LE INQUIETUDINI DEL PRIMO NOVECENTO 1/122 LE INQUIETUDINI DEL PRIMO NOVECENTO con tutti gli ausilii delle figúre retoriche, la sua certezza di neo-fita come qui grida e urla il desiderio di un po' di certezza? In Italia mia o in Gog cos'é che non convince se non proprio questo habitus del vecchio letterato italiano che vuol mascherare con la pagina scaltrita e con la speciositä dei paradossi la mancanza di autenticita? se non proprio questa disponibüitä intellettuale, questo dongiovannismo intellettuale cui interessa piü la compiaciuta divulgaáone dell'esperienza che l'esperienza in se stessa? E d'al-tra parte, malgrado (o forse appunto per) questi limiti, possiamo considerare Un uamo finito come autobiografia di una generazio-ne, di quella generazione inquieta, disponibile, pronta prima, nel primo decennio del secolo, allo sbaraglio intellettuale, dopo, tra intervento e dopoguerra, allo sbaraglio politico. Quella generazione gravitante attorno a riviste e cenacoli nei quali « si sentiva piü accaloramento che calore, piü. impeto iniziale che costanza, 48 piü mobilita che movimento, piü curiositä e dilettantismo che in-teressamento e serietä » (Croce). In questi ultimi tempi, in coerenza con tutto un orientamento culturale-politico (che non é solo italiano), si é tentato un « recu-pero », una rivalutazione degU spiriti « antiborghesi » e « rivolu-zionari » di Papini. Ma dove approdino quegli spiriti la storia ce lo ha troppo bene dimostrato... Approdo, d'altra parte, inevita-bile, tenuto conto che nascevano da quel terreno che il citato giu-dizio del Croce definisce in modo, ci sembra, incontrovertibile. Piero Jahier Vita. Occorre ricordare, per capire gli scritti di Jahier {1884-1967), l'estrazione famÜiare: i suoi sono di origine montanara, il padre un pas tore valdese. La coerenza del suo rigorismo morale e visibile sia nelle sue opere che nei suoi atteggiamenti di vita: pagö il suo fermo antifascismo con sacrifici e con un Iungo silen-zio sulla sua opera. La serietä morale. Dafi'autenticitä della sua esperierrza religiosa traggono origine i suoi articoli su La Voce che in gran parte ri-guardano la situazione delle minoranze protestanti in Italia o trat-tano questioni religiose. (Jahier, infatti, aveva studiato alia fa-coltä valdese di teologia a Firenze). Nelle Resultanze in merito alia vita e al carattere di Gino Bianchi (1915) la sua risentita co-scienza morale lo porta ad ironizzare — ora con estrositä diver-tita, ora con amarezza, utilizzando abilmente certo gergo buro-cratico — sulla angustia d'orizzonti nella quale e costretto a vi-vere un piccolo irnpiegato che freme di non potere essere un uomo piü libero (ma era questa una esperierrza autobiografica: Jahier aveva un modesto impiego nelle ferrovie). La sua serietä morale, che diventa solidarietä coi popoli oppressi e impegno civile, lo spinge a partecipare (quanti aspetti nelPinterventismo italiano!) fSrima guerra mondiale e dal contatto coi montanari, coi con-t ehe sofírono e muoiono nelle trincee nascerä quel mirabile 1 Con me e cogli alpini (1919) domina to tutto dalľaccotata l irietá per quei protagonisti ehe la patria ha scoperto solo ora, per mandarli a morire. In Ragazzo (1919) la trasfigurazione del-ľinfanzia si coneretizza in pagine ehe non hanno quelľabbandono cosl frequente in taňte rievocazioni del «paradiso perduto», ma sono caratterizzate da una tensione stilistica particolare, da una prosa ehe ě frutto di costante ricerca, densa e a volte irta di moduli sintattici originaUssimi. Scípio Slataper Vita. Accostabile a Jahier (con le cautele necessarie in ogni accostamento) ě Scipio Slataper (1888-1915) triestino, ehe si di-stinse da giovanissimo per attivitä culturale, collaborô alla rivista di Césare Battisti Vita trentina e sin dai primi numeri alla V oce, fu autore di un saggio su Ibsen (pubblicato postumo). Irredenti-sta, partecipô da volontario alla guerra e nel dicembre del 1915 mori sul Podgora. Oltre il lirismo autobiografico. Come parecehi altri vociani tento anche lui un certo tipo di opera lirica e autobiograíica — II mio Carso (1912) — e una lingua ehe utilizzando forme dialettali e neologismi ripudia le architetture sintattiche tradizionali e attin-ge risultati di particolare freschezza e aderenza alle cose. Ma non si tratta solo di espres sivitä deserittiva: la bellezza aspra del Carso, duro, rotto e aftannoso ě quasi un emblema morale, svela al-ľaffetto di chi ne sa cogliere il senso, una lezione di vita. Slataper. ehe aveva proclamato la priorita delľessere uorao sulľessere artista (lo cerco ľuomo piú ehe ľ artista), nelľatto stesso in cui de-serive quella terra f a sentire gli afettí, la dimensione umana, i problemi dei suoí abitanti, primo fra tutti ľirredentismo ehe egli « sentl con intensita ma nel contempo con assoluta indipendenza dalľirredentismo convenzionale, sovrattutto per ľimportanza data agli Slávi » (Contini). Renato Serra