gli bastavaessere se stesso. Come la Loren che è naturaliter la popolana in carriera. O come Gassman, narciso anti-italiano nel Paese che è un giardino di narcisi. O come Volente, che era l'italiano arrabbiato e fragilissimo. Così Sordi era il simpatico che vuole piacere a tutti,che sogna una regina ma consuma velocemente e per tutta la vita cameriste, attrici e donne del varietàcome beni di conforto, sincero e perfetto idealtipo dell'ordinario italiano, quello che appunto non piace all'italiano che non si piace, che non sa ridere dell'italianità, perché è un difetto che non vuole avere, che spera di non avere. «Corriere della Sera», 26 febbraio 2003 Remo Bodei // Gatto e la Volpe «Una d'arme, di lingua e di cor»: questa l'Italia sognata dai patrioti del Risorgimento. Quando l'unità fu raggiunta, al prezzo di sangue e di compromessi, difficile fu però «fare gli Italiani». Se ne accorse Collodi scrivendo Pinocchio,uscito in volume nel 1883. Il burattino di legno è l'emblema dell'italiano grezzo e pieno di difetti che deve essere educato e trasformato in bambino in carne e ossa. Allegoricamente, un cittadino consapevole dei principi e delle regole della convivenza. A modo suo, il libro è, insieme, un romanzo di formazione individuale e la metafora delle tentazioni e delle prove che un giovane Stato deve superare per uscire dalla fame, dall'autoritarismo, dagli imbrogli e dalla corruzione. Il burattino deve così abituarsi a evitare gli sprechi (a mangiare le bucce e i torsoli delle pere), imparare a lavorare «girando il bindolo» per tirar su anche cento secchi d'acqua in cambio del bicchiere di latte che l'ortolano Giangio gli da per Geppetto convalescente. Pinocchio deve poi guardarsi dal Gatto e la Volpe, che non sono certo la personificazione del principe di Machiavelli, della golpe e del lione. Il loro scopo non è, infatti, quello di far uscire il popolo dalla decadenza e dal degrado, se necessario, per mezzo di rimedi estremi, ma di turlupinaregli ingenui a proprio vantaggio con raggiri, belle parole e promesse assurde (come quella di far crescere e moltiplicare gli zecchini d'oro). Viene da chiedersi quante incarnazioni del Gatto e della Volpe gliItaliani hanno conosciuto nella loro storia e quanto 119 spesso hanno ceduto alle loro lusinghe, condividendo i loro miraggi. Può un Paese di furbi - come talvolta ci consideriamo - diventare vittima della propria presunta astuzia? Nei colloqui con Emil Ludwig, Mussolini aveva notato la disponibilità dell'uomo moderno a credere all'incredibile, una credulità che gli permetteva di plasmare la massa degli Italiani secondo i propri progetti, servendosi, come disse nel 1933, di «due redini: entusiasmo e interesse. Chi si serve soltanto di uno dei due corre pericolo. Il lato mistico e il politico si condizionano». Nei totalitarismi del secolo scorso la disponibilità a credere l'incredibile ha condotto a immani disastri. Sono peraltro sempre esistite minoranze virtuose di «apoti» (coloro che non bevono i proclami della propaganda), di persone capaci di resistere alle seduzioni delle ideologie. Se, indubbiamente, nelle democrazie la coscienza critica siè enormemente acuita, è davvero venuta meno la disposizione di molti a credere ai sogni preconfezionati e a rinunciare al principio di realtà in favore del principio di piacere? E noi Italiani siamo più soggetti di altri popoli al fattore G & V (Gatto e Volpe)? Nelle Conversazioni a tavola del 1942, fra le stravaganti e funeste teorie che Hitler discute con i suoi commensali vi è quella per cui in futuro sarà costretto a far guerra all'Italia, in quanto il Duce ha deciso di piantare trentacinque milioni di alberi in modo da rendere più freddo il clima e così temprare e indurire il carattere degli Italiani. In tal modo tuttavia argomenta il Fùhrer - il clima della Germania peggiorerà, diventando assai più nebbioso e umido. Bisogna dunque impedire questo rimboschimento. Servirà la Forestale a fare gli Italiani? «Il Sole 24 Ore», 17 febbraio 2008 Raffaele La Capria Arlecchino., Pinocchio,Pulcinella Quale popolo ama parlar male di sé autodenigrandosi appassionatamente più del popolo italiano? E in quale popolo il sentimento della patria è meno orgogliosamente esibito, fino al punto di mostrare una certa riluttanza a cantare l'inno nazionale nelle pubbliche manifestazioni (per esempio, una partita internazionale di calcio)? E non abbiamo spesso letto sui giornali dichiarazioni come «mi vergogno di essere italiano» fatte con supponenza e come vantandosi? L'Italia è un Paese che non si ama e ci sono buone ragioni storiche (e recenti e recentissime) per non amarsi. Meglio però sarebbe darsi da fare per migliorare con le opere e i comportamenti il sentimento verso il proprio Paese e il suo buon nome, perché dopotutto ci conviene. Nell'Europa delle patrie, chi non ha una patria diventa vittima delle patrie altrui, e queste sono ben determinate a difendere non solo l'onore, ma insieme anche i loro interessi economici e commerciali. Detto questo, quale Paese è stato più genialmente «creativo» nel denigrarsi? Quale Paese ha più genialmente capovolto il senso di questa autodenigrazione, trasformandolain una allegra, benché impietosa, teatrale forma d'arte? E quale ironica e profonda cognizione di sé radicata nell'anima popolare ha prodotto tre archetipi, tre suoi rappresentanti,trepersonaggi più veri di Arlecchino, Pinocchio e Pulcinella? Provenienti dal Nord, Centro e Sud del Paese, essi sono nati dalla prodigiosa fantasia del nostro popolo. La piccola borghesia, se così si può chiamare quella dei commerci e mestieri d'una volta, produsse anch'essa i suoi campioni, ma Brighella e Pantalone 121 non sono grandi come i tre che ho nominato. Con quei tre è come se l'Italia si fosse guardata allo specchio non ignorando i propri vizi e difetti, e senza troppo moralizzarcisopra com'è sua abitudine inveterata, ma obbedendo al motto: «Sii profondamente superficiale»,perché è vero, spesso la profondità si nasconde in superficie. Ma torniamo ai nostri tre campioni, agli italianissimiArlecchino, Pinocchio e Pulcinella, ilprimo e l'ultimo maschere della Commedia dell'arte, e Pinocchio che non è unamaschera ma è altrettanto rappresentativo. Arlecchino con la sua veste dai molti colori (che sono altrettante toppe e rammendi)è simbolo della rappezzataItalia delle molte diversità, l'Italia delle cento città e dei mille paesini, dei numerosi dialetti e delle tante culture, l'Italia delle infinite opinioni contrastanti,l'Italia divisa e sempre impegnata in un feroce disaccordo con se stessa. E però da un altro punto di vista, non è unico e meravigliosamente appariscente il vestito di Arlecchino? E non è unica e di colori splendida la lingua italiana, unica e unificante ancora prima di ogni unità politica? Non sono uniche e meravigliosamente multicolori la Natura, l'Arte e la Lingua del Paese e la vivacità dei suoi abitanti? E vero, Arlecchino con le sue piroette nasconde l'astuziae il finto ossequio verso l'eterno padrone, lo deride, e anche in questo rivela la natura servile degli oppressi dalla storia, una storia di cui è inconsapevole. «Ahi serva Italia di dolore ostello!». Fu la storia che la rese divisa e serva, e il vestito di Arlecchino viene da lì. Una storia secolare coi suoi cicli e le sue leggi del contrappasso, padrona ieri serva oggi. Ma quando arrivarono i barbari, l'Italia, come la «Graecia capta», livinse con la Commedia divina, col Canzoniere dell'Amore, con la Scienza Nuova di Vico e Galileo. Ed è su questo maestoso fondale che si muovono le maschere dell'eterna Commedia all'italiana, e i nostri Arlecchino, Pinocchio e Pulcinella. L'Italia vinse i barbari con questa musica: «Voi che ascoltate in rime sparse il suono / di quei sospiri ond'io nudriva il 122 core / in sul mio primo giovanile errore / quand'era in parte altr'uom da quel ch'i'sono...». L'Italia li vinse con laBellezza. Cosa c'è di più bello di questa santa lingua unificante? Anche Arlecchino, a modo suo, fa parte di questa Bellezza. Col suo vestito, le sue piroette, e la fame atavica che lo rende servile, egli danza la danza della vita. E Pinocchio, con tutti i suoi vizi ingenuamente scoperti e così visibili, pur non essendo una maschera ha lo stesso estro e la stessa danzante levità,perché è infantile, è intraprendente e pieno di desideri naturalissimi,e non disdicevoli quanto gli rimprovera il Grillo parlante. Il Gatto e la Volpe ci fanno capire quanto grande è la sua ingenuità e quanto lui è indifeso. Il suo naso è lungo, e appunto si vede, e tutti si accorgono quando s'allunga che Pinocchio sta dicendo una bugia,tranne lui stesso. E però povero Pinocchio, le prende sempre! Tutti si approfittano della sua sventatezza. E quando infine ammazza il Grillo parlante e mette a tacere il conformistico moralismo delle buone cause (e della superiore coscienza) a pensarci bene non ha torto, la sua è una rivolta contro un moralismo che nel nostro Paese spesso è strumentale ed op- pressivo. E infine Pulcinella, che viene dal profondo Sud, dagli inferi, che combatte col diavolo, con la Morte (e la uccide!), sempre perseguitato dalla fame divorante e guidato dall'istinto di conservazione, Pulcinella che da mazzate e le prende di santa ragione, a tutto sopravvive perché lui è un «eroe di sopportazione». E mentre Arlecchino si finge una lauta cena con pezzi di carta disposti come pietanze, Pulcinella è più impulsivo e non si permette queste raffinatezze, ha una natura ferina, e quando gli capita afferra con le mani gli spaghetti es'ingozza. Sa che non sono molte per lui queste occasioni. Arlecchino, Pinocchio e Pulcinella sono l'Italia del popolo, che si rappresenta, si denigra e si riscatta con la felicità che trasmette questo trio. Un'Italia del passato, ma che si può riconoscere oggi dovunque. Tre personaggi ma anche «maschere», che non sono cioè tutto quello che dicono e che 123 fanno, perché recitano se stessi, perché hanno teatralizzatole loro debolezze e il loro slancio vitale. Ed è questo uno sdoppiamento che solo le grandi civiltà si possono permettere. Parlar male di sé, come noi italiani facciamo, può dunque avere molteplici e complicati risvolti, e può anche essere inteso come una terapia di chi sa di essere malato, ovvero anomalo, ma sa anche che alla fine ce la farà. E questo ci dicono Arlecchino, Pinocchio e Pulcinella. «Corriere della Sera», 21 novembre2009 Parte quarta Una giornata da italiano