In seguito a questo colloquio venni contattato da Piero Colaprico, che avrebbe seguito il caso come cronista. In occasione dell'incontro alla statale di Milano uscirono ben due articoli sulla «Repubblica»: uno a firma di Giovanni Maria Pace e uno a firma di Piero Colaprico. È stato così che, 46 Niente paura per la prima volta da quando era cominciata la nostra battaglia, l'opinione pubblica è venuta a conoscenza della nostra storia. A quel punto si sono scatenati anche i media, soprattutto le televisioni, e quel giorno è partito anche un appello rivolto alle istituzioni, per sollecitarne l'attenzione verso un caso umano lacerante, che si stava facendo bandiera di un tema di diritti. L'allora ministro della Salute Umberto Veronesi nominò una commissione parlamentare affinchè si pronunciasse riguardo all'alimentazione e all'idratazione forzata: andava considerata una terapia o una forma di sostentamento? In seguito Veronesi, come suo ultimo atto di governo, accolse il parere espresso da questo gruppo di studio nel giugno 2001. Il parlamento italiano avrebbe dovuto, di conseguenza, rettificare la convenzione di Oviedo, dove si diceva che qualsiasi intervento su una persona nelle stesse condizioni di Eluana doveva essere autorizzato dal tutore o da chi aveva la tutela. In parole povere, doveva stabilire una volta per tutte che i medici non potevano intervenire senza consenso. Questo supplizio è durato diciassette anni. Una soluzione molto «italiana»avrebbe potuto essere prendere la ragazza e 'portarla in un paese dove vigesse una legislazionepiù comprensiva. Così avresti risolto il tuo problema personale. Invece hai condotto una battaglia lunghissima. Sono sempre stato fortemente convinto di avere dalla mia la forza della Costituzione, che non consente la discriminazione degli individui. Eluana era sempre la stessa Eulana di prima dell'incidente, e noi stavamo semplicemente dando voce ai suoi desideri. Non era concepibile che lei perdesse il diritto di dire sì o no alle terapie, tanto durante la rianimazione quanto dopo, durante la riabilitazione, solo perché era in uno stato vegetativo. E per questo che ho portato avanti con tanta determinazione la nostra battaglia. Agli avvocati o aimagistrati Eeppino Englaro 47 con cui parlavo chiedevo sempre di spiegarmi perché non si riuscisse a far passare un principio talmente basilare, e volevo una risposta, sapevo che sarebbe arrivata. È stato così, infatti. Ho dovuto attendere quindici anni e nove mesi, ma la risposta è arrivata con la sentenza della Corte Suprema di Cassazione, il 16 ottobre 2007. Quella sentenza ha pronunciato la risposta definitiva alla mia semplice domanda «con quale diritto fate questo?». E la risposta è stata netta e chiara: nessuno può costringere un altro a vivere senza limite. Nessuno può avere un simile potere, né il medico né lo stato. La cosa davvero sconvolgente, per noi, è stata che per affermare un diritto talmente basilare, l'autodeterminazione terapeutica, siano stati necessari 5750 giorni. Tutto questo non ha niente a che vedere con l'eutanasia... Già a giugno 2001 la commissione di esperti di Veronesi si era espressa secondo lo stesso principio: l'alimentazione e l'idratazione sono una terapia. Non ci hanno lasciato alternative: prima siamo stati vittime sacrificali del potere e del dovere dei medici che, come dicevano loro, agivano in base alla loro coscienza, in base al codice deontologico. Poi siamo stati alla mercé dei meccanismi infernali della giurisprudenza, per arrivare al pronunciamento della Corte Suprema, che non ha fatto altro che riaffermare i principi di base di uno stato di diritto. Ma ancora non era finita. Prima di autorizzarci a sospendere i sostegni vitali di Eluana una nuova sezione della Corte d'Appello doveva verificare che la sua situazione clinica fosse veramente irreversibile dal punto di vista scientifico, se l'irreversibilità fosse stata accertata senza ombra di dubbio. E di dubbi non ne erano mai stati sollevati, da nessuno, nel corso degli anni: la situazione di Eluana era quella, non c'erano margini di miglioramento. Dopo i 5750 giorni necessari semplicemente per arrivare all'affermazione di principi di diritto sacrosanti in uno stato di diritto, c'è voluto altro tempo ancora: prima per arrivare al decreto attuativo, poi per riuscire ad attuare il decreto. Ci so- 48 Niente paura no voluti in tutto 6233 giorni per vedere finalmente Eluana fare ciò che sapevamo avrebbe voluto fare sin dal principio. Abbiamo attraversato una devastazione che ha