Vita. Trascorse la sua breve vita (1884-1915) a Cesena, dove insegnô e diresse la Biblioteca malatestiana. Collaboratore della V oce sulla quale pubblico raŕfinati scritti critici, senti íl dibattito interventismo-neutralismo con una particolare intensita, dilatan-dolo a problema di scelta di víta per ľuomo di cultura: VEsame di coscienza di un letterato, seritto nelľaprile 1915, ě testimo-nianza di ciô. Mori combattendo sul Podgora. Critica e lirica. Serra e legato al clima de La V oce per due aspetti: la costante autobíografica e lirica ehe abbiamo visto pre- LE INQUIETUDINI DEL PRIMO NOVECENTO 1/124 125/1 LE INQUIETUDINI DEL PRIMO NOVECENTO sente in varia misura in Jahier, Slataper ecc. e la poetica del _ frammento che l'ultima Voce di De Robertis teorizzô. Solo pero schematicamente le due cose si possono distinguere: in realtä in Serra esse formano un tutťuno e danno Iuogo a pagine di una inconfondibile originalita in cui gli estri e gli umori delľuomo si fondono col sottile gusto del critico, in un intricato andirivieni di descrizione paesistica, di confessione p di effusione lirica (e di fronte a queste pagine c'e chi si chiede ancora se Serra piú che un critico non sia stato un grande ■scrit-tore), di analisi di un verso o di una parola. Alľinizio di un suo famoso saggio Su una ballata di Paul Fort Serra puô divagate cosi: Noia della domenica mattina, aprile scialbo e freddo-loso sotto la pioggia. La ghiaia del giardinetto scolastico che bi-sogna attraversare per giungere alia casa dei libri, sgrigliola e geme tenace sotto i passi tra i rivoletti giallastri e le pozzan-gbere pkchierellate di goccie: acqua cruda e smorta senza un riflesso e un lividore di luce, senza un petalo di fiore o un filo d'erba che galleggi tenero e dica la primavera... L'analisi di un testo, cosl, si dilata nelle sue mani e si instaura un rapporto tra pagina studiata e realtä esterna che apparente-mente porta lontano dalľindagine critica ma poi imprevedibil-mente riconduce ad essa e fornisce al critico spunti e pretesti per approfondire il suo lavoro. Lavoro fondamentalmente divagantej nel senso che Serra evita ogni sistematica impostazione cfiticafes-sendo — secondo la definizione del Russo — il suo « intelletto negato decisamente alle quadrate e conclusive costruzioni stori-che ». Serra piú che un critico fu un lettore di poesia, sensibilissi-mo a cogliere le suggestion^ gli echi di un verso o di una singola parola, felice di delibarla con un compiacimento quasi voluttuoso, con una capacitä di trascrizione delle proprie impressioni capil-lari che spesso dä luogo a pagine calligrafiche e preziose tipica-mente decadenti, ad un intrecciarsi di notazioni, di cautele, di impressioni subito dopo corrette da riserve, da sfumature, da different! impressioni. Ě, allora, inevitabile che tutto ciô porti Serra al gusto del frammento e a dare la piena misura delle sue qualitä su testi conge-niali, cioě di poeti che difficilmente riescono a dare solida artico-lazioňe alia loro ispirazione. Classico eseropio di questo metodo e dei risultati raggiunti ě il saggio .su Pascoli che, pubblicato prima in una rivista di provincia, fu ristampato in un quaderno de La y Voce nel 1910 ed esercito, cosi, larga influenza. (Fra ľaltro senza di esso non si spiegherebbero le posizioni del De Robertis nel-ľultima Voce — si badi alle date — a partire dal 1914). « Religione delle Iettere »... Ma questo indugiare, questa ausculta-zione della parola che sarebbero potuti diventare sofisticata scal-trezza, puro e freddo tecnicismo, in Serra ebbero sempre un calore umano e la sua pagina, come quella dell'antico poeta latino, « sa di 57 uomo », in quanto egh concepi la sua lettura come un necessario mezzo tecnico per comptendere ľumanitä del poeta letto e per trovare un approccio con la sua umanitä di lettore: la pagina di Serra ě scoperta di una umanitä (quella del poeta letto) e confes- v sione di una umanitä (quella del critico). Da qui nasce 1'amoroso studio per gli scrittori, anche minori, della sua Romagna dettato proprio dal- bisogno di trovare helľintimo di quelle pagine un legame con le radiči profonde della sua terra; da qui quella « religione delle lettere », quel cuko della poesia che diventa norma etica e giustifica lo staré al mondo. Fu questa la lezione di Serra e per comprenderne ľimportanza bašti pensare che, in seguito, 1'arroccarsi nel culto della religione delle lettere fu per i poeti e i letterati piú consapevoli 1'alterna-tiva etica opposta al regime fascista. Ricordando il detto del suo maestro Carducci « dopo il dono di fare la divina poesia, il dono elargito dagli dei ai loro prediletti ě di ammirarla fino alle Iacrime. Questo secondo dono io ľho », Serra aggiungeva: Anche noi Vabbiamo; e la nostra forza e la nostra debolezza. Esso ci impe-disce di essere dei ratés [falliti, spostati] e di andare tranquilla-mente per il mondo. ...e insoddisfazione. Ma quel e