DAL REALISMO AL simbolismo sulla rassicurante siepe che circoscrive uno spazio chiuso e familiäre, dove non si corrono rischi ma si puö attendere in pace la propria morte. La siepe, che neliTre/m/ŕo di Leopardi rappresenta un limite soffocante, un ostacolo ehe ľimrnagi-nazione vuole e puö superare, si trasforma nella poesia di Pascoli in una barriera ehe lo difende dall'insidiosa realtä dei ricordi e delia víta: alľopposto di Leopardi, Pascoli sceglie di rinchiudersi nella sieurezza del finite, rifuggendo spaventato dal mistero ínquietante delia dimensione cosmica che pure lo attrae: «Come tutti coloro ehe hanno ricevuto un colpo e non si sa se é stato piú forte íl dolore o lo spavento, il Pascoli da una parte fugge e da un'altra si volge a guardare. Fugge verso le piecole, familiari creature delia casa e del bosco, si volge verso la notte, quella notte irreparabi-le» (Luzi). a iTERATiVA A livello formale, ě evidente la struttura iterativa delia poesia: tutte le strofe hanno lo stesso incipit, rafforzato nella seconda da nascondimi alľinizio del secondo verso e nella quinta da nascondile (nella stessa posizione). Partícolare ľinsistenza sulľelernento binario: oltre ai due peschi e ai due meli del v. 15» notiamo nella príma strofa il doppio vocativo {tu nebbia [,..,] tufumo), la doppia ag-gettivazione di nebbia [impalpabile e scialbd), il doppio complemento di origine (da larnpi [...] e da wollt); nella seconda strofa, ľiterazione dell'imperativo ribadisce ehe il poeta prega la nebbia di nascondergli due fantasmi inquietanti {le cose fontáne e quello ch'e morto) e di consentirgli la vista di due cose familiari e rassieuranti {la siepe dell'orto e la mura con la valeriána ehe fiorisce tra le sue crepe). Sul piano fonico-timbrico, sí manífesta la consueta penzia pascoüana, qui tesa alia realizzazione di una cadenza iterante e lenta: per esempio, la dieresí del v. 12 allunga e rallenta la pronuncia di valeriáne, rafforzando ľeco implicita nella ripetízione delia rima -ane in ciascun verso finale di strofa; la stessa funzione assume ľannominazione del v. 26, ehe ě inoltre coinvolta in un forte enjambement (volo i del cuore). Si potrebbe continuare a lungo, ma ci limitiamo ad attirare ľattenzione sulla prima strofa, dove lampi del v. 5 ě anticípato anagrammaticamente da BÁPALpabile e da rAMPolLI (per ta-cere di altri légami fonici, comunque facilmente indixdduabili a una lettura attenta e "mirata"). Giovanni Pascou II gelsomino notturno Da Canti di Castelvecchiq La linea fu pubblicata per la prima volta nel 190T nell'opuscolo nuziale dedicato a un bibliotecario lucehese amico di Pascoli, Gabriele Brrganti, e inserita poi nella prima edizione dei Canti con 1'aggiunta dí una nota deďautore: «E a me pensí Gabriele Briganti risentendo l'odor del fiore che olezza nell'ombra e nel silenzio: l'odore del Gehomino notturno. In quelle ore sbocció un fiorellino che unisce (secondo 1'intenzione sua), al nome ďun dio e ďun angelo, quello ďun pověro uomo: voglio dire, gli nacque Dante Gabriele Giovanni». Briganti infatti aveva associato, nel nome dato al figlio, quello del pittore preraffaellita Dante Gabriel Rossetti (dove giá sono uniti il nome di un «dio» - Dante - e quello delTangelo Gabriele) e quello dell'amico poeta. Come hanno dimostrato studi recenti (di Ebani), l'ideazione dei primi abbozzi della poesia risale al 1897-98, e l'occasione nuziale suggeri dunque solo la rielaborazione di un motivo poetico giá awiato. Un singolare precedente tematico della lirica ě stato individuato da Perugi in una poesia di Guido Mazzoni, A mia moglie (antologizzata da Pascoli in Fiorda fiore): «Ti rivedremo mai, cheto giardino, / ove sotto le Stelle errammo tanto? / Olezzando si apriva il gelsomino / notturno a ber de le rugiade il pianto; // e gli alberi stormian quasi di festa, / ché sapean 1'amor nostro e l'awenir. / Ecco una nuova culla oggi si appresta; / pur vuole un pargoletto in vita uscir». Metro Sei quartine di novenari a rima alterna; abab. In ogni strofa, i primi due novenari hanno accenti di2a, 5* S", gli ultimi due di T, T, 8a, cosi da creare un'altemanza fra ritmo ascendente e ritmo discendente. Neil'ultima quartina ě presente una rima ipermetra, petali: segreta, in cuí ľultima sillaba di petali {-li) si elide con la prima parola del verso seguente (che inizia per vocale: un), cosi da consentírelarima "perfetta" pETA(íi): segrETA. 1 i fiori notturni il gelsomino di Spagna, o be 11 a -d i - notte {A4/ra 6i7/s ialapa), apfe solo di notte, dal tra-monto alľalba, i suoi grandi fiori a imbuto, bianchi alľinterno e rossi alľesterno. I nelľora... cari íl erepuscolo é ľora in cui il poeta con maggiore intensita e rimpianto ricorda i suoi can defunti. Forse é qui presente il ricordo del celebre incipit del canto VIII del Purgatorio: «Era giä ľora che volge il disio / ai navicanti e 'ntenerisce il core / to dl c'han detto ai dolci amici addio». 3 viburni fiori con corolle grandi e bianche. 4 le farfalle crepuscolari «Le farfalle notturne, frequenti nella poesia pascoliana [...] per la loro valenza sirnbolica d'ascendenza dantesca {Purg. X, 124-125: «Noi siam vermi/nati a formar ľ angelica farfallaw), e ancor piú come portatrici privilegiate del connub-biodi EroseThanatos. Da un lato infatti esse esibiscono emblemi di morte [poiché akune, per esempio le Sfingidi, hanno sul dorso una macehia a forma di teschio], dal-ľaltro cooperano al processo di fe-condazione dei fiori* (Nava). 5 i gridi degli uccelli. 6 bisbiglia e metafora amorosa (Nava). 9-10 Dai calici... rosse dalle co- rolfe aperte del gelsomino si diffon-de un profumo simile a quello delle fragole, «ll Pietrobono e il Vicinelli interpretano erroneamente come se al profumo del gelsomino s'ag-giungesse quello piú intenso delle fragole rosse, mentre in realtä l'odore di fragole rosse e un parago-ne implicitü, istituito su base analo-gica e sinestetica. Nei primi abbozzi si legge infatti: "NeH'ombra crescents i gelsomini notturni apriro-no i loro petali rossi... e esalano odordi fragola"» (Nava). 12 Nasce... fosse l'erba- che na-see sopra le fosse testimonia il continuare della vita, il suo awi-cendarsi alla morte nel mondo naturale. 13 tardiva "che arriva in ritardo" all'alveare 14 prese le celle "occupate le cellette" deH'alveare. 15-16 La Chioccetta... stelle Chioccetta e «nome contadmo delle Pleiadi» (Pascoli), e l'aia az-zuua e il cielo; pigolio di stelle e una catacresi (scambio di senso) che «alla vista sostituendo l'udito fa sentire, "vedere" meglio la pic-colezza di quei pulcini di stelle» (Vicinelli). 17-18 s'esala l'odore si ricordi che il profumo dei fiori e legato al loro processo di riproduzione, poi-che ha la funzione di richiamare gli insetti, indispensabili al trasporto del polline. 21-241 l'alba... nuova all'albasi richiudono i petali del gelsomino, un po' sdupati dall'umiditä nottur-na e dagli insetti che hanno porta-to in essi il polline, cosi che ora nel-l'ovario iurna), collocate all'intemo del fiore, sta compiendosi il mistero della riproduzione. E chiara ma de-licatissima la metafora sessuale presente in questi versi. E s'aprono i fiori notturni, nell'ora che penso a' miei cari. Sono apparse in mezzo ai viburni le farfalle crepuscolari. Da un pezzo si tacquero i gridi: lä sola una casa bisbiglia. Sotto l'ali dormono i nidi, come gli occhi sotto le ciglia. Dai calici aperti si esala l'odore di fragole rosse. Splende un lume lä nella sala. Nasce l'erba sopra le fosse. Un'ape tardiva sussurra trovando giä prese le celle. La Chioccetta per l'aia azzurra va col suo pigolio di stelle. Per tutta la notte s'esala l'odore che passa col vento. Passa il lume su per la scala; brilla al primo piano: s'e spento.. E l'alba; si chiudono i petali un poco gualciti; si cova, dentro l'urna molle e segreta, non so che felicitä nuova. Analisi del Testo Tra vita e morte Ľ"lNOETERMINATO" PASCOUANO 368 Il uvello metrico La poesia ě costruita mediante il succedersi, in un processo non razionale ma analogÍcoT di imma-gřni destinate a rappresentare il terna, cui Pascoli si accosta con turbamento, delľeros. Dominante risulta la coppia oppositiva vita/morte che si concentra ai w. 1-2 neU'irrimagine dell'aprirsi dei fiori notturni e nel ricordo dei familiari defunti; al v. 12 con il nascere delľerba sulle fosse; al v. 23 dove l'urna da elemento funerario si trasforma nella metafora del ventre femminile ricettacolo della nuova vita; ma che trova testimonianza anche nelie farfalle crepuscolari, con ľŕmrnagine del teschio disegnato sulle loro ali, nel silenzio e nel sonno degli uccelli. La simbologia sessuale percorre le fragole rosse, le celle, i calici aperti, il lume che viene seguito su per la scala fino a che si spegne, e soprattutto i petali / un poco gualciti e ľ uma molle e segreta, in cui trova prepotente espressione la fisicita, anche violenta, dell'amore in una visione «caratterizza-ta da euriositä morbosa e senso di colpa» che rivela «immaginazione accesa e senza base realistica, tendenze voyeuristiche e angoscia» (Gioanola). Parlando ancora della dialettica fra "determmato" e "indeterminate-'' (cfr. l'Analisi del testo a Nebbia, pp. 367-368) Contini si sofferma suW'indpit e svU'explicit della poesia: Il gelsomino notturno si apre su E, cioě su una di quelle particelle che nella lingua ordinaria segnano una connessione, una giuntura; se non che la giuntura qui ě con qualcosa che precede la poesia, quindi in un certo senso segna la continuita non tanto con il mondo pre-grammaticale, ma addirittura con il mondo che precede l'espressione. La chiusa {non so che felicitä nuova) ě affidata al "non so che" di tradizione tardo cinquecentesca, che ci ricorda quanto Leopardi nello Zibaldone scrive a proposito della poe-ticitä delle parole ^determinate, come "forse>>. Come la eritica ha ripetutamente rilevato, l'apparente monotonia metrica della poesia, composta interamente di novenari a rima alterna, ě in realtä sottilmente mossa da caicolate variazioni ritmi- 369 Dal realismo al slmbolismo GlOVANNI PASCOLl ehe: in ogni strofa i primi due versi hanno ritmo dattilico (con accenti di 2a, 5a, 8a) e gli ultimi due ritmo trocaico (con accenti di 3", 5" e 8*). Alia bipartizíone ritmica di ogni strofa corrisponde un an-damento sintattico di Úpo prevalentemente binario (con ľeccezione dei w. 20 e 22, il secondo verso della strofa si chiude sempře con un punto fetmo). Inoltre, nei due versi Sňali delia terza e delia quinta strofa (w. 11-12 e 19-20), ehe iníziano tutti con una voce verbale {Splende, Nasce, Passa, bril-la), ě molto marcato ľaccento sulla prima sillaba (e si attenua di conseguenza ľaccento di 3"). Alio schema sintattico-ritmico indicate si sottrae parzialmente ľultima strofa, concettualmente fondamentale, sulla quale Pascoli sembra voler attirare ľattenzione dandole una pausazione inedita: í due punti spezzano con forza il v. 21, sottolineando Yenjambement petali I un poco guakiti, isolato anche dal punto e virgola a metä del v. 22 e preziosamente messo in evidenza dalla rima ipermetra petali: segreta. POEMI CONVIVIALI La raccolta venne pubblicata in prima edizione nei 1904, a Bologna presso Zani-chelli, e -fu riedita, con I'aggiunta di un testo, I'anno successivo. I venti poemi devo-no la qualifica di «conviviali» probabilmente al fatto che alcuni di essi uscirono sulla rivista "II Convito" di Adolfo De Bosis, ma anche alia volontá di creare un richia-mo ai latini carmina convivalia (componimenti poetici che venivano recitati durante i banchetti): i testi, per lo piú in endecasillabi sciolti, dall'impianto narrativo, met-tono in scena miti e personaggi del mondo classico. I/ultimo viaggio Da Poemi conviviali E il piu lungodei Poemi conviviali (1211 versi suddivisi in 24 brevi canti), eforse il piu rap-presentativo in quanto «possiede un valore compendiario rispetto alia totalrta di spunti letterari, mitici, filosofici e storici relativi all'eta antica presenti neila raccolta» (Marcolini). La rilettura del personaggio di Ufisse porta Pascoli a riflettere sul crollo di quel mondo eroico e mitologico che ha scelto di rappresentare e a cui guarda con la nostalgia di chi vive in un mondo dominato dalla razionalita. Riportiamo qui I'episodio del ritorno all'isola dei Ciclopi (canti XIX e XX). XIX II Ciclope Ecco: ai compagni disse di restare presso la nave e di guardar la navě. Ed egli alTantro giá movea, soletto, per lui vedere non veduto, quando parasse i greggi sufolando al raonte. Ora alTEroe parlava Iro il pitocco: «Ben verrei teco per veder quelluotno che tanto mangia, e portar via, se posso, di sui cannicci, giá seolati i caci, e qualche agnello dai gremiti stabbi. Poi ch'Iro ha fame. E s'ei dentro ci fosse, il gran Ciclope, sai ch'Iro ě veloce Metro Endecasillabi sciolti. XIX 4 lui il Ciclope. 5 parasse "riportasse". 6 iro il pitocco I'accattone (pfe-sentato in Odissea, canto XVIII) tro-vatosi a condividere il viaggio di Ulisse a sua insaputa, poiche al momento della partenza stava dormendo nella stiva della nave. 9 cannicci "graticci". 10 stabbi terreni recintati nei quail il bestiame viene rinchiuso durante la notte. 13 Iri Iride, messaggera degli děi. 22-23 i primatícci, i mez2anelli e i serotini "di eta giovane, media, tarda", 25 altocinta "con un'alta cintu-ra" (tipico epiteto omerico). 4748 «Ospite... dono» Odisseo allude al suo incontro con il Ciclope Polifemo, narrate nel canto IX dell'Ocfesea. 52 chiusi "stabbi". 54Ch'egli "perchéegli". 55 un... selva "una grande quan-titá di legname", 370 XX 8suggea "succhiava". ben che non forte; ě come Iri del cielo che va sul vento con il pie di vento». L'Eroe sorrise, e insieme i due movendo, il pitocco e l'Eioe, giunsero all'antro. Dentro e' non era. Egli pasceva al monte i pingui greggi. E i due meravigliando vedean graticci pieni di formaggi, e gremiti d'agnelli e di capretti gli stabbi, e separat! erano, ognuni ne' loro, i primatícci, i mezzanelli e i serotini. E ďuno dei recinti ecco che usci, con alia poppa il bimbo, un'altocinta femmina, che disse: «Ospiti, gioia sia con voi. Chi siete? donde venuti? a cambiar qui, qual merce? Ma ľuomo ě fuori, con la greggia, al monte; tra poco toma, ché giä bručia il sole. Ma pur mangiate, se il tardar v'e noia», Sorrise ad Iro il vecehio Eroe: poi disse: «Ospite donna, e pur con te sia gioia. Ma dunque ľuomo a venerare apprese gli dei beati, ed ora sa la legge, benché tuttora abiti le spelonche, come i suoi pari, per lo seabro monte?» E ľaltocrnta femmina rispose: «Ospite, ognuno alia sua casa ě legge, e della moglie e de' suoi nati ě re. Ma noi non deprediamo altri: ben altri, ch'errano in vano su le nere navi, come ladröni, a noi pecore o capre hanno predate. Altrui portando il male rischian essi la vita. Ma voi siete vecehi, e cercate un dono qui, non prede». Verso Iro il vecchio anche ammiccö: poi disse: «Ospite donna, ben di lui conosco quale sia l'ospitale ultimo dono». Ed ecco un grande tremulo belato s'udi venire, e un suono di zampogna, e sufolare a pecore sbandate: e ne' lor chiusi si levo piu forte il vagir degli agnelli e dei capretti. Ch'egli veniva, e con fragore immenso depose un grande carico di selva fuori delľantro: e ne rintronö ľantro. E Iro in fondo s'appiattô tremando. XX La Gloria E ľuomo entrô, ma ľaltocinta donna gli venne incontro, e lo seguiano i figli molti, e le molte pecore e le capre ľuna alľaltra addossate erano rmpaccio, per arrivare ai piecoli. E infinito era il belato, e ľalte grida, e il fischio. Ma in breve tacque il gemito, e ciaseuno suggea scodinzolando la sua poppa. Dal realismo al .simbolismo E l'uomo vide il vecchio Eroe che in cuore meravigliava ch'egli fosse un uomo; e gK parló con le parole alate: «Ospite, mangia. Assai per te ne abbiamo». Ed al pastore il vecchio Eroe rispose: «Ospite, dimmi. Io venni di lontano, molto lontano; eppur io giá, dal canto ďerranti aedi, conoscea quesťantro. Io sapea ďun enorme uomo gigante che vivea tra infinite greggie bianche, selvaggiamente, qui su i monti, solo come un gran picco; con un occhio tondo...» Ed il pastore al vecchio Eroe rispose: «Venni di dentro terra, io, da molťanni; enulla seppiduominigiganti*. E 1'Eroe riprendeva, ed i fanciulli gli erano attorno, del pastore, attenti: «che aveva solo un occhio tondo, in fronte, come uno scudo bronzeo, come il sole, acceso, vuoto. Verga un pino gli era, e gli era il sommo d'un gran monte, pietra da fionda, e in mare li scagliava, e tutto bombiva il mare al loro piombar giú..,» Ed il pastore, tra i suoi pastorelli, pensava, e disse all'altocinta moglie: «Non forse ě questo che dicea tuo padre? Che un savio c'era, uomo assai buono e grande per qui, Telemo Eurymide, che vecchio dicea che in mare piovea pietre, un tempo, si, da quel monte, che tra gli altri monti era piú grande; e che s'udian rimbombí nell'alta notte, e che appariva un occhio nella sua cima, un tondo occhio di fuoco...» Ed al pastore chiese il moltaccorto: «E 1'occhio a lui chi trivelló notturno?» Ed il pastore ad Odisseo rispose: «A1 monte? 1'occhio? trivelló? Nessuno. Ma nulla io vidi, e niente udii. Per nave ci vien talvolta, e non altronde, il male». Disse: e dal fondo Iro avanzó, che disse: «Tu non hai che fanciulli per aiuto. Prendi me, ben si vecchio, ma nessuno veloce ha il piede piú di me, se debbo cercar 1'agnello o rintracciare il becco. Per chi non ebbe un tetto mai, pastore, quesťantro ě buono. Io ti saró garzone». Analisi del Těsto 28Verga "bastone". 31 bombiva "rimbombava". 36 Telemo Eurymide dr. ii canto IX dell'Ocfeea (w. 508-510); «Visse qui un indovino nobile e grande, / Telemo Eurimide, che nel vaticinio eccelleva, / e vatianando invecchi6 traiCidopk 37-41 dicea.,, fuoco tutto fa pensare a un'eruzione vukarica, da cut evidentemente era nato ii mito del Cidope. 42 il moltaccorto Odisseo, "mol- toaweduto", 45 Nessuno nell'accezione di pro-nome, non di nome propno. si n-cordi che Odisseo aveva fatto credere al Cidope che a trivellaigli 1'occhio era stato un uomo di nome Nessuno. Commenta Leonelli: «11 Nessuno che aveva ingannato i Ciclopi toma a Odisseo denso d'u-na assai piu radicale forza nullifi-cante». 52 becco "caprone". 54garzone "servo". iL RIBALTAMENTO DEL MFTO 372 Nel raccontare le tappe del viaeeio di IUfa*. p i- segno. Tomato a Itaca, Ulisse non desceľ^d^^tÚ T* roves^olo di tersz ut mare ripercorrere, con i vecchi comS lľ2 ^ff* Tchíaia e decide rimet- Il modello oměrico 1 come... scoperse Pascoli allude qui a un pas-so del Fedone di Platon'e (77, E): «E Cebes con un sorriso, "Come fossimo spauriti, disse, o Socrate, prova di persuaderci; o, meglio non come spauriti noi, ma forse c'é dentro anche in noi unfanciuliino che ha timore di siffatte cose; costui dunque provia-moci di persuadere a non averpaura delia morte come di visaed d'orchi"». 2 ruzzano "scherzano, giocano". 3 si perita zione". 4 riposato "sta in sogge- 'maturo". Giovanni Pascou somma, ě caduto trascinando nel suo definitivo crollo anche ogni possibile significato e valore delia realtä. II ribaltamento in questi due canti si realizza nella presenza femminile, nelľospitalitä concessa, nel-le tracce di civilizzazione, nell'ap pari zione del pastore che ě un uomo e non un ciclope, e raggiun-ge il suo culmine con la comparsa in XX, v. 45 delia parola chiave delľepisodio omerico: il Nessuno con cui Odisseo ingarma il Ciclope, riacquista qui, infatti, il suo significato letterale cancellando cosi, come se mai fosse aceaduto, ľaccecamento di Polifemo. Molteplici gli espedienti stilistici di cui Pascoli si serve per ricalcare il linguaggio omerico: gli en-decasillabi con il loro respiro ampio e solenne, grazie soprattutto alla lunghezza dei periodi e alla conseguente frequenza degli enjambements; la frequenza degli íperbati {ai compagni disse, XIX, v. 1; alľantro gia movea, XIX, v. 3; per lui vedere, XDC, v. 4 ecc); la ricca aggettivazione (quasi sempře con aggettivo preposto: gremiii stabbi, XIX, v. 10; pingui greggi, XĎÍ, v. 18; seabro monte, XIX, v. 36); ľuso degli epiteti {altocinta, parole alate, il moltaccorto); lo stile formuláre {altoánta femmina/donna/moglie, XIX, w. 25, 37; XX, w. 1, 33). PENSIERI E DISCORSI II volume, pubblicato nel 1907, raceoglie numerose prose, giä edite in Miei pensieri di varia umanitä (1903). [«E dentro noi un fanciullino...»] Da II fanciullino in Pensieri e oiscorsi Pubblicato nel 1897 con il titolo Pensieri d'arte poetica sul "Marzocco" in quattro pun-tate, rielaborato e quindi raecolto nel volume Miei pensieri di varia umanitä nel 1903, edito in versione definitiva nel 1907 in Pensieri e discorsi, il testo (diviso nell'ultima re-dazione in venti paragrafi) rappresenta la riflessione teorica piu significativa di Pascoli, che qui elabora la coneezione di una poesia dal potere consolatorio e insieme infantile, rorrianticamente primigenia e chiaroveggente. i E dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in se lo scoperse,1 ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra etä e tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano2 e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica Serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. II quale tin-tinnio segreto noi non udiamo distinto nell'etä giovanüe forse cosi come nella piü matura, perche in quella, occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell'angolo d'anima donde esso risuona. E anche, egli, l'invisibile fanciullo, si perita3 vicino al giovane piü che accanto all'uomo fatto e al vecchio, che piü dissimile a se vede quello che questi. II giovane in vera di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; che ne sdegna la conversazione, come chi si vergogni d'un passato ancor troppo recente. Ma l'uomo riposato4 ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; e l'armonia di quelle voci e assai dolce ad ascoltare, come d'un usignuolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora. [...] Non l'etä grave impedisce di udire la vocina del bimbo interiore, anzi invita forse e aiuta, mancando l'altro chiasso intorno, ad ascoltarla nella penombra dell'anima. E se gli occhi con cui si mira fuor di noi, non vedono piü, ebbene il vecchio vede allora soltanto con quelli oc-chioni che sono dentro lui, e non ha avanti se altro che la visione che ebbe da fanciullo e che 373 43 374 Dal realismo al slmbolismo hanno per solito tutti i fanciulli. E se uno avesse a dipingere Omero, lo dovrebbe figurare vec-chio e cieco, condotto per mano da un fanciullino, che parlasse sempře guardando torno torno. Da un fanciullino o da una fanciulla: dal dio o dall'iddia: dal dio che semento nei precordi di Femio5 quelle taňte canzoni, o dall'iddia cuí si rivolge il cieco aedo di Achille e dí Odisseo.6 III Ma ě veramente in tutti il fanciullo musico? Che in qualcuno non sia, non vorrei credere né ad altrí né a lui stesso: tanta a me parrebbe di lui la miseria e la solitudine. [...] Ma io non amo credere a tanta infelicitá. In alcuni non pare che egli sia; alcuni non credono che sia in loro; e forse ě apparenza e credenza falsa. Forse gli uomini aspettano da lui chi sa quali mirabili dimostrazioni e operazioni; e perché non le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egh non ci sia. Ma i segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli ě quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alia luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l'ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli ě quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alia nostra ragio-ne. Egli ě quello che nella mořte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egh ě quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicitä e la sventura, temperandole d'amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa uraano l'amore, perché accarezza esso come sorella (oh! il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve), accarez-za e consola la bambina che ě nella donna. Egli nell'interno dell'uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell'uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio dell'anima di chi piú non crede, vapora7 d'incenso l'altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la clnciallegra che canta, ora vuol cogliere il fio-re che odora, ora vuol toccare la selce che riluce. E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nem-meno pensarle e ridirle, perché egli ě l'Adamo che mette il nome a tutto ciö che vede e sente.8 Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni piú ingegnose. Egli adatta il nome della cosa piú grande alia piú piccola, e al contrario. E a ciö lo spinge meglio stupore che ignoranza, e euriositä meglio che loquacitä: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammira-re. Né il suo linguaggio ě imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensien dia per una parola. E a ogni modo da un segno, un suono, un colore, a cui' riconoscere sempre ciö che vide una volta, XI II poeta, se ě e quando ě veramente poeta, cioě tale che significhi solo ciö che il fanciullo detta dentro, riesce perciö ispiratore dibuoni e civili costumi, d'amor patrio e familiäre e umano. [...] Ma il poeta non deve farlo apposta. II poeta ě poeta, non oratoře o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno ě, sia con pace del Maestro,10 un artiere11 che foggi spadá e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli12 e ceselli l'oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale in-finitamente piú il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette 1'uno e 1'altra. Egli, anzi, quando li trasmette, pur essendo in cospetto ďun pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello. Del pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!) piú per udir meglio esso, che per farsi intendere ad altrui. E, per usare imagini che sono presend ora al mio spirito, ě, si, per quanto possa spiacere il dirlo, un ortolano; un ortolano, si, o un giardiniere, che fa nascere e crescere fíori o cavolfiori. Sápete che cosa non ě? Non ě cuoco e non ě fiorista, che i cavolfiori serva in bei piatti, con buoni fntingoli, che i fiori intrecci in mazzetti o in ghirlan-dette. Egli non sa se non levare al cavolo qualche foglia marcia o bacata, e legare i fiori alia meglio, con un torchietto che strappa li per li a un salcio:13 come a dire, unisce i suoi pensieri con qualche ritmo nativo, che ě nelTanima del bimbo che poppa e del monello che ruzza. Ora il poeta sarä invece un autore di prowidenze civili e sociali? Senza accorgersene, se maestro a me 10, ch™° diopiantomminel cu0»/ ogniragjonedicaiiti , 6 «Ua... Odisseo Pa« all"* qui ai due ceeb proem, di /fetfe e Orfcj, che egli altrove cosi tradu del Peieiade Achille/funS bre causa agli Achei „ia d mínit, dobři, (,/,arjea /nrocazioneaifaMusa w' l:2);«L'uomo,oMusa',mi