portato anche mia moglie in una condizione irreversibile: non ha potuto neanche abbracciare la sua creatura nello stadio finale. Mi sono trovato solo di fronte a tutto questo e credo che non esista situazione più disumana. Abbiamo affrontato questa devastazione solo per riuscire a vedere nostra figlia liberata dalle catene che l'avevano tenuta prigioniera tutti quegli anni: prigioniera di una condizione di non-vita che lei non avrebbe mai e poi mai accettato. Vivere la tragedia di perdere una figlia è un dolore immenso, ma umanamente sopportabile. Quello che ho vissuto io è la tragedia nella tragedia: dover dar voce alla propria figlia andando incontro a tante difficoltà affinchè venissero riconosciute le sue libertà e i suoi diritti fondamentali. Adesso che lei non c'èpiù, chi è e cosafa papa Beppino? Nel nome di Eluana abbiamo istituito una fondazione che si occuperà di problematiche sia cliniche che etiche e giuridiche concernenti l'autodeterminazione delle persone, riguardo le cure e soprattutto le cure palliative. Questo è il nostro impegno affinchè nessuno debba mai più vivere quello che abbiamo vissuto noi. Che immagine del paese ti sei fatto? Per parecchi anni sono stato un randagio che abbaiava alla luna. Adesso sono diventato un araldo delle libertà fondamentali delle persone... Il clima culturale in questo paese sta cambiando e mi sembra che la classe politica non si stia adeguando a questa evoluzione. La gente si è resa conto, vuole assumersi le proprie responsabilità, sa che il cittadino ha la possibilità di rivendicare l'autodeterminazione e non deve soggiacere agli autoritarismi dello stato etico. Oggi è la terza Ceppino Englaro 49 carica dello stato, ovvero Gianfranco Fini, a sostenere quello che io già dicevo nel 1992, cioè non sono concepibili, in uno stato di diritto, degli autoritarismi da stato etico... Non con una Costituzione come la nostra. A quale articolo della Costituzione ti senti più legato? L'articolo 13:la libertà personale è inviolabile, quindi nessuno si sogni di mettermi le mani addosso e di continuare afarlo senza il mio consenso. Questa libertà personale era l'ossessione diEluana, cheaveva ilterrore - l'ho detto tante volte che gli «altri» le mettessero le mani addosso contro la sua volontà. E con «altri» intendeva perfino noi genitori. Nelson Mandela è stato in prigione ventotto anni per rivendicare la parità di diritti tra bianchi e neri. Eluana è stata imprigionata 6233 giorni per rivendicare gli stessi diritti che aveva quando era capace di intendere e di volere. Sappiamo tutti che perfino Giovanni Paolo II a un certo punto della sua malattia ha detto no alle cure e alle terapie. Lui poteva decidere se continuare a essere curato... lui aveva la voce per poterlo fare. Eluana no. Il libro che ho scritto è dedicato ai magistrati che ho incontrato e che non sono servi di nessun potere. Con la sentenza del 16 ottobre 2007 hanno fatto capire al cittadino che esiste una tutela. Dobbiamo esserne orgogliosi perché possiamo affermare di vivere in uno stato di diritto con dei principi di diritto, e qualsiasi cittadino, rivolgendosi alla magistratura, può ottenere la tutela dei suoi diritti sanciti dalla Costituzione. E questo, io credo, il risultato più vero della mia vicenda: la conferma che viviamo in uno stato di diritto. Umberto Veronesi Volevo chiederle di leggere il testamento biologico che ha reso pubblico e spiegare le ragioni di questa scelta. Il mio testamento biologico è il risultato di una lunga indagine eseguita in diversi paesi dove questo documento è giàdiffuso. Ci sono state molte prese di posizioni a favore del testamento biologico anche in Italia: da parte del comitato di bioetica, dell'ordine dei medici e del governo, che ha rettificato la convenzione di Oviedo che stabilisce il diritto del malato di rifiutare le terapie proposte dalle strutture sanitarie. Con la mia fondazione abbiamo creato un modulo che serve proprio a ribadire questo rifiuto e che può essere utilizzato da chiunque lo desideri. Io per primo ho firmato personalmente ilmio testamento biologico: «Io sottoscritto, Umberto Veronesi,nato a Milano il 28 novembre 1925, nel pieno delle mie facoltà mentali e in totale libertà di scelta dispongo quanto segue: in caso di malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante chiedo di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico o di sostegno, nutrizione o idratazione. Nomino mio rappresentante fiduciario mio figlio Paolo Veronesi». Queste sono le mie volontà e dovranno