la nostra debolezza ě una notazione preziosa per capire 1'ultima opera di Serra, qaúVEsame di co-scienza di un letterato (aprile 1915) che ě il bilancio della sua vita e degli atteggiamenti suoi e nel contempo di tutta una ge-nerazione. Di fronte alla tragica realtä del conflitto mondiale Serra sente i limiti di quel mondo di letteratura dentro il quale ě vissuto, le angustie del carcere ďinchiostro. Incapace di ade-rire alle mitologie nazionalistiche e belliciste da un lato, e consa-pevole, dalľaltro, del dovere di partecipazione per- ritrovare il contatto col mondo e cogli altri uomini, incapace peraltro di do-minare con consapevolezza ideologica quanto sta avvenendo, egli registra — con un fitto intreccio di smarrimenti e di precarie cer-tezze che subito dopo si dissolvono in un inclemente dibattito con se stesso — la sua oscura angoscia, il suo sgomento e accetta la necessitä della guerra come suprema prova e, quasi, occasione di riscatto. E tuttavia ě lucidamente cosciente che la storia non sara finita con questa guerra e neanche modificata essenzialmente; né per i vincitori, né per i vinti. E forse neanche per Vltalia. Nella letteratura kahana non c'ě un altro testo che con pari serietä morale documenti la crisi di quella cultura insoddisfatta ed in-quieta che caratterizza questo inizio del secolo. Grazia Deledda Questa scrittrice (Nuoro 1875 - Roma 1936), che giá nel primo quindicennio del secolo aveva pubblicato alcune delle sue opere piú importanti (Elias Portolu, 1903; Cenere, 1904; Canne al vento, 1913) ma la cui attivitä si estendera oltre, {Ylncendio nel- pag. 80 IL DIBATTITO POLITICO-CULTURALE 11 / 134 IL DIBATTITO POLITICO-CULTURALE sudici ehe i soldatacci incendiarono saranno rifatti piú belli e pft igienici. E rimarranno anche troppe cattedrali gotiche e troppe chiese e troppe biblioteche e troppi castelli per gli abbrutimenti * e i rapimenti e i rompimenti dei viaggiatori e dei professori Dopo il passo dei barbari nasce un'arte nuova fra le rovine e ogni guerra di sterminio mette capo a una moda diversa. Ci sará sempře da fare per tutti se la voglia di creare verra, come sempře, eccitata e ringagliardita dalla distruzione. Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura La guerra ě spaventosa — e appunto perché spaventosa e tre-menda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi. w (da La cultura itdiana del '900 attraverso le riviste, IV, Einaudi) GABRIELE D'ANNUNZIO 56. Discorso di Quarto Profile: pag. 52 Altri bráni: pag. S3-'. [dal discorso tenuto a Quarto il 5-V-1915] ■ Ě, questo che segue, un bráno del lungo discorso che D'Annunzio, ritornato — e non solo per iniziativa personále — in Italia dal « vo-lontario esilio » di Arcachon pronunzió in occasione di quella che fu delta, con evidente gusto retorico nazionalistico, la Sagra dei Mille: cioe una commemorazione particolarmente solenne — con monu-mento celebrativo e intervento persino di Vittorio Emanuele III — della spedizione di Garibaldi. L'occasione celebrativa si trasformó ov-viamente in un pretesto per la propaganda interventista. ■ Quello ebe sovrattutto vale la pena mettete in luce ě la completa assenza di motivazioni (politiche, ideologiche, economiche, ecc. ecc.) che caratterizza questa pagina dell'interventismo dannunziano. II quale si regge (o non si regge affatto...) sull'onda delle parole, che 1'oratore aceumula sedotto quasi dalla loro suggestione fonica e scaltrito in tutti gli artifici dell'arte retorica: dalla iterazione (20: uomini siamo; 26-27; 29-31: fornace) alia allitterazione "(30: fossa fusoriá) alia clau-sola poetica (23). Derivano da tutto ció all'orazione la sua caratte-ristica di esercitazione letteraria nel senso deteriore del termine e una notevole nebulositá accentuata dalla ridondanza declamatoria che trae alimento dalle suggestioni archeologico-letterarie (ad un certo punto dell'orazione si parla — nientemeno — del piano di Maratona, del promontorio di Micale, del viso novello di Roma.,.). Era una strada che avrebbe portato lontano: « I suoi [di D'Annunzio] innumerevoli discorsi, messaggi ecc. fornirono schemi, termini e riti (soprattutto quelli misticamente atteggiati) alla retorica del combattentismo e poi del fascismo » (Contini). t primavera angosciosa, stagione di dubbio e di patimento, di Äranza e di corruccio! ^oi non udivate se non il romore cittadinesco, se non il clamore delle dissensioni, delle dispute, delle risse. Voi tendevate l'orec-chio al richiamo dei corruttori. Consumavate i giorni senza veritä e senza silenzio. jVla i lontani scorgevano di sotto alle discordie degli uomini, la patria raecolta nelle sue rive, la patria profonda, sola con la sua doglia, sola col suo travaglio, sola col suo destino. Si struggevano di pietä filiale divinando il suo sforzo spasimoso, conoscendo quanto ella dovesse patire, quanto dovesse ella affati-carsi per generare il suo futuro. E pensavano in se: « Come