IL DENTE DI CERA 221 II dente di cera - Signora mia, l'arroganza di voialtre padrone di casa ě estrema, permettete che ve lo dica! Vho detto che paghe-ró, e pagheró benedetto Iddio! Intanto favorite farmi da pranzo, son due giorni che non mangio, ho perduto tutto al gioco. - Zucchini e uova, se li volete, non c'e altro. - E sia, zucchini e uova, fate presto... - Giá pronti? Oh, mettete qua, un goccio di vino non ce l'avreste per caso? No, no, aspettate, tenetemi compa-gnia mentre mangio, che diamine! - Cosi fu che il mio pověro figlio, visto che di quell'im-piego non si parlava piú e che quel mascalzone... - Fermatevi, fermatevi! E scusate la mia indiscrezione, ma proprio non posso tenermi dal domandarvi... Signora, che v'e caduto dalla bocca mentre pronunziavate quella zeta? - Oh nulla, nulla... - No, assolutamente devo saperlo. Sapete, voi, che sie-te ancora bellina, specie quando arrossite cosi? Non me n'e-ro mai accorto. Che begli occhi! Troppo rosso alle Iabbra, pero. Del resto 1'oggetto dev'essere caduto sotto questo ta-volino, lo cerco. - Ma lasciate andare, lasciate andare, vi prego. - Oh, oh, diventate supplichevole? Bene, bene. - Lasciate andare, vi dico e vi ripeto. - Ora imperiosa. - Ascoltate, ve lo diró io stessa che cosa m'ě caduto: un dente. - Un... un dente? - SI un dente: guardate. - Oh scusatemi allora! E... e adesso come farete? Dovřete subito farvelo rimettere, proprio uno degli incisivi... - Oh no, me li faccio da me. - Voi... ve li fate da voi? - Si, i denti me li faccio da me, che c'ě di strano? Ogni volta che mi cadono, di cera giassa. - Di cera?... - Di cera giassa. - Signora, ve ne prego, che scherzi son questi? Vho giá detto che non mangio da due giorni, voi volete profittare della mia debolezza! - Perché? che volete dire? - Come che voglio dire! Ma s'ě mai sentita una cera giassa! Che cosa intendete per cera giassa? - E una cera, cera... cera giassa insomma. - Signora smettetela, voi volete provocarmi. Sapete meglio di me che non esiste una cera giassa. Chi mai l'ha sentita rammentare, domando e dico! Voi volete farvi beffe di me, vi ripeto. - Niente affatto, esiste eccome. - Signora non mi fate andare in bestia, non mi fate uscir dai gangheri, io vi testifico, vi giuro che la cera giassa non esiste! - Esiste si, signor mio, e non mi tormentate. Io mi ci faccio i denti ogni volta che mi cadono. - Per 1'inferno, signora, non insistete! In nessun voca-bolario della terra ě registrata una voce simile! Mi fate su-dar freddo e mi mettete una smania, un formicolio nelle membra... - Fate come vi pare, la maggior parte dei miei denti so-no di cera giassa. - Ah bašta, bašta, signora, questo ě troppo, voi mi fate impazzire! Andate al diavolo signora, uscite cti qui alTistante! 22 2 TOMMASO LANDOLFl - Eh piano! Sono in casa mia, voi non avete pagato, me ne vado con tutti i miei comodi. - Fuori, fuori di qui strega! - Moderate i termini, villano. - Andate via, via subito donnaccia maligna, sgualdrina! - Ehi, abbassate le mani o... Mascalzone, pazzo, corro subito dalla polizia! Abbassate le mani o vedrete!... - Fuori fuori! - Mentecatto, porco! - Auff! E pazzesco ciö che essa diceva! E se ě vero che era un dente, perché non lo trovo qui sotto? Forse da quella parte. No. Di qua allora. No. Questo maledetto impianti-to non lascia veder nulla. Come lo troveró questo dannato dente, per buttarlo fuori di qui, all'inferno?... Forse sotto I'armadio? Macché. Oh, Signore, e come mangiare, or a, come dormire qui dentro? Strega! I'ha fatto apposta! Oh Dio, dovrä dunque restare in eterno questo dente nella mia stanza? Notte di nozze a Libero De Libero Alla fine del banchetto nuziale fu annunciato lo spazza-camino. II padre, per giovialitä, e perche gli parve bello che una cerimonia come la pulitura del camino si celebrasse proprio in quel giorno, dette ordine di farlo passare; ma quel-lo non si moströ e preferi rimanere in eucina, dov'era il grande focolare. Non tutti i brindisi, invero, erano stati an-cora pronunciati, e ciö fu causa che alcuni degli invitati giu-dicassero male, in cuor loro, l'improwisa interruzione; non-dimeno, data la gazzarra sollevata dai bambini, tutti finiro-no coll'alzarsi da tavola. La sposina non aveva mai visto uno spazzacamino: era in collegio quando veniva. Entrando in eucina si vide da-vanti un uomo alto e piuttosto corpulento, in abito di vel-luto color d'olio cotto, con una grave barba grigia e le spalle curve; curvatura bilanciata dal peso delle due grosse scarpe da montagna che, in generale, sembravano tener ritto tut-to il corpo; la pelle del volto era profondamente pimenta-ta di nero, sebbene fosse in quel momento lavata con cura, come se molti comedoni di varia grandezza vi si fossero ra-dicati; un deposito nero raecoltosi fra le rughe della fronte e delle guance conferiva a quella fisonomia un carattere di saggezza pensosa. Questa impressione perö si discioglieva rapidamente, e la gran timidezza dell'uomo divenne pale-se specie quando i suoi lineamenti si scomposero in una sor-ta di sorriso. Costui sorprese quasi la sposina, perche si trovava die-tro la porta, ma ebbe l'aria d'essere sorpreso egli medesimo; 224 TOMMASO LANDOLFI come se fosse stato scoperto a compiere un'azione indegna e dovesse giustificare la sua presenza in quel luogo, comin-ciö a ripetere, rivolgendosi personalmente alla sposina, al-cune frasi che ella non ud\ o non comprese. A balbettare con ostinazione, e mostrando di credere che ciö la riguar-dasse davvicino; e la guardava intanto con occhi frustati, eppure intenzionalmente. Alla sposina fu chiara fin dal pri-rao momento la sua natura di lombrico. Lui si tolse la giacca e si andava sbottonando il panciot-to. Lei sgusciö via dall'altra porta, ma restö intesa a quel-lo che si svolgeva lä dentro; aveva il senso che Stesse per ac-cadere qualcosa di sconveniente e le pareva che la sua presenza dovesse incutergli soggezione nei suoi riti, o piutto-sto le pareva di vergognarsi per lui di tutta la faccenda. Se-nonche nessun rumore l'aiutava, e cosi rientrö una volta. I bambini erano stati allontanati e lui era solo; in quel momento saliva per una scala a pioli appoggiata nell'interno della cappa; era a piedi nudi e in maniche di camicia, una ca-micia bruna, con certe corregge s'era fissato nel mezzo del petto un arnese simile a un radimadia, il cui uso rimase per sempre sconosciuto alla sposina; sulla bocca e sul naso aveva una specie di bavaglio nero sorretto dalle orecchie. Ella perö non lo vide entrare nella gola del camino perche rifuggi via. Quando rientrö la seconda volta, la cucina era perfetta-mente vuota e un odore strano, un terribile odore, vi si era diffuso. Guardandosi attorno, la sposina lo attribui dappri-ma alle grosse scarpe dell'uomo, posate in un angolo accanto a un fagotto d'indumenti; era invece I'odore di morte della fuliggine che s'ammonticchiava sul piano del focolare ca-dendo a sgrullate, nel metro d'un raschiare sordo, che rode-va il midollo della casa e che ella sentiva ripercosso nelle sue proprie viscere. Negli intervalli uno sfregamento smorzato rivelava la faticosa ascesa dell'uomo. Soprawenne un istante di silenzio assoluto, di sospen-sione Iacerante per la sposina. Ella continuava a guardare la bocca della canna, in fondo alTimbuto nero della cappa; questa bocca non era quadrata, ma stretta, un fesso buio. NOTTE DI NOZZE 225 Poi un grido altissimo, gutturale, inumano, risuonö non si sa di dove, dalle mura, dalle pietre della casa, dall'anima degli utensili da cucina, dal petto stesso della sposina che ne freme tutta. Quel mugghio bestiale di agonia risultö presto essere una sorta d'appello gioioso: l'uomo era sbucato sul tetto. Gli sfregamenti smorzati ripresero piü rapidi; infine si vide uscire dal fesso un piede nero che cercava un appog-gio, un piede d'impiccato. E piede trovö il primo piolo della scala e la sposina scappö. Nella corte, seduta su una macina, s'incaricö d'informar-la la vecchia governante, una di quelle donne per cui tutto riesce nuovo; essa andava avanti e indietro recando notizie con aria di mistero: - Ora sta facendo le sue pulizie sotto la cappa -; e la sposina se lo immaginava mentre si scoteva la fuliggine di dosso, ritto sul mucchio come un becchino su un tumulo di terra. - Ma che cosa si metterä ai piedi per aggranfiarsi al muro? -; e corse dentro a domandarglielo: - Buon uomo, che cosa vi mettete ai piedi per aggranfiar-vi? - Segul una risposta allegra che non s'udi bene. - Ora sta facendo colazione -; e la governante rimase dentro. Poi ricomparve con alcuni piccoli edelvais; disse che l'uomo Ii aveva tratti da uno scatolino molto pulito e che Ii offriva a lei sposina. Dopo un certo tempo usci egli stesso rivestito e con una bisaccia sulla spalla. Attraversava la corte per andarsene, quando il padre lo fermö e prese a interrogarlo äffabilmente sulla sua vita. S'accostb anche la sposina. Qui l'uomo, allo scialbo sble d'inverno, piü scuro in volto, colla barba chiaz-zata di nero e gli occhi raggrinziti per la luce, parve un far-fallone, un uccello notturno sorpreso dal giorno. O piutto-sto parve un grosso ragno, 0 una piattola; gli e che una cappa di focolare, vista da sotto se fuori c'e luce abbastanza, non b poi nera del tutto, ma trasuda un lucore grigio e vi-scido. Disse che da trentacinque anni girava per quei paesi pu-lendo i camini, che il prossimo anno si sarebbe portato die-tro il figliolo per insegnargli il mestiere, che la raccolta degli 22Ó TOMMASO LANDOLFI edelvais era ora proibita e che di nascosto aveva potuto met-tere insieme quei pochí, e altre cose indifferent!. Giacché, astuto o disgraziato che fosse, si capiva bene che voleva sol-tanto nascondersi dietro quelle parole, che lasciava cadere quella cortina di parole come la seppia s'annuvola. Conosceva tutti i morti della famiglia e nessuno 1'aveva mai visto! Alla sposina sembró ormai, non piú di vergognarsi per lui, ma addirittura di vergognarsi essa medesima. Quando se ne fu andato, mise i piccoli edelvais sotto i ri-tratti dei morti. II racconto del lupo mannaro L'amico ed io non possiamo patire la luna: al suo lume escono i morti sfigurati dalle tombe, particolarmente donne awolte in bianchi sudari, l'aria si colma ďombre verdogno-le e talvolta s'affumica ďun giallo sinistro, tutto c'ě da te-mere, ogni erbetta ogni fronda ogni animale, una notte di luna. E quel che ě peggio, essa ci costringe a rotolarci mu-golando e latrando nei posti umidi, nei braghi dietro ai pa-gliai; guai allora se un nostro simile ci si parasse davanti! Con cieca furia lo sbraneremmo, ammenoché egli non ci pungesse, piú ratto di noi, con uno spillo. E, anche in que-sto caso, rimaniamo tutta la notte, e poi tutto il giorno, stor-diti e torpidi, come uscissimo da un incubo infamante. In-somma l'amico ed io non possiamo patire la luna. Ora avvenne che una notte di luna io sedessi in cucina, ch'e la stanza piú riparata della casa, presso il focolare; porte e finestre avevo chiuso, battenti e sportelli, perché non penetrasse filo dei raggi che, fuori, empivano e facevano so-spesa l'aria. E tuttavia sinistri movimenti si producevano entro di me, quando l'amico entró aU'improvviso recando in mano un grosso oggetto rotondo simile a una vescica di strutto, ma un po' piú briliante. Osservandola si vedeva che pulsava alquanto, come fanno čerte lampade elettriche, e appariva percorsa da deboli correnti sottopelle, le quali su-scitavano lievi riflessi madreperlacei simili a quelli di cui svariano le meduse. - Che ě questo? - gridai, attratto mio malgrado da al- 228 TOMMASO LANDOLFI EL RACCONTO DEL LUPO MANNARO 229 cunché di magnetico nell'aspetto e, dirö, nel comportamen-to della vescica. -Non vedi? Son riuscito ad acchiapparla... - rispose Pamico guardandomi con un sorriso incerto. - La luna! - esclamai allora. L'amico annul tacendo. Lo schifo ci soverchiava: la luna fra 1'altro sudava un li- quido ialino che gocciava di tra le dita dell'amico. Questo pero non si decideva a deporla. - Oh mettila in quell'angolo, - urlai, - troveremo il modo di ammazzarla! - No, - disse l'amico con improwisa risoluzione, e prese a parlare in gran fretta, - ascoltami, io so che, abbando-nata a se stessa, questa cosa schifosa farä di tutto per tor-narsene in mezzo al cielo (a tormento nostro e di tanti altri); essa non puö farně a meno, ě come i palloncini dei fanciulli. E non cercherä davvero le uscite piü facili, no, su sempře dritta, ciecamente e stupidamente: essa, la maligna che ci governa, c'ě una forza irresistibile che regge anche lei. Dun-que hai capito la mia idea: lasciamola andare qui sotto la cappa, e, se non ci libereremo di lei, ci libereremo del suo funesto splendore, giacché la fuliggine la farä nera quanto uno spazzacamino. In qualunque altro modo ě inutile, non riusciremmo ad ammazzarla, sarebbe come voler schiacciare una lacrima ďargento vivo. Cosi lasciammo andare la luna sotto la cappa; ed essa subito s'elevö colla rapiditä ďun razzo e sparl nella gola del Camino. - Oh, - disse l'amico, - che sollievo! quanto faticavo a tenerla giu, cosl viscida e grassa come! E ora speriamo bene; - e si guardava con disgusto le mani impiastricciate. Udimmo per un momento lassu un rovellio, dei flati sor-di al pari di trulli, come quando si punge una vescia, persino dei sospiri: forse la luna, giunta aÜa strozzatura della gola, non poteva passare che a fatica, e si sarebbe detto che sbuf-fasse. Forse comprimeva e sformava, per passare, il suo cor-po molliccio; gocce di liquido sozzo cadevano friggendo nel fuoco, la cucina s'empiva di fumo, giacché la luna ostruiva il passaggio. Poi piú nulla e la cappa prese a risucchiare il fumo. Ci precipitammo fuori. Un gelido vento spazzava il cielo terso, tutte le stelle brillavano vivamente; e della luna non si scorgeva traccia. Evviva urrah, gridammo come invasa-ti, ě fatta! e ci abbracciavamo. Io poi fui preso da un dub-bio: non poteva darsi che la luna fosse rimasta appiattata nella gola del mio camino? Ma l'amico mi rassicuró, non poteva essere, assolutamente no, e del resto m'accorsi che né lui né io avremmo avuto ormai il coraggio ď andare a vedere; cosi ci abbandonammo, fuori, alla nostra gioia. Io, quando rimasi solo, bruciai sul fuoco, con grande circospezione, sostanze velenose, e quei suffumigi mi tranquillizzarono del tutto. Quella notte medesima, per gioia, andammo a roto-larci un po' in un posto umido nel mio giardino, ma cosi, in-nocentemente e quasi per sfregio, non perché vi fossimo co-stretti. Per parecchi mesi la luna non ricomparve in cielo e noi eravamo liberi e leggeri. Liberi no, contenti e liberi dalle tri-ste rabbie, ma non liberi. Giacché non ě che non ci fosse in cielo, lo sentivamo bene invece che c'era e ci guardava; solo era buia, nera, troppo fuligginosa per potersi vedere e po-terci tormentare. Era come il sole nero e notturno che nei tempi antichi attraversava il cielo a ritroso, fra il tramonto e l'alba. Infatti, anche quella nostra misera gioia cessó presto; una notte la luna ricomparve. Era slabbrata e fumosa, cu-pa da non si dire, e si vedeva appena, forse solo l'amico ed io potevamo vederla, perché sapevamo che c'era; e ci guardava rabbuiata di lassú con aria di vendetta. Vedemmo allora quanto l'avesse danneggiata il suo passaggio forzato per la gola del camino; ma il vento degli spazi e la sua corsa stessa l'andavano gradatamente mondando della fuliggine, e il suo continuo volteggiare ne riplasmava il molle corpo. Per molto tempo apparve come quando esce da un'eclisse, pure ogni giorno un po' piú chiara; finché ridivenne cosi, co- 230 TOMMASO LANDOLFI me ognuno puö vederla, e noi abbiamo ripreso a rotolarci nei braghi. Ma non s'ě vendicata, come sembrava volesse, in fondo ě piú buona di quanto non si crede, meno maligna piú stu-pida, che so! Io per me propendo a credere che non ci ab-bia colpa in definitiva, che non sia colpa sua, che lei ci ě ob-bligata tale e quale come noi, davvero propendo a creder-lo. L'amico no, secondo lui non ci sono scuse che tengano. Ed ecco ad ogni modo perché io vi dico: contro la luna non c'ě niente da fare. II racconto della piattola Io, piattola, vivevo in un bosco folto e mi vi aggiravo beata; quello era veramente il mio regno. La mia vita scor-reva felice, traevo per il mio nutrimento colla massima facility dalla terra il suo rosso succo, deponevo la mia proge-nie in sicurezza nel proprio involucro a pie d'un tronco, e insomma nulla turbava la nostra fiorente colonia. Ma un giorno sentii la terra raggelarmisi sotto, il suo succo, pari a una linfa stagnante, si rapprese e acquisto un gusto di mor-te. Nel gelo, in un mondo rabbuiato dunque finii. Ora, di questo non voglio incolpare nessuno, neanche chi ci ascol-ta di lassu: puo darsi (sebbene io non lo creda) che cosi do-vesse essere e che sia stato bene. Ma voi, uomini che intra-vedo nell'ombra, perche mi guardate in atto superbo? Tale sara anche la sorte dei vostri simili un giorno.