essereassolutamente rispettate dai medici che si prenderanno cura di me. In sostanza, questa è una dichiarazione molto semplice: poche righe, pochi istanti di lettura, ma sono veicolo di un forte conUmberto Veronesi 87 tenuto, una forte indicazione ai medici su come comportarsi in una condizione di coma irreversibile. Questa dichiarazione presuppone una serie di principi, in parte previsti dall'articolo 32. La Costituzione non ha fatto altro che prendere atto di un atteggiamento che ormai si stava imponendo nella sanità italiana. Nel corso degli ultimi decenni si è passati da una medicina paternalistica a una medicina che mette in primo piano i diritti del paziente. Nella medicina paternalistica al medico veniva assegnato il compito di decidere e il paziente doveva affidarsi a lui in maniera incondizionata. Questa organizzazione sanitaria è storicamente comprensibile, perché rispecchiava la situazione sociale dei secoli scorsi, quando il livello culturale delle classi più deboli, non solo in Italia ma in tutto il mondo, era molto basso e pertanto era difficile immaginare che un paziente, magari analfabeta, si intromettesse nelle decisioni mediche. Ma il mondo cambia, e la storia ha dimostrato che ormai tutti i cittadini hanno raggiunto un sufficiente livello di consapevolezza o possono comunque essere resi consapevoli delle loro condizioni di salute e delle implicazioni che una malattia può comportare in termini di previsioni future. Ormai per legge sono stati affermati da una parte il diritto del malato al consenso informato e dall'altra il dovere del medico di fornire al paziente tutte le informazioniaffinchè egli possa sottoscrivere il consenso alle cure. Quindi, se il paziente deve sottoscrivere il suo consenso alle cure, implicitamente si accetta la possibilità che egli non voglia farlo, e il consenso informato diventa così anche una pratica che rispetta la Costituzione laddove afferma che nessun trattamento può essere imposto a un paziente che non desideri riceverlo, sottolineando tra l'altro che la legge deve rispettare i diritti della persona umana. Quali sono questi diritti? Secondo me, e lo dice l'articolo, sono i diritti alla libertà di decisione, perché la prima libertà in democrazia è poter I: ;i I 88 Niente paura decidere di se stessi. Nessun individuo deve subire imposizioni concernenti i suoi comportamenti, quando questi non ledano altre persone. È un articolo inattaccabile, è difficile immaginare che un atteggiamento legislativo che vada contro questo principio possa essere considerato costituzionale. Anche Beppino Englarosostiene che l'articolo 13 è inviolabile. La vicenda Englaroè una storia molto personale che hapermesso però la lettura di un intero paese. Quali considerazioni sul nostro paese le ha suggerito questavicenda? Credo che l'Italia debba essere grata a Beppino Englaro, perché invece di ricorrere a qualche sotterfugio per rispettare in silenzio la volontà di sua figlia, lui ha combattuto una battaglia aperta. La sua è una posizione chiarissima, improntata al rispetto del pensiero di sua figlia, e lui ha voluto porre apertamente il problema al paese. Grazie a lui, il paese ha ottenuto per la prima volta la consapevolezza di questo problema, la maggior parte degli italiani non ci avevano mai pensato, nessuno aveva mai sollevato il tema, e quindi il caso Englaro ha innescato un meccanismo mediatico di discussione molto acceso ma anche molto utile. Se n'è parlato in famiglia, ci si è confrontati tra generazioni diverse, tra fratelli, con i genitori, gli amici, nel mondo legislativo, in Senato. Alla Camera non ancora, ma in Senato c'è stata un'attività molto intensa di dibattito sul testamento biologico, perché la tematica ha colto tutti alla sprovvista, non era maturata una cultura in tal senso. È stato un argomento che ha fatto crescere il paese, ha fatto crescere la consapevolezza e ha preparato la strada a un dibattito veramente ampio su come dovrà essere regolata oconcepita o accettata la parte terminale della vita. Le riporto una considerazione di Roberto Saviano, che dice che il nostro paese sta diventando più egoista. E un'impressione giusta o no, secondolei? Umberto Veronesi 89 No, io ho molta fiducia che nel paese acquisiscano sempre maggior forza le spinte umanitarie, solidaristiche. Certo c'è una generazione di mezzo che mi sembra ancora legata all'atteggiamento egoistico che Saviano denuncia, ma lagenerazione in arrivo è diversa: vedo centinaia di ragazzi che partono per i paesi più lontani, per aiutare le persone di lì. Medici che vanno a fondare ospedali in Africa, in India, inAfghanistan, per cercare di arrivaredove ormai lo sfacelo della politica o la gravita dei conflitti impedisce agli individui di avere una vita accettabile. I movimenti solidaristici sono molto forti, le Onlus italiane dedite a combattere la sofferenza sono migliaia. Ecco perché credo che ci sia molto spazio per i giovani. Internet consente di scambiarsi una quantità di notizie, con effetti concreti in gran parte positivi: io ho tanti figli, ho quindici nipoti, vivo molto da vicino l'evoluzione della nuova generazione e sono davvero entusiasta di loro. Come sempre, la generazione di mezzo da addosso ai giovani perché è normale che accada, ma qui in Italia i giovani ci stanno dando una lezione e io credo che una generazione come la nostra, che ha partecipato al fascismo, al nazismo e che ha fatto la guerra, l'ha accettatao l'ha addirittura provocata, non possa ergersi a criticare i giovani d'oggi. La Costituzione è l'insiemedi regole che gli uomini si danno dasobriper camminar dritto quando saranno ubriachi. Cosa ne pensa? Quando mi chiedono: «Noi religiosi abbiamo un codice etico, cattolico, che rispettiamo. Voi laici che codice etico avete?». Ma la Costituzione italiana! La Costituzione italiana è estremamente avanzata ed è sorprendente che sia stata composta con un simile equilibrio tra la componente umana, tipica di una civiltà avanzata, di slancio solidaristico, e quella individuale, incentivante la libertà del singolo. Soprattutto la nostra Costituzione ha posto, a garanzia di questo equilibrio, un organo giudiziario bene equilibrato, ed è stato quasi un 90 Niente paura miracolo se si pensa a quando è stata scritta. Credo che se dopo tanti anni quella carta è sostanzialmente ancora valida e ritenuta tale da tutti, questo dimostra che è stata il frutto di una storica vittoria del buon senso del nostro paese. Se ha un sogno, cosa sogna per questopaese? Lotto da una vita contro i tumori e quindi il mio sogno più privato, più mio, è riuscire a vedere approssimarsi la fine di questa lotta. Per il mio paese sogno che torni a essere una democrazia completa, più tollerante, meno divisa, con una classe politica più... assennata, più ponderata, capace di dar vita a dibattiti di maggior sostanza incentrati sui grandi temi. Soprattutto vorrei che esprimesse una visione più strategica del futuro. Abbiamo bisogno di formare una nuova generazione che dia vita a una società della conoscenza, una società del rispetto delle regole della vita. Ho detto che sono ottimista, ma certamente viviamo una fase non facile, non stiamo andando nella direzione auspicabile, stiamo penalizzando i giovani perché non abbiamo dato sufficiente importanza alla ricerca, alla scienza, alla forza della ragione e alla conoscenza. L'istruzione non è sostenuta come meriterebbe, l'intero sistema educativo del nostro paese è abbastanza debole, per non parlare del mondo dell'arte, del cinema, della cultura: sono sempre stati la nostra forza, la forza del nostro pensiero più evoluto, più elevato, di tutta la fantasia che deve liberarsi, della capacità immaginativa del nostro popolo. Bene, queste punte di eccellenza non sono aiutate come dovrebbero. Javier Zanetti Qual è il tuo rapporto con l'Italia? Quando sono arrivato avevo ventun anni e tutto era un'esperienza nuova, importante. Era una sfida. Il calcio italiano mi sembrava così lontano, visto dall'Argentina. Lì giocavo in serie A, è vero, ma in una squadra piccola, e stavo appena iniziando a muovere i miei primi passi in Nazionale. L'Italia per me era una sfida importantissima. Così quando sono arrivato mi sono trovato in una città come Milano, imponente e luminosa, tanto diversa da ciò a cui ero abituato. In Argentina abitavo in un quartiere molto piccolo e povero e quindi ho dovuto confrontarmi con un'altra realtà, un'altra lingua, altre persone: era come iniziare una nuova vita. Devo dire che tutte le persone che mi sono state accanto mi hanno aiutato tantissimo ad abituarmi e oggi mi sento pienamente italiano. Aver vissuto la mia carriera tutta all'interno di una grande squadra come l'Inter, con tutta la sua storia, ed essere riuscito a diventarne quasi la bandiera è un sogno per me. Qui sono passati tantissimi campioni, uno su tutti Palchetti, che per me è stato un punto di riferimento, e oggi essere il capitano di questa squadra è un motivo di orgoglio e gratitudine. Come mai una canzone di Ligabue è diventata il coro dei tifosi ogni volta che segna l'Inter?