sofTri! Come t'affanni! In quäle an-goscia tu smanii! T'abbiamo amata nei giorni foschi, t'abbiamo portata nel cuore quando tu pesavi come una sciagura. Chi di noi dirä quanto piü, ora, ti amiamo? Tutta la passione delle nostre vite non vale a sollevare il tuo spa-simo, o tu che sempre la piü bella sei e la piü paziente. Come dun-que ti serviremo? Uomini siamo, piecoli uomini siamo; e tu sei troppo grande. Ma farti sempre piü grande e la tua sorte. Per ciö dolora, travaglia, trambascia. Tu avrai i tuoi giorni destinati ». E si mostravano i segni. [...] Ed eeco il segno supremo, eeco il comandamento. Questo era, questo e nell'ordine segreto del nostro Iddio. D'angoscia in angoscia, d'errore in errore, di timore in timore, di presagio in presagio, di preghiera in preghiera, egli ci ha sollevati alla santitä di questo mattino. Mentre questo santo bronzo si struggeva nella fornace ruggente e la forma da riempire si taceva nell'ombra della fossa fusoria, una piü vasta fornace, una smisurata fornace s'aecendeva « di spirital bellezza grande ». E non corbe di metallo bruto v'erano issate in sommo: ma, come i manovali gettano a uno a uno nel bacino i masselli, gli spiriti piü generosi vi gettavano il meglio della virtü loro e incitavano i tardi e gli inerti con l'esempio. Or eeco, alla dedieazione e sagra di questo compiuto monumento ci ha chiamati un messaggio d'amore. E a questa sagra di popolo datore di martiri, per altissimo auspi-cio, e presente la maestä di Colui che, or e molt'anni, in una notte di lutto commossa da un fremito di speranze, salutammo Re 5. corruttori: quanti si opponevano all'intervento. 23. i segni: l'oratore elenca nella parte che abbiamo oraesso vari segni: tra questi la morte di un nipote di Garibaldi che combatteva come volon-tario nella battaglia delle Argonne (1915). 40-45. in una notte... Mare: Vittorio Emanuele III che si trovava in nayi-gazione quando il 29 luglio 1900 fu ucciso Umberto I. In una Urica (del IL DIBATTITO POLITICO-CULTTXRALE 11 / 136 /» IL DIBATTITO POLITICO-CULTURALE eletto dal destino con segni che anch'essi ci parvero santi. A questa sagra tirrena instituita da maririai ě presente la maesta di Colui che chiamato dalla Morte venne dal Mare, che assunto dalla Morte ŕu Re nel Mare. Risalutiamolo col vóto concorde. Fedele ě a Lui il destino, ed Egli sarä fedele al destino. Guarda Egli la statua che sta, la statua che dura; ma intento ode il croscio profondo della fusione magnanima. Accesa ě tuttavia l'immensa chiusa fornace, o gente nostra, o fra-telli; e che accesa resti vuole il nostro Genio, e che il fuoco ansi e che il fuoco fatichi sinché tutto il metallo si strugga, sinché la colata sia pronta, sinché ľurto del ferro apra il varco al sangue rovente della resurrezione... (da D'Annunzio, Per la piú grande Italia, II Vittoriak degli Italiani) RENATO SERRA Profilo; pag. 123 \ 57. Esame di coscienza di un letterato [da La Voce, VII, 10 (30-IV-1915)] ■ Facciamo seguire al discorso dannunziano queste pagine di Serra alio scopo di esemplificare — come si ě detto nel « Profilo » — due atteggiamenti contrastanti della cultura italiana di fronte alia guerra. Di fronte al conllitto che fra poco coinvolgerä anche l'ltalia, Serra non puô vagheggiare le mitologie del nazionalismo letterario come D'Annunzio, ma non riesce nemmeno a condividere le idealitä libe-rali-risorgimentali che furono proprie di tanto interventismo demo-cratico (Salvemini, ad esempio). Tutta la prima parte dell'esame ě percorsa da un'amara sfiducia: questa guerra non sarä certo ľulti-ma, né modificherä nella sua essenza la storia: né per i vincitori né per i vinú. E f or se neanche per l'ltalia (rigg. 95-97). ■ Eppure, serpeggiante prima in sordina, e dichiarato a tutte let-tere dopo, un altro motivo afBora nell'ESAME: la consapevolezza di una solkudine, di una incapacitä di aderire alla vita degli altri, oggi destinati ad una prova storica, alio sbaraglio, per cosciente scelta o per necessitä. Serra sente cioě i limití della sua condizione di letterato, le angustie del carcere ďinchiostro, e tocca con mano, ora, le carenze di quella letteratura nella quale da protagonista era coinvolto: ne rifiuta i miti attivistici ed estetizzanti coi quali la guerra veniva drappeggiata, ma nel contempo sente l'angustia del solipsismo deca-dente, della riduzione della vita a pura letteratura, a mito di bellezza K* 7 5fTTEA _ deUe tAUDl) dedicata al ™ k A D'Annunzio lo aveva salutato con | verst: Giovine, che assunto dalla Morte I íosii desustazione del bel verso, a religione delle lettere. E da ció I jPa(jesione — nek"ultima parte (rigg. 153-fine) — alla guerra: , Eteciparvi significa allinearsi cogli altri, con 1'umile gente della sua Part n8i vivere una vita piú autentica in quanto piú simile a quella he Wttigli altri vivono e dovranno vivere. PHvo di una consapevolezza politico-ideologica delle forze che quella erra avevano scatenato, Serra imposta il problema su un piano esi-tenziale piu che storico: ma ció che distingue la sua adesione da 11a J; D'Annunzio o di tanti altri — motivata dall'irrazionalistico fascino della violenza o dalla seduzione della rigenerante barbarie — i appunto la dolente ricerca di un contatto e di una giornaliera comu-nanza di vita e di rischio con gli altri, Pansia di rompere la solitu- Tjne_ angosciata o arida e orgogliosa — che era stata il motivo di fondo della letteratura df quei decenni. ■ Non sarebbe inutile confrontare questo bráno con quello di Pavese NESSUNO SARA FUORI DELLA GUERRA. £ una vecchia lezione! La guerra ě un fatto, come tanti altri in questo mondo; ě enorme, ma ě quello solo; accanto agli altri, che sono stati e che saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura. [...] s La letteratura non cambia. Potrá avere qualche interruzione, qual-che pausa, nell'ordine temporale: ma come conquista spirituále, come esigenza e coscienza intima, essa resta al punto a cui 1'ave-va condotta il lavoro delle ultime generazioni; e, qualunque parte ne sopravviva, di li soltanto riprenderá, continuerá di li. 10 Ě inutile aspettare delle trasformazioni o dei rinnovamenti dalla guerra, che ě un'altra cosa: come ě inutile sperare che i letterati ritornino cambiati, rnigliorati, ispirati dalla guerra. Essa li puó prendere come uomini, in ció che ognuno ha di piú elementare e piú semplice. Ma, per il resto, ognuno rimane quello che era. is Ognuno ritorna — di quelli che tornano — al lavoro che aveva lasciato; stanco forse, commosso, assorbito, come emergendo da una fiamma: ma con l'animo, coi modi, con le facoltá e le qua-litá che aveva prima. [...] Sempře lo stesso ritornello: la guerra non cambia niente. Non 20 migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa mira-coli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce piú la grazia. H cuore dura fatica ad ammetterlo. Vorremmo che quelli che hanno faticato, sofferto, resistito per una causa che ě sempře 25 santa, quando fa soffrire, uscissero dalla prova come quasi da un lavacro: piú puri, tutti. E quelli che muoiono, almeno quelli, che fossero ingranditi, santificati; senza macchia e senza colpa. E poi no. Né il sacrificio né la mořte aggiungono nulla a una vita, a un'opera, a un'eredita. II lavoro che uno ha compiuto 30 resta quello che era. Mancheremmo al rispetto che ě dovuto al- IL DIBATTITO POLITICO-CULTURALE 11 / 138 139 / n IL DIBATTITO POLITICO-CULTURALE terio estraneo, qualche vuoto di simpatia, o piuttosto di piet^ Che ě un'ofiesa: verso chi ha lavorato seriamente: verso chi morto per fare il suo dovere. [...] La guerra ha rivelato dei soldáti, non degli scrittori. Essa non cambia i valori artistici e non Ii crea: non cambia nulla nell'universo morale. E anche nell'ordine delle cose materiali anche nel campo della sua azione diretta... Che cosa ě che cambierä su questa terra stanca, dopo che avrä bevuto il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i tor-turati e gli abbandonati dormiranno insieme sotto le zolle, e l'erba sopra sarä tenera lucida nuova, piena di silenzio e di luce al sole della prima vera che ě sempře la stessa? Io non faccio il profeta. Guardo le cose come sono. Guardo questa terra che porta il colore disseccato delPinverno. II silenzio fuma in un vapore violetto dagli avanzi del mondo dimenticato al freddo degli spazi. Le nuvole dormono senza moto sopra le creste dei monti accavallati e distretti; e sotto il cielo vuoto si sente solo la stanchezza delle vecchie strade blanche e consu-mate giacere in mezzo alia pianura fosca. Non vedo le tracce degli uomini. Le case sono piccole e disperse come macerie; un verde opaco e muto ha uguagliato i solchi e i sentieri nella monotonia del campo: e non c'e né voce né suono se non di caligine che cresce e di cielo che s'abbassa; le lente onde di bruma sono spente in cenere fredda. E la vita continua, attaccata a queste macerie, incisa in questi solchi, appiattata fra queste rughe, indistruttibile. Non si ve-dono gli uomini e non si sente il loro formicolare: sono piccoli perduti nello squallore della terra: ě tanto tempo che ci sono, < che oramai sono tutt'una cosa con la terra. I secoli si sono suc-ceduti ai secoli; e sempre questi bran chi di uomini sono rimasti nelle Stesse valli, fra gli stessi monti: ognuno al suo posto, con una agitazione e un rimescolio interminabile che si ě fermato sempre agli stessi confini. Popoli razze nazioni da quasi duemila < anni sono accampate fra le pieghe di questa crosta indurita: flussi e riflussi, sovrapposizioni e allagamenti improwisi hanno a volta a volta sommerso i limiti, spazzate le plaghe, sconvolto, distrutto, cambiato. Ma cosi poco, cosi brevemente. Le ořme dei movimenti e dei passaggi si sono logorate nel confuso calpestlo J delle strade; e intorno, nei campi, nei solchi, fra i sassi, la vita ha continuato uguale; ě ripullulata dalle semenze nascoste, con la stessa forma, con lo stesso suono di linguaggi e con gli stessi oscuri vincoli, che fanno di tanti piccoli esseri divisi, dentro un 45. Guardo: brano dl una tristezza rassegnata e spenta. La concezione ehe príma lautore ha espresso — mutilM, quasi, della guerra, impossibilitä ehe essa modinchí o cambi qualcosa — si oggettivizza quasi in questo paesaggio cerchio indefinibile e preciso, una cosa sola: la razza, che rin- 75 nova attraverso cento generazioni diverse la forma dei crani che giacciono ignoti sotto gli strati del terreno millenario, e l'accen-to, e la legge non scritta. Che cos'e una guerra in mezzo a queste creature innumerevoli e tenaci, che seguitano a scavare ognuna il suo solco, a pestare il ta suo sentiero, a far dei figli sulla zolla che copre i morti; inter-^; fimminciano: scacciati, ritornano? [...] di indirizzo rotti, Ci saranno dei cambiamenti di tendenze politiche e _ morale; delle rettifiche e delle definizioni, cosi di confini geografia come di valori civili, che diminuiranno, in quel che si suol 85 chiamare l'equilibrio mondiale, il tono di certe parti e ne ac-cresceranno altre: certi aggruppamenti, ricostituzioni, affermazio-ni, che maturavano ieri come coscienza e desiderio contrastato, saranno domani un fatto compiuto. Ma insomma non sarä cambiato lo spirito della nostra civiltä — in cui questa guerra era giä av- 90 venuta e avveniva tuttavia; — e non sarä toccata la sostanza dei popoli, non saranno soppressi né perduti quei principi e quegli imperativi storici, che ognuna delle grandi razze o formazioni na-zionali, rappresenta da secoli nel suo posto e per il suo destine La storia non sarä finita con questa guerra, e neanche modificata 95 essenzialmente; né per i vincitori né per i vinti. E forse, neanche per l'ltalia. [...] E tutte insieme sono niente se penso a quello che va sciupato, a d, intanto che io parlo, intanto che io penso, intanto dolore e travaglio di uomini presi in questo 100 a. Gorgo che si consuma in se stesso. ogni minuto, che scrivo, sangue e gorgo vasto della guerra. Gorgo che si consuma in se stesso. Che cosa diventano i resultati, le rivendicazioni di territori o di confini, le indennitä e i patti e la liquidazione ultima, sia pur piena e compiuta, di fronte a do? Crediamo pure, per un momento, che gli oppressi saranno ven- 105 dicati e gli oppressori saranno abbassati; l'esito finale sarä tutta la giustizia e tutto il maggior bene possibile su questa terra. Ma non e'e bene che paghi la lagrima pianta invano, il lamento del ferito che é rimasto solo, il dolore del tormentato di cui nessuno ha avuta notizia, il sangue e lo strazio umano che non ha servito 110 a niente. II bene degli altri, di quelli che restano, non compensa il male, abbandonato senza rimedio nell'eternita. [...] 105-112. Crediamo... eternitä: come si ě detto nella premessa, Se™ non riesce ad aderire alle motivazioni deU'intervent1Smo democratico delle quaü qui ťh come un'eco (oppressi vendicati, oppresson abbassatt) registratanon senza una punta di fastidio. Tali motivazioni perdono senso per lui dl ironte al lamento del ferito, al dolore del tormentato, ecc. IL DIBATTITO POLITICO-CULTURALE » / 140 Scontentezza, angoscia, spasimo; ě la mia vita di questo momen-to. Adesso ho capito. Ho potuto distruggere nella mia mente tutte le ragioni, i motivi intellettuali e universali, tutto quello che si ,tt puö discutere, dedurre, concludere; ma non ho distrutto quello che era nella mia carne mortale, che ě piú elementare e irriduci-bile, la forza che mi stringe il cuore. Ě la passione. Come ieri, come sempře. Quante volte ho portato con me questa compagnia. Non mai cosl intima come oggi, come questa, che non i» ha né volto né nome; ě tutta una cosa con la mia solitudine piü sola e con la mia contentezza piú amara. Angoscia: vita di questo momento. Perché non siamo eterni, ma uomini; e destinati a morire. Questo momento, che ci ě toccato non tornerä piú per noi, se Io lasceremo passare. Hanno detto che l'Italia puö riparare, se anche manchi questa occasione che le ě data; la poträ ritrovare. Ma noi, come ripa-reremo? Invecchieremo falliti. Saremo la gente che ha fallito il suo de-stino. Nessuno ce lo dirä, e noi lo sapremo; ci parrä d'averlo scordato, e lo sentiremo sempre; non si scorda il destino. E sarä inutile dare agli altri la colpa. A quelli che fanno la poli-tica o che la vendono; all'egoismo stolto che fa il computo dei vantaggi, e cerca nel giornale quanti sono stati i morti; ai socialisti ed a Giolitti, ai diplomatici o ai contadini. La colpa ě nostra, i» che viviamo con loro. Esser pronti, ognuno per suo conto, non significa niente; essere indignati, disgustati, avviliti ě solo una debolezza. La realtä ě quella che vale. Anche la disgrazia ě un peccato; e il piü grave di tutti, forse. Fra mille milioni di vite, c'era un minuto per noi; e non l'avre- 1« mo vissuto. Saremo stati sull'orlo, sul margine estremo; il vento ci investiva e ci sollevava i capelli sulla fronte; nei piedi irnrno-bili tremava e saliva la vertigine dello slancio. E siamo rimasti fermi. Invecchieremo ricordandoci di questo. Noi, quelli della mia generazione; che arriviamo adesso al limite, o l'abbiamo pas- »s sato da poco; gente sciupata e superba. Chi dice che abbiamo spe-sa male la nostra vita, senza costruire e senza conquistare? Era-vamo ricchi di tutto quello che abbiamo buttato; non avevamo perduto neppure un attimo dei giorni che ci son passati come 113. Scontentezza: FEsame e caratterizzato da quelia che e una costante della pagina di Serra (anche nella critica letteraria); un ptocedere sinuoso, fatto di apparenti conquiste rimesse subito dopo in discussione, un'incle-mente analisi dei moti del proprio animo. In questa parte, ad esempio, alia consapevolezza della propria angoscia, della propria solitudine Serra oppone, per superarla, una irrazionalistica — anche lui e figlio del suo tempo! — passione, una, per ora non razionalmente motivata, ansia di non lasciare passare questa occasione, che non tornerä piü e che puö riscattare da una vita sciupata (rig. 146). In seguito (rigg. 153; 166-segg.) la motivazione si arric-chirä di una ben diversa componente. 160 165 170 IL DIBATTITO POLITICO-CULTURALE ., fra le dita. Perché eravamo destinati a questo punto, in cui iso tti i peccati e le debolezze e le inutilitä potevano trovare il loro jjnpiego. Questo ě il nostro assoluto. Ě cosi semplice! [...] Si ha voglia di camminare, di andare. Ritrovo il contatto col mondo e con gli altri uomini, che mi stanno dietro, che possono enire con me. Sento il loro passo, il loro respiro confuso col 155 mjo' e la strada salda, liscia, dura, che suona sotto i passi, che resiste al piede che la calca. Non ho altro piü da pensare. Questo basta alia mia angoscia; questo che non ě un sogno o un'illu-sione, ma un bisogno, un movimento, un fatto; il piü semplice del mondo. Mi assorbe tutto nella sua semplicitä; mi fa caldo e sostanza. [...] Non credo che ci sia niente di fatale o di misterioso nel mio de-siderio. Fatalita della razza risorgente, istinto di umanitä ricu-perata, son tutte frasi che non destano in me nessuna eco precisa. Le cose che io penso sono determinate e comuni. Quanto all'uma-nitä, conosco solo quelli che ho vicini: quelli che mi fermavano quest'estate, quando passavo in bicicletta, in riva al mare, o per lo stradone infocato... Una voce dal carro, che rasentavo passando; voce ďuomo supino, fra il sobbalzare e il cigolare del carico di barbabietole o di car-bone, che va sotto il sole e arriverä a notte alta; e un richiamo lento di lä dal canale, fra i solchi biancastri e calcinati su cui dor-me il riflesso del cielo e del mare, carico di un azzurro cosi ricco, che anche la freschezza del suo soffio ha un peso sul viso. Sentivo la voce, strana, fra il silenzio e il fremere uguale delle gomme. 175 « Signor tenente, ci torniamo presto? ». Richiamati delle ultime manovre, che mi parlavano da uguali a uguale, cosi diversi, colla frusta e il badile in mano, la camicia aperta e la faccia in sudore, corrugata un poco dal dubbio; dura e chiusa, anche alia luce del sole. Sentivano Ia risposta, attenti; ci scambiavamo qualche altra iso parola indifferente; un saluto breve; e via. Nessun segno di com-mozione o di entusiasmo. Bastava essersi riawicinati per un momento. E cosl tutti gli altri che mi han fermato, interrogato tante volte quest'inverno. Tanti che avevo dimenticato, tanti che non avevo iss mai conosciuto; ma tutta gente che dovrebbe andare, se viene quel giorno; si sentono piú vicini, intanto. Erano sempre le Stesse domande: « che si vada? e quanto si tarda? e quanďě che ci ri-troviamo? », qualcuno sorridendo aperto, qualche altro rassegna-to, qualcuno anche sospettoso, con un desiderio torvo di sen-tirsi rispondere di no. E sempre le solite risposte: « ma, se ci tocca, si va tutti questa volta. — Quasi, quasi, credo che ci siamo proprio. — O prima o dopo, quando bisogna andare, si va. Ci troveremo... », con una reticenza istintiva, che mi spingeva a velare il mio desiderio per avvicinarlo alia loro preoccupazione, 19s senza offenderla. Tanto, quello che conta non ě la parola; ě l'oc-chiata di complicitä che ci scambiamo e che ci unisce, anche su 190 IL DIBATTITO POLITICO-CULTURALE 11 / 142 143 / « IL DIBATTITO POLITICO-CULTURALE rive opposte e con animo diverso, gente legata alla stessa sorte che s'incontra e si riconosce. Tutte le parole son buone, quando il senso di tutte e uno solo: siamo insieme, aspettando oggi, co_ _ me saremo nell'andare, domani. Fratelli? Si, certo. Non importa se ce n'e dei riluttanti; infidi tardi, cocciuti, divisi; cosl devono essere i fratelli in questo mondo che non e perfetto. E accanto a quello che brontola o si ritrae diffidente, ci son tutti quelli che si aprono a un sorriso 205 istintivo nell'incontrarmi — sorriso semplice e lieto che ha ven-t'anni un'altra volta sui volti cambiati, colle pieghe fisse e la barba aspra dell'uomo giä logoro; — quelli che mi stendon la mano dura con una timidezza affettuosa; quelli che posano so-pra di me i loro occhi un po' turbati con un senso di improwisa 210 fiducia, come avendo ritrovata, nel momento dubbioso, la loro guida di ieri... Guida da poco: ma io andavo avanti, e loro die-tro. Cosl si farebbe ancora. L'uomo non ha bisogno di molto per sentirsi sicuro. Purche si vada! Dietro di me son tutti fratelli, quelli che ven- 215 gono, anche se non Ii vedo o non Ii conosco bene. Mi contento di quello che abbiamo di comune, piü forte di tutte le divisioni. Mi contento della strada che dovremo fare insieme, e che ci porterä tutti egualmente: e sarä un passo, un respiro, una cadenza, un destino solo, per tutti. Dopo i primi chilometri 220 di marcia, le differenze saranno cadute come il sudore a goccia a goccia dai volti bassi giü sul terreno, fra lo strascicare dei piedi pesanti e il crescere dei respiro grosso; e poi ci sarä solo della gente stanca che si abbatte, e riprende lena, e prosegue; senza mormorare senza entusiasmarsi: h cosl naturale fare quello che 215 bisogna. Non c'e tempo per ricordare il passato o per pensare molto, quando si e stretti gomito a gomito, e c'e tante cose da fare; arrzi una sola, fra tutti. Andare insieme. Uno dopo l'altro per i senden fra i monti, che odorano di ginestre e di menta; si sfila come formiche per la pa- 230 rete, e si sporge la testa alla fine di lä dal Crinale, cauti, nel silen-210 della mattina. O la sera per le grandi strade sofEci, che la pe-sta dei piedi e innumerevole e sorda nel buio, e sopra c'e un filo di luna verdina lassü tra le piccole bianche vergini stelle d'apri-le; e quando ci si ferma, si sente sul collo il soffio caldo della 235 colonna che serra sotto. O le notti, di un sonno sepolto nella profonditä dei nero cielo agghiacciato; e poi si sente tra il sonno il pianto fosco dell'alba, sottile come l'incrinatura di un cristallo; e su, che il giorno e giä pallido. Cosl, marciare e fermarsi, ripo-sare e sorgere, faticare e tacere, insieme; file e file di uomini, che 2*0 seguono la stessa traccia, che calcano la stessa terra; cara terra, 229. Andare insieme: l'immagine deWandare insieme sulk quale Seira insi-sterä in questa che e la parte finale delTEsAME mira a tradurre — con una tensione che raggiunge un piano poetico vero e proprio — questo conqui-stato senso della collettivitä, della comunanza cogli altri. dura, solida, eterna; ferma sotto i nostri piedi, buona per i nostri corpi- E tutto il resto che non si dice, perché bisogna esserci e allora si sente; in un modo, che le frasi diventano inutili. Laggiü in cittä si parla forse ancora di partiti, di tendenze op- 245 noste; di gente che non va d'accordo; di gente che avrebbe pau- ra che si rifiuterebbe, che verrebbe a malincuore. puö esserci anche qualche cosa di vero, finché si resta per quelle strade, fra quelle case. Ma io vivo in un altro luogo. In quell'Italia che mi é sembrata 250 sorda e vuota, quando la guardavo soltanto; ma adesso sento che puö esser piena di uomini come son io, stretti dalla mia an-sia e incamminati per la mia strada, capaci di appoggiarsi l'uno all'altro, di vivere e di morire insieme, anche senza saperne il perché: se venga l'ora. 255 Puö darsi che non venga mai. É tanto che ľaspettiamo e non é mai venuta! Che cosa ho io oggi di piü sicuro a cui fidarmi, all'infuori del de-siderio che mi stringe sempre piü forte? Non so e non euro. Tutto il mio essere é un fremito di speranze 200 a cui mi abbandono senza piü domandare: e so ehe non son solo. Tutte le mquietudini e le agitazioni e le risse e i rumori ďin-torno nel loro sussurro confuso hanno la voce della mia spe-ranza. Quando tutto sarä mancato, quando sarä il tempo delľiro-nia e delľumiliazione, allora ci umilieremo: oggi é il tempo del- 26S ľangoscia e della speranza. E questa é tutta la certezza ehe mi bisognava. Non mi occorrono altre assieurazioni sopra un avvenire ehe non mi riguarda. II presente mi bašta: non voglio né vedere né vivere al di lä di questa ora di passione. (da R. Serra, Scritti, I, Le Monnier) 270 GIUSEPPE DE ROBERTIS Profilo: pag. 111 58. Saper leggere [da La Voce, VII, 8 (30-111-1915)] ■ Del significato delľultima fase della voce e delia metodológia di « lettore di poesia » di De Robertis si e giä parlato nel « Profilo ». La posizione di De Robertis da un lato si riallaccíava alle esperienze dei migliore Serra, dall'altro avrebbe notevolmente contribuito al sorgere di un nuovo gusto ehe di 11 a poco nella ungarettiana sco-perta della parola avrebbe trovato la sua prima manifestazione. La critica, s'é detto, vien dopo la poesia. La critica viene insieme con la poesia. Partecipa della natura della poesia. É costruttiva, a un'epoca di grandi costruzioni poetiche, e mondi ideali vasti: