LA LETTERATURA ITALIANA STORIA E TESTI DIRETTORI RAFFAELE MATTIOLI • PIETRO PANCRAZI ALFREDO SCHIAFFINI VOLUME SI • TOMO I UGO FOSCOLO · OPERE TOMO I UGO FOSCOLO OPERE TOMO I A CURA DI FRANCO GAVAZZENI RICCARDO RICCIARDI EDITORE MILANO · NAPOLI TUTTI I DIRITTI RISERVATI • ALL RIGHTS RESERVED PRJNTED IN ITALY UGO FOSCOLO. OPERE TOMO I AVVERTENZA NOTA BIOGRAFICA NOTA BIBLIOGRAFICA TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI POESIE POESIE GIOVANILI (1796-1799) POESIE (1803) LA CHIOMA DI BERENICE (1803) DEI SEPOLCRI (1807) ESPERIMENTO DI TRADUZIONE DELLA ILIADE DI OMERO (1807) LE GRAZIE (1803-1822) PROSE [FRAMMENTI DI UN ROMANZO AUTOBIOGRAFICO] (1799-1800) ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTI$ (1802) RAGGUAGLIO D'UN'ADUNANZA DELL'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) VIAGGIO SENTIMENTALE DI YORICK LUNGO LA FRANCIA E L'ITALIA (1813) DIDYMI CLERICI PROPHETAE MINIMI HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816). Traduzione di Carlo Saggio INDICE IX XVII XLV LIX s 159 253 283 339 395 537 S59 1011 AVVERTENZA La scelta dei testi qui raccolti è dovuta al proposito di definire l'immagine dell'opera foscoliana quale essa apparve agli occhi dei suoi contemporanei. La presenza di titoli ignoti agli stessi, e riaffiorati alla superficie postumamente, è poi dettata dalla loro obiettiva rilevanza nell'arco di un diagramma, sia pure solo antologicamente tracciato. Oltre a risparmiare al curatore di imbattersi con sospetta frequenza nei propri gusti, tale criterio consente di tentar di distinguere quanto il Foscolo storicamente rappresentò, in forma effettiva, nella cultura italiana tra la fine del Sette e l'inizio dell'Ottocento, da quanto potenzialmente avrebbe potuto rappresentare, e di fatto significò, nella coscienza di posteri, presto affascinati dall'autorevole verbo di Giuseppe Mazzini. Che tutto ciò rientri in una casistica abbastanza comune non toglie verità al fatto che tutto ciò si verificò più vistosamente per il Foscolo che per qualunque altro autore della nostra storia ottocentesca, e non poté darsi senza una sua ragione, che varrà la pena di richiamare brevemente, se non altro per renderci ancora una volta edotti della natura dell'equivoco storico, responsabile delle modalità della straordinaria fortuna del poeta. Certo, dal sonetto per l'abolizione dell'insegnamento della lingua latina, all'Ortis e alle Grazie, attraverso i Sepolcri, per toccare le stazioni più celebri, il cammino può anche sembrare guidato dalla stella politica dei destini risorgimentali. Scopertamente e meno, si è del resto dai più sempre ritenuto che il patrocinio di quella assicurasse alla letteratura foscoliana coerenza e novità, giungendo ad avallare ambigue prefigurazioni, dal poeta-vate al poetasoldato, all'aedo del riscatto nazionale, per altro verso rivelatrici della profondità dell'imbricazione nella realtà di un annoso fraintendimento, cosi come della sua sottile prossimità alla stessa. Al suo scolastico consolidarsi e permanere è imputabile se, dal dopoguerra in poi, l'interesse critico per il Foscolo, nonostante l'alimento dell'Edizione Nazionale, pare essersi complessivamente appannato. Contro un'immagine tanto suasivamente vicina ad altre ben più aborrite, prese infatti ad esercitarsi il giudizio, o pregiudizio, di una concezione dell'impegno dello scrittore che, formulato sulresempio di una determinata letteratura, per successivi tra- X AVVERTENZA vasi fini per uscire dalla porta della storia, e configurarsi in etichetta applicabile un po' ad ogni caso, senza precisi riguardi cronologici. Tralasciando di addentrarci in una polemica che ci porterebbe lontano dai fini della presente nota, è ancora necessario avvertire come l'arringa antifoscoliana più cospicua dei nostri giorni, splendidamente gestita dalla prestigiosa affabulazione gaddiana, non diversamente si fondasse anch'essa sull,implicita accusa di un impegno identicamente tradito dal poeta, e riferibile non tanto alla società, quanto alle Madri, nella misura in cui l'organica esigenza di assolutezza espressiva foscoliana, scambiata per mera retorica, ripugnava a quel dolce e tormentoso stimolo di proprietà piccolo-borghese, in C. E. Gadda tanto pervicacemente involuto in un inscindibile groviglio di odio-amore, da incarnarsi nella fissazione nevrotica della mise en relief espressionistica, come nella proteica mimesi dialettale. Né più persuasiva riesce la contrapposizione di un modello pari a quello del Manzoni, che in quadro culturale differente, e con l'ausilio di una diversa ideologia, sul versante insomma opposto a quello battuto dal Foscolo, sembra invece percorrere analogo itinerario. Perché più delle divergenze, tanto ovvie da non dover essere neanche rievocate, colpiscono i punti d,incidenza, generalmente passati inosservati, sulla scorta di inconciliabili e schematiche prospettive, di chiara marca ottocentesca. Non è infatti chi non veda come la decisione di affidare ad una singola impresa il compito di seppellire un passato letterario inattuale perché egualmente caratterizzato dalla coincidenza con la norma rispettivamente tardo-arcaica e neoclassica, tanto in Foscolo che in Manzoni si realizzi nell'elaborazione di una forma condizionata da ragioni che letterarie certo non sono. Ciò che nella precedente tradizione non è mai ravvisabile. Non penso solo al filone che fa capo a Vincenzo Monti, ma anche a quello, ben più responsabile, che prevede le presenze di Parini e Alfieri. Le Poesie (1803) e gli Inni sacri (1815) instaurano con la poesia un rapporto tanto radicalmente anticonformistico, da interrompersi nell,atto stesso di venir dichiarato, per essere quindi riallacciato in circostanze eccezionali da un'occasione particolare, che è ancora la vicenda dei Sepolcri, del Proclama di Rimini, di Marzo I82I e del Cinque Maggio. Il presidio lombardo dell'esempio pariniano avrà avuto senz'altro il suo peso nel determinare l'accorto vaglio dell'esercizio letterario, cosl co- AVVERTENZA XI me nel promuovere una vigile coscienza civile degli obblighi delruomo di lettere, .alla cui coloratura politica avrà altrettanto indiscutibilmente contribuito la lezione alfieriana; ma è sicuro che, prima del Foscolo, a nessuno era stato dato di far dipendere le sorti formali della poesia dalle esigenze del momento storico con altrettanta puntualità (è del resto noto come l'autore delrOrtis sia da annoverarsi tra i maggiori responsabili della «nazionalizzazione» dell'autore del Giorno). Se dunque un raffronto tra Foscolo e Manzoni è affacciabile, esso è possibile in quanto si colloca al di là delle singole espressioni, per consegnarsi alla nostra considerazione nella luce del comune impegno dei due scrittori con la realtà del proprio tempo, che non è lo stesso, al di fuori delle rispettive culture, ma dentro un ambiente, quello appunto lombardo, dotato di speciali caratteri. Quanto finalmente importa non è già il vistoso dissenso in cui si pongono, ai due estremi, le Graz1:e e i Promessi· Sposi, ma il punto di tangenza, là dove le due traettorie prendono definitivamente a divergere, per comporsi nell'un caso nella misura aristocratica di un magistero che dalla storia aveva saputo dedurre i princìpi atti a risolvere, iuxta sua pn'ncipia, le proprie antinomie, e porlesi al di sopra e come fuori di tiro in un iperuranio di virtù laiche; e per parare nell'altro nell'immagine opposta, di una verità che, uscita dalla lunga agonia degli ideali rivoluzionari, all'indomani della Restaurazione, aveva voluto vestire gli umili panni della realtà quotidiana, onde inoltrarsi in un sentiero tanto poco frequentato da obbligare il Manzoni a calare nella giustezza topografica, ambientale, psicologica, e, inizialmente e parzialmente, anche linguistica, una vicenda riaffiorata dalle falde della geologia regionale. Il contatto sembra infatti garantito dalla conclusiva definizione di un confronto globale con la storia, in entrambi i casi ispirato dal netto rifiuto della contemporaneità. Diversamente dal laico Foscolo, la sua revoca al termine ante quem de~ 1789, dimostrava al cattolico Manzoni intera la fallacia della fiducia razionalistica nell'irreversibilità del progresso delle istituzioni civili. Ciò che, a prescindere dalla segnalata componente ideologica, doveva soprattutto risaltare agli occhi di chi restava a condurre la propria battaglia entro _i confini nazionali, tanto da ridar credito alle certezze più elementari. Ma per chi invece, come il Foscolo, ne era stato violentemente espulso in seguito a vicende che XII AVVERTENZA non gli concedevano scampo, estromesso dal vivo del dibattito, nel limbo operativo dell'esilio londinese, i propri conti con la storia non potevano altro tradursi che nella gelosa conservazione di quel patrimonio culturale, nel cui quadro aveva a suo tempo preso senso l'intera sua produzione, dalle Ultime lettere alla versione del Sentimental Journey. A nessuno, ch'io sappia, è mai sfuggito come l'organicità della ricognizione critica foscoliana si affranchi dal pericolo di apparire informata a criteri estemporanei, principalmente in virtù della coerenza prospettica che caratterizza i singoli episodi. Né d'altro canto è passata inosservata la congruenza del canone dei sepolcri di Santa Croce e dell'architettura delle Grazie con la ragione storico-poetica costantemente presupposta alla vasta indagine condotta nel campo della letteratura italiana durante gli anni dell'esilio. Non deve però sorprendere che, scoppiata l'id/e enquiry del romanticismo lombardo, il Foscolo reagisse come reagì, sentendosi scavalcato da uomini con i quali, in passato, aveva sovente formato fronte comune, proprio quando la sua opera andava assumendo i tratti di una strenua illustrazione di quella letteratura, che dagli stessi che un tempo gli erano stati a fianco stava per essere, almeno a parole, liquidata alla stregua di inadeguata anticaglia, incapace di dar voce ai problemi che si affacciavano con notevole ritardo sull'orizzonte della cultura ita- liana. La carriera del Foscolo si chiudeva dunque con la difesa di valori, la cui progressiva conquista aveva contrassegnato le tappe della sua formazione e affermazione, dai primi passi della giovinezza veneziana, attraverso l'Ortis e le Poesie, su fino alle traduzioni omeriche e di Sterne, ai Sepolcri e alle Grazie. E neppure è senza significato che tale difesa facesse assegnamento sopra struinenti esclusivamente critici. Nei confronti della letteratura italiana l'atteggiamento del poeta, all'inizio, non può immaginarsi diverso da quello che normalmente si potrebbe supporre in un letterato italiano nei riguardi della lingua e letteratura greca e latina, e non sarà poi assimilabile all'operazione pariniana di Ripano, o all'espressionismo puristico alfieriano, proprio perché originalmente determinato da una sostanziale estraneità al- 1'ambito linguistico nazionale. Gli esordi foscoliani non riescono infatti sostanzialmente dissimili da un esercizio di traduzione in AVVERTENZA XIII una lingua diversa da quella parlata, sulla scorta di modelli suggeriti dalla loro contemporanea notorietà. L'impersonale accettazione degli istituti tardo-arcadici nei componimenti antecedenti la prima campagna italiana del Bonaparte, più che a comprensibile impaccio di principiante, sembra però risalire al fermo proposito di identificarsi con una civiltà ben individuabile, reso in astratto possibile da una perfetta aderenza alla realtà storica. La sua contestazione, avviata da eventi troppo noti per essere qui ricordati, postulando il ricorso a Monti e ad Alfieri, ad autorità cioè poco omogenee al contesto culturale veneto, stabili un legame con la tradizione che, inizialmente indotto dall'imitazione delle peculiarità stilistiche dei modelli citati, doveva più tardi assumere i caratteri di una conservazione della stessa, resa sempre più marcatamente evidente dalla sua sempre più manifesta contraffazione. Tale il senso del Tieste, oltre che delle odi politiche del '97, così come dell'Ortis e delle Poest."e. Il salto qualitativo è insomma favorito dal passaggio dalla provincia veneta all'ecumene nazionale, e in tanto importa una differenza, in quanto implica un'apertura di compasso ben maggiore, a fronte della primitiva. Così motivi contingenti, come l'appartenenza originale a una comunità linguistica particolare, e motivi relativi alla sempre più netta avversione alle ragioni del Direttorio prima, e di Napoleone Bonaparte poi, agirono d'accordo a far si che la poesia foscoliana assumesse quel carattere riflesso, come di pronuncia preziosa di un intarsio di citazioni, accortamente predisposte invece al fine di dissimulare nell'omaggio alla tradizione, un contrasto politico di fondo, nella forma propria, e ormai unicamente consentita a un uomo di lettere, da non confondersi però con la memoria della poesia dei poeti (anche, se si vuole, per deformazione professionale, determinante l'istituto, caratteristicamente foscoliano, dell'autocitazione). Qualcosa di geneticamente ben differente da un'epitome di luoghi della lirica, classica e in lingua, informata a criteri estetistici, storicamente improponibili; qualcosa, ancora, per la cui attuazione il Nostro si trovava singolarmente predisposto, stante la dominante strutturale del suo apprendistato. Del resto, proprio il divorzio dalla cultura coeva, e la precoce disillusione nei destini dell'unità nazionale, mentre da un lato promuovevano una sempre più marcata contrapposizione tra passato e presente, avviando a scoprire, e con intenti progressivi, XIV AVVERTENZA la dimensione della storia attraverso la valorizzazione dell'autoctonia, dall'altra confinavano il Foscolo in una posizione isolata, progressivamente radicalizzata nella misura in cui il poeta si vedeva costretto a difenderla con decisione tanto maggiore, quanto più sembrava incombere il trionfante conformismo. Ma radicalizzarla e difenderla voleva appunto dire approfondirne le ragioni, determinarne la legittimità retrodatandone continuamente la dignità, onde conferirle più netta autorevolezza. Dalla mise en relief della tradizione lirica nei sonetti e nelle odi, alla versione di un poemetto eziologico, all'emblematica celebrazione dei sepolcri, al saggio di traduzione dell'archetipo d'ogni espressione poetica, alla metafisica della storia del privilegio culturale d'Italia, quale suprema certificazione del suo prestigio, il senso che se ne evince è quello di un aristocratico opporre ai malcerti valori della contemporaneità quelli indiscutibili della storia, restituiti con coerente operazione di cernita, contro le volgarizzazioni correnti, alla luce originale del primitivo significato. Ciò che in sede prosastica è per esempio dato· registrare nella sostenutezza obsoleta dello stile ortisiano, così come nell'interessato purismo della versione del Sentimental Journey, e che poi si dichiara a tutte lettere nella sintomatica proiezione autobiografica della Notizia didimea, finalmente riassumente le istanze fondamentali dell'orgoglioso appartamento foscoliano, il cui riscontro pubblico era per altro già stato ampiamente assicurato dalla querelle del 181 o. Il legame che intercorre tra l'apologia della virtù solitaria del Parini nell'Ortis, il ricalco dei dati biografici di Didimo sopra quelli dell'autore del Giorno nella Notizia, e il nesso critico stabilito con lo stesso nel- 1'Essay on the Present Literature o/ Italy, dimostrano che il poeta si era peritato per tempo, e poi mai dimenticato, di storicizzare il proprio isolamento, per razionalizzarne non già l'estraneità, ma la sua rarità nel contesto nazionale. Prerogativa risultante nel suo insieme da una somma di episodi singolarmente connotati appunto dall'eccezionalità dell'occasione storica, più spesso oggettiva che soggettiva, anche faziosamente informante una storiografia, concepita per vette, entro la quale solo ambiva collocarsi una produzione consapevolmente avara di titoli quale quella foscoliana. La sua specificità sembra dunque risiedere nella fissazione di una cifra, il cui valore nasceva dalla necessità politica di un rispecchiamento inattuale nella tradizione, volta a volta opportunamente AVVERTENZA xv distanziata, e come messa tra virgolette, in virtù dell'impiego, spesso virtuosistico, di una ricca gamma di colori retorici, ai quali spettava di dar voce all'intenzionalità dell'aùtore. Scontata la tempestività dei suoi contenuti, al progressivo sfocamento dell'evidenza allusiva veniva accompagnandosi la scompaginazione di quei piani grazie ai quali la vox clamantis in deserto aveva quasi sempre legittimamente potuto aspirare a distinguersi da quella di un laudato, temporis acti, sl da consentirne, nel tempo, la confusione, rendendone però irreperibile l'autentica risonanza poetica. FRANCO GAVAZZBNI NOTA BIOGRAFICA 1725 16 agosto (5 agosto stile vecchio).1 Da Pietro Foscolo da Candia e Anna Psalidi da Spinalunga nasce, a Corfù, Nicolò, nonno di Ugo. 1747 24 settembre (13 settembre st. v.). Viene battezzata, a Zante, Diamantina, figlia di Narciso Spathis e Rubina Serra, madre di Ugo. 1754 21 ottobre (10 ottobre st. v.). Da Nicolò Foscolo e Isabella Mano da Napoli di Romania nasce, a Corfù, Andrea, padre di Ugo. 1777 5 maggio (24 aprile st. v.). Matrimonio, a Zante, di Andrea Foscolo con Diamantina Spathis, vedova di Giovanni Aquila Serra. 1778 6 febbraio (26 gennaio st. v.). Nasce, a Zante, Nicolò (Ugo) Foscolo. - 17 febbraio (6 febbraio st. v.). Viene battezzato, nella cattedrale di San Marco a Zante, Nicolò (Ugo). 1779 21 dicembre (10 dicembre st. v.). Nasce, a Zante, Rubina Foscolo, sorella di Ugo. 1781 1o marzo (27 febbraio st. v.). Nasce, a Zante, Gian-Dionisio Foscolo, fratello cli Ugo. 1784 ottobre. Andrea Foscolo si trasferisce a Spalato, in Dalmazia, come primo medico dell'ospedale militare, al posto del padre Nicolò, deceduto di peste in quello stesso anno. 1785 luglio-agosto. Ugo e gli altri familiari si trasferiscono a Spalato. 1787 7 dicembre (25 novembre st. v.). Nasce, a Spalato, Costantino Angelo Foscolo, poi cresimato col nome di Giulio, fratello di Ugo. 1. stile vecchio: il calendario Giuliano, in uso presso i Greco-scismatici, che non avevano accettato la riforma gregoriana, dal I marzo 1700 al z8 febbraio 1800 era in arretrato di undici giorni. XVIII NOTA BIOGRAFICA 1788 24 ottobre (13 ottobre st. v.). Muore, a Spalato, Andrea Fo- scolo. 1789 Diamantina Spathis si trasferisce a Corfù, lasciando i figli in custodia ai parenti: Ugo a Zante, presso la zia Giovanna Someritti; Gian-Dionisio (Giovanni) presso la nonna Rubina Serra; Costantino Angelo e Rubina a Corfù, presso le zie Regina Ponzetta e Maria Xinda. 1792 Accompagnato dal n. h. Paruto si reca a Venezia, raggiungendovi la madre che vi si era trasferita in precedenza, ma vi resta solo per pochi giorni, successivamente rientrando a Zante. 1793 primi mesi. Si trasferisce definitivamente a Venezia, fissando dimora, con la famiglia, in Campo delle Gatte. Frequenta la scuola di San Cipriano a Murano. 1794 Invia all'amico Costantino Naranzi, il giovane, il manoscritto di una raccolta di componimenti, pubblicati postumi nel I 83 I, a Lugano, presso Giuseppe Ruggia (Edizione Nazionale, 11, pp. 239-84). - 10 dicembre. Invia a Gaetano Fomasini, a Brescia, un so-- netto sulla morte del padre (Epistolario, I, pp. 5-7). 1795 14 marzo. Invia a Gaetano Fomasini, a Brescia, alcuni versi per un amico (Epistolario, 1, pp. 7-8). - 28 maggio. Invia ad Aurelio de' Giorgi Bertola l'ode La Campagna (Epistolario, I, pp. 14-5). - estate. Si ammala gravemente di risipola, rischiando di perdere la vista. - 29 agosto. Invia al Fomasini, a Brescia, un'ode In morte del Duca G. C., ringraziandolo di aver fatto pubblicare un'altra ode per la prima messa di Luigi Scevola (Epistolario, 1, pp. 15-7). - 30 ottobre. Annuncia a Melchiorre Cesarotti di aver terminato il Tuste (Epistolario, 1, pp. 19-20). 1796 luglio. Nel «Mercurio d'Italia storico-letterario» di Venezia, vengono pubblicate le terzine La Croce e l'ode Il mio Tempo. - secondo semestre. Stende il Piano di Studii (Edizione Nazionale, v1, pp. 3-9). - 8 settembre. t a Ceriole di Teolo (Colli Euganei), come da lettera a Tommaso Olivi (vedi nel tomo II la lettera 1). - fine settembre. Rientra a Venezia. NOTA BIOGRAFICA XIX - ottobre. Nel «Mercurio d'Italia storico-letterario» vengono pubblicate le odi A Dante e La morte di •••. È pubblicato L'Olocausto o Sacrificio, Brescia (l'edizione è, a tutt'oggi, irreperibile). Nell'cc Anno poetico » di Venezia viene pubblicata l'ode La Verità. I 797 4 gennaio. Va in scena a Venezia, al teatro Sant'Angelo, il Tieste. - aprile. Nel Teatro moderno applaudito, t. x, viene pubblicato il Tieste, seguito dalle Notizie storico-critiche sullo stesso. - 22 aprile. Invia copia del Tieste a Vittorio Alfieri e a Diodata Saluzzo (vedi nel tomo II la lettera 41 e Epistolario, I, pp. 43-4). - dopo il 22 aprile. Si reca a Bologna, arruolandosi volontario nei Cacciatori a cavallo. - 12 maggio. Caduta della Repubblica di Venezia. - 13 maggio. Lettera da Venezia, di Almorò Fedrigo, annunciantegli la sommossa popolare e l'arrivo dei Francesi (Epistolario, 1, pp. 46-9). - metà maggio. Viene pubblicata, a Bologna, l'ode Bonaparte liberatore, con dedica •Alla città di Reggio». - dopo il r6 maggio. Parte da Bologna alla volta di Venezia, ormai libera. - 20 maggio. Fa domanda alla Giunta di Difesa di Bologna di essere assunto quale ufficiale della Cispadana (vedi nel tomo II la lettera 8). - 23 maggio. Viene nominato tenente onorario aggregato alla Legione cisalpina. - 29 maggio. Con decreto della Municipalità viene istituita la Società d'Istruzione Pubblica di Venezia. - 18 giugno. Chiede di essere ammesso, quale socio, nella sopraddetta Società (vedi nel tomo II la lettera 9). - 19 giugno. Viene acclamato socio, entrando a far parte del Comitato d'Istruzione. - 29 luglio. Gli viene affidato l'incarico di Redattore della l\1unicipalità nelle sedute della Società d'Istruzione Pubblica. - 17 ottobre. Cessione di Venezia all'Austria con il Trattato di Campoformio. - 19 novembre. Parte da Venezia alla volta di Milano. - 20 novembre. Con lettera a Giambattista Containi Costabili richiede la cittadinanza cisalpina (Epistolario, 1, pp. 57-8). - 1 s dicembre. Al Circolo Costituzionale di Milano recita l'introduzione ad un suo poema sulla morte di Luigi Filippo xx NOTA BIOGRAFICA Egalité, forse parte del poema in tre canti in terzine Robespierre, citato nel Piano di Studii, c. 2v. (per le sole due terzine pervenuteci, vedi Edizione Nazionale, II, p. 343). Nell'«Anno poetico», oltre an•ode Bonaparte liberatore, vengono pubblicati l'ode Ai novelli repubblicani, i sonetti A Vene%ia e Era la notte; e sul funereo letto, e gli sciolti Al Sole. 1798 20 gennaio. Esce a Milano il primo numero del «Monitore Italiano», al quale collabora, in qualità di estensore, unitamente a Melchiorre Gioia, Pietro Custodi e Giovanni Breganze. - 15-19-21 marzo. Nel «Monitore Italiano» viene pubblicato il giudizio sul Bonaparte in Italia di Francesco Gianni. - maggio-giugno. Viene pubblicato a Milano, per i tipi di Pirotta e Maspero, l'Esame di Niccolò Ugo Foscolo su le accuse contro Vincen%o Monti. - primi di giugno. È a Bologna. - 26 giugno. È a Modena, rientrando successivamente a Bo- logna. - 9 luglio. Rientra a Milano. - 25 luglio. Nel «Giornale Repubblicano di Pubblica Istruzione» di Modena, viene pubblicata la Difesa del «Quadro politico » di M elchio"e Gioia. - circa fine agosto. Si trasferisce di nuovo a Bologna. - 29 settembre-13 ottobre. Collabora alla stesura del cr Genio Democratico» di Bologna, pubblicandovi una parte delle Istruzioni politico-morali. - 16-26 settembre. Continua la pubblicazione delle Jstru%ioni politico-morali sul «Monitore Bolognese » che aveva assorbito il • Genio Democratico ». - 2 novembre. È assunto in qualità di aiutante del Cancelliere e segretario per le lettere del Tribunale di Bologna, come da lettera al cittadino L. Piana (Epistolario, I, pp. 72-3). Vengono pubblicate a Bologna, per i tipi del Marsigli, le Ultime lettere di Jacopo Ortis. 1799 febbraio. Abbandona l'impiego bolognese e riprende il servizio nella Guardia Nazionale in qualità di luogotenente del generale Tripoult. - 12 marzo. Dichiarazione di guerra della Francia all'Austria, e al Granducato di Toscana. - 24 aprile. Viene ferito da un colpo di baionetta a una coscia, durante la presa di Cento. Ripara a Calcara presso Lucio Turrini, per curarsi e sfuggire agli Austro-Russi. NOTA BIOGRAFICA XXI - 7 maggio. Si rifugia nel monastero di Monteveglio, sotto il falso nome di Lorenzo Alighieri. - 30 maggio. Viene arrestato a nome della Municipalità di Bazzana, e ivi condotto prigioniero. È trasferito, con altri prigionieri, a Vignola, e successivamente a Modena (Epistolario, 1, p. 420). - 12 giugno. Viene liberato dalle truppe del generale Mac- donald. - 19 giugno. È alla battaglia della Trebbia al seguito del Macdonald, rientrando successivamente a Bologna, dove stende denuncia contro coloro che lo avevano precedentemente arrestato a Monteveglio (Epistolario, 1, pp. 419-20). - dopo il I o luglio. Con i resti della divisione comandata dal Macdonald giunge a Genova. - prima del 12 ottobre. Viene pubblicato a Genova, per i tipi del Frugoni, il Discorso su la Italia. - 12 ottobre. Nel «Monitore Ligure» di Genova sono annunciate la pubblicazione del Discorso su la Italia, e la ristampa dell'ode Bonaparte liberatore con la lettera dedicatoria A Bonaparte. - dicembre. Parte alla volta della Francia e si ferma a Nizza dove, insieme al fratello Gian-Dionisio, cade malato in seguito a un'epidemia che infierisce fra le truppe francesi. - fine del 1799-primi del 1800. Nell'Omaggio a Luigia Pallavicini, edito a Genova per i tipi del Frugoni, viene pubblicata l'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. 1800 25 febbraio. Nella chiesa di San Francesco della Vigna, a Venezia, la sorella Rubina sposa Gabriele Molena. - 1o marzo. Il generale Oudinot lo autorizza a prendere servizio, in qualità di ufficiale di corrispondenza, presso il generale Fantuzzi, a Genova. - 10-15 marzo. Ritorna a Genova. - 2 maggio. Presa del forte dei Due Fratelli, dove è nuovamente ferito a una gamba. Morte del generale Fantuzzi. - 4 giugno. Resa di Genova. Lascia la città al seguito delle truppe francesi. - 1o giugno. È a Pietra Ligure in qualità di capitano aggiunto alla 4• Divisione del generale Gazan. - 25 giugno. È a Nizza Monferrato. - 30 giugno. Autorizzazione al generale Pino, al Quartier generale di Milano, di assumerlo in qualità di capitano aggiunto (Epistolario. 1, pp. 421-2). - 23 agosto. Si reca ad Alessandria per servizio. XXII NOTA BIOGRAFICA 17 settembre. È a Bologna in partenza per Reggio. - 22 settembre. È in partenza per Imola. - 25 settembre. Riceve ordine di recarsi a Monteveglio, sempre per questioni di servizio (Epistolario, I, p. 424). - I ottobre. Nasce, a Venezia, Maria Fortunata, figlia della sorella Rubina Molena. - 4 ottobre. È in partenza per Forte Urbino e Modena. - 7 ottobre. Nel supplemento al (< Monitore Bolognese» viene pubblicato l'articolo In difesa del generale Pino. - 2 novembre. È a Firenze. - 11 novembre. Si reca a Siena e a Pistoia. - 22 novembre. È di nuovo a Milano in procinto di recarsi a Brescia. - 30 novembre. Viene nominato Commissario del potere esecutivo presso il I Consiglio di guerra (Epistolario, I, p. 426). Inizia la stesura dei Commentari della storia di Napoli {Edizione Nazionale, VI, pp. 173-92). 1801 gennaio. È a Firenze. - 1 gennaio. Stende il Proemio ai Discorsi sopra gli uomini illustri di Plutarco (Edizione Nazionale, VI, pp. 195-6). - 2 gennaio. Lettera da Firenze agli editori della a Gazzetta Universale» sulle edizioni apocrife dell'Ortis (vedi nel tomo II la lettera 13). - 16 marzo. È a Bologna in procinto di ripartire per Milano, richiamatovi dal ministro della Guerra (Epistolario, I, p. 426). - 19 marzo. È a Milano. - 27 marzo. Annuncia al libraio Guglielmo Piatti di Firenze l'inizio della ristampa delle Ultime lettere di Jacopo Ortis (Epistolario, I, p. 103). - primi di giugno. È ammalato da più di un mese di «affezioni coliche, ed ippocondriache » (Epistolario, I, p. 105, nota 1). Riceve l'incarico di tradurre alcune opere francesi per la compilazione di un Codice militare italiano (Edizione Nazionale, VI, pp. LXIV-LXVII). - 11 luglio. Invia al ministro della Guerra il suo rapporto sul Codice militare (Epistolario, I, pp. 107-8). - 25 luglio. È posto a capo della IV Sezione per la compilazione di un Codice militare italiano (Epistolario, 1, p. 426). - estate. Ha inizio la relazione con Antonietta Fagnani Arese. - 17 agosto. Stende l'Idea generale del lavoro della qllarta sezione dell'ufficio di compilazione del Codice militare italiano (Edizione Nazionale, v1, pp. 199-205). NOTA BIOGRAFICA XXIII - autunno. Gioacchino Murat sospende la Commissione per la compilazione del Codice militare. Nel «Parnasso democratico» di Bologna, oltre all'ode Bonaparte liberatore, viene pubblicato il sonetto Te nudrice alle muse, ospite e Dea. - 8 dicembre. Muore a Venezia il fratello Gian-Dionisio. - ultimi del 1801. Viene pubblicato a Milano, per i tipi del Mainardi, il primo volume delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. 1802 4 gennaio. Rapporto al ministro della Giustizia sul comportamento del Foscolo in una casa da gioco, e richiesta di sospensione del medesimo dal grado e dagli emolumenti relativi (Epistolario, I, p. 124, nota 1). - 16 gennaio. Invia una copia dell'Ortis al Goethe (vedi nel tomo II la lettera 19). - 25 gennaio. Apertura dei Comizi di Lione. - prima del 24 agosto. Viene pubblicata a Milano l'Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione. - 24 agosto. Invia copia dell'Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione a Saverio Bettinelli (vedi nel tomo II la lettera 21). - 1 settembre. Fa richiesta al Consiglio legislativo della citta... dinanza italiana (Epistolario, 1, p. 146). - ottobre. Nel «Nuovo Giornale dei Letterati» di Pisa sono pubblicati i sonetti Non son chi fui, perì di noi gran parte; Che stai? già il secol forma ultima lascia; Perché taccia il rumor di mia catena; Così gl'interi giorni in lungo incerto; E tu ne' carmi avrai perenne vita; Te nudrice alle Muse, ospite e Dea; Meritamente, però ch'io potei; Solcata ho fronte, occhi incavati, intenti; oltre all'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. - circa 20 ottobre. È edita a l\,lilano, per i tipi del Genio Tipografico, l'edizione completa delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. - 24 ottobre. Invia copia dell'Ortis al tipografo Giambattista Bodoni di Parma (Epistolario, 1, pp. 154-5). Invia copia dell'Ortis a Vittorio Alfieri (vedi nel tomo II la lettera 22). 1803 aprile. Vengono pubblicate a Milano, per i tipi del Destefanis, le Poesie di Ugo Foscolo, includenti, oltre agli otto sonetti e all'ode dell'edizione pisana dell'anno precedente, i tre sonetti Forse perché della fatal quiete; Né pir) mai toccherò le sacre sponde; Pur tu copia versavi alma di canto, e l'ode Alla amica risanata. - 13 agosto. Fa richiesta al ministro della Guerra di due mesi XXIV NOTA BIOGRAFICA di paga anticipata onde poter terminare La chioma di Berenice (Epistolario, 1, pp. 187-8). Vengono pubblicate a Milano, per i tipi del Nobile, le Poesie di Ugo Foscolo accresciute, rispetto all'edizione Destefanis, del sonetto Un di, s'io non andrò sempre fuggendo. - novembre. Viene pubblicata a Milano, per i tipi del Genio Tipografico, La chioma di Berenice. - metà novembre. La Divisione italiana parte alla volta del campo di Saint-Omer. - 25 novembre. Fa domanda al vice-presidente Francesco Melzi d'Eril di essere riammesso in servizio attivo con brevetto di capobattaglione aggregato allo Stato Maggiore del generale Pino, in Francia (Epistolario, I, pp. 190-1). I 804 1 gennaio. La Divisione giunge a Parigi, proseguendo per Valenciennes. - 2 gennaio. Muore a Venezia la nipote Maria Fortunata Molena. - 22 aprile. È nominato capitano di fanteria destinato, quale ufficiale di corrispondenza, presso lo Stato Maggiore del generale Pino, in Francia (Epistolario, 1, p. 430). - 3 maggio. Invia copia della Chioma di Berenice a Isabella Teotochi Albrizzi, annunziandole la sua prossima partenza per la Francia (Epistolario, 1, pp. 198-9). - 17 giugno. Parte da Milano alla volta della Francia. - circa fine giugno. È a Parigi e viene destinato alla guarnigione di Valenciennes. - luglio-agosto. Fa conoscenza, a Valenciennes, di alcuni prigionieri inglesi, fra i quali è Fanny Hamilton, dalla cui relazione nascerà l'unica sua figlia Floriana. - 19 settembre. È a Calais per ragioni di servizio (Epistolario, II, pp. 4-6). - primi di dicembre. È a Valenciennes in qualità di comandante dei Depositi (Epistolario, 11, pp. 11-4). 1805 3 gennaio. È nuovamente ammalato di a febbre biliosa• (Epistolario, 11, pp. 21-2). - circa febbraio. Difende, presso il Tribunale militare, il sergente Armani, accusato di omicidio, e lo fa assolvere (Edizione Nazionale, VI, pp. 451-61). - primi di marzo. È a Lille. Rientra a Calais, incaricato dal maresciallo Soult del comando e dell'ispezione delle truppe da imbarcare per la progettata spedizione contro l'Inghilterra. NOTA BIOGRAFICA xxv - 29 aprile. Nel «Giornale Italiano,. di Milano è pubblicata l'epigrafe scritta per la morte del generale Trivulzio. - I 2 maggio. Nasce, a Venezia, Pasquale Molena, figlio della sorella Rubina. - settembre. È trasferito a Boulogne-sur-Mer. - 25 ottobre. In lettera ad Amélie Bagien annuncia di aver terminata la traduzione del Sentimental Journey di Sterne.(Epistolario, II, pp. 85-9). I 806 1s gennaio. Chiede al generale di Divisione Teulié un permesso di quattro mesi, onde visitare la sua famiglia a Venezia (Epistolario, II, pp. 94-5). - febbraio. Il generale Pino gli accorda il congedo richiesto il mese precedente. - 4 marzo. È a Parigi (Epistolario, II, p. 95, nota 2.), dove visita Alessandro Manzoni, dal quale è accolto freddamente (Epistolario, VI, p. 241). - 18-19 marzo. È a Milano. - metà apriie. È a Venezia, dove rivede la famiglia dopo dieci anni. - 11 giugno. È al Terraglio (Treviso), ospite di Isabella Teotochi Albrizzi. - 12 giugno. Rientra a Venezia. - 14 giugno. È a Padova, dove visita Melchiorre Cesarotti (Epistolario, II, pp. 110-1). - 16-17 giugno. È a Verona, dove visita Ippolito Pindemonte (Epistolario, II, p. 112). - 21 giugno. È a Milano, dove chiede un nuovo congedo per motivi di famiglia, che gli viene accordato (Epistolario, n, p. I 16). - prima del 27 giugno. Viene ristampato a Brescia, per i tipi del Bettoni, Il Bardo della Selva Nera di Vincenzo Monti (Epistolario, II, p. 1 18, nota 1), unitament~ alle Osservazioni sul Bardo della Selva Nera. - luglio. Nel «Giornale Italiano» di Milano vengono ristampate, anonime, le Osservazioni sul Bardo della Selva Nera di Vincen%o Monti. - 12-1J luglio. Rientra a Milano. Inizia la stesura della traduzione del Commentan·o della battaglia di Marengo (Epistolario, n, pp. 125-6, e vedi Edizione Nazionale, VI, pp. 483-99). - 22 luglio. È a Mantova per una missione ministeriale (Epistolario, II, pp. 130-2). - fine luglio. Il progettato viaggio a Venezia viene accantonato, XXVI NOTA BIOGRAFICA perché è inviato a visitare le miniere di ferro in Valtellina e nel Bergamasco (Epistolario, II, pp. 142-3, e 150). - 6 settembre. In lettera a Isabella Teotochi Albrizzi annuncia di avere terminato un'Epistola sui sepolcri dedicata a Ippolito Pindemonte (Epistolario, II, p. 143). - ottobre o novembre. Si incarica della difesa di un capitano, Edoardo Trolli, di Baveno, accusato di tentato omicidio (Epistolario, 11, pp. 143-4). 1807 15 gennaio circa. È a Brescia, dove conosce Marzia Martinengo Cesaresco, e se ne innamora. - 20 gennaio. Rientra a Milano. - primi di febbraio. È di nuovo a Brescia, per curare la stampa dei Sepolcri e dell'Esperimento di traduzione della Iliade di Omero. - 12 febbraio. È a Milano, ammalato (Epistolario, II, pp. 173-4). - circa 20 marzo. È a Brescia. - prima del 7 aprile. Viene pubblicato a Brescia, per i tipi del Bettoni, il canne Dei Sepolcri. - prima del 19 aprile. Viene pubblicato a Brescia, per i tipi del Bettoni, l'Esperimento di traduzione della Iliade di Omero. - 22 giugno. Nel «Giornale Italiano» di Milano è pubblicato un articolo di stroncatura dei Sepolcri ad opera dell'abate Aimé Guillon, critico letterario del suddetto giornale. - luglio. Viene pubblicata a Brescia, per i tipi del Bettoni, la Lettera a Monsieur Guill . .. su la sua incompetenza a giudicare i poeti italiani. - 16 luglio. Il Guillon replica, pubblicando, per i tipi del Silvestri a Milano, l'opuscolo Uno contro più, ovvero Risposta del signor Guill . . . ai libercoli successivamente pubblicati contro certi suoi articoli inseriti nel «Giornale Italiano». - estate. Viene pubblicato a Milano, per i tipi di Pirotta e Maspero, l'articolo di Pietro Borsieri Lettera in risposta all'Uno contro più di M. G. - fine settembre. Parte da Brescia alla volta di Milano. - primi di ottobre. Vengono pubblicati a Verona, per i tipi del Gambaretti, I Sepolcri. Versi di Ugo Foscolo e di Ippolito Pindemonte. · - 12 ottobre. Viene eletto membro dell'Accademia Italiana di Livorno. - 28 ottobre. Viene pubblicato a Brescia, per i tipi di Spinelli e Vallotti, l'Uno dei più contro l'Uno di Antonio Bianchi, relativo agli scritti del Guillon sui Sepolcri. NOTA BIOGRAFICA XXVII 1808 primo trimestre. Nel «Giornale della Società d'incoraggiamento delle scienze delle lettere e delle arti stabilita in Milano», t. 1, vengono pubblicati i due articoli: Osservazioni critiche intorno ad un elogio funebre di Pietro Teulié, e Il aBardo» di T. Gray, traduzione di Giovanni Berchet. - 24 marzo. Con decreto vicereale è nominato professore di Eloquenza Italiana e Latina presso l'Università di Pavia. - 1 aprile. t a Milano nuovamente ammalato. - 3 maggio. Annuncia a Camillo Ugoni che il primo volume delle Opere di Raimondo Montecuccoli è finalmente stampato (Epistolan·o, II, pp. 429-30). - 1 s giugno. A Milano lavora al secondo volume delle Opere del Montecuccoli (Epistolario, 11, p. 443). - 30 luglio. t a Como, ospite del conte Giambattista Giovio, della cui figlia Francesca s'innamora. - 4 agosto. Va in scena al Teatro Carcano di Milano il Tieste, proibito dalla Censura il 12 agosto successivo. - 24 agosto. t a Lugano. - 26 agosto. Da Lugano si reca a Lecco, visitando Porlezza e Menaggio. - fine agosto. t a Bergamo e dintorni. - primi di settembre. Rientra a Milano. - 18 settembre. Dalla Censura dei Collegi elettorali, convocata in Brescia, viene nominato membro del Collegio elettorale dei Dotti. - 8 ottobre. Viene eletto socio corrispondente dell'Accademia delle Belle Arti di Firenze. - metà ottobre. Con Giulio di Montevecchio si reca ·ad Asnago e a Verzago, ospite della famiglia Giovio. - 15 novembre. Vengono soppresse le cattedre cosiddette "elementari", fra le quali quella di Eloquenza Italiana e Latina di Pavia. - 1 dicembre. Parte da Milano alla volta di Pavia. Sollecita il Monti, affinché si dia da fare onde gli venga assegnata la cattedra di Eloquenza forense in Milano, al posto di quella pavese, ormai soppressa (Epistolario, 11, pp. 522-3). 1809 22 gennaio. Presso l'Università di Pavia recita la prolusione Dell'origine e dell'11.fficio della letteratura. - 23 gennaio. Il Monti gli rende noto che la cattedra di Eloquenza forense di Milano è stata conferita ad Angelo Anelli (Epistolario, 111, p. 29). - 2 e s febbraio. Prime due lezioni all'Università pavese sui XXVIII NOTA BIOGRAFICA Principii della letteratura, e sulla Lingua italiana consi.derata storicamente e letterariamente (Edizione Nazionale, vn, pp. 59-96). - 6 febbraio. Si reca a Milano per curare la stampa della pro- lusione. - 2 marzo. È a Como. - 6 marzo. Rientra a Milano. - dopo il 6 marzo. Viene pubblicata a Milano, per i tipi della Stamperia Reale, l'orazione inaugurale pavese Dell'origine e dell'ufficio della letteratura. - 18 marzo. Nel «Corriere Milanese» viene pubblicato un articolo di Francesco Pezzi di stroncatura dell'orazione inau- gurale. - 30 marzo. È a Erba, a Villa Amalia, ospite dei Marliani. - 1 aprile. È a Como. - 6 aprile. È di ritorno a Milano. - 16-17 aprile. Rientra a Pavia. - 18 maggio. Terza lezione pavese sulla Letteratura rivolta unicamente al lucro (Edizione Nazionale, vn, pp. 97-116). - 24 maggio. È a Milano. - 27 maggio. Rientra a Pavia. - 5 giugno. Quarta lezione pavese sulla Letteratura rivolta unicamente alla gloria (Edizione Nazionale, vn, pp. 117-38). - 6 giugno. Quinta e ultima lezione pavese sulla Letteratura rivolta all'esercizio delle facoltà intellettuali (Edizione Nazionale, vn, pp. 139-63). - dopo il 6 giugno. Pronuncia all'Università di Pavia un'orazione sull'Origine e i limiti della giustizia (Edizione Nazionale, VII, pp. 165-86). - metà giugno. È a Milano dove cerca di terminare l'edizione del Montecuccoli. - 8 luglio.. Annuncia a Camillo Ugoni l'invio del secondo tomo delle Opere di Raimondo Montecuccoli, appena terminato (Epistolario, 111, p. 235). - 30 luglio. Si reca a Borgo Vico, vicino a Como, dove trascorre l'estate in compagnia di Giulio di Montevecchio. - secondo semestre. Viene pubblicato, a Verona, per i tipi del Gambaretti, il Saggio di traduzione de' due primi canti d~ll'Odissea di Omero e di alcune parti delle Georgiche ecc., di Ippolito Pindemonte. - 14 ottobre. Rientra a Milano. - 16 novembre. Gli viene elargita dalla direzione generale della Pubblica Istruzione una pensione annua di lire 767,51. NOTA BIOGRAFICA XXIX - 10 dicembre. Fa domanda affinché la suddetta pensione sia, dal I gennaio, devoluta alla madre a Venezia (Epistolario, 111, p. 319, nota r). Stende un Parere su l'ufficio degl'Ispettori degli studi (Edizione Nazionale, vn, pp. 187-93). 1810 marzo. Negli «Annali di scienze, lettere ed arti.11 di Milano viene pubblicato un articolo, ritenuto del Foscolo, ma dovuto a Pietro Borsieri, Sopra i versi di Cesare Arici in morte di Giuseppe Trenti. - 14 aprile. Nel «Corriere delle Dame» di Milano Giovanni Lattanzi pubblica un articolo diffamatorio nei confronti del Foscolo. - aprile. Negli «Annali di scienze, lettere ed arti n viene pubblicato il saggio sulla Traduzione de' due primi canti dell'Odissea di Omero ecc., di Ippolito Pindemonte, nel quale, tra l'altro, aspramente attacca il tipografo bresciano Niccolò Bettoni. - 15 maggio. Nel «Corriere Milanese» Urbano Lampredi pubblica un articolo contro il Foscolo. - 20 maggio. Viene pubblicato a Brescia, per i tipi del Bettoni, che ne è anche l'autore, l'opuscolo Alcune verità ad Ugo Foscolo, dove, tra l'altro, si accusa il poeta di non rispettare gli impegni economici assunti. - sgiugno. Negli «Annali di scienze, lettere ed arti• viene pubblicato il capitolo v del Ragguaglio d'un'adunanza dell'Accademia de' Pitagorici. Altri frammenti dei capitoli I e 11, vennero composti, ma rimasero incompiuti (Edizione Nazionale, vn, pp. 282-95). - 9-16 giugno. Nel «Corriere delle Dame• appaiono lettere di Astico Murena (il Lampredi) a Nicoro Siderita (il Monti), contro la traduzione foscoliana del primo canto dell'Iliade. - 20 giugno. Nel • Corriere Milanese• è pubblicato un articolo antifoscoliano. - 22 giugno. Nel «Corriere Milanese» è pubblicata una lettera del Foscolo a Francesco Pezzi, estensore dello stesso, affinché riveli i nominativi di coloro che scrivono anonimi contro di lui, e la risposta del Pezzi che ricusa di fornire tale informazione. - 23-30 giugno. Nel • Corriere delle Dame• appaiono altre lettere di Astico Murena a Nicoro Siderita, sempre sulla traduzione omerica foscoliana. - luglio. Negli • Annali di scienze, lettere ed arti • viene pubblicato l'articolo Sulle poesie di Giovanni Fantoni, dovuto probabilmente al Foscolo. xxx NOTA BIOGRAFICA - estate. Stende rUltimato di Ugo Foscolo nella gtlerra contro i ciarlatani ecc., rimasto incompiuto (Edizione Nazionale, vn, pp. 296-316). - settembre. Negli «Annali di scienze, lettere ed arti» vengono pubblicati tre articoli di ispirazione foscoliana, rispettivamente di Silvio Pellico, Sili «Dialoghi delle cortigiane » di Luci.ano, tradotti da Luigi Lechi; di Luigi Pellico, Sopra il cc Corallo ,, di Cesare Aria; di Michele Leoni su Caro ed Alfieri traduttori di Virgilio (Edizione Nazionale, vn, pp. 417-30 e 437-56). - fine del 1810. Inizia la stesura dei Frammenti sul Machiavelli (Edizione Nazionale, VIII, pp. 3-63). 1811 prima del 23 marzo. Stende la difesa del generale Pietro Viani (Difesa del comandante dei Dragoni Reali dinanzi al Consiglio Generale d'amministrazione della Guardia Reale, Edizione N azionale, VIII, pp. 343-56), accusato di malversazione dall'ispettore alle rassegne Gherardi. - 7 aprile. Nel • Giornale Italiano» di Milano viene pubblicato l'articolo Per la nasdta del Re di Roma, firmato A. C., ma del Foscolo. - maggio. Negli «Annali di scienze, lettere ed arti• di Milano viene pubblicato l'articolo Della poesia lirica. - 30 giugno. Nel «Poligrafo>> di Milano viene pubblicato l'articolo Tutti gli Omenoni, Litandro e Poligrafo, dovuto a Urbano Lampredi, allusivamente critico nei confronti del Foscolo. Negli «Annali di scienze, lettere ed arti» viene pubblicato l'articolo Memoria intorno ai Druidi ed ai Bardi britanni. - 14-21-28 luglio. Nel «Poligrafo» vengono pubblicati altri tre articoli antifoscoliani, sempre dovuti al Lampredi: Dialogo sopra i Giornali letterari. Scaligero e Tiraboschi; Il Genio e le regole; Orazio e l'Abate Cesarotti. Negli «Annali di scienze, lettere ed arti• vengono pubblicati gli articoli Degli effetti della fa~ e della disperazione sull'uomo, e Dello scopo di Gregorio VII. - 25 agosto. Nel «Poligrafo» viene pubblicato un altro articolo antifoscoliano del Lampredi: Quintiliano e il Padre Soave. Negli •Annali di scienze, lettere ed arti• viene pubblicato un articolo di Michele Leoni, Intorno ad un sonetto del Min:ioni, di probabile ispirazione foscoliana. - 1 settembre. Nel •Poligrafo» viene pubblicato un altro articolo antifoscoliano del Lampredi: Gl'Inspirati. - 3 settembre. Il direttore generale della Pubblica Istruzione Giovanni Scopoli gli comunica la nomina a revisore dei teatri, NOTA BIOGRAFICA XXXI per quanto riguarda lo stile e la purezza della lingua dei testi (Epistolario, III, pp. 519-20). - primi di novembre. Si reca, per qualche giorno, a Belgioioso, ospite del principe Alberico Barbiano. - 9 dicembre. Va in scena, al Teatro alla Scala, l'Aiace, con mediocre successo. - 13 dicembre. Rescritto del viceré che sospende dalle loro funzioni per quindici giorni i Censori dell'Aiace, e ne vieta le rappresentazioni (Epistolario, III, p. 547, nota). - 15-22-29 dicembre es gennaio 1812. Nel «Poligrafo» viene pubblicata una stroncatura dell'Aiace, dovuta sempre al Lampredi. 1812 2 gennaio. È a Venezia. 17 gennaio. È a Padova. - 18 marzo. È di passaggio a Brescia, diretto a Milano. - 19 marzo. È a Milano, dove si ammala di nuovo. - primi di giugno. È a Belgioioso, ospite del principe Alberico Barbiano, e vi si trattiene fino ai primi di luglio. - prima del 9 luglio. È di ritorno a Milano. - 12 agosto. Parte da Milano alla volta di Firenze, sostando a Piacenza, per far riparare la sua carrozza, fracassatasi nei pressi del Po (Epistolario, IV, p. 92). - 13-14 agosto. È a Bologna. - 17 agosto. È a Firenze, accompagnato da Stefano Bulzo, e prende alloggio all'albergo delle Quattro Nazioni. - 22 agosto. Annuncia ad Isabella Teotochi Albrizzi che nel prossimo gennaio si recherà a Roma al fine di stamparvi un poemetto sulle Grazie, dedicato ad Antonio Canova (Epistolario, 1v, pp. 107-9). - agosto. Fa la conoscenza di Quirina Mocenni Magiotti. - 31 agosto. Viene presentato a Luisa Stolberg, contessa d'Al- bany. - 4 ottobre. Annuncia a Silvio Pellico di aver terminato la traduzione del Viaggio sentimentale, ma di non avere editore (Epistolario, IV, pp. 167-71). - metà ottobre. Va ad abitare in Borgo Ognissanti, casa Prezziner. - ottobre-novembre. È ammalato di prostata. - 5 dicembre. Annuncia al Pellico che il Viaggio sentimentale si sta stampando a Pisa (Epistolario, IV, p. 200). 1813 prima del 3 aprile. Prende in affitto una villa, di proprietà della famiglia Calamai, denominata «Torricella • (Bellosguardo), e vi si trasferisce per il periodo estivo. XXXII NOTA BIOGRAFICA - s giugno. Termina la composizione della Ricciarda (Epistolario, IV, p. 268). - giugno. Viene pubblicato a Pisa, per i tipi del Didot, il Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l'Italia, tradotto dall'inglese sotto lo pseudonimo di Didimo Chierico. - secondo semestre. Nelle Opere italiane e latine di Federico Borgna, a Brescia per i tipi del Bettoni, è pubblicata la versione latina dei Sepolcri dovuta al Borgno. - 24 luglio. Parte da Firenze alla volta di Milano. - 25 luglio. È a Bologna. - 27 luglio. Decreto del viceré che approva la pubblicazione dei versi del Rito delle Grazie, in lode del viceré e della viceregina (Epistolario, IV, pp. 307-8, e nota alla lettera I 337). - 28 luglio. Sosta a Lodi per incontrare il fratello Costantino Angelo (Giulio), ma questi è già partito alla volta di Venezia. - circa 20 agosto. È a Belgioioso, ospite del principe Alberico Barbiano, ma ne riparte il 27, dopo la morte improvvisa di quest'ultimo. - 28 agosto. Nel a Giornale del Lario» viene pubblicato un articolo Sul nuooo teatro di Coma, inauguratosi in quel giorno. - fine agosto. i;; a Como. - 12 settembre. È a Bologna per la rappresentazione della Ricciarda. - 17 settembre. Va in scena, a Bologna, al Teatro del Corso la Ricciarda: «pessimamente recitata», come da lettera alla contessa d'Albany del 19 settembre (vedi nel tomo n la lettera 82). - 20 settembre. È a Firenze. - 10 novembre. Viene rappresentata a Brescia, al Teatro Grande, la Ricciarda. - 1 s novembre. Parte da Firenze alla volta di Bologna, dove giunge lo stesso giorno e si incontra col generale Pino (Epistolario, IV, p. 424). - 19 novembre. È a Milano. - 21 novembre. Scrive al viceré d'Italia: «La mia vita è poca, ed inutile forse; ma mi sarebbe grave e la crederei disonorata, se in questi giorni non la offerissi a V. A., e all'Italia» (vedi nel tomo n la lettera 85). 1814 6 marzo. Abdicazione di Napoleone. - 16 aprile. Rientra a Milano da Mantova dove, insieme ad altri ufficiali, si era recato per porre le basi di un pronunciamento, avente lo scopo di salvare il Regno italico dal crollo napoleonico. NOTA BIOGRAFICA XXXIII - 20 aprile. Inizia la sommossa in Milano, culminata con l'uccisione del ministro Prina. Il Foscolo tenta di sedare la folla, e riesce a salvare il generale Peyri dal linciaggio. - 22 aprile. Dietro richiesta del Visconti di Cremona, e in suo nome, stende l'Ordine del giorno alla Guardia Civica (Edizione Nazionale, VIII, p. 290). - 23 aprile. Rassegna le sue dimissioni dalla milizia, senza che le stesse vengano accolte (Epistolario, v, p. 125). - 26 aprile. È nominato capobattaglione, in seguito al suo comportamento durante la sommossa milanese del 20-22 aprile (Epistolario, v, p. 125). - 27 aprile. Parte da Milano alla volta di Genova, per abboccarsi col generale Mac Farlane, ma questi è già partito. - 30 aprile. Rientrato a Milano, ottiene un abboccamento col Mac Farlane, al quale espone i piani di indipendenza elaborati in questo frangente, ma ne è da questo dissuaso. Dietro richiesta di un gruppo di ufficiali della Guardia Civica, stende l'Indirizzo della Guardia Civica di Milano, rivolto al tenente generale Mac Farlane (Edizione Nazionale, VIII, pp. 291-2). - prima del 3 maggio. È a Cremona, Bozzolo e Bergamo, quale portaordini per le truppe ivi di stanza (Epistolario, v, p. 380). - 6 maggio. Riceve l'ordine di recarsi a Bologna per ricevere le truppe italiane provenienti dall'Isola d'Elba (Epistolario, v, p. 381). - 9 maggio. È a Bologna, sulle mosse per Firenze, per l'incarico conferitogli, ma il passaporto, precedentemente accordatogli, gli viene poi negato, e l'ordine di partenza revocato (Epistolario, v, pp. 88 e 104). - 16 maggio. Viene richiamato a Milano (Epistolario, v, p. 104, nota 1). - 20 maggio. Lettere al conte Verri e al direttore di Polizia, per giustificare il suo operato durante gli ultimi mesi (Edizione Nazionale, vin, pp. 292-9). - 20 maggio. È ricevuto dal generale Enrico Giuseppe di Bellegarde, al quale cerca di spiegare la spiacevole situazione in cui si trova coinvolto (Epistolario, v, p. 381). - 25 maggio. Dal generale incaricato del Portafoglio, Bianchi d'Adda, riceve l'ordine di recarsi a Montechiari, presso lo Stato Maggiore del generale divisionario Bonfanti (Epistolario, v, p. 382). - 26 maggio. Per ordine del generale Bellegarde, viene invece destinato allo Stato Maggiore generale in Milano, alle dipen- XXXIV NOTA BIOGRAFICA denze del generale Mazzucchelli (Epistolario, v, pp. 383-4). - 15 settembre. Riceve ordine di trasmettere uno stato dei suoi servizi alla presidenza della Commissione straordinaria di guerra (Epistolario, v, p. 387). - s ottobre. È a Lodi, dal fratello Costantino Angelo (Giulio). - 18 ottobre. Fa richiesta al Bellegarde, affinché gli venga assegnata una cattedra di Eloquenza (nel caso fossero ripristinate le vecchie cattedre, precedentemente abolite), possibilmente a Padova, onde poter essere più vicino alla famiglia, ma la sua domanda non viene accolta (Epistolario, v, pp. 277-8, e nota 1). - primi di dicembre. Vengono arrestati, per complotto contro l'Austria, due suoi amici, Antonio Gasparinetti e Giovanni Rasori (Epistolario, v, p. 318). 1815 3 gennaio. Viene rappresentata, a Venezia, la Ri.cciarda, mutilata dalla Censura. - prima del 22 gennaio. Viene arrestato anche Ugo Brunetti (Epistolario, v, pp. 343-4). - 8 febbraio. Chiede a Ferdinando Arrivabene di recapitargli il manoscritto dell'Hypercalypseos liber singularis, che aveva affidato a Federico Borgno alcuni mesi addietro (Epistolario, v, p. 350). - prima del 17 febbraio. Viene interpellato dal Bellegarde e dal Ficquelmont, circa la redazione di un nuovo giornale letterario, del quale gli si vorrebbe affidare la direzione (Edizione Nazionale, xn1, parte n, pp. 200-1). - 17 febbraio. Chiede un abboccamento al tipografo Antonio Fortunato Stella per un «affare che potrebbe essere importante al sottoscritto, al signore Stella cd al pubblico,, (Epistolario, v, p. 353), probabilmente in relazione a quanto sopra accennato. - 20 febbraio. Stende il Parere sulla istituzione di un giornale letterario da destinarsi al conte di Ficquelmont e al Bellegarde (Edizione Nazionale, VIII, pp. 315-20). Inizia la stesura dei discorsi Della servitù dell'Italia (Edizione Nazionale, VJII, pp. 151-289), in seguito alla pubblicazione del libello, pubblicato anonimo, ma dovuto al senatore Leopoldo Armaroli, Sulla rivoluzione di Milano seguita nel giorno 20 aprile I8I4, sul primo suo governo provvisorio e sulle quivi tenute adunanze de' collegi elettorali - memoria storica con documenti (Epistolario, v, p. 359). - 20 marzo. Il Bellegarde invia al barone von Hager, presidente della Polizia Aulica in Vienna, il Parere foscoliano, unitamente a un curriculum vitae del poeta. NOTA BIOGRAFICA xxxv - 29 marzo. A Vienna, il von Hager passa il rapporto al conie van Saurau, nuovo governatore di Milano. - (notte fra il 30 e il 31 marzo). Abbandona definitivamente Milano e l'Italia alla volta della Svizzera, per non sottostare al giuramento di obbedienza ali'Austria, richiesto a tutti gli ufficiali. - I aprile. Il conte von Saurau notifica al barone von Hager la sua approvazione, salvo alcune modifiche, del progetto foscoliano. È a Lugano, ospite di Pietro Guioni, direttore delle Poste. - 3 aprile. Il barone von Hager trasmette al Bellegarde, a Milano, la sopra menzionata approvazione del Parere foscoliano. - 4 aprile. È a Roveredo (Grigioni), presso Giovanni Stoffner. - 14 aprile. Destinato alla «Gazzetta di Lugano», stende l'Addio all'Italia, rimasto allo stadio di abbozzo (Edizione Nazionale, VIII, pp. 314-5). - 23 aprile. Eugenio di Beauharnais cede Mantova agli Austriaci, abbandonando definitivamente il Regno italico. - 25 aprile. Stende la lettera al conte di Ficquelmont, De' giuramenti (Edizione Nazionale, VIII, pp. 299-313). - 27 aprile. Ottiene dal Petit Conseil du Canton des Grisons un passaporto con l'indicazione di «commerçant dans les Grisons, allant en Angleterre pour ses affaires de commerce » (C. ANTONA-TRAVERSI, Studi su Ugo Foscolo, Milano, Brigala, 1884, p. 147). - primi di maggio. Parte da Roveredo alla volta di Coira, sostando a Cabbiolo (Val Mesolcina, Grigioni). - 1S maggio. È a Coira. - 22 maggio. Parte per San Gallo. ,- 26 maggio. È a Zurigo. - 6 giugno. È ai bagni di Baden (Argovia). - 4 agosto. È a Ufnau, lago di Zurigo (vedi nel tomo Il la lettera 97). - 24 agosto. Si stabilisce in un piccolo paese vicino a Zurigo, Hottingen, a pensione nella casa del parroco. - metà settembre. È ai bagni di Baden, per curare i postumi di una pericolosa emorragia nasale. - ottobre. Rientra a Hottingen. - novembre. Lavora alla stesura dei Vestigi della storia del sonetto italiano. - metà dicembre. Visita del ministro degli Esteri russo, conte Giovanni Antonio di Capodistria. - 27 dicembre. Le ristrettezze economiche, lo risolvono a chiedere un prestito a Quirina Mocenni Magiotti (vedi nel tomo II la lettera 99). XXXVI NOTA BIOGRAFICA 1816 gennaio. Vengono pubblicate, a Zurigo, per i tipi di Orell e Fiissli, le tre copie dei Vestigi della storia del sonetto italiano. - aprile-giugno. Viene pubblicata a Zurigo, per i tipi di Orell e Fiissli, ma con la falsa indicazione di Pisa, l'Hypercalypseos liber singularis, sotto lo pseudonimo di Didimo Chierico. - 10 maggio circa. È a Bema per qualche giorno. - 18 maggio. Rientra a Hottingen. - 21 maggio. Andrea Calbo parte da Firenze per raggiungere il Foscolo, dal quale è stato assunto in qualità di segretario. -· 9 giugno. Il Calbo arriva a Hottingen. - 19 giugno. Si trasferisce a Zurigo all'albergo del Cervo. - 5 luglio. Ottiene, dall'incaricato di affari inglese, un passaporto per trasferirsi «par l'Allemagne et la Hollande en Angleterre » (C. A.NTONA-TRAVERSI, op. cìt., p. 150). - 28 luglio. È a Baden (Argovia) per la cura delle acque. - agosto. Viene pubbliéata a Zurigo, per i tipi di Orell e Fiissli, ma con falsa indicazione di Londra, e con falsa data, 1814, la ristampa delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, seguita dalla Notiz-ia bibliografica. - 6 agosto. È a Bema, donde ordina al Calbo di inviare una copia dell'Hypercalypseos liber singularis, con Clavis, a Pietroburgo, al conte Giovanni Antonio di Capodistria (Epistolario, VI, p. 534). - 17 agosto. È a Basilea. - fine agosto. È a Francoforte sul Meno e all'Università di Heidelberg. - 7 settembre. È a Ostenda, in procinto di imbarcarsi per l'Inghilterra. 12 settembre. È a Londra, dove prende alloggio all'Hòtel Sablonière. 17 settembre. Si trasferisce in Soho Square. - 21 settembre. Da Giuseppe Binda, da lui conosciuto a Firenze e factotum di Lord Vassal Holland, viene introdotto a Holland House. - 22 settembre. Si reca a Holland House, dove rimane fino alla fine del mese. - 4 ottobre. Si reca a Mudeford (Hampshire) a visitare William Stewart Rose. - 14 ottobre. Rientrato a Londra, a Holland House fa la conoscenza, fra gli altri, di Samuel Rogers, John Murray e dei fratelli Leonard e Francis Horner. - 28 ottobre. Si ammala di uretrite. NOTA BIOGRAFICA XXXVII Inizia la stesura delle Lettere dall'Inghilterra, mai condotte a termine (Edizione Nazionale, v, pp. 239-454). - circa fine ottobre. Il Calbo lascia il Foscolo. - novembre-dicembre. Stende la lettera al direttore della polizia di Zurigo (Edizione Nazionale, VIII, pp. 320-5). 1817 gennaio. Guarito dall'uretrite, si reca in campagna per ri- stabilirsi. Fa la conoscenza di Lady Charlotte Campbell e di Roger Wilbraham. - marzo. Stende i Di.scorsi nel Parlamento in morte di Francesco Horner, tradotti dall'inglese, pubblicati poi intorno al 12 maggio, per i tipi di Schutz e Dean. - marzo-aprile. Stende lo Stato politico delle Isole Ionie (Edizione Nazionale, XIII, parte 1, pp. 3-37). - primi di aprile. Vengono ristampate a Londra, per i tipi del Murray, le Ultime lettere di Jacopo Ortis, unitamente ad Alcuni capitoli del Viaggio sentimentale. - 28 aprile. Muore, a Venezia, la madre Diamantina Spathis. - maggio. Invia la Mémoire sur l'éducation publique aux Isles /oniennes (Edizione Nazionale, XIII, parte 1, pp. 38-43) al dottor John Allen e a Lord Holland. - 27 giugno. Con altri due deputati delle Isole Ionie, il conte A. Thetoki di Corfù e Vittore Cariddi di Cefalonia, giunge a Londra suo cugino Dionisio Bulzo, che, fra l'altro, lo soccorrerà pecuniariamente, avendolo trovato in quasi totale indigenza. - 25 luglio. Cade da cavallo infortunandosi ad una gamba. - 13 settembre. Si trasferisce a Kensington, in Edward Square. - primi novembre. È a Twickenham per qualche giorno, ospite di Roger Wilbraham. - fine dicembre. Invia a Lord Holland una delle prefazioni (Al Lettore) alle Lettere dall'Inghilterra (Epistolario, vn, pp. 272-3). - fine dicembre-primi gennaio 1818. Stende lo scritto Come ottenere modifiche alla costitwzione delle Isole Ionie (Edizione Nazionale, XIII, parte 1, pp. 44-55). 1818 febbraio. Nell'«Edimburgh Review» viene pubblicata la prima parte dell'articolo su Dante. - 3 aprile. Si trasferisce a Londra, in Blenheim Square. - 28 aprile. Sotto il nome di John Cam Hobhouse, unitamente alle Historical Jllustrations o/ the Fourth Canto o/ Childe Harold di Lord Byron, stampate a Londra, per i tipi del Murray, vede la luce l'Essay on the Present Literature o/ ltaly. XXXVIII NOTA BIOGRAFICA - fine maggio. Affitta un cottage a Moulsey, presso Hampton Court, sul Tamigi. - 24 giugno. Gregorio Mauroianni gli scrive da Parga invitandolo ad occuparsi delle vicissitudini di quella disgraziata città (Epistolario, vn, pp. 336-8). - agosto. Federico Confalonieri giunge a Londra, e s'incontra col Foscolo. - 20 agosto. ~ a Twickenham, da Roger Wilbraham, presso il quale conosce Barbarina Wilmot (poi Lady Dacre). - settembre. Nell' «Edimburgh Review » viene pubblicata la seconda parte dell'articolo su Dante. - I I ottobre. Federico Confalonieri lascia Londra alla volta di Parigi. - I 1-23 ottobre. Ringrazia il Mauroianni dell'invio di documenti sull'affare di Parga, e, scusandosi di non poter far nulla di concreto, gli annuncia che se ne servirà per la stesura di un libro sulle vicissitudini dei Pargioti (Epistolario, vn, pp. 416-7). - ottobre-dicembre. Inizia la stesura di una storia italiana dei recenti avvenimenti, dietro richiesta di John Hobhouse, mai condotta a termine. 28 novembre. Hobhouse gli annuncia che per ragioni di affari non potrà più corrispondergli quanto pattuito per la storia italiana (Epistolario, vu, pp. 444-5), causa, non ultima, della rottura dei loro rapporti, avvenuta più tardi. fine dicembre. Conosce Caroline Russell, per la quale nutrirà un'infelice passione. Dalle lezioni sul Petrarca, impartite a Caroline e alla sorella Katherine, nascerà l'idea degli Essays on Petrarch. 1819 7 gennaio. Si trasferisce a Londra da Moulsey. - marzo. Nell' «Edimburgh Review • viene pubblicato l'articolo su Pio VI. - metà aprile. Giungono a Londra Leopoldo Cicognara, Gino Capponi e Giordano Velo. Nella «Quarterly Review » viene pubblicato l'articolo Na"ative and Romantic Poems o/ the Italians. - 15 maggio. Nella libreria del Murray, fa la conoscenza di John Herman Merivale. - 27 maggio. Si trasferisce in New Bond Street. - agosto. I Russell, con Caroline, lasciano l'Inghilterra alla volta della Svizzera. - settembre. Si incontra col conte Giovanni Antonio di Capo- NOTA BIOGRAFICA XXXIX distria, al quale promette il suo appoggio presso gli amici deputati al Parlamento per le questioni riguardanti le Isole Ionie. ottobre. Nell'«Edimburgh Review• viene pubblicato l'articolo On Parga e, contemporaneamente, inizia la stesura del libro Narrative o/ the Events lllustrating the Fortunes and Cession of Parga (Edizione Nazionale, XIII, parte r, pp. 173-306), mai condotto a termine. I 820 10 marzo. Invia a Gino Capponi due delle otto copie privilegiate dell'articolo sul Petrarca, affinché ne faccia pervenire una a Caroline Russell in Svizzera (Opere, VIII, pp. 5-7). - circa estate. Conosce Mary Graham, alla quale propone la traduzione degli Essays on Petrarch (Opere, VIII, pp. 24-5). Causa una malattia, quest'ultima dovrà declinare l'offerta. Il lavoro verrà in seguito affidato a Charles Russell, fratello di Caroline. ottobre. Rientra in ·Inghilterra Caroline Russell che, negli ultimi mesi dell'anno, romperà definitivamente i rapporti col Foscolo. - fine anno-primi del 182I. Assume, in qualità di copista e traduttore, Henry Colyar. 1821 I gennaio. Lettera di addio alla Russell, che accompagna il dono di un'edizione bodoniana dell'Aminta del Tasso (vedi nel tomo II la lettera 106). - febbraio. Nella • Quarterly Review • viene pubblicato l'articolo Petrarch and Laura. Nel «New Monthly Magazine» vengono pubblicati gli articoli An Accormt o/ the ReT.Jolution o/ Naples During the Years I798, I799; Learned Ladies, e On Hamlet. 28 febbraio. Muore Lady Mary Hamilton, nonna di Floriana, la figlia avuta in Francia da Fanny Hamilton intorno al 1804. Dopo essere stata per qualche tempo in collegio, la ragazza andrà ad abitare col padre. - prima del s marzo. Fa dono a Mary Graham delle bozze di stampa degli Essays on Petrarch. - marzo-aprile. Vengono pubblicati, a Londra, per i tipi di Samuel e Richard Bentley, i venticinque esemplari degli Essays, dei quali solo sedici sono messi in circolazione. - 2 I luglio. Si trasferisce a Wigmore Street. - settembre. In procinto di partire per il continente, Henry Colyar lascia il Foscolo. - 9 ottobre. t ammalato nuovamente di uretrite. XL NOTA BIOGRAFICA - ottobre. Nella «Nuova Antologia» di Firenze, viene pubblicata la versione del canto III dell'Iliade. - dicembre. Ringrazia il Capponi, per aver fatto pubblicare la versione omerica (Opere, VIII, p. 53). I 822 febbraio. Giunge a Londra il conte Luigi Porro. - I 2 febbraio. Stende il contratto col costruttore Charles Davies per la costruzione del Digamma Cottage (South Bank, Regent's Park), da lui affittato per ventun anni, per la somma di 87 sterline l'anno, unitamente ad altri due piccoli cottages contigui, battezzati Green e Kappa. Nello stesso giorno si trasferisce al Green Cottage. Assume, in qualità di traduttore, William Grenville Graham, ospitandolo al Kappa Cottage. - marzo. Fa la conoscenza del banchiere Hudson Gurney, la cui generosità gli permetterà più volte di saldare i suoi sempre più numerosi debiti. Nel volume, fatto stampare privatamente dal duca di Bedford, Outline Engravings and Descriptions of the Woburn Abbey Marbles, viene pubblicato il Velo delle Grazie. - aprile. Giunge a Londra Giovanni Berchet. - aprile-settembre. Nella 11 Quarterly Review » viene pubblicato l'articolo The Aeolic Digamma. Subaffitta al Porro il Green Cottage. - giugno. Compie un viaggio nell'Inghilterra settentrionale visitando, fra l'altro, Cambridge, il Leicestershire, il Derbyshire e Liverpool (vedi nel tomo II la lettera 109). - prima del 20 luglio. Rientra a Londra. - primo semestre. Nel «New Monthly Magazine• vengono pubblicati gli articoli Michelangelo, e Frederi.ck the Second and Pietro delle Vigne. - circa settembre. Giunge a Londra Santorre di Santarosa. Si trasferisce, con Floriana e tre domestiche, al Digamma Cottage. Subaffitta una parte del Green Cottage a Santorre di Santarosa. - autunno. Giungono a Londra Giovita Scalvini, Camillo e Filippo Ugoni e Ferdinando Arrivabene. - ultimi mesi. Assume, in qualità di segretario-revisore, Samuel Carter Hall. - secondo semestre. Nel « New Monthly Magazine• vengono pubblicati gli articoli Guido Cavalcanti, e The Lyric Poetry o/ Tasso. NOTA BIOGRAFICA XLI 1823 primi mesi. Vengono ristampati a Londra, in edizione venale, per i tipi del Murray, gli Essays on Petrarch, comprendenti: •Translations from Petrarch by Barbarina Dacre •, con dedica alla stessa. Subaffitta il Kappa Cottage a John Banim. Il Banim è costretto ad abbandonare il cottage, a causa dei creditori e delle ipoteche poste dal Foscolo sui cottages. - 6 maggio-24 giugno. Tiene a Londra una serie di quattordici conferenze sulle epoche della lingua italiana, che gli fruttano un introito lordo di 770 sterline, ma tale somma non basta che in parte a soddisfare il gran numero di debiti da lui contratti. - agosto. Giunge a Londra Giuseppe Pecchio, il quale prende dimora, per circa due mesi, al Green Cottage. - 15 agosto. Oberato dai debiti, è costretto a rilasciare una procura di tutti i suoi beni allo scultore Charles Rossi, che gli aveva, in precedenza, prestato 250 sterline. - ottobre. Giovita Scalvini e Filippo Ugoni affittano il Green Cottage. - circa 24 ottobre. Ha un alterco con l'Ugoni e lo sfida a duello, poi scongiurato, per intercessione dei due padrini di parte, il conte di Collegno per l'Ugoni e il colonnello Jones per il Foscolo. - 26 novembre. Si batte a duello con William Graham, a suo tempo impiegato dal poeta come traduttore, fuggito con una delle sue domestiche. - circa dicembre. Andrea Scorno viene assunto in qualità di copista-segretario. Resterà al suo servizio per tutto l'anno seguente. I 824 gennaio. Lo Scalvini lascia il Green Cottage. Pressato dai creditori che lo minacciano di arresto per debiti, è costretto a nascondersi in casa di amici. - marzo. t a Londra, in South Molton Street, sotto il falso nome di Flass. Giunge a Londra Gabriele Rossetti. - 23 aprile. I creditori si riuniscono: gli intimano di pagare tutto entro sei settimane, sotto la minaccia di procedere alla vendita dei cottages, mobilio e terreni compresi. - 7 maggio. Firma un contratto col libraio William Pickering, impegnandosi a consegnargli da quattro a sei volumi all'anno di un'edizione dei Classici Italiani, ottenendo un an.. ticipo di 250 sterline, con le quali è in grado di tacitare il Rossi. XLII NOTA BIOGRAFICA 13 maggio. Hudson Gumey versa all'avvocato Taylor 150 sterline, per tacitare alcune cambiali andate in protesto. - giugno. Si trasferisce in Wells Street, sempre a Londra. - 9 giugno. Il Rossi avverte di aver dato disposizioni per la vendita del mobilio del Digamma. - luglio. Nell'«European Review» viene pubblicato l'articolo Principles of Poetica[ Criticism as Applicable More Especially to ltalian Literature. - agosto. Rientra al Digamma. Nell'«European Review» viene pubblicato l'articolo Origin and Vicissitudes o/ the Italian Language. - settembre. Nell'11European Review» vengono pubblicati l'articolo Jtalian Literature, Epoch First, /rom the Year II8o to z230, e la prima parte dell'articolo Italian Periodica[ Liter- ature. Riceve una somma di denaro, fattagli pervenire dal fratello Giulio. - ottobre. Nell'« European Review » vengono pubblicati gli articoli Italian Literature, Epoch Second, /rom the Year z230 to the Year I280, Classica/ Tours, e la seconda parte dell'articolo Italian Periodica[ Literature. - novembre. Il negoziante di ferramenta Benham gli fa notificare un'ingiunzione di pagamento con scadenza il 10 novembre, tacitata poi da una cambiale rilasciata dall'« European Review », e scontata dal Pickering. - 19 novembre. Un sarto, a cui deve 19 sterline, lo fa arrestare e condurre in una sponging-house, dove rimarrà per circa tre settimane. - fine novembre. Si trasferisce in James Street, Camden Town, sotto il falso nome di Philip Florian. - dicembre. Vengono vendute tutte le suppellettili del Digamma, per la somma di 250 sterline. Si reca a Mudeford (Hampshire) presso William Stewart Rose onde ricuperare la salute, minata dal carcere e dalle sopravvenute vicende. 1825 gennaio. Inizia a stendere la Lettera apologetica (Edizione Nazionale, XIII, parte n, pp. 81-241). - 12 gennaio. Quello che avanza del mobilio, salvato dalla vendita dei cottages, viene trasferito nella sua dimora segreta l'lvy Cottage, a Hendon. - dopo il 28 febbraio. Assume, in qualità di copista, Giovanni Berra, che resterà alle sue dipendenze per circa un anno. NOTA BIOGRAFICA XLIII - maggio. Si trasferisce a Totteridge, nel Hertfordshire, sotto il falso nome di Marriatt. - giugno. È a Mudeford, dal Rose. - novembre. Vengono pubblicate a Londra, per i tipi del Pickering, La Commedia di Dante Alighieri, illustrata da Ugo Foscolo (cioè il Discorso sul testo della Commedia di Dante), e il Decamerone di Messer Giooanni Boccaccio, preceduto dal Discorso storico sullo stesso. 1826 31 gennaio. Dà ordine alla casa d'aste Roberts di vendere tutta la mobilia, e con il ricavato e un aiuto pecuniario di 50 sterline, elargitogli dal Gumey, riesce a lasciare Totteridge, avendo saldato ogni debito. - 26 febbraio. È a Londra, sotto il falso nome di Emerytt, nel quartiere di Tempie, in Devereux Street. - 20 marzo. Si trasferisce in Duke Street, nel quartiere di Adelphi. - circa marzo. Il Pickering lo fa arrestare per debiti e rinchiudere in prigione. - giugno. Assume, in qualità di copista, G. Golia. Nel «London Magazine• viene pubblicato l'articolo Boccaccio. Si vale della collaborazione di Sarah Austin, per la traduzione inglese dei suoi articoli. Con l'aiuto del quacchero William Allen, riesce a trovare un posto di insegnante d'italiano nella scuola quacchera femminile di Fleetwood House, a Stoke Newington. - 12 agosto. Grazie a un ennesimo aiuto pecuniario del banchiere Gumey, riesce a trasferirsi in Henrietta Street, Brunswick Square. Fa la conoscenza del canonico Miguel Riego, al quale Floriana, alla sua morte, affiderà i manoscritti patemi. Nella «Retrospective Review» vengono pubblicati gli articoli Michelangelo as a Poet, e Antiqr,arians and Critics o/ltalian History. - ottobre. Nel • London Magazine• viene pubblicato l'articolo Women o/ Jtaly. Nella •Westminster Review• viene pubblicato l'articolo Tasso, Jen,salem Delivered. 1827 3 gennaio. Tramite l'avvocato Taylor riesce finalmente a stipulare un regolare contratto col Pickering. - metà marzo. Consegna al Pickering il testo e il commento all'Inferno, mai pubblicati dall'editore, ma che videro la luce, insieme ad altre opere foscoliane, nell'edizione curata da Giuseppe Mazzini nel 1842. XLIV NOTA BIOGRAFICA - aprile. Nella «Westminster Review » viene pubblicato l'articolo MemoiTs of Casanova. - circa maggio. Fa domanda per ottenere la cattedra d'italiano nella nuova Università di Londra. - 3 maggio. Si trasferisce a Tumham Green, vicino a Chiswick, nella Bohemia House, tenendo contemporaneamente, fino al 21 giugno, un pied-à-terre a Londra, in Russell Piace, Fitzroy Square. - giugno. Nell'« Edimburgh Review » viene pubblicato l'articolo History of the Democratica[ Constitution o/ Venice. In questo mese la sua salute incomincia a peggiorare, e viene curato dai dottori Negri e Holland. - primi di agosto. Continuando ad aumentare lo stato idropico viene operato dal dottor Laurence. - 4 settembre. Viene rioperato, ma con esito sempre negativo. - 10 settembre. Muore, alle 8,45 della sera, e viene tumulato nel cimitero di Chiswick. NOTA BIBLIOGRAFICA Nella presente nota non sono considerate le voci relative al Foscolo contenute in storie letterarie, dizionari biografici ed enciclopedie, cosi come le introduzioni ai singoli volumi dell'Edizione Nazionale. Mancano, a tutt'oggi, un completo censimento e un'esauriente descrizione dei manoscritti e delle stampe del Foscolo. Quanto ai primi vedi: G. CHIARINI, Manoscritti Foscoliani già proprietà Martelli della R. Biblioteca Nazionale di Firenze, in Ministero della Pubblica Istruzione, Indici e Cataloghi, II, Roma 1885; F. VIGLIONE, Catalogo illustrato dei manoscritti foscoliani della Biblioteca Labronica, in «Bullettino della Società pavese di storia patria•, xx, 3-4, Pavia, Fusi, 1909; A. LINACHER, I manoscn"tti del Foscolo e la prima edizione delle Opere, in Ugo Foscolo e Firenze. Scritti di G. MAZZONI, N. TARCHIANI, A. PANELLA ecc., Firenze, Le Monnier, 1928; P. CARLI, Le carte foscoliane della Biblioteca Labronica, in •Liburni Civitas •, xn, 1939; A. BosELLI-E. Rossi, Mostra foscoliana, Catalogo, Firenze 1939; F. GAVAZZENI, Le cartefosco/iane nel Museo della storia dell'Università di Pavia, in «La Rassegna della letteratura italiana•, gennaio-aprile 1963. Per le stampe elenchi parziali si possono reperire nelle Poesie di Uco FosCOLO. Edizione critica per cura di G. Chiarini, Livorno, Vigo, 1882 (poi Livorno, Giusti, 1904); nelle Poesie di UGO FoscoLo. Nuova edizione con riscontri su tutte le stampe, discorso e note di G. Mestica, Firenze, Barbèra, 1884, voi. 1; in Liriche ed epigrammi con introdllzione e note di E. Chiorboli, Bologna, Zanichelli, 19541 oltre a quanto si deduce da A. OTr0LINI, Bibliografia foscoliana contenente la descrizione di tutte le opere di Ugo Foscolo e delle traduzioni delle stesse opere, la rassegna cronologica degli studi riguardanti il Foscolo, tre indici accuratissimi per materia, per nomi e per riviste con note e commenti, Firenze, Battistelli, 1921 (poi Venezia, La Nuova Italia Editrice, 1928). Per le stampe dell'Ortis vedi A. SoRBELLI, Le prime edizioni dell' "Jacopo Ortis" di Ugo Foscolo, in • Bibliofilia 11, xx, 3-4, 1918; P. PROVASI, Per la storia delle prime stampe dell"'Ortis11 , in • Giornale Storico della Letteratura Italiana•, CII, 1933 (un'accurata descrizione delle edizioni del romanzo, procurata da G. GAMBARIN, è in Edizione Nazionale, v111). E vedi anche U. L1MENTANI, Di una presunta "protoedizione" delle "Ultime lettere di Jacopo Ortis", in •Bibliofilia•, LVI, 2, 1954; idem, Ancora sulle prime edizioni delle "Ultime lettere di Jacopo Ortis", in •Bibliofilia•, LVII, 2, 1955. Per la bibliografia foscoliana, specifici contributi sono recati da A. OTIOLINI, Bibliografia foscoliana ecc., cit. [1796-1920], 1921; G. CHIARINI, La vita di Ugo Foscolo. Nuova edizione con un discorso sul Foscolo e un'appendice di note bibliografiche a cura di G. Ma:rzoni, Firenze, Barbèra, 1927; N. D. EvoLA, Bibliografia foscoliana (x920-I927), in • I libri del giorno 11, x, 1927; A. OTTOLINI, Bibliografia dei grandi italiani: Ugo Foscolo, in • Guida bibliografica mensile•, 2, 1928; G. PREZZOLINI, Foscolo, in Repertorio bibliografico della Storia e della Critica della Letteratura italiana dal I902 al I932, Roma, Edizioni Roma, 1936, voi. I (e vedi anche la ristampa New York, Vanni, I 946, voli. I e n); L. FASSÒ, Rassegne /o- XLVI NOTA BIBLIOGRAFICA scoliane, in • Giornale Storico della Letteratura Italiana•, cv, 1935; cxv, 1940; CXXVII, 1950; cxxx, 1953; N. D. EvoLA, Ugo Foscolo, in Bibliografia degli studi sulla letteratura italiana, Milano, Vita e Pensiero, 1940, vol. II; C. CoRDx:i, Ugo Foscolo, in Problemi ed orientamenti critici di lingua e di letteratura italiana, Milano, Marzorati, 1948, voi. I; A. VALLONE, Supplemento bibliografico, in G. MAZZONI, Ottocento, Milano, F. Vallardi, 1949; R. FRATIAROLO, Studi foscoliani. Bibliografia della critica (r92r-r952), Firenze, Sansoni Antiquariato, 1954-1956; R. SCRIVANO, Appendice critico-bibliografica, in E. DONADONI, Ugo Foscolo, Firenze, Sandron, 1964. Per la bibliografia dell'Ortis vedi F. PAVONE, Saggio di una bibliografia ragionata dell'"Ortis", in •Biblion•, 1, III-IV, 1946-1947 (tale bibliografia giunge sino al 1945). Per le pubblicazioni più recenti vedi inoltre la sezione Ottocento, a cura di G. F. Goffis, nella «Rassegna della letteratura italiana•. Sulla storia della fortuna e della critica foscoliana vedi: G. SURRA, Della varia fama di Ugo Foscolo, Novara, Parzini, 1907; M. NASELLI, La fortuna del Foscolo nell'Ottocento, Genova, Perrella, 1923; W. BINNI, Foscolo e la critica, Firenze, La Nuova Italia, 1957 (seconda edizione ampliata e aggiornata, ivi, 1963). Non si dispone dell'edizione critica completa delle opere del Foscolo. Tale infatti non può essere considerata la raccolta delle Opere edite e postume, a cura di F. S. Orlandini e E. Mayer, Firenze, Le Monnier, 1850-1862 (voli. I-Iv, Prose letterarie; voi. v, Prose politiche; voli. v1-v111, Epistolario; vol. IX, Poesie; voli. x-x1, Saggi di critica storico-letteraria, cui va aggiunto il voi. x11, Appendice, a cura di G. Chiarini, pubblicato nel 1890, sempre per i tipi del Le Monnier), e neppure quella delle Opere, a cura di V. Cian, Bari, Laterza, 1912-1920 (voi. 1, Scritti vari dal I796 al r798; Prima redazione delle Ultime lettere di Iacopo Ortis [1798]; Scritti vari dal I799 al z802; Seconda redazione delle Ultime lettere di Iacopo Ortis [1802]; voi. n, Continuazione della seconda redazione delle Ultime lettere di Iacopo Ortis; Scritti e frammenti vari dal r802 al r805; La Chioma di Berenice; voi. 111, Traduzione del Viaggio sentimentale di Yon"ck lungo la Francia e l'Italia [r805-I8r3]; Scritti vari dal I805 al I8o6}, parzialmente e integralmente sostituite, a partire dal 1933, dall'Edizione Nazionale, Firenze, Le Monnier, articolata nei seguenti volumi: voi. 1, J Sonetti, le Odi, i Sepolcri, le Grazie, a cura di F. Pagliai (in preparazione); voi. 11, Tragedie e poesie minori, a cura di G. Bézzola, 1961; voi. 111, Esperimenti di traduzione dell'Iliade, a cura di G. Barbarisi: Parte I (1803-1817), 1961; Parte 11 (1817- 1826), 1965; Parte III (1826), 1967; voi. IV, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Gambarin, 1955; voi. v, Prose varie d'arte. Il sesto tomo dell'Io (frammenti). Versione dallo Sterne e Notizia intorno a Didimo Chierico (appendici). Lettere scritte dall'Inghilterra (Gazzettino del Bel Mondo, ecc.). Pagine varie e sparse, a cura di M. Fubini, 1951; voi. VI, Scritti letterari e politici dal r796 al r8o8, a cura di G. Gambarin, 1972; vol. VII, Lezioni, articoli di critica e di polemica (1809IBII). Orazioni e lezioni dalla cattedra di Pavia. Articoli di critica e di polemica. Articoli ispirati dal Foscolo, a cura di E. Santini, 1933; voi. VIII, Pro1e politiche e letterarie dal I8II al I8I6. Frammenti sul Machiavelli. lpercaliaae. Storia del Sonetto. Discono sulla servitù dell1 ltalia. Scritti NOTA BIBLIOGRAFICA XLVII vari, a cura di L. Fassò, 1933; voi. IX, Studi su Dante, a cura di G. Folena (in preparazione); voi. x, Saggi e discorsi critici. Saggi sul Petrarca. Discorso sul testo del Decameron. Scritti minori su poeti italiani e stranieri (1821- 1826), a cura di C. Foligno, 1953; voi. x1, Saggi di letteratura italiana, a cura di C. Foligno: Parte I, Epoche della lingua italiana, 1958; Parte n, Poemi narrativi. Donne erudite. Dei viaggi classici. Intorno ad antiquari e critici. La letteratura periodica italiana. Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia. Della scuola drammatica italiana, 1958; voi. xn, Scritti tJari di critica storica e letteraria (I8I7-z827), a cura di U. Limentani (in preparazione); voi. XIII, Prose politiche e apologetiche (I8I7-z827), a cura di G. Gambarin: Parte I, Scritti sulle isole Ionie e su Parga, 1964; Parte 11, La rivoluzione di Napoli del 1798-1799. La "Lettera apologetica", 1964; voli. x1v-xxn, Epistolario (voi. 1, 29 ottobre 1794 - 14 giugno 1804, a cura di P. Carli, 1949 [seconda edizione 1970]; voi. n, 23 agosto 1804- 30 dicembre 1808, a cura di P. Carli, 1952; voi. 111, gennaio 1809 - 20 dicembre 1811, a cura di P. Carli, 1953; voi. IV, 2 gennaio 1812 - dicembre 1813, a cura di P. Carli, 1954; voi. v, 1 gennaio 1814- 31 marzo 1815, a cura di P. Carli, 1956; voi. VI, 1 aprile 1815 - 7 settembre 1816, a cura di G. Gambarin e F. Tropeano, 1966; voi. vn, 7 settembre 1816 - fine del 1818, a cura di M. Scotti, 1970); voli. VIII, 1 gennaio 1819 - dicembre 1821, a cura di M. Scotti; voli. IX, x (in preparazione). Tra le edizioni commentate si segnalano: Dei Sepolcri, a cura di U. A. Canello, Padova, Tipografia del Seminario, 1873; Dei Sepolcri, a cura di G. A. Martinetti, Torino, Paravia, 1874; Le Grazie, a cura di G. A. Martinetti, Torino, Paravia, 1877; Dei Sepolcri, a cura di F. Trevisan, Verona, Kayser e Munster, 1881 (poi sempre ritoccata: Verona, Milnster, 1883; Verona, Tedeschi, 1889; Milano, Albrighi e Segati, 1898; RomaMilano, Società Editrice Dante Alighieri, 1909); L'lpercalisse, a cura cli G. A. Martinetti, Saluzzo, Tipografia de' Fratelli Lobetti-Bodoni, 1884; u poesie, a cura di G. Mestica, Firenze, Barbèra, 1884, voli. 2 (voi. 1, Poesie liriche e satiriche; vol. 111 Tragedie e traduzioni); Poesie e prose scelte, a cura di G. Falorsi, Firenze, Le Monnier, 1885; Odi e Sonetti, a cura di G. Padovan, Torino, Paravia, 1890; Poesie, lettere e prose letterarie, a cura di T. Casini, Firenze, Sansoni, 1891; Liriche scelte, i Sepolcri e le Grazie, frammenti di tragedie, a cura di S. Ferrari, Firenze, Sansoni, 1891 (edizione riveduta, corretta e accresciuta da O. Antognoni, Firenze, Sansoni, 1917); Prose scelte critiche e letterarie, a cura di R. Fomaciari, Firenze, Barbèra, 1896; Poesie scelte, a cura di R. Fornaciari, Firenze, Barbèra, 1897; L'opera letteran·a, a cura di G. Mestica, Livorno, Giusti, 1907-1908, voli. 2 (voi. I, Poesie e Ultime lettere di Jacopo Ortis; voi. 11, Prose scelte e annotate); Poesie scelte, a cura di G. Gigli, Milano, F. Vallardi, 1907; De' Sepolcri, a cura di M. Porcna, Torino, Paravia, 1907; Poesie e prose scelte, a cura di M. Grancclli, Torino, Libreria Editrice Internazionale, 1914; Le opere, a cura di E. Donadoni, Napoli, Perrella, 1918; Liriche scelte, a cura di A. Ottolini, Firenze, Bemporad, I 920; Liriche, Sepolcri, passi scelti delle Graaie, le tragedie, le tradu:rioni, a cura di C. Zacchetti, Palermo, Sandron, 1921; Poeti lirici, a cura di G. De Robertis, Firenze, Le Monnier, 1923 (l'antologia contiene i sonetti A Fireue, A Zacinto, In mort, del fratello XLVIII NOTA BIBLIOGRAFICA Giovanni, Alla sera, le due odi, i Sepolcri', e, a partire dalla ristampa del 1947, anche frammenti delle Gra%ie; in estratto I Sepolcri, Odi, Sonetti, 1938); Dell'origine e dell'ufficio della letteratura, a cura di G. Dolci, Lanciano, Carabba, 1923; Liriche, a cura di F. Maggini, Firenze, u La Voce», I 925; Poesie scelte. Odi, Sonetti, i Sepolcri, le Grazie, a cura di E. Bellorini, Torino, Paravia, 1926; Liriche scelte - I Sepolcri - Le Grazie, a cura di G. R. Ceriello, Milano, Signorelli, 1926; Saggi letterari, a cura di M. Fubini, Torino, UTET, 1926; Prose e poesie scelte, a cura di E. Marinoni, Milano, Hoepli, 1926; Poesie, a cura di E. Allodoli, Firenze, Rinascimento del libro, 1927; Poesie e prose scelte, a cura di F. Biondolillo, Milano, Mondadori, 1927; Discorsi e saggi letterari, a cura di A. Donati, Milano, Albrighi e Segati, 1927; Poesie. Odi e Sonetti. La chioma di Berenice. I Sepolcri. Poesie van·e. Le Grazie, a cura di A. Donati, Milano, Albrighi e Segati, 1927; Prose e poesie scelte, a cura di A. Momigliano, Messina, Principato, 1929; Prose e poesie, a cura di M. Sterzi, Napoli, Perrella, 1930; Orazioni, discorsi e saggi, a cura di G. Sborselli, Lanciano, Carabba, 1931; Poesie e prose scelte, a cura di M. Sterpa, Firenze, La Nuova Italia, 1933; Poesie e saggi di prose, a cura di E. Carrara, Milano, Vallardi, 1934; Poesie, prose e lettere, a cura di N. Vaccalluzzo, Torino, Lattes, 1935; Liriche e prose letterarie, a cura di A. Marpicati, Palermo, I.R.E.S., 1936; Dell'origine e dell'ufficio della letteratura, a cura di E. Bellorini, Torino, Paravia, 1937; I Sepolcri e liriche scelte, a cura di G. Romeo, Torino, Chiantore, 1938; Poesie, a cura di G. Natali, Bologna, Cappelli, 1939; Dei Sepolcri, a cura di I. Testa, Firenze, La Nuova Italia, 1939; Prose e poesie, a cura di L. Russo, Firenze, Sansoni, 1941; Viaggio sentimentale, a cura di E. Falqui, Roma, Colombo, 1944; Poesie e prose varie, a cura di S. Aglianò, Firenze, Marzocco, 1946; Opere, a cura di E. Bottasso, Torino, UTET, 1948-1-950, voli. 2 (voi. 1, Poesie e prose d'arte; voi. n, Saggi critici); Liriche ed epigrammi, a cura di E. Chiorboli, Bologna, Zanichelli, 1954; Opere, a cura di G. Bezzola, Milano, Rizzoli, 1956, voli. 2 (vol. I, Poesie e prose d'arte; vol. 11, Prose polemiche e critiche); Opere, a cura di L. Baldacci, Bari, Laterza, 1962; Opere, a cura di M. Puppo, Milano, Mursia, 1966; Dall'Ortis alle Grazie, a cura di S. Orlando, Torino, Loescher, s. a. [1974]. Per la biografia vedi: G. PECCHIO, Vita di Ugo Foscolo, Lugano, Ruggia, 1830 (tra le ristampe si segnala quella con introduzione e commento di P. Tommasini-Mattiucci, Città di Castello, Lapi, 191 s); L. CARRER, Vita di Ugo Foscolo, in Prose e Poesie edite ed inedite di Uoo FoscoLo, Venezia, Co' Tipi del Gondoliere, 1842; P. ARTUSI, Vita di Ugo Foscolo, Firenze, Barbèra, 1878; F. G. DE WINCKELS, Vita di Ugo Foscolo, Verona, Milnster, 1885-1898, voli. 3; G. CHIARINI, Vita di Ugo Foscolo, Firenze, Barbèra, 1910 (ristampa a cura di G. Mazzoni, Firenze, Barbèra, 1927); A. ALBERTAZZI, Ugo Foscolo, Messina, Principato, 1915-1916, voli. 2; C. ANToNA-TRAVERSl e A. 0TTOLINI, Ugo Foscolo, Milano, Edizioni •Corbaccio», 1927-1928, voli. 4; G. NATALI, La vita e le opere di Ugo Foscolo, Livorno, Giusti, 1928. E inoltre, sulla permanenza del Foscolo in Dalmazia, vedi: B. MITROVIC, Ugo Foscolo a Spalato, in e Mente e cuore• (Trieste), maggio 1882,; C. ANTONA-TRAVERSI, De' Natali, dei Parenti, della Famiglia di Ugo NOTA BIBLIOGRAFICA XLIX Foscolo, Milano, Dumolard, 1886; A. CIPPICO, Ugo Foscolo in Dalmazia, in «Archivio storico per la Dalmazia», II, IV, 19, 1927; G. MARCOCCHIA, Ugo Foscolo "educato fra dalmati", in «La rivista dalmatica n, IX, 4, 1928, J. ]ERNF.S, Foscolo presso i Croati e i Serbi, in «Studia Romanica et Anglica Zagrabiensia », 4, 1957; M. ZORIC, Ancora sul soggiorno del Foscolo a Spalato, in «Studia Romanica et Anglica Zagrabiensia •, 8, 1959; idem, Due note su Ugo Foscolo e la Dalmazia, in a Studia Romanica et Anglica Zagrabiensia n, 15-16, 1963; B. LAVAGNINI, Dionisio Solomos, primo biografo di Ugo Foscolo, in Saggi di letteratura italiana in onore di Gaetano Trombatore, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1973. Sul soggiorno del Foscolo a Venezia vedi: A. A. MICHIELI, Ugo Foscolo a Venezia, in «Nuovo Archivio Veneto•, v, 367; VI, 181 e 432; vn, 32, 1903-1904; su quello bolognese vedi: L. R.AvA, Ugo Foscolo giornalista a Bologna. Il "Genio democratico" (z798), in «Cultura moderna», 1s ottobre, 1 e 15 novembre 1916; G. NATALI, Ugo Foscolo a Bologna nel z8oo, in «Convivium», 2, 1947; sul soggiorno genovese vedi: A. NERI, Ugo Foscolo a Genova, in« Rivista europea n, XXIV, 1881; idem, La caduta di Luigia Pallavicini, in «Giornale storico letterario della Liguria•, v, 1904; A. BASSI, Armi ed amori nella giovinezza di Ugo Foscolo, Genova, Studio Editoriale Genovese, 1927; N. CozzoLINO, Poeti lirici e civili in Genova nei primi del z8oo, in a Giornale storico letterario della Liguria•, v1, 1930; sul soggiorno bresciano vedi: A. MARPICATI, Il Foscolo a Brescia, in Lettere inedite di Ugo Foscolo a Marzia Martinengo, Firenze, Le Monnier, 1939. Sull'insegnamento pavese vedi: I. SANESI, L'insegnamento universitario del Monti e del Foscolo, in Contributo alla ston·a dell'Università di Pavia, Pavia, Tipografia Cooperativa, 1925; C. ANTONA-TRAVERSI, Ugo Foscolo professore d'eloquenza nella Regia Università di Pavia (con documenti inediti e ranj, in Studi e documenti sopra Ugo Foscolo, Bologna, Zanichelli, 1930; V. CIAN, Ugo Foscolo a/l'Università di Pavia, in Scritti minori, Torino, Gambino, 1936. Per i rapporti con il Giordani vedi G. GAMBARIN, Ancora del Giordani, del Foscolo e del Capponi (con lettere inedite), in «Giornale Storico della Letteratura Italiana•, CXLVIII, 1971. Per la querelle con i letterati milanesi vedi: G. A. l\1ARTINETTI, Delle guerre letterarie contro Ugo Foscolo, Torino, Paravia, 1880; G. ACCHIAPPATI, Foscolo contro Bettoni, Milano, Arti grafiche Ghezzi, 1970; idem, Foscolo a Milano, Milano, Strenna del- 1'Istituto "Gaetano Pini", 1971 ; R. CHINI, Il Poligrafo e l'Antipoligrafo. Polemiche letterarie nella Milano napoleonica, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXLIX, 1972. Per i rapporti del Foscolo con le amministrazioni presso le quali prestò servizio, e con l'Austria, e per l'esilio svizzero, vedi: L. CoRIO, Rivela:rioni storiche intorno ad Ugo Foscolo, Milano, Carrara, 1873; G. A. lVIARTINE'ITI, Documenti della vita militare di Ugo Foscolo, in •Rivista europea», XXIX, IV-VI, 1883; xxx, 1, 1883 (poi Livorno, Tipografia Aldina, 1883); C. CoRDit, Ugo Foscolo sulla via dell'esilio, in •Convivium•, 1, 1950; G. GAMBARIN, Il Foscolo e l'Arutn'a (con nuovi documenti), in • Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXL, 1963. Sul periodo trascorso in Inghilterra vedi: F. VIGLIONE, Ugo Foscolo in Inghilterra, in «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa•, xxn, 1910 (poi Catania, Muglia, 1910); V. CIAN, Ugo Foscolo nell'esilio L NOTA BIBLIOGRAFICA inglese, in Studi su Ugo Foscolo editi a cura della R. Università di Pavia nel primo centenario della morte del poeta, Torino, Chiantore, 1927; C. BROOKS, Life in Liverpool. The ltalian Exiles. Ugo Foscolo, in Antonio Pani%zi Scholar and Patriot, Manchester, University Press, 1931; E. R. VINCENT, An Attack on Foscolo, in «Modern Language Review », xxxn, 2, 1937; idem, Foscoliana in Hudson Gurney's Diaries, in «ltalian Studies », I, 3, 1938; E. G1LBBRT CREIGHTON, Foscolo's Digamma and Romantic Howe, in crPhilological Quarterly», xx.111, 1944; V. BRANCA, La "bella e saggia" Sara e il upovero" Ugo Foscolo, in «Convivium1>, 5, 1948; E. R. VINCENT, Byron, Hobhouse and Foscolo, Cambridge, University Press, 1949; E. H. WILKINS, Samuel Carter Hall on Foscolo, in «Romantic Review», XLI, 1950; E. R. VINCENT, An Italian in Rcgency England, Cambridge, University Press, 1953 (traduzione italiana: Ugo Foscolo esule fra gli inglesi, Firenze, Le Monnier, 1954); U. LIMENTANI, Testimonianze inglesi. sul Foscolo, in « Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXXXIII, 1956; idem, Il secondo biografo del Foscolo: Henry Stebbing, in Italian Studies Presented to E. R. Vincent, Cambridge, Heffer, 1962; F. MAv, Calliroe e lfianeo (Work in Progress on the "English" Period of U. Foscolo), in «Italica», XLI, 1, 1964; C. M. FRANZERO, Ugo Foscolo a Londra, Panna, Guanda, 1971. Sul pensiero e l'attività politica del Foscolo vedi: F. TREVISAN, Ugo Foscolo e la sua professione politica, Mantova, Balbiani, 1872; A. Luzm, Acerbi e la "Biblioteca italiana", in,, Nuova Antologia», agosto, novembre, dicembre 1896 (poi in Studi e bozzetti di storia letteraria e politica, Milano, Cogliati, 19101 voi. 1); G. MAZZONI, A Milano cenl,o anni fa, in «Nuova Antologia», giugno 1898; G. BRAMBILLA, Ugo Foscolo uomo politico, Milano, Koschitz, 1908; F. MoMIGLIANO, Il nazionalismo di Ugo Foscolo, in «Rassegna contemporanea », v, II, 19I 2; G. FERRARI, I portiti politici in Italia dal I789 al I848, Città di Castello, «Il solco 11, 1921; F. BAITAGLIA, L'opera di V. Cuoco e la formazione della coscienza in Italia, Firenze, Le Monnier, 1925; V. CIAN, Machiavelli e il Foscolo, in «Rivista d'Italia•, xxx, 9, 1927; C. MORANDI, Idee e formazioni politiche in Lombardia dal I748 al I8r4, Torino, Bocca, 1927 (cap. v); idem, Il fattore sentimentale e moderato nelle origini della ideologia liberale italiana, in «Rassegna storica del Risorgimento», xiv, 1, 1927; idem, L'attività politica del Foscolo nel triennio repubblicano, in Studi su Ugo Foscolo ecc., cit., 1927; A. SoLMI, Ugo Foscolo e l'unità d'Italia, in Studi s11 Ugo Foscolo ecc., cit., 1927; D. SPADONI, Il Foscolo cospiratore nel I8I3-r8r4, in Studi su Ugo Foscolo ecc., cit., 1927; G. MAZZINI, Il pensiero politico del Foscolo, in Scritti di letteratura e di arte, a cura di G. Rispoli, Firenze, Vallecchi, I 93 I ; D. FoLIGNO, Ugo Foscolo. Il pensiero politico e le influenze del Machiavelli, Napoli, Chiurazzi, 1933; V. CIAN, Gli Alfieriani-Foscoliani piemontesi ed il romanticismo lombardo pin,u,ntese del primo Risorgimento, in a Memorie della Società Nazionale per la storia del Risorgimento italiano 11, Biblioteca scientifica, Roma 19341 voi. 1; A. MARPICATI, Il dramma politico del Foscolo, Bologna, Znnichelli, 1934; L. SALVATORELLI, Il pensiero politico italiano dal I700 al r870, Torino, Einaudi, 1935; D. SPADONI, Milano e la congiura militare nel r8r4 per l'indipendenza italiana, Modena, Società Tipografica NOTA BIBLIOGRAFICA LI Modenese, 1936-1937, voli. 3 ; L. Russo, Foscolo politico, in • Belfagor•, I, 4, 1946; n, 2, 1947; 111, 1, 1948 (poi in Il tramonto del letterato, Bari, Laterza, 1960, con il titolo Foscolo e la sua storiografia politica); idem, Il Cuoco e il Foscolo interpreti di Machiavelli, in «Belfagor JI, 1v, S, 1949 (poi in Il tramonto del letterato, cit.); e per l'attività giornalistica del Foscolo, oltre agli articoli di L. RAVA, Ugo Foscolo giornalista a Milano, in e Rivista d'Italia•, 1-2, 1920; idem, Ugo Foscolo giornalista a Bologna, cit., vedi anche F. MoMIGLIANO, Ugo Foscolo giornalista democratico della Repubblica Cisalpina, in« Il Secolo XX•, 1 maggio 1918. Circa gli studi critici complessivi vedi: F. DE SANCTIS, Ugo Foscolo, in •Nuova Antologia», giugno 1871 (ora in Saggi critici, a cura di L. Russo, Bari, Laterza, 1952, voi. 111); E. DONADONI, Ugo Foscolo pensatore, critico, poeta, Palermo, Sandron, 1910 (poi Palermo-Roma, Sandron, 1927; Firenze, Sandron, 1964); G. CITANNA, La poesia di Ugo Foscolo, Bari, Laterza, 1920 (ivi, 1932; ivi, 1947); B. CROCE, Ugo Foscolo, in • La Critica», xx, 1922 (poi in Poesia e non poesia, Bari, Laterza, 1922); G. ToFFANIN, Il neoumanesimo del Foscolo, in «La Cultura», VI, 11, 1927; M. FuBINI, Ugo Foscolo, Torino, Ribet, 1929 (poi Firenze, La Nuova Italia, 1931; ivi, 1962); G. NATALI, Lo wolgimento lirico foscoliano, in Cultura e poesia in Italia nell'età napoleonica, Torino, STET, 1930; F. FLORA, Foscolo, in •Circoli», luglio-agosto; settembre-ottobre 1938 (poi Milano, Società Editrice Nazionale, 1940); C. VARESE, Vita interiore di Ugo Foscolo, Bologna, Cappelli, 1941 (ivi, 1966); L. Russo, Ugo Foscolo, in Gli scrittori d'Italia, Firenze, Sansoni, 1943; R. RAMAT, Itinerario ritmico foscoliano, Bari-Città di Castello, Macrì, 1946; P. BmoNGIARI, Alle origini dello stile Joscoliano, in a Paragone», n, 1951, e 111, 1952 (poi in Il senso della lirica italiana, Firenze, Sansoni, 1952); e inoltre si veda: G. MANACORDA, Studi foscoliani, Bari, Laterza, 1921; F. MAGGINI, Ugo Foscolo nella tradizione toscana, in Ugo Foscolo. Scritti di G. MAZZONI, N. TARCHIANI, A. PANELLA ecc., Firenze, Le Monnier, 1928. E vedi anche C. E. GADDA, Il Guerriero, l'Amazzone, lo Spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo, in •Paragone letteratura», 116, 1959 (poi Milano, Garzanti, 1967). Sulla cultura giovanile vedi: G. CARDUCCI, Poeti e figr,re del Risorg,"mento. Serie prima. Adolescenza e gioventù poetica di Ugo Foscolo, in Edizione Nazionale delle Opere di GIOSUÈ CARDUCCI, XVIII, Bologna, Zanichclli, 1937; C. DIONISOTTI, Venezia e il noviziato poetico del Foscolo, in e Lettere italiane •, gennaio-marzo 1966. Sulla cultura classica vedi: V. CIAN, Ugo Foscolo erudito, in e Giornale Storico della Letteratura Italiana•, XLIX, 1907; A. CoRBELLlNI, Il Foscolo e Pinclaro, in Studi su Ugo Foscolo ecc., cit., 1927; M. GALDI, L'intimo signi"ficato del commento foscoliano alla traduzione della uChioma di Berenice,,, in Studi su Ugo Foscolo ecc., cit., 1927; L. A. STELLA, Ugo Foscolo e la poesia ellenica, in Studi su Ugo Foscolo ecc., cit., 1927; F. M. PoNTANI, Foscolo e il neo-greco, in •Idea•, 1, 18, 1949; 1, 20, 1949; F. CHIAPPELLI, Cultura clasn·ca e umente poetica" nel Foscolo, in eLettere italiane •, lugliosettembre 1966. Sulla filologia foscoliana vedi: A. PAGLIARO, Il Foscolo e la quistione tkl LII NOTA BIBLIOGRAFICA digamma in Omero, in «Atene e Roma», IX, 1928; S. TIMPANAROjr., La filologia di Giacomo Leopardi, Firenze, Le Monnier, 1955 (p. 201); P. TREVES, Lo studio dell'antichità classica nell'Ottocento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962 (pp. 235-47); S. TIMPANARO jr., Ugo Foscolo traduttore e interprete di Omero, in «Maia », xx, 1968; G. FISCHIETTI, recensione agli Esperimenti di traduzione dell'"lliade". Edizione critica a cura di G. Barbarisi, Firenze, Le Monnier, 1961, 1965, 1967, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXLVII, 1970; S. TIMPANARO jr., Ancora sul Foscolo filologo, in III Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXLVIII, 1971; P. FASANO, recensione agli articoli di S. Timpanaro jr. in «Maia » e nel a Giornale Storico della Letteratura Italiana», e alla recensione di G. Fischietti nel «Giornale Storico della Letteratura Italiana», in "La Rassegna della letteratura italiana», maggio-dicembre 1972. Sulle traduzioni dei classici vedi: B. SOLDATI, Esperimenti foscoliani di TJersioni da Omero, in Studi vari di erudizione e di critica in onore di R. Renier, Torino, Bocca, 1912; F. LOSAVIO, Ugo Foscolo traduttore di Omero, in Studi su Ugo Foscolo ecc., cit., 1927; G. PATRONI, Nota aggiunta al saggio La poesia e la figura d'Omero nei Sepolcri di Ugo Fosc'!lo, in Studi su Ugo Foscolo ecc., cit., 1927; I. SANESI, Ugo Foscolo traduttore di Anacreonte, in Studi su Ugo Foscolo ecc., cit., 1927; A. V1scARD1, La ''fedeltà" nella traduzione foscoliana dell'"lliade", in u Giornale Storico della Letteratura Italiana», XCI, 1928; D. BIANCHI, Ugo Foscolo e le traduzioni, in a Giornale Storico della Letteratura Italiana», xc111, 1929; G. DE RoBERTIS, Postilla foscoliana, in «Il Corriere della Sera», 12 dicembre 1939 (poi con il titolo Le traduzioni omeriche del Foscolo, in Studi, Firenze, Le Monnier, 1944); idem, Candidi, grandi, e co"ono col vento, in «Il Mondo», 28, 1946 (poi in Primi studi manzoniani, Firenze, Le Monnier, 1949); G. BARBARISI, Le edizioni dei tentativi foscoliani di traduzione dell'Iliade, in • Studi di filologia italiana», XIII, 1955; idem, Introduzione alle versioni omeriche del Foscolo, in u Giornale Storico della Letteratura Italiana•, CXXXII, 1955; idem, Foscolo, Ariosto, Omero (A proposito di una recente edizione foscoliana), in • Giornale Storico della Letteratura Italiana•, cxxxiv, 1957; B. TERRACINI, Il problema della traduzione, in Conflitti di lingua e di cultura, Venezia, Neri Pozza, 1957 (pp. 108-9); G. BARBARISI, Le traduzioni omeriche di Ugo Foscolo. Una prova di stampa, in a Studi di filologia italiana», xvn, 1959. Sulla lingua poetica vedi: L. 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Sull'Epistola al Monti vedi D. DE RoeERTIS, L'epistola del Foscolo al Monti, in a Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXXXII, 1955. Sulle Grazie, circa il testo, oltre alla sommaria descrizione dei manoscritti fornita da G. Chiarini nelle Poesie ecc., cit., 1904, vedi: M. BARBI, L"'Edizione Nazionale" del Foscolo e le "Grazie", in «Pan», II, 12, 1934 (poi in La nuova.filologia e l'edizione dei nostri scrittori da Dante al Manzoni, Firenze, Sansoni, 1938); F. PAGLIAI, I versi dei Silvani nelle "Grazieu del Foscolo, in a Studi di filologia italiana», X, 1952; idem, Prima redazione (fiorentina) dell'Inno alle "Grazie" di Ugo Foscolo, in << Studi di filologia italiana•, xix, 1961 ; idem, Versi a Dante nelle "Grazie" del Foscolo, in • Studi Danteschi», XLI, 1961; P. MAZZAMUTO, Cronaca filologica delle "Grazie", in «Cultura e scuoiali, VI, 22, 1967; F. PAGLIAI, Nota per un progetto di edizione critica delle "Grazie" di Ugo Foscolo, in <1 Studi di filologia italiana», XXVIII, 1970; S. ORLANDO, I versi del "Queto Lario", in «Misure critiche», II, 3, 1972; idem, La seconda redazione dell'Inno alle Grazie di Ugo Foscolo, in« Paideia », 1-2, 1973; e inoltre vedi: P. VERRUA, "Grazie" prefoscoliane, in «Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti», 1925- 1926 (e cfr. la recensione di V. CIAN, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», XCIII, 1929); A. VISCARDI, Di alcuni versi omerici inseriti nelle "Grazie", in «Giornale Storico della Letteratura Italiana », xc, I 927; M. STERPA, Le "Grazie" di Ugo Foscolo, Catania, Tipografia Coniglione e Giuffrida, 1930; M. Fus1NI, "Allegrami i propinqui liuti", in «Marzocco», XXXVI, 12, 1931 (poi in Ortis e Didimo, Milano, Feltrinelli, 1963); E. CHIORBOLI, Il Foscolo nel velo delle ..Grazie" e nel sogno del guerriero, in aGiornale Storico della Letteratura Italiana», cix, 1937; B. 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ORLANDO, Sul frammento della ccTJergine romita", in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXLVII, 1970; idem, Note sulla elaborazione formale delle ccGrazie", in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXLVIII, 1971. Sul teatro del Foscolo vedi: F. VIGLIONE, Sul teatro di Ugo Foscolo, in •Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa 11, 1904; E. FLORI, Il teatro di Ugo Foscolo, Biella, Amosso, 1907; W. BINNI, L'..Aiace" di Ugo Foscolo, in «La Rassegna della letteratura italiana», maggio-agosto 1961 (poi in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 1963). Sui Frammenti di un romanzo autobiografico vedi: M. FUBINI, L'amicizia tra Ugo Foscolo e Francesco Lomonaco, il uSesto tomo dell'Io" e le "Ultime lettere di Jacopo Ortis", in «Giornale Storico della Letteratura Italiana•, cx, 1937, poi col titolo Diogene e Psiche (Note sul 11 Sesto tomo dell'Io"), in Foscolo minore, Roma, Tumminelli, 1949; S. 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ZsCHECH, Ugo Foscolo und sein Roman 11 Die letzten Briefe der Jacopo Ortis", in «Preussiche Jahrbucher», 1879-1880 (tradotto in «Nuova Rivista Internazionale», 11 febbraio e 6 settembre 1880): B. ZuMBINI, La vera storia di due amanti in/elici, in • Fanfulla della Domenica•, 6 e 13 agosto 1882; idem, La Teresa dell"'Jacopo O,tis", in «Roma• (Napoli), 15 settembre 1882; A. MBDIN, La vera storia di Jacopo Orti.s, in «Nuova Antologia•, LVI, 1895; B. ZuMBINI, Il "Werther" e l'"Jacopo Ortis", in «Atti della R. Accademia di Archeologia, lettere ecc. di Napoli•, XXIV, 1905 (poi in Studi di letteratura comparata, Bologna, Zanichelli, 1931): V. Rossi, Sull"'Ortis,, del Foscolo, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana 11, LXIX, 1917 (poi in Studi di critica letteraria, voi. 111. Dal Rinascimento al Risorgimento, Firenze, Sansoni, 1930); F. BARBIERI, Il "Werther" e l"'Jacopo Ortis", in Studi su Ugo Foscolo ecc., cit., 1927; V. Rossi, La formazione e il valore estetico dell"1Ortis", in St11di m Ugo Foscolo ecc., cit., 1927 (poi in Studi di critica letteraria ecc., cit.); D. BIANCHI, Il petrarchismo dell'"Ortis", in •Giornale Storico della Letteratura Italiana•, XCIII, 1929; A. CARACCIO, Stendhal, Foscolo tt /es "Ultime lettere di Jacopo Ortis", in «Le Divan •, novembre- LVI NOTA BIBLIOGRAFICA dicembre 1932 (poi in Variétés Stendhaliennes, Paris, Arthaud, 1947); A. w. ROGALLA, Il "Werther',, la ''Nouvelle Héloise"' ruortis", Messina, Coletta, 1933; E. BoTTAsso, Foscolo e Rousseau, Torino, Bona, 1941; A. CHIARI, Verso 1u•ortis", in «Aevum11, xv, 4, 1941 (poi in Indagini e letture, Bari-Città di Castello, Macrl, 1946); M. APOLLONIO, Introduzione allo studio della narrativa italiana dell'Ottocento da Foscolo a Verga, MilanoVarese, Istituto Editoriale Cisalpino, 1945; M. 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Camene, 1953; E. RAIMONDI, Un episodio dell'"Ortis" e "lo bello stile", in cr Giornale Storico della Letteratura Italiana•, cxxx, 1953; G. DE RoBERTIS, I tre "Ortis", in «Tempo», 13 ottobre 1955, e in« Il Nuovo Corriere», 27 ottobre 1955 (poi in Studi Il, cit.); G. GAMBARIN, Ancora sulla genesi dell"'Ortis", in a Giornale Storico della Letteratura ·Italiana», CXXXIII, 1956; A. VALLONE, Il cammino de/l"'Ortis" dal I802 al z8z7, in «Convivium», 4, 1956; C. F. GoFFIS, Nota per "La11ra, lettere,,, in Nuovi studi foscoliani, Firenze, La Nuova Italia, 1958; W. BINNI, II II Socrate delirante" del Wieland e l'11 Ortis", in «La Rassegna della letteratura italiana», maggio-agosto 1959; L. Russo, L'interpretazione politica di ccJacopo Ortis", in Il tramonto del letterato, Bari, Laterza, 1960; R. MASSANO, Goethe e Foscolo, Wertlier e Ortis, in Problemi di lingua e letteratura italiana del Settecento, Wiesbaden, Steiner, 1965; P. 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TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI ANTOGNONI = UGO FoscoLo, Liriche scelte, i Sepolcri e le Gra%ie, frammenti di tragedie, col commento di Severino Ferrari. Seconda edizione riveduta, corretta ed accresciuta da Oreste Antognoni, Firenze, Sansoni, 1917. BALDACCI = UGO FoscoLo, Opere. Ultime lettere di Jacopo Ortis, Odi, So11etti, Dei. Sepolcri, Le Grazie, a cura di Luigi Baldacci, con I6 disegni di Corrado Cagli, Bari, Laterza, 1962. BELLORINI = UGO FoscoLO, Poesie scelte, Odi, Sonetti, i Sepolcri, le Grazie, con note di Egidio Bellorini, Torino-Milano-FirenzeRoma-Napoli-Palermo, Paravia, 1926. BEMBO = Prose e rime di PIETRO BEMBO a cura di Carlo Dionisotti, Torino, UTET, 1966. BERTOLA = Operette in verso e in prosa dell'abate DB' G10RGI-BERTÒLA, Bassano, Remondini, 1785, voli. 3. BoTIASSO = Poesie e prose d'arte di UGO FoscoLO a cura di Enzo Bottasso, Torino, UTET, 19683• CANELLO = Dei. Sepolcri. Carme di UGO FoscOLO commentato per tlSO delle scuole. 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Nuova edizione aumentata. Prima ristampa, Firenze, Le Monnier, 1962. DONATI = UGO FoscoLo, Poesie. Odi e Sonetti. La chioma di Berenice. I Sepolcri. Poesie varie. Le Grazie. Prima edizione compiuta con note a cura di Alessandro Donati, Milano-Roma-Napoli, Albrighi, Segati & C., 1927. Edizione Nazionale =vedila nota bibliografica, alle pp. XLVI-XLVII. Epistolario = vedi la nota bibliografica, a p. XLVII. FALORSI = UGO FoscoLo, Poesie e prose scelte e annotate per le giovanette da Guido Falorsi., Firenze, Le Monnier, 18902 • FANTONI = Poesie di GIOVANNI FANTONifra gli Arcadi Labindo, Italia 1823, voli. 3. FERRARI = UGO FOSCOLO, Liriche scelte, i Sepolcri e le Grazie, frammenti di tragedie, col commento di Severino Ferrari, Firenze, Sansoni, 1891. FoRNACIARI = Poesie scelte di UGO FoscoLo, con note, Firenze, Barbèra, 19102• FRUGONI = Opere poetiche del Signor Abate CARLO INNOCENZO FRUGONI, Parma, dalla Stamperia Reale, 1779, voi. v (voll. 10). GIGLI = UGO FoscoLo, Poesie scelte con introduzione e commento di Giuseppe Gigli, Milano, F. Vallardi, 1907. GRANCELLI = UGO FoscoLo, Paesi.e e prose scelte e annotate dal prof. Michelangelo Grancelli, Torino, Libreria Editrice Internazionale, 1914. LAMBERTI = Poesie di LUIGI LAMBERTI, Panna, Co' tipi bodoniani, 1796. MAGNO = Lirici veneziani del secolo XVI, in Parnaso italiano ovvero Raccolta de' poeti classi.ci italiani ecc., t. XXXII, Venezia, presso Antonio Zatta e Figli, 1788. MARTINETTI = UGO FoscoLo. Dei Sepolcri. Carme a Ippolito Pindemonte con interpretazione a' passi men facili e breve comento di G. Antonio Martinetti, Torino, Paravia, 1874. TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI LXI - Le Grazie interpretate da G. Antonio Martinetti, Torino, Paravia, 1877. MARULLO = M1CHAELIS MARULLI Carmina, edidit Alessandro Perosa, Turici, In aedibus Thesauri Mundi, 1951. MAzzA = Opere del Signor ANGELO MAZZA fra gli Arcadi Armonide Elideo, Panna, presso Giuseppe Paganino, 18I 6-I 819, voli. 5. MESTICA = Le poesie di UGO FosCOLO. Nuova edizione con riscontri su tutte le stampe, discorso e note di Giovanni Mestica, Firenze, Barbèra, 1884, voli. z. MONTI = Prose e poesie di VINCENZO MONTI novamente ordinate, accresciute di alcuni scritti inediti e precedute da un Discorso intorno alla Vita ed alle Opere dell'Autore dettato appositamente per questa edizione, Firenze, Le Monnier, 1847, voll. 5. - I poemetti di VINCENZO MONTI, Milano, Guigoni, 1883. NATALI = Uco FoscoLo, Poesie con introduzione e commento di Giulio Natali, Bologna, Cappelli, 1939. Omaggio = Omaggio a Luigia Pallavicini, in F. GAVAZZENI, 'I balsami odorati'. [Scheda per la prima stampa dell'ode «A Luigia Pallavicini caduta da cavallo»], in Un augurio a Ra.ffaele Mattioli, Firenze, Sansoni, 1970. Opere = vedi la nota bibliografica, a p. XLVI. OSSIAN = Poesie di OSSIAN figlio di Fingal antico poeta celtico. Ultimamente scoperte, e tradotte in prosa Inglese da Jacopo Macpherson, e da quello tTasportate in verso Italiano dall'Abbate Melchior Cesarotti, Nizza, Società Tipografica, 1780-1781, voli. 3. OTTOLINI = Liriche scelte di Uco FoscoLo con introduzione e note di Angelo Ottolini, Firenze, Bemporad, 1920. PADOVAN = Odi e Sonetti di Uco FoscoLo con note ad uso delle scuole secondarie classiche per cr,ra di Guglielmo Padovan, TorinoRoma-Milano-Firenze, Paravia, 1890. PARADISI = Poesie scelte del Conte AGOSTINO PARADISI con l'elogio dell'autore, Milano, dalla Società Tipografica de' Classici Italiani, 1830. PARINI = Trltte le opere edite e inedite di GIUSEPPE PARINI raccolte da Guido Mazzoni, Firenze, Barbèra, 1825 (Alcune poesie di Ripano E11pilino). - GIUSEPPE PARINI, Poesie e prose con appendice di poeti satirici e didascalici del Settecento a cura di Lanfranco Caretti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1951 (Odi). - Giuseppe Parini, Il Giorno. Edizione critica a cura di Dante ]sella, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969, voli. 2. PINDEMONTE = Poesie di IPPOLITO PINDEMONTB veronese, Panna, Co' ·tipi bodoniani, 1800, voll. 2. LXII TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI PINDEMONTE• = Le prose e le poesie campestri con altri versi. di IPPOLITO PINDEMONTE, Milano, per Nicolò Bettoni, 1830. RINUCCINI = OTTAVIO RINUCCINI, Drammi per musica. Dafne. Euridice. Arianna. Introduzione e note di Andrea Della Corte, Torino, UTET, 1826. ROLLI = Rime di PAOLO ROLLI, Verona, Tumennani, 1733. RUCELLAI = ALAMANNI. RucCELLAI. TANSILLO. BALDI. Didascalici del secolo XVI, in Parnaso italiano ovvero Racçolta de' poeti classici italiani ecc., t. XXIII, Venezia, presso Antonio Zatta e Figli, 1786. Russo = UGO FoscoLo, Prose e poesie a cura di Luigi Russo. Nuova edizione accresciuta, Firenze, Sansoni, 1960. TARSIA = vedi COSTANZO. TASSO = Le Rime di TORQUATO TASSO. Edizione critica su i manoscritti e le antiche stampe a cura di Angelo Solerti, Bologna, Romagnoli-Dall'Acqua, 1898-1902, voli. 4. TREVISAN = Il carme Dei. Sepolcri e altre poesi.e di UGO FoscoLO con discorso e commento di Francesco Trevi.san professore nel R. Liceo Scipione Maffei,. Quarta edizione riveduta e aumentata, Milano, Albrighi, Segati & C., 1898. VITTORELLI = Opere edite e postume di JACOPO VITTORELLI, Bassano, Roberti, 1841, voli. 2. POESIE POESIE GIOVANILI (1796-1799) NOTA INTRODUTTIVA Non molto è dato a tutt'oggi inferire circa la condizione linguistica e culturale del Foscolo, avanti che dalla madre patria si trasferisse a Venezia. Prima di tale evento poco o nulla siamo infatti ragguagliati circa il reale possesso che egli ebbe della lingua italiana, così come poco ci è nota la qualità e consistenza della sua informazione letteraria, né più agevole torna valutare il peso esatto del suo bilinguismo, di grande momento nella definizione del successivo classicismo. È comunque certo che ove all'inchiesta non soccorra l'apporto di ricerche tali da far luce sufficiente sul periodo di studio trascorso presso il Seminario di Spalato, o, come è più che probabile, mai dovessero riaffiorare gli incunaboli della cultura foscoliana in Dalmazia, nella guisa di ipotetici puerilia, onde organizzare una plausibile, anche se fatalmente parziale, e, rispetto all'assunto, postuma risposta ai quesiti sopra esposti, occorrerà ancora rifarsi ai documenti di cui gli studiosi del poeta zacintio hanno, da sempre, disposto, in attesa che un'esauriente ricognizione del quadro storico-culturale, e storico-sociale della Dalmazia e dei suoi nuclei veneti, ci consenta di ricostruire, nella carenza di specifici attestati, quei lontani anni di formazione sulla scorta di un ambiente definito nei suoi istituti. A ragione il Dionisotti osserva come «non appaga l'ipotesi che il poeta, in erba sì ma già nel 1794 sorprendentemente accorto e pronto a scegliere i suoi modelli nella poesia contemporanea, fosse giunto a Venezia l'anno prima digiuno, non dirò di lingua, ma di lettere italiane. Che cosa avesse imparato a Spalato e a Zante non sappiamo, e probabilmente non sapremo mai. Nuove ricerche sull'ambiente veneto-greco e dalmata sono augurabili, ma è chiaro che tali ricerche esigono un impegno e interesse storico più serio che non quello di almanaccare sui primi rudimenti linguistici e letterari di un ragazzo; esigono che si faccia storia di uomini, quali che fossero, mediocri e minimi, di comunità greche e slave che co• minciavano in quegli anni ad acquistare più risentita e distinta coscienza di sé e dei rapporti non sempre idillici che era toccato loro in sorte di avere con le autorità di Venezia. I recenti studi ad esempio di M. Zoric ("Studia Romanica et Anglica Zagrabiensia,,, 8, 1959, pp. 31-9 e 15-6, 1963, pp. 151-83) non soltanto valgono a illustrare il buon maestro, Francesco Gianuizzi, del Foscolo a Spalato, e il ricordo che nella città rimase di quel ragazzo "vivace sempre fino all'incomodo ed alla impertinenza,,, e occasionali incontri con uon1ini e cose della Dalmazia che risultano dalla vita e dall'opera tutta del Foscolo, ma ci fanno intravvedere anche, con maggior profitto nostro, una 6 POESIE tradizione locale inquieta e impaziente che, pur essendo armata di lingua e cultura italiana, non per questo rinunciava a servirsi, come era suo diritto, di tali armi ai fini propri, che potevano anche non essere quelli proposti o imposti dalla dominazione veneziana. Perché, come ebbe a dichiarare poi (1844-) Vincenzo Solitro, "la repubblica ci tenne servi e assoldati, figliuoli non ci ebbe mai',_ È probabile che anche per la dissidenza greca si debba fare un analogo discorso, e certo è che in quegli anni, non soltanto nell'isola natia, ma a Venezia, nella colonia greca tanto più forte ivi e pugnace che qualunque rappresentanza della costa dalmatica, non saranno mancati gli stimoli a quello spirito guerriero, prepotente e scontroso, per cui il Foscolo giovinetto appare cosi isolato e diverso nel quadro della società veneziana» (C. DI0NIS0TTI, Venezia e il noviziato poetico del Foscolo, in • Lettere italiane», gennaio-marzo, 1966, p. 1 s). Il corretto maneggio dei T61toL della poesia settecentesca, la conformità della lingua dei componimenti dedicati a Costantino Naranzi nel '94 (li si veda in Edizione Nazionale, 11, pp. 239-84) ai modelli più famosi, dagli Amori del Savioli, alle Odi del Fantoni, alle forme lirico-idilliche del Bertola e del Pindemonte, manifestano nel giovane poeta una conoscenza e dominio della lingua letteraria in voga a quell'altezza cronologica notevolmente sicuri. E sia pure senza originalità diversa da quella implicita nell'adesione ali'auctoritas prescelta. Stante la particolare situazione foscoliana, conquistarsi un posto nella repubblica letteraria veneta voleva innanzitutto dire porsi al livello delle soluzioni linguistiche dominanti, di una lingua cioè eminentemente razionale per essere pensata in termini di pura convenzione sociale, e però interamente calata nel presente dell'occasione, o nella diacronia della sua eventuale, certo non mai remota genesi. Donde la caratteristica frizione tra lessico d'estrazione letteraria e corrività sintattica, la prevalenza di costruzioni discorsive e recitanti, sempre volte a ridurre raulicità d'ascendenza lessicale in strutture sintattiche che si direbbero approntate per la lettura ad alta voce, dinnanzi a un pubblico che non disponesse materialmente del testo, secondo i principi di una rettorica determinata nei suoi istituti dalla necessità tecnica del melodramma (informante, con le ben note eccezioni, i più cospicui esiti artistici del secolo XVI II), di rappresentare il "finto" con i tempi del "vero", in ossequio al canone della verosimiglianza. E del resto, se è certo vero che «l'asprezza di Dante poteva essere utile medicina per chiunque volesse guarire dall'esile delicatezza del linguaggio metastasiano•, oltre a non seguirne che • il modello dantesco dovesse prevalere su quello proposto dai tre altri quadrumviri [Petrarca, Ariosto, Tasso], da una tradizione poetica che ancora si reggeva intatta nella sua conti- POESIE GIOVANILI (1796-1799) • NOTA INTRODUTTIVA 7 nuità e coerenza •, anche era vero che «Dante insomma non fu in quei frangenti il poeta di una parte, dell'ideologia rivoluzionaria o di quella reazionaria. Fu bensi il poeta che in quei frangenti, onde erano mutate le condizioni di vita e le speranze di sopravvivenza degli uomini di ogni parte, fornì le parole e gli accenti di una eloquenza insolita, aspra, veemente, quale pareva richiesta, e di fatto era, dalle circostanze straordinarie e dai compiti nuovi che la letteratura si trovava a dover assumere» (C. DI0NIS0TrI, Varia fortuna di Dante, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 207-8, passim). L'esempio della Bassvilliana è, al ri.. guardo, sintomatico. Non sorprende però che talvolta a rimescolare le carte fossero scrittori non professionali, caratterizzati da particolari situazioni geo-linguistiche e sociali, come il piemontese Alfieri, o nati e cresciuti in colonia, come il Nostro, poi operante in un ambiente, Venezia, dove a chi ambisse originalmente segnalarsi, si imponeva una diversificazione dai modelli correnti, coincidente con il ripudio della tradizione locale, che, abbracciata di primo acchito dal giovane Foscolo, veniva successivamente accantonata a vantaggio di quanto, a quella data, unitamente agli exploits danteschi del Monti, costituiva ancora il fatto culturale più discusso e avversato, vale a dire il teatro di Vittorio Alfieri, a sostanziale apprezzamento del quale, a Venezia, aveva speso parole singolarmente equilibrate un uomo della sicurezza di giudizio di Andrea Rubbi, certo influente, stante i suoi rapporti con la comunità greca della capitale lagunare, nel- 1'educazione letteraria del Nostro (e vedi alle pp. 45-6 la nota intro• duttiva al Tieste). Che poi tale processo, nella sua fase di culminazione (i dodici sonetti), si attui sulla falsariga della lirica cinquecentesca (più ancora che di Petrarca), se di per sé non è certo cosa nuova, dal punto di vista della sua pratica realizzazione non può invece che lasciare stupiti, ove solo si consideri, in una con l'alto grado di malleabilità, il rigore di una riassunzione stilistica fondata su aucton'tates, quali il Della Casa e il Tasso, eccezionali nel contesto del petrarchismo cinquecentesco, e non particolarmente privilegiate all'altezza degli anni 1801-1803, e la insueta coscienza, per non dire la polemica presa di posizione, di contenere tale esercizio nella misura di due odi e di dodici sonetti. Nella fattispecie, che tutto ciò sembri sostanzialmente inerire alla linea che dal Bembo all'Arcadia aveva costituito il filo rosso dell'esperienza poetica nazionale, è solo una delle molte considerazioni possibili, non, ovviamente, la più pertinente. Perché nel Foscolo non era tanto questione di identificarsi con un programma culturale, quanto di legare il proprio, individuale mondo intellettuale e affettivo, cosi affrancato dalla xo,'/4 poetica settecentesca, come, all'opposto, dagli eccessi espressi- 8 POESIE vi, tonali e accentativi, di Monti e Alfieri, a una forma che, tecnicamente derivando da un originale (Petrarca), tanto nel rispetto di una nonna (Bembo, Costanzo), quanto nella sua eversione (Della Casa, Tasso), ai suoi occhi si presentava come la resa istituzionale di una memoria che, di per sé, consentiva alla dimensione individuale di riconoscersi nel tempo, oggettivandosi a fronte della tradizione poetica da cui ambiva distinguersi. E però a motivazione dello scarto intercorrente tra la produzione degli anni 1794-1797 e le Poesi.e non possono soccorrere ragioni meramente formali, quali una maggior confidenza con una lingua letteraria, inizialmente conosciuta solo sulla scorta della sua esemplare attualità, meccanicamente comportante uno spostamento di obiettivo dalle copie agli originali di una plurisecolare tradizione, che, invece, solo una nuova e netta coscienza politica poteva rimettere tanto prepotentemente in auge. Ciò che altrove si era proposto, o stava proponendosi, come repechage dell'autoctonia letteraria in opposizione alla volgata cosmopolitica settecentesca, uniformata sui modelli delle letterature italiana e francese dei secoli XVI e XVII, si riproduceva nel Foscolo con non minore vigore, e non diverse ragioni, in un contesto culturale, s'intende, affatto differente. In Europa, e più ancora in Italia, oltre all'azione dei philosophes e della Rivoluzione, a muovere le acque, a suscitare fermenti indipendentistici in senso nazionalistico, erano state infatti le campagne militari di Napoleone, ovunque e sempre determinanti, tanto nell'adesione quanto nell'opposizione, la disintegrazione dell'antico assetto, o la sua parziale modificazione, a vantaggio delle singole borghesie nazionali. E come durante il secolo XVIII e gli anni della Rivoluzione, la critica demolitrice delrancien régime nella persona della tirannide monarchica e degli istituti giuridico-politici ad essa connessi si era ispirata all'antefatto storico della monarchia nella sua fase più arcaica, Roma repubblicana, identicamente nel passato, in un passato storicamente privilegiato dal suo prestigio nazionale, si istruiva la ricerca di autonomia espressiva, che, altrove, per la stessa via, aveva condotto alla scoperta e all'apprezzamento delle antichità germaniche e "celtiche", e che nel caso nostro conduceva al restauro di una eccezionale variante della tradizione petrarchesca nella sua veste cinquecentesca, quasi mise en relief del filone specifico, che prevedeva un impaccio nell'ordine del più schietto Petrarca, valutabile sul metro dell'ancor precaria maturità del volgare agli occhi di chi, come è pure da ritenersi il Foscolo, sebbene scarsamente affetto dalle opinioni dominanti, non poteva dirsi del tutto immune dai pregiudizi costituenti il tessuto connettivo della cultura del proprio tempo. Quanto si verificò nel Nostro tra il 1798 e il 1803 non fu insomma, come non poteva essere, un fatto POESIE GIOVANILI (1796-1799) · NOTA INTRODUTTIVA 9 di natura miracolistica, secondo si principiò a sostenere dal Carducci in poi, e neppure sembrano decisive le innegabili influenze di personalità quali il Monti e l'Alfieri (decisive, infatti, e in differenti guise, sino al 1797-1798), ma fu effetto sostanzialmente determinato da avvenimenti condizionanti l'Italia alle sorti dell'Europa, sottoposta alla rivoluzione geopolitica dall'avanzata delle annate francesi. Al tradursi in concrete prospettive politiche di quanto, sino a quel tempo, era rimasto un puro ideale letterario (l'unità quale patrimonio etnico, culturale e linguistico, ininterrottamente presente in accezioni non necessariamente ed ovunque identiche, in ogni epoca della letteratura nazionale), corrispondeva l'esigenza di sottrarre l'esperienza poetica alla pianificazione di una logora consuetudine linguistica, con lo storicizzarla in un passato che ne esaltasse l'unicità, istituibile come tale proprio e solo in un rinnovato e polemico raffronto con la derivata, ma ormai affatto difforme maniera corrente. LA CROCE (1796) Nel Piano di Stutlii (1796) alla voce Versi stampati, il Foscolo annotava: «Terzine per una Monaca e un'oda. Prima edizione Venezia presso il Palese. 31 Aprile 1796. Seconda ediz. Ven[ezia] presso il Fenzo. 3za ediz. Ven[ezia] presso il Fenzo. 4ta Venezia presso il Pepoli nel Mercurio. Quinta Verona-Presso il Giuliari 23 Agosto 1796 • (c. zv.). Delle stampe sopra elencate sono note, a tutt'oggi, solo le ultime due, e cioè il fascicolo di luglio del «Mercurio d'Italia storico-letterario per l'anno 1796 •, Venezia, Dalla Tipografia Pepoliana (in cui La Croce e Il mio Tempo si trovano alle pp. 59-62), e il Canzoniere per la monacazione di nobile donzella veneta. Seconda edizione. Verona, Dalla stamperia Giuliari, 1796 (in cui La Croce e Il mio Tempo si trovano alle pp. VII-XVI). Nella stampa veronese i due componimenti, oltre che da una lettera dedicatoria, erano anche preceduti dalla seguente intitolazione: eProfessando la regola di Sant'Agostino fra le eremite la nobil donzella Maria Toderini ora Maria Serafina Delle Cinque Piaghe canto consecrato alla nobil donna Maddalena Toderini Pappafava sorella amorosissima della sacra sposa» (su tutto ciò vedi Edizione Nazionale, II, pp. LXVII-LXIX). Alla specifica occasione è principalmente imputabile se La Croce si presenta ricca degli accessori caratteristici di una prassi devozionale, che, di primo acchito, sembra difficilmente convenire all'immagine tradizionale del giovane Foscolo. Ma se con la stessa, anche all'altezza cronologica del I 796, non avrebbe potuto conciliarsi una pratica continuativa di tal genere, è certo che le istanze ideali e morali di cui si sostanzia il presente capitolo non contraddicono la considerazione rousseauiana della religione, cui, in fase pre-vichiana, vale a dire prima degli anni milanesi, e segnatamente prima del secondo soggiorno nella capitale lombarda, il Foscolo, qui ed anche nelle odi A Dante, La Verità, La morte di •••, pare rifarsi. E del resto pure il Monti, sul versante opposto a quello sul quale si muoveva il giovane autore della Croce, aveva ritenuto opportuno distinguere, sul punto specifico della religione, Rousseau dagli altri philosophes, là dove nella Bassvilliana, 111, 265-701 si legge: •Vassene solo l'eloquente ed irto / orator del Contratto, e al par del manto / di sofo ha caro l'afrodisio mirto, / disdegnoso d'aver compagni accanto / fra cotanta empietà; ché al trono e all'ara/ fe1 guerra ei sì, ma non de' Santi al Santo•. Ancora nel 1797, in seno alla veneziana Società d'Istruzione, il Foscolo, nella sessione del 23 fruttidoro (9 settembre), intervenendo nella discussione suscitata dall'asserzione del cittadino Bolognesi, secondo il quale un sacerdote secolare o regolare non poteva riuscire un buon religioso ove non palesasse sinceri sentimenti democratici, prudentemente affermava che non si dovessero •dalla tribuna discutere gli argomenti ch'abbiano qualche correlazione colla religione, esigendo questi mente pacata e tranquilla•, contemporaneamente facendo cenno alle •arti insidiose della Corte di Roma, la quale col mezzo della superstizione tiranneggib per lo passato e popoli e re, cd al presente fa servire la Religione medesima ad una tenebrosa politica• (Edizione Nazionale, v1, p. 22). Più tardi, durante 12 POESIE la sessione del 17 vendemmiatore (8 ottobre), avendo il cittadino Widmann espresso il suo turbamento per le stragi del Piemonte, e deplorato l'abuso della religione che colà si faceva (11 Religione certo falsa, poiché non è di Cristo una religione che commette simili eccessi, ma bensl superstizione, ipocrisia e crudele impostura»), il Nostro precisava: «Ch'egli volea convincere ognuno che sotto la tirannia la Religione è un'empietà, un'impostura» (Edizione Nazionale, VI, p. 37). È tuttavia innegabile che La Croce, più di qualsiasi altro componimento foscoliano tra quanti videro la luce nell'anno 1796, sia dalla parte di una letteratura antiquata, emblematicamente rappresentata da un genere, come quello della visione, in cui l'apparenza dell'improvvisazione assurgeva a forma di un contenuto, tanto irresistibilmente privilegiato, e per tal via tanto sottilmente adulato, da determinare la cifra dell'espressione celebrativa. Ma anche all'interno di una tradizione caratterizzata da una forte istituzionalità, il modello prescelto dal giovane poeta si segnala per la sicura individuazione dei valori qualitativi. Il non recente modello montiano, vale a dire La visione d'Ezechiello (1776), si distingue infatti dalla classica produzione del Varano per l'impiego non antonomastico del materiale linguistico della Commedia, in funzione cioè di uno stile che riguardava la visione dantesca come un esempio di duttilità e di polivalenza espressiva, oltre che di concreto linguaggio "metafisico", piuttosto che quale auctoritas teologica, canonicamente invocata in circostanze deputate. Il che non toglie che tanto il Monti, quanto, per suo tramite, il Foscolo, della particolare tecnica della visione rispettino la rigorosa struttura, articolata in moduli che dall'esordio alla conclusione, da sempre, sembrano schematicamente rintracciare il celebre cammino del primo canto dell'lnferno. METRO: terzine. POESIE GIOVANILI (1796) LA CROCE Abbracciava il creato immensa notte, e nel deserto con ruggir feroce 13 rompeano i turbi lor sonanti grotte; J quando tuonar udii terribil voce, che dal sonno mi scosse, e all'acre in grembo vidi alto balenar rovente Croce. 6 Piovea di sangue e di fiammelle un nembo, cui sette Serafini a capo chino, onde raccor, stendean l'aurato lembo, 9 1-21. Abbracciava ... Signore: lo sconvolgimento naturale, e lo spiegarsi di eccezionali fenomeni è un modulo d'esordio proprio al genere della visione, e come tale è presente anche in MONTI, La visione d'Ezecl,iello, 13-28: cr Quando mugghiar dall'Aquilone io sento, / e repente appressarsi un procelloso / turbo, forier di notte e di spavento. / Celossi il dì sereno, e al minaccioso / passar del nembo l'onda risospinta / si sollevò dall'imo gorgo ascoso: / e quindi in giro strascinata e spinta / dal vorticoso vento ecco scagliarsi / nube di lampi incoronata e tinta, / e tutta a me dintorno avvilupparsi, / e in un baleno colle gravi some / dall'oppresse mie membra alto levarsi. / A quel trabalzo per terror le chiome / mi si arricciaro; cd io da tergo intanto / voce sentii, che mi chiamò per nome. / Scrivi (gridò) quel che tu vedi [...] •· E ancora del MONTI, vedi Il pellegrino apostolico, 1, 95-105: «Ma turbossi ad un tratto l'orizzonte, / e di pallore si coperse e d'ombra. / Pria diè vento la terra, e poi dal monte / con orrendo silenzio, orrenda emerse / nube e giù scese in procellosa fonte. / Ahi quant'era terribile a vedersel / Di Dio lo spirto le gonfiava in grembo, / e tale al muto campo si converse. / E già squarciato d'ogni parte il lembo / piovea grandine e fuoco, e palpitando / fuggìan le genti dall'irato nembo•; I, 194-204: •e calossi di fumo e foco nùsta / nube che l'aria di fragranza empìo. / L'ignea colonna imita, che fu vista / il ramingo guidar stanco Israello / per lo Deserto allo fatai conquista. / Ma la nube nel sen porta un drappello / d'invisibili altrui spirti moventi, / quale l'occhiute rote d'Ezechiello, / spirti, che di soavi almi concenti / van ricreando l'aure innamorate, / e raddolcendo della via gli stenti•· 1. immensa notte: soggetto. :z. nel deserto: nella solitudine. 3. rompeano . •• grotte: le sporgenze del terreno, rese sonanti dall'urto dei venti, che venivano cosi a rompersi. E vedi Il mio Tempo, :z, a p. :zo, e In morte di Amaritte, 24, a p. 40. 4-5. ternbil ••• scosse: vedi DANTE, Purg., xxiv, 134: •subita voce disse; ond'io mi scossi•· 6. alto balenar: per tale forma verbale vedi a p. 25 la nota ai vv. 1-:z dell'ode A Dante, e In morte di Amaritte, 63, a p. 42. E vedi anche DANTE, Par., XIV, 108: •vedendo in qucll'albor balenar Cristo•. 7. Piooea .•• nembo: riecheggia DANTB, In/., XIV, 2.9: •piovean di foco dilatate falde•. 8-9. cui .•• Ima- 14 POESIE e aprissi il cielo e scese un Cherubino con un calice in mano ov'era scritto a note di adamante: AMOR DIVINO. 12 E poiché ebbe tre volte circoscritto lo spazio delle sfere, a posar venne sul tronco ove lavossi ogni delitto; 15 indi abbracciollo, e cantico solenne coi spiriti minori erse in dolore dolce battendo di fulgor le penne, 18 e a me, cui maestà cerchiava il core, scrivi scrivi, gridò, ciò che vedrai, ché queste son l'alt'opre del Signore. 21 A lui per riverenza io m'atterrai, e al suon di tromba vidi in Oriente splender igniti abbarbaglianti rai, e venir vidi in leggiadria decente amabil Verginella, alla cui fronte ornamento facea candor lucente. 27 bo: sotto il quale sette serafini (angeli della nona gerarchia), con il capo chinato in segno di rispetto, stendevano un manto dorato per raccoglierlo (il nembo). 10. Cherubino: angelo della ottava gerarchia. 13. circoscritto: percorso circolarmente. 1 s. sul tronco •.. delitto: sulla croce, legno sul quale si consumò il sacrificio del Redentore. 17. coi spiriti minori: angeli di gerarchie inferiori a quelle citate ai vv. 8 e 10; in dolore: dolorosamente. E vedi Il mio Tempo, 5, a p. 20. 18. dolce battendo: vedi la nota al v. 6; di fulgor le pe,ine: le fulgide penne. 19. cui .•• core: che ero compreso della sacralità dell'apparizione. E vedi DANTE, Par., XIV, 55: e cosi questo fulgor che già ne cerchia•· 22. m'atterrai: mi inchinai. E vedi DANTE, Pù,g., IX, 129: •pur che la gente a' piedi mi s'atterri"· 24. igniti •.. rai; infiammati, accecanti raggi. E vedi DANTE, Par., xxv, 27: • ignito sl che vincea il mio volto». 25. in leggiadria decente: decorosamente leggiadra. 26. amabil Verginel/a: Maria Toderini, per la quale vedi la nota introduttiva alla poesia. 26-7. alla cui • .• lucente: la fronte candida splendeva come un ornamento. Ricorda il • vivo candor• di DANTE, Par., xiv, 53. POESIE GIOVANILI (1796) Cosi non luce mai vermiglio il monte, cui batte il Sol di sera, e si non luce sul mattin odoroso l'orizzonte. Nube che fior sparpaglia la conduce per l'aer leggiadramente, ed al suo lato fervida stassi Carità per duce. Di mite venticel fragrante fiato spingea la bianca nube, e dir parea: in uffizio si caro io son beato. E poi che giunse là 've risplendea l'augusta Croce, e di Angeli uno stuolo radiante corona le facea; troncò la nube candidetta il volo, e soffermassi a piè del Cherubino, che scese i Cieli maestoso e solo. Ed ei sul capo riverente e chino dell'innocente Vergine la palma stese, e sparse su lei sermon divino. E le dipinse la placida calma, che ascosa al mondo sotto un puro ammanto gode al raggio di Dio beata un'alma: 15 JO 33 36 39 45 28. non luce ... il monte: non splende arrossato per il tramonto il monte. E vedi DANTE, lnf., 111,134: «che balenò una luce vermiglia•. 31. la conduu: accompagna l'amabil Verginella del v. 26. 36. in uffizio . .. beato: il venticel del v. 34, beato di ndempiere al compito di cui nl v. 36. 38. l'allgusta Croce: vedi il v. 6. 39. radiante: "raggiante", come in DANTE, Par., XIX, 90. 41. Cherubino: vedi il v. 10. 44-5. la palma/ stese: in segno di consacrazione. 45. sermon divino: parole direttamente ispirate da Dio. 46. la placida calma: dell'animo; è oggetto di gode del v. 48. 47. p11ro at11manto: la veste monacale. E vedi Jl mio Tempo, 20, a p. 21. 16 POESIE e al suo parlar svegliossi da ogni canto un'indistinta soave armonia un dolce dolce amorosetto canto. Pinse come sui Cieli rifioria d'amaranto immortale un vago serto per chi l'inferno ed il peccato obblia: e al suo parlar vezzosamente aperto si vide il prato ne' color più gai, e di fioretti amabili coperto. Del Paradiso le beltà vedrai, le disse; e tutta a un tratto si cosperse l'Etra di gioia, di candor di rai. Ma tosto d'atro orror si ricoverse, brontolar tuoni, serpeggiaro lampi, quando a morte e a terror la bocca aperse, . . . . e p1nse come per 1 negn campi delle tempeste, l'alto Dio passeggia, e qual di fiamme e di buffere avvampi piena d'aspri Lion l'empirea reggia e qual su nubi negre e sanguinose con igneo brando la Giustizia seggia. 51 54 57 6o 66 69 49. al suo parlar: del Cherubino del v. 10; da ogni canto: in ogni dove. 52. Pinse: raffigurò con il suo discorso; il soggetto è sempre il Cherubino. 53. amaranto: vedi In morte di Amaritte, 69, a p. 42; e Sepolcri, 125, a p. 309: • amaranti educavano e viole•· ss. tJezzosamente aperto: semplice, e, al tempo stesso, ornato e piacevole. 59. si cosperse: vedi DANTE, Par., xxvn, 28-30: • Di quel color che per lo sole avverso / nube dipigne da sera e da mane,/ vid'io allora tutto il ciel cosperso•. 60. l'Etra: l'etere, il cielo; di candor dirai: di raggiante splendore, 61. si ricoverse: l'Etra del verso precedente. 63. quando ..• aperse: quando venne a parlare (il Cherubino) della morte e dello spavento della pena. 64-5. e pinse •.. pa1seggia: vedi MONTI, Il pellegrino apostolico, 1, 67-9: •Ma su l'irato instabile elemento, / e camminar su le tempeste io soglio, / come sopra ben saldo pavimento»; pinse: vedi il v. 52. 67. l'empireo reggia: la reggia di Dio, il cielo. 69. igneo brando: spada infuocata. POESIE GIOVANILI (1796) Tremante allor con luci timorose si strinse alla sua duce la Donzella, e nel suo petto il volto si nascose. Poi s'alzava, qual dopo la procella pian pian tragge dal nido il collo e guata l'impaurita ingenua colombella. Indi com'ebbe alquanto confortata l'etereo messaggier dolce e clemente la timidetta Vergine beata, al labbro le appressò del rifulgente calice l'orlo, e con i lumi al Cielo essa il libò pietosa e ubbidiente. Siccome spunta il Sol senza alcun velo, ratto ell'arse negl'occhi, e nel sembiante splendidamente di celeste zelo; e più che al tergo avesse ed alle piante d'aquila i vanni, di salute al Legno lanciassi e affisse le sue labbia sante. Il maggior Cherubino allor fe' segno ai sette Spirti, e rapidi il seguiro del firmamento ver lo schiuso regno: 17 75 78 81 87 71. alla sua duce: la Carità del v. 33; la Donzella: vedi la nota al v. 26. 74. tragge: trae. E vedi Il mio Tempo, 41 a p. 20. 77. l'etereo messaggier: il messo divino, cioè il Cherubino del v. 10. 79-80. rifulgente calice: il calice dei vv. 11-2, contenente il sangue divino. So. i lumi: gli occhi. 81. il libò: lo bevve. 83. ratto: subito; ell'arse negl'occhi: vedi DANTE, Par., 1111 24: «che, sorridendo, ardea ne li occhi santi». 84. di uleste ::elo: di carità divina. E vedi DANTE, Purg., VIII, 83-5: «Cosi dicea, segnato de la stampa, / nel suo aspetto, di quel dritto zelo / che misuratamente in core avvampa•· 85-6. e più che • .• vanni: e più velocemente che avesse avuto ali alle spalle e ai piedi. 86. di salute al Legno: alla Croce del v. 6, simbolo di salvezza. 87. affisse . •• sante: lo baciò (il Legno del verso precedente); /abbia: 14 }abbra", contro la prevalente accezione di uaspetto" (costantemente assunta in Dante). 2 18 POESIE e in estasi di gioia e di martiro lasciar quell'Angioletta sulla Croce, che or lagrima spargeva ed or sospiro. Poi tutto sparve; ché tremenda voce rintuonò intorno, e da' lor cupi abissi tornar la notte e il turbine feroce, e ancor tremando quel che vidi io scrissi. 93 96 94-7. Poi ... scrissi: analogamente si conclude la montiana Visione d'Ezecl1iello, J60-6: u Ma in questo mezzo per gli eccelsi ed ampi / spazi d'Olimpo il Cherubino un nembo / sciolse di tanti e sl focosi lompi, / che smorto io caddi e abbarbagliato in grembo / della mia nube che al disotto aprissi: / e sprigionato da quel denso lembo / giacqui su l'erba; e quel che vidi, io scrissi ». IL MIO TEMPO (1796) Pubblicata dapprima nel «Mercurio d'Italia storico-letterario per l'anno 1796)), Venezia, Dalla Tipografia Pepoliana, fascicolo di luglio, pp. 61-2, anonima, unitamente al capitolo La Croce (e vedine la nota introduttiva a p. 11), Il mio Tempo, come risulta dal Pia110 di Studii (1796), c. 2,., doveva far parte del «libretto n delle u Odi n, di cui è cenno nella lettera da Venezia del 29 agosto 1795 a Gaetano Fornasini (per la quale vedi a p. 23 la nota introduttiva aWode A Dante), collocandosi a conclusione dello stesso. È pensabile che «la lima di molti mesi n (Piano di Studii, c. 2r.) richiesta in genere dall'insufficiente grado di finitezza formale delle odi ivi elencate, nella fattispecie avrebbe riguardato particolarmente gli aspetti del presente testo più scopertamente connessi all'occasione celebrativa che lo aveva dettato. Composto nel metro delle odi A Da11te e La Campagna (e vedi la nota introduttiva all'ode A Dante, a p. 23), Il mio Tempo non si discosta dall'ambito ideologico della Croce, pur restandole inferiore sul piano formale, in ragione della meno duttile e assimilabile tecnica del metro assunto. Ad esso, più che a qualsiasi altro tra i componimenti pubblicati nell'anno 1796, sembra bene attagliarsi quanto, relativamente alle residue odi del «libretto n sopra menzionato, notava il Carducci: usi sente la lettura del Parini, dell'Alfieri, del Mazza, ma senza rimembranze; e certe immagini profetali e certe forme quasi dantesche e più le imitazioni di Young e di Ossian sono in viscida mescolanza impastate con la fraseologia filosofica sentimentale e democratica di quella età. Singolari per audacia di grottesco certi impeti e certe mosse» (Edizio11e Nazionale delle Opere di GIOSUÈ CARDUCCI, XVIII, Poeti e figure del Risorgimento. Serie prima. Adolescenza e gioventù poetica di Ugo Foscolo, Bologna, Zanichelli, 1937, p. 158). METRO: ode: Dsdr.bCsdr.bdd. 20 POESIE IL MIO TEMPO Chi medita fra il tacito saggio orrore di grotte? E di Giob su le pagine tragge vigile notte? E chi in ribrezzo fugge donde la colpa rugge? Guai! guai! D'ira e giustizia il Lione passeggia, le zampe e i labbri insanguina entro splendida reggia, e all'universo folle un regicidio estolle. Tutto imperversa: ingemina il nitrir de' cavalli, 6 12 1-6. Chi • •. ,ugge?: l'interrogativa retorica ripropone l'immagine della solitudine naturale quale fonte di meditazione, come nell'ode A Dante, 49-54, a p. 28. E vedi La Verità, 41-8, a p. 36. 1-2. tacito • •• grotte: silenzioso squallore di antri, favorevole alla meditazione, apportatrice di saggezza. La contrapposizione della vita rustica a quella cittadina, in relazione al preciso momento storico, è tema trattato dal MONTI nelrInvito di un solitario ad un cittadino (1793). Vedine i vv. 1-4: •Tu che, servo di corte ingannatrice,/ i giorni traggi dolorosi e foschi, / vieni, amico mortai, fra questi boschi, / vieni, e sarai felice•; e ancorai vv. 37-40: 11Vieni dunque, infelice, a queste selve; / fuggi l'empie città, fuggi i lucenti / d'oro palagi, tane di serpenti / e di perfide belve•· E vedi La Croce, 3, a p. 131 e In morte di Amaritte, 24, a p. 40. 3-4. E di Giob ... notte?: e sulle pagine di Giobbe passa insonne la notte? Nel Piano di Studii (1796) alla voce Teologia il FoscoLo notava: •Sacra Scrittura•. 4. tragge ••• notte: vedi MONTI, Invito di un solitario ad un cittadino, 2, sopra citato. E vedi La Croce, 74, a p. 17. 5. in ribrezzo: colto da ribrezzo. E vedi La Croce, 17, a p. 14. 7-12. Guai! . •• estolle: si allude all'esecuzione di Luigi XVI, destituito il 21 settembre 1792, processato, condannato il 19 gennaio 1793, e ghigliottinato il 21 dello stesso mese. E vedi Bonaparte liberatore, 128, a p. 150. 12. un . •• estolle: innalza, nel senso di presenta celebrandolo. Oltre che nell'ode La Verità, 20, a p. 35, relativamente all'anima di Luigi XVI, il verbo è usato anche dal MONTI, Basmilliana, 111, 184-5: •Ella tra lor d•amore e di desiro / sfavillando s'estolle [.••] •· E vedi La Giusti:ria e la Pietà, 89, a p. 112. 13. imperversa: diviene perverso; ingemina: raddoppia. POESIE GIOVANILI (1796) mentre fra bronzi orrisoni rimbombano i timballi, e infuriata guerra cittadi sfianca e atterra. Ma qual c~ndida Vergine in puro manto ascosa fra gli orrori dell'Eremo in grembo a Dio riposa, e il volto ingenuo copre rimpetto a orribil opre! Vien meco, o Eletta, a piangere il soqquadrato mondo, ch'ode gli eterei fulmini, e corre furibondo a trar suoi giorni eterni ne' spalancati Averni. Vieni: e stringendo in lagrime l'insanguinata Croce, a Dio manda fra 'l gemito pietosa innocua voce, mentr'io per l'orbe intanto di terror spargo un canto. 21 18 15. bronzi o"isoni: cannoni. 16. timballi: sorta di tamburi, a forma di mezzo globo di rame ricoperto di pelle, generalmente usati a due a due, e, come i tamburi, battuti da due bacchette. E vedi Bonaparte liberatore, 28, a p. 145. 20. puro manto: vedi La Croce, 47, a p. 15. 21. o"ori dell'Eremo: vedi i vv. 1-2. 22. riposa: il soggetto è Maria Toderini, per la quale vedi a p. 11 la noto introduttiva al canto La Croce. 26. il .•• mondo: il mondo rovinato. 27. gli eterei fulmini: della giustizia divina. E vedi La morte di •••, 28-30, a p. 32. 29. a trar suoi giorni: vedi il v. 4 e la relativa nota; eterni: per l'eternità. 30. ne' • .. Averni: negli abissi infernali. • Plurale anche in Virgilio, Eneide, 111, 442, "Avcma sonantia", e v, 732, "Averna per alta"• (CHIORBOLI). 32. l'imangi,i,iata Croce: tra le agostiniane Maria Todcrini aveva assunto il nome di Maria Serafina Delle Cinque Piaghe. 34. innocua: ..innocente", come nella Giustizia e la Pietà, 16, a p. 104. 36. di terror: preannunciante il castigo divino, per il quale vedi i vv. 37-42 e 49-60. 22 POESIE Vedilo! È Dio che l'aere sol con un braccio occupa, ed accigliato spazia entro tuonante e cupa carca di piaghe nube, mentre ai fulmini iube. Forse avverrà che al flebile suono di tue parole a noi s'apra più splendido di sua pietate il Sole, e dall'olimpio trono spanda mite perdono. Già di sterminio l'Angelo su Morte accavalcato punìa dell'empia Ninive il delitto ostinato; già vibrava furente su lei brando rovente; ma al suol sparsa di cenere penitenza prostrasse, e squallida di Jehova l'augusta ira rimosse, ed arrestò la mano al Feritor sovrano. 54 6o 41. carca di piaghe: destinate alla colpevole umanità. 42. i"be: "comanda", come in DANTE, Par., Xli, 12: a quando Iunone a sua ancella iube». 44. di tue parole: le preghiere dell'Eletta del v. 25. 46. di sua pietate: della pietà divina, foriera del perdono del v. 48. 49-50. l'A11gelo / su Morte: vedi Bonaparte liberatore, I 2 7, a p. 1 50. 50. su ... accavalcato: a cavallo della Morte. 51. Ninive: sita sulla riva orientale del Tigri, la città, forse fondata da Nemrod, e annoverata da Hammurabi tra le più grandi del suo regno, nel secolo XVI era nelle mani dei Mitanni, e alla metà del XIV in quelle degli Assiri, acquistando importanza politica solo a partire dal secolo VIII, quando Sennacherib ne fece la propria residenza (IV Reg., 19, 36; Is., 37, 37). La rovina profetizzata da Nahum (1-3) e Sofonia (2, 13-5) si realizzò poi nel 612, quando la città venne espugnata dall'attacco congiunto dei Medi e dei Neo-babilonesi. 52. ostinato: nel tempo. 56. prostrasse: il soggetto è Ninive. 60. Ji'eritor sovrano: l'Angelo del v. 49. A DANTE (1796) Data per attuata dal Foscolo (e, sulla parola dello stesso, già al vaglio dell'Inquisizione), in lettera da Venezia del 29 agosto 1795 al bresciano Gaetano Fornasini (del gruppo« lontano e umile dei bresciani[...] Scevola, Labus, all'avanguardia cioè, potenzialmente e di lì a poco effettivamente ribelle, della città, Brescia, più aperta all'influsso lombardo e più impaziente della sudditanza veneta», C. D10NISO'ITI, Venezia e il noviziato poetico del Foscolo, in «Lettere italiane», gennaio-mar.to, 1966, p. 20) unitamente a La Verità, L'Avarizia, La Patria, L'Olocausto, La Campagna, L'lnco11te11tabilità, I destini, Ai Reg11anti, L'Adulazione, All'Italia, La morte di •••, l'ode A Dante doveva inizialmente far parte, aprendo la serie dei testi, di un «libretto», intitolato «Odi di Niccolò Foscolo. Vitam impendere vero. 1795 11, con dedica ttdi cinque righe» a Vittorio Alfieri (Epistolario, I, p. 17). Ma il poeta anche avvertiva: «Quelle c'han questo segno II D [A Dante, La Campagna] si comanda che soffrano qualche mutilazione, e l'altre contrassegnate con l'asterisco [La Verità, L'Avarizia, Ai Regnanti] si vogliono immerse nella caligine» (Epistolario, I, p. 16). La progettata edizione era poi ritoccata e ampliata nel Piano di Stlldii (1796), dove alla voce Originali (c. 2r.) si legge: «Dodici odi del conio dell'Autore >da raccoglie< raccolte in un solo libretto col motto. Vitam impendere vero. 1 A Dante 2 La Verità 3 I Grandi 4 A mia Madre s Il Sacrifizio - a Scevola 6 La cnmpagna - a Bertola 7 L'ingordigia; 8 L'adulazione - al Pnrini; 9 All'Italia; 10 La Lode - al l\1azzn I 1 >... tramite la mediazione storica del Rubbi, e di riflesso al vigore assunto nell'opera di Alfieri e Monti, tornava particolarmente opportuna nella temperie storica e politica di un'Italia cui, all'altezza del 1796, per la prima volta e concretamente si offrivano prospettive di unità nazionale che la rovina dell'antico assetto, procurata dalla prima campagna del Bonaparte, rendeva in astratto possibili, contraddicendole poi subito in ragione degli interessi imperialistici del Direttorio francese. Nella fattispecie la rivendicazione del prestigio unitario della tradizione letteraria nazionale, quale risulta dai componimenti foscoliani del biennio 1796-1797, polemicamente, se non realisticamente, riferendosi all'inattualità del cosmopolitismo gallicizzante della scuola padovana, intendeva politicamente rispondere a esigenze cui la cultura cesarottiana non sembrava ormai più in grado di soddisfare. Ad acuire la sensibilità unitaria del Foscolo non va trascurato che, alla condizione primitiva di greco per parte di madre, cresciuto in situazione di sostanziale bilinguismo, e poi di immigrato inserito in una civiltà la cui cultura, partecipata prima perifericamente, risultava storicamente gregaria della propria d'origine e materna (secondo il Nostro sempre si premurò di sottolineare), doveva sommarsene un'altra, in seguito agli avvenimenti degli anni 1796-1797. Nel modello francese i termini di contrapposizione riuscivano ancora più eccentrici, rendendo impossibile ogni identificazione, e promovendo invece un recupero della tradizione, il cui scopo era di fungere da discrimine tra culture, differenti, perché storicamente caratterizzate da diversi rapporti di dipendenza. Dal ribaltamento politico POESIE degli stessi, e sul piano più immediatamente praticabile, a conferma della legittimità del privilegio istituzionale di una cultura nazionale, deriva l'attualità dcli-impresa foscoliana del Tieste, tragedia di contenuto antitirannico e di netta marca alfieriana, rappresentata in una Venezia dove ancora il governo oligarchico sopravviveva alla spinta disgregatrice dell'intervento francese, quando le speranze unitarie sembravano ormai autorizzate dalla creazione della Repubblica Cispadana. Relativamente al teatro dell'Alfieri, al quale, nella lettera dedicatoria sopra citata si riconoscevano «diritti su tutti coloro che scrivono agli Italiani lii (vedi nel II tomo la lettera 4), la disposizione del tragediografo principiante pare tuttavia risentire di alcune limitazioni, che si spiegano con il particolare apprezzamento critico di cui, a Venezia, fruì l'astigiano. Andrea Rubbi, infatti, recensendo nel Giornale poetico del 1784 il primo volume delle Tragedie di V1.roa10 ALFIERI da Asti, Siena, presso Vincenzo Pazzini Carli, e Figli, 1783, dopo avere recisamente affermato che:« Chi volesse in poche parole dare un giudizio di queste tragedie, lodandole, e censurandole nel tempo stesso le potrebbe chiamare Tragedie di So/ocle, tradotte in versi sciolti dal Sa/vini» (in u Parnaso italiano dell'anno MDCCLXXXIV o sia Raccolta di poesie scelte di autori viventi», Bologna, a spese della Società Enciclopedica, 1784, p. 12) oltre a dissentire, per ragioni di verosimiglianza, dalla struttura psicologica dei personaggi alfieriani (op. cit., pp. 13-4), e a condannare il disprezzo delle convenzioni sociali (op. cit., p. 13), soprattutto appuntava i suoi strali polemici contro lo stile, osservando come: u Chi fosse poco pratico della storia, e udisse parlare Don Filippo in versi così aspri, e spezzati malamente, crederebbe di ascoltare per cosa certa un Re di Calmucchi, o di Talpacchi. Ga"ire il figlio, è una espressione incognita almeno per noi» (op. cit., p. 14). Sconosciuta non era la voce alla storia della lingua italiana, cosi che il Foscolo, propriamente ne usò due volte nel Tieste (atto n, scena v, 239-40: «[...]A garrir teco / qui non ti chiesi [...] »; atto 1v, scena 111, 238-9: «[...] qual avvi / ragion qui di garrir? [...] »). E ancora notava il Rubbi: «Se un bell'ingegno riunisse insieme tutte le frasi, e i modi di parlare, che usa il Sig. Conte Alfieri, e gli appropriasse a qualche personaggio storico, non potrebbe fare a meno di non eccitare le risa. Eccone un piccolo saggio. Viver vita, la mia t'hai tu, nuocer lui testé, sbramar gli occhi, cor di sangue, i' ti chiegg'io, i' nol poss'io, tel ridich'io, i' ti giur'io, i' l'accett'io, i' dava lui, s'i' mi t'arrendo, s'i' 'l sono, trammi, scer, smenta me, ti laudo, scelleranza, empiezza, riando le parole, ami d'amore, suonar pianto, ferir può colpi, ove se tu starm'io, guai se 'l sapesse, i' pagheria etc. etc. lii (op. cit., pp. 15-6). Erano censure che le prime quattro tragedie (Filippo, Polinice, Antigone, Virginia) avevano immediatamente suscitato, e che erano state fatte proprie anche da critici che pella positiva novità del teatro alfieriano si erano dimostrati perfettamente consci, come il Calzabigi, il quale nella Lettera di Ranieri de' Calsabigi all'Autore n,lle quattro sue prime Tragedie (Napoli, 20 agosto 1783) scriveva, ad esempio: «e il dire Ti hai per hai, come: La mia t'/zai tfl e tali altre antiche disusate eleganze, spargono ambiguità ed equivoci; e obbligano chi recita, e chi legge ad alta POESIE GIOVANILI (1797) 47 voce, a contrar le labbra per declamare il verso». Lo stesso Alfieri, pur respingendo sostanzialmente 1•accusa rivoltagli, nella sua risposta (6 settembre 1783), ammetteva: • Io ho ecceduto alcune volte in durezza lo confesso, e principalmente nelle due prime, e più nel Filippo, e più nel principio di esso, che nel fine; tal che ad apertura di libro, i miei tu, e io, ed ;>, e altre simili cose, avranno ferito a lei l'occhio più che l'orecchio; perché se un buon attore, glie li avesse recitati bene, a senso, staccati, rotti, vibrati, invasandosi dell'azione, ella avrebbe forse sentito un parlare non sdolcinato mai, ma forte, breve, caldo, e tragico, se io non m•inganno ». E più oltre concedeva: «Glie la do vinta quanto ai pronomi, e già son tolti dai due primi atti del Filippo i due t•hai tu che sono stati il Sibolet degli Effraimiti [...] Son tolte molte ripetizioni fastidiose d'i' ed io[...]. Quanto al vezzo dei se, e me, e te riempitivi, l'ho diradato moltissimo». E però il Rubbi, ritornando sull'argomento, in occasione della pubblicazione del secondo volume delle tragedie dell'astigiano, così correggeva il primitivo giudizio: «Tutti i giornalisti si sono scagliati contro il Sig. Conte Alfieri. In fatti la sua maniera di scrivere molte volte è grottesca; unisce a dei rancidi vocaboli dei vocaboli nuovi affatto, inintelligibili, strani; si mostra superiore a tutte le regole della lingua toscana, e simile a Dante fraseggia come più gli torna. La nostra lingua gli è sembrata forse troppo fluida, e delicata per servirsene in una tragedia, e si è studiato a renderla dura, aspra, come la tedesca. Nel presentare il carattere di un tiranno non sempre lo sviluppa con molta felicità; e l'ascoltatore penerà sovente a persuadersi, che siano esistiti uomini così disumanati, come quelli delle tragedie del nostro Autore. Voltaire, più ch'altri conoscitore perfetto del cuore umano, nel presentarci i grandi scellerati, ce li ha dipinti con tutta la gradazione dei colori. I malvagi del Sig. Conte Alfieri si rassomigliano tutti fra loro, e sembrano una generazione tebana, nata dai denti del serpente, atta solo a trucidarsi scambievolmente senza senso di umanità. A fronte di questi difetti, che pur dovranno essere tali a giudizio di chiunque, quando si eccettui l'Autore, non saremo così ingiusti per defraudarlo di quella lode, che gli è dovuta, e che gli è stata rozzamente negata dal volgo dei nostri giornalisti. Egli è poeta pensatore, e i suoi dialoghi non sono un tessuto di sentimenti comuni, deboli, snervati, frivoli. Egli ragiona, mentre gli altri cinguettano, e i suoi pensieri sono sempre sublimi, e giusti; pregi assai valutabili in un poeta italiano. Le sue tragedie spirano il freddo terrore, ed egli non ha creduto di dover confettare, come dice un francese, il pugnale di Melpomene. L'intreccio è ben preparato, e condotto maestrevolmente, a riserva di alcune improprietà, che egli si è ostinato a improntare dai greci. In somma egli è il nostro Sachespear, con dei difetti, ma con un fare tutto originale, robusto, pieno di cose, non già di parole li (op. cit., pp. 17-8). Non sorprende quindi che nel 1797 anche il Foscolo tenesse conto di tutto ciò. Cosi che oltre a rari iperbati (atto 1, scena 11, :u-3: • [...] ed altri atroci/ delitti risparmiare a questa reggia/ contaminata ahi! troppo»; atto 1, scena 11, 202: • [•••] l'ancor piaga stillante li; atto 11, scena II, 103-4: a[•••] i stessi/ non vi son sacerdoti [•..] »; atto 111, scena 11, 155-6: •[...]era allora da profana ingombra/ fiamma[...]•; atto IV, POESIE scena III, 147-8: • [...] di pugno strappaile / il da lei tolto ferro [...] 11), ad ancor più rari casi di accusativo interno (atto v, scena 11, 1 s: •Parole parli di furor»), relativamente scarsi risultano i calchi di natura più propriamente grammaticale, cui l'Alfieri alludeva nel passo sopra citato della sua risposta al Calzabigi (atto 11, scena II, 76: «Pure' m'è forza»; atto 11, scena 1v, 156: «e tu tel vedi»; atto 111, scena 11,141: «Che vorrestù?»), di contro al massiccio impiego della dieresi, di chiara paternità alfi.eriana. E del resto nelle Notizie storico-critiche sul Tieste, fatte seguire alla tragedia nel citato tomo X del Teatro moderno applaudito ecc., cit., pp. 57-67, e di cui il Foscolo, contrariamente a quanto un tempo si sostenne, pare oggi affatto irresponsabile (su tutto ciò vedi Edizione Nazionale, II, pp. xv-xvi), rilevata la: «irruzione di spettatori per udire questa tragedia, irruzione che formar potrebbe epoca nella storia delle rappresentazioni teatrali» (op. cit., pp. 57-8), non solo era censurata l'inverosimiglianza dell'intreccio (op. cit., pp. 63-4), ma anche lo stile, e la sua affinità con quello alfieriano, era sottoposto a critica, alla luce di criteri così riassunti: • Intanto ricorderemo alla studiosa gioventù, che la cura primaria d'ogni scrittore, e principalmente del drammatico dev'essere la chiarezza, senza la quale non si ottiene il fine per cui si scrive, ch'è quello di essere intesi. I sentimenti e i pensieri energici e sublimi proprii della tragedia non compariranno mai se una facile elocuzione ad essi non corrisponde. Lo spirito tragico che si perde nell'aspro, nel contorto e nell'oscuro, cammina, ci sia permesso il dirlo, sui trampoli, e non più sul coturno» (op. cit., p. 62, nota 8). Metro: endecasillabi sciolti. 4 TIESTE * PERSONAGGI ATREO, re di Argo. TIESTE, suo fratello. lPPODAMIA, loro madre. EROPE UN FANCIULLETTO, figlio Idi Erope e di Tieste 1 GUARDIE che non parlano. La scena è in Argo. ATTO PRIMO SCENA I Sala reale. EROPE con un FANCIULLETTO a mano. ERO. D'empii rimorsi oggetto, infausto, caro pegno d,amor, de' miei delitti o negra, o spaventosa immago! ... Ohi vien [abbraciandolo]; pur veggo in te il conforto mio. Figlio, tu acerbo finor mi fosti, e forse ... Ahi! quanto acerbo s più mi sarai! - Ma già su te l'estreme lagrime spargo. - O notte, orrida notte di profanato amor! volgon cinqu,anni, che ad ogni istante a comparir mi torni da mie vergogne avvolta; e mi rinfacci 10 il violato talamo, la fiamma che accesero le furie, e che m'avvampa tuttor nel sen, mi rode, e viver fammi vita d'inferno. O figlio, o di Tieste sola e trista memoria, io t'amo, e sei 1s tu di me degno, e dell'infame casa in cui scorre tuttor sangue di padre. SCENA Il IPPODAMIA, e detti. IPP. Incauta! e a' suoi custodi il fanciulletto rapire osasti? e del furor d'Atreo non temi tu ? Qui di te vengo in traccia, qui a ritorti tuo figlio, ed altri atroci delitti risparmiare a questa reggia contaminata ahi I troppo. ERO. A me dal seno strappar mio figliol Ohi di Tieste è figlio 20 :,,. pegno d'amor: dell'amore di Tieste per Erope. 21. ritorti: ritoglierti, riprenderti. POESIE GIOVANILI (1797) questo e di Erope misera: non l'ira 25 del re tremenda, non di morte l'aspra minaccia rapiran da disperata madre l'unico pegno. [dopo breve silenzio, al Fanciulletto] Ahi vieni al fine: d'Atreo dalle spietate man ti svelsi, ma per morir; insiem scorrasi misto 30 il sangue nostro: a tante stragi queste s'aggiungan. Nero alto è delitto, il veggo; ma per noi necessario; ma dai numi decretato ed accetto. Io ... la ... tua ... vita .•. all'ombre inferne con la mia consacro. [impugnando un 35 ferro per uccidere il Fanci.ulletto]. IPP. [trattenendola] Forsennatal a me il ferro ... [le strappa il ferro e lo ripone] · Lutti, colpe non bastano oggimai? sazia non credi ancor l'ira del Ciel? ERO. Sangue mi grida il mio rimorso, sangue; e da me il chiede del padre mio l'ombra tradita. In questa 40 reggia lo vidi agonizzar: qui 'l nome proferl di Tieste, e i neri inganni svelò d'Atreo. - Son io men rea? Ti fui, padre, causa di mali, ed io fui mezzo d'iniquità: scritta è vendetta in cielo; 45 e il Ciel sazio non fia, s'io pria non pero. IPP. Qual da' tuoi detti feroce traluce disperazion? Tal non ti vidi io mai. MiseraI e qual colpa n'hai tu? Rapita del tuo Tieste dalle braccia, e indotta so dall'irritata ambizion del padre a' voleri d'Atreo, non soffocasti sin da quel giorno astretta a dover sacro, tue prime fiamme? ERO. Ahil di lusinga questi, 28. l',mico pegno: vedi il v. 2. 29. svelsi: strappai. 51. ambizion: vedi ALFIERI, Antigone, atto 111 scena u, 222: •Vittima a lui l'ambiz'ion addita•, e la nota introduttiva al Tieste, a p. 48. 52 POESIE di pietà troppa accenti son. Non vedi 5S a te dinanzi di Tieste un figlio, figlio di me, sposa ad Atreo? - Me lassaIÈ ver, dal di che Atreo ruppe que' nodi, ond'ei mi strinse con Tieste, e truce all'amor mio rapimmi, e l'infelice 60 fratel dannò 'n Micene, onde traesse oscuri giorni abbandonato e solo, è ver, di morte affanni, iniqui e incerti serrai contrasti nel mio sen: ma tutta ubbidienza al sire, amore, e fede 65 apparire tentai. - Che pro? più ardea di me Tieste: di Micene sua, tu il sai, lasciò l'esiglio: ansio, furente un giorno, innanzi ch'io giurassi all'ara qui .•. IPP. Istoria triste a che rinnovi ? Solo 70 quell'istante per lui, per te fatale per sempre ei fu: dalla gelosa possa del re fugato, d'ogni bene in bando vive. Fu il reo Tieste; e pena ahil troppa sottentrò al suo delitto. ERO. Al suol IPP. Delitto 75 n'hai forse tu? Tuo vano schermo apponsi a colpa? ERO. Al suo delitto! Error comune comun chiede gastigo: a lui più ch'altro, ferro oppