Scrittura che brucia le mani - Il Cantico dei Cantici secondo Guido Ceronetti a cura di Silvia Longo Per tradizione, il Cantico dei Cantici è considerato metafora del legame tra Dio ed il Popolo d'Israele, o come simbolo del luogo più santo ed interno del Tempio di Gerusalemme, il Kodesh haKodashim. Attribuito a Salomone, come il libro della Sapienza, fu dunque inserito nella Bibbia ebraica e cristiana. Nel suo studio, Guido Ceronetti ci offre una traduzione del testo di straordinaria bellezza, sciogliendolo dalla necessità di un’interpretazione strettamente mistica, restituendogli la dimensione di un meraviglioso e passionale inno all’amore umano. Senza negare tuttavia che: “Dio nel Cantico non c'è, eppure Dio lo riempie. È poesia erotica il Cantico, eppure l'amore umano non ne è che l'ombra sul muro. Dio cerca Dio nel Cantico, ma Dio non può andare in cerca di se stesso.” Ceronetti “rompe per noi l’uovo del Cantico” per rivelarne il vuoto: “Si commenta il Cantico per un’oscura intolleranza del suo vuoto: riempirlo, metterci Dio. Se non c’è Dio allora è più che mai divino. Se c’è l’amore umano allora è la noce dell’amore angelico. (…) Quante care immagini potrei, del vuoto divino, evocare! Divino vuoto non è anche nelle malinconiche anfore di Orazio (…), e nel cadavere aperto dall’anatomista Deyman, che il sovrumano veggente Rembrant mi mostra come poema d’amore? E la spelonca di Montesinos, dove si cala Don Chisciotte e vede cose straordinarie, ma non ne rivela che pochissimo – e la spelonca è deprimente e vuota per chiunque non sia il veggente della Mancha - non è il Cantico col suo segreto? E il vortice dello Strom, dove precipita il pescatore di Lofoden, nel racconto di Poe (…). Un fantastico vuoto di Dio si spalanca nel viaggio dei tre personaggi di Verne al centro della terra (…) e nella balena di Pinocchio, e nella miniera di carbone di Germinal, favola sacra delle fiandre operaie (…).” Per concludere: “Il Cantico mi svuota (…). Poiché ne ho stretto finalmente tutta la profondità del segreto, non ho da rimpiangere lacune interpretative. Mi basta averlo, per amore della lingua italiana, strappato all’indecenza delle versioni senza poesia.” Se rompo davanti a te l’uovo del cantico, Dio mi perdoni. Ma capirà soltanto chi è predestinato a capire; l’interdetto non sarà che apparentemente violato. Ascolta: questo gioco casto e allusivo d’amore è stato introdotto da un sinodo in una raccolta di libri sacri, dove si parla di un Dio vivo e spirituale e di un popolo che in tutta la sua storia non farà che cercarlo e patirlo. Sta qui il deicidio profondo, nella vertigine della sua consumazione: si uccide Dio facendolo conoscere; gridando a tutti – invece di far scendere goccia a goccia la rivelazione per mezzo dei misteri e dei riti (…). Perché il Cantico sia stato messo nel catasto dei libri sacri mi sembra tuttora incomprensibile (…). Alla fine fu un’attribuzione di significato pietoso e morale a spingere il rotolo nel santuario, insieme alla pia menzogna della paternità salomonica. Fu subito disposta una favola accettabile e sublime: il Cantico è la figura dell’amore tra Dio e il suo popolo, un proseguimento delle allegorie nuziali ed erotiche abituali nei testi dei profeti. Oh bene… Questo sarà bello e buono, ma facile da disintegrare. La filologia e il buon senso preferiranno l’interpretazione letterale (…). Il Cantico esalta le nozze e gli amori umani, è un simpatico idillio pastorale (addirittura il più bello degli idilli pastorali), è il culmine della poesia orientale (…). E sarebbe santo dei santi perché Dio nel Cantico benedice le nozze e benedice l’amore carnale. (…). Contentezza, dopo secoli di mortificazione, di scoprire oggi che la Scrittura ama l’amore, e benedice la libertà sessuale. Mi abbeveri di baci la tua bocca / Perché il tuo amore inebria più del vino / È bello i tuoi profumi respirare / Il tuo nome è un unguento penetrato / Dalle vergini sacre sei amato. Il libro somiglia a un sogno. Come nei sogni, i sogni minori si moltiplicano all’interno del sogno che li produce, fino alla dimenticanza, alla caduta e alla confusione dei margini del primo sogno. La rhapsodie inepte ha tutte le febbrili incoerenze dei sogni. La scena non è mai ferma, la successione è scheggiata e pendula. Finisce come un prosciugarsi improvviso del flusso delle immagini incoscienti, la sua fine è il pertugio del risveglio. (…) La tua sinistra sotto la mia testa / Abbracciami con la tua destra / O figlie di Ierusalèm / Per gli spettri e gli spiriti dei campi / Io vi scongiuro / Non risvegliate non risvegliate / Il mio amore se non ne ha voglia. Ciascuno dei due sognanti appare prigioniero del simulacro dell’altro, con una illusione, da parte dell’uomo che sogna, di soddisfacimento: Nel mio giardino entravo / sorella mia sposa / e la mirra e ogni essenza ne rapivo / e tutto il favo del miele mangiavo / e il vino e il latte bevevo. Il corpo è ingoiato dal desiderio come da una tomba. Perché l’Amore è duro / come la Morte / il Desiderio è spietato / come il Sepolcro. Amato e Amata si cercano svolazzando per luoghi aperti e chiusi, città e campagne, rocce e mura, senza mai incontrarsi. (…) L’unione avviene in sogno; e subito questo sognare senza riposo riporta alla caccia, senza esito, dell’unione. (…) Il sogno del Cantico ripete ripete che il sogno è un sogno. La sua fine è un invito a fuggire, ad allontanarsi. Il suo principio un desiderio, una privazione. Parole e immagini esprimono un fato di separazione. Cerco di notte sul mio giaciglio l’amore mio / Lo cerco e non lo trovo / Mi alzo e giro per la città / Per i mercati e i crocicchi / Cerco l’amore mio / Lo cerco e non lo trovo. Allusioni e sensi erotici coprono il Cantico come le efelidi il viso e le braccia di una donna dal pettine rosso. (…) Una sola parola, tàar, indica rasoio e vagina (…). Il rasoio e il suo astuccio sono chiamati con un’unica parola, come per dire che in quello scatolino tranquillo si nasconde una presenza tagliente (questo è il sacro: un vuoto tagliente). Il Cantico, nella sua forma ideale, è una figura di quel vuoto anatomico da lodare e da trafiggere. Le giunture delle tue cosce / Una mano d’artista le torniva / La tua vulva è un curvo alambicco / Di odoroso liquore non è mai secca / Una manata di grano in un roseto / Ti giace in mezzo agli inguini. Il Cantico burla due volte la nudità estrema, il vuoto femminile, il rasoio pericoloso: nel sogno del buco, nella figura dell’ombelico. Il mio amico toglie la mano dal buco. (…) Lutero, che dell’Eros biblico non aveva paura e lo lasciava anche ai ragazzini, genialmente traduce Riegelloch, buco del chiavistello, asilo del catorcio, vas naturale della spranga, guaina del paletto. L’Amato mio toglieva / Dal buco la sua mano / E le mie cavità muggivano / Per lui / Per aprire al mio amico io mi alzavo / Al suo richiamo la mia anima usciva / E la mia mano mirra colava / Dalle mie dita la mirra fluiva / Sul chiavistello che impugnavo. La mano si ritrae dal buco, perché si tratta di un sogno. (…) Il ritrarsi della mano provoca lo spasimo, il muggito delle cavità deluse. Il linguaggio usato è quello del dolore di Giobbe, dei salmisti e dei profeti. C’è come un rimbombo in quelle cavità vuote… La mano dell’Amata, toccando il luogo inconsolabile, si impregna di edenicus liquor, se ne illumina le dita: cola mirra in abbondanza. (…) Le dita calmano il fuoco che si è acceso nello stato di mezza veglia. Ma nel buco nessuno è entrato, dalla stanza nessuno è uscito. (…) La mano dello Sposo che entra in sogno per la porta chiusa e lascia vuote di sé le cavità occulte da cui è atteso, si cambia in un dardo tutto d’oro che ha sulla punta un fuoco, e si immerge più volte, perforandolo da parte a parte, tocca tutti i visceri e uscendo per immergersi di nuovo sembra portarli via tutti dentro l’incendio di quella punta, mentre il corpo svuotato e dolorante si riempie di una pace d’amore inesplicato e infinito. Portami nella cantina / Piantami il tuo stendardo amore. Tra gli organi sensibili che conducono a Psiche il Cantico trascura il cuore. Lo nomina una sola volta, ed è bene che il cuore non compaia altre volte, perché il vuoto essenziale del testo si riempirebbe di altre cose, di ruga sentimentale, di essudato emotivo, di cristallizzazione passionale. Mi stravolgi la mente sorella mia e sposa / Mi stravolgi la mente / Con uno sguardo solo. Il Cantico non distingue tra puro e impuro, tra amaro e dolce, delicato e forte, la sua parola è ubriaca di totalità. Trascinami con te nella tua corsa / Nelle tue stanze fammi entrare o re / Dove godremo e avremo gioia insieme / Inebria il tuo amore più del vino. Manca il Male nel Cantico…il Male come principio positivo, demiurgo oscuro, contrario contesa, pericolo, mescolanza, perdizione, avversario, tenebra, morte. Mancano il Satàn, il Rashà, il Mashìt, i Fabbricatori di Male dei salmi, il Nord, il Lato Sinistro, Samael, Lilit, Azael, Rahab… Il Male è assente perché è assente il Dio che lo crea per misurarsi con lui e vincerlo. (…) Nel Cantico la polvere di un sogno femminile sta al posto di Dio. Tutta la visione del Cantico è smisuratamente passionale. La visione intellettuale è il proprio di una lettura maschile, perché gli organi del corpo che conducono all’anima, lo sprofondamento in Dio sono realtà immediatamente persuase dalle figure femminili del buco, del vaso, delle acque, del giardino. Tu sei l’Oasi Sprangata / Sorella mia e sposa / La Sorgente Turata / La Fonte Sigillata / I tuoi scoli sono un Giardino. Non essere più né uomo né donna, pensare androginamente, dà l’intelligenza perfetta di tutte le figure. Il Cantico è puro (non parlo di purità in senso morale, è un’ovvietà scandalosa rivendicargliela), puro di tracce di pensiero, incorruttibile come il non-essere. Io del mio Amato e il mio Amato è mio. Ma ecco la rottura dell’uovo: il Cantico è vuoto. Non contiene niente. Non significa niente. Niente al di là della lettera, una canzone a due voci in cattiva copia, e tuttavia – rivelazione delle rivelazioni – immagine pura di Dio in quanto sterminato Nulla trascendente, lontananza di lontananze, di cui il vuoto, la nudità interna erotica, significata dal sesso muliebre, è tra le fiamme e la notte del mondo umano un anatomico bagliore, una porta di desiderio. Per questo, solo per questo, il Cantico è sangue dei santi e Scrittura che brucia le mani. Dio nel Cantico non c’è, eppure Dio lo riempie. È poesia erotica il Cantico, eppure l’amore umano non ne è che l’ombra sul muro. Si commenta il Cantico per un’oscura intolleranza del suo vuoto: riempirlo, metterci Dio. Se non c’è Dio allora è più che mai divino. Se c’è l’amore umano allora è la noce dell’amore angelico. In verità, il vuoto del Cantico è lì per confermarne la sacralità. Tutto quel che è vuoto, il vacum lucreziano, il deserto, una fossa, una stanza, una carcassa, uno scatolino, è una parte del Grande Mistero, significa attesa di Qualcuno o Presenza occulta. Il Cantico è un pezzo di vuoto sacrale. Se dico che il cantico è vuoto sembra che voglia negargli il sacro, e qualsiasi cosa. Dico che è vuoto per non negargli niente. L’uso di questo testo, che contamina le mani ma non guarisce le ossa, non sembra attuale in tempo di peste. Se non si ha paura del suo vuoto come di una tomba che aspetta, spiare nelle stanze vuote del Cantico quello che lì non avviene è un esercizio che forse isola dal contagio. Rende intelligenti i giusti, non giusti gli intelligenti. Tutti i testi riportati sono tratti da “Il Cantico dei Cantici” a cura di Guido Ceronetti, Gli Adelphi, prima edizione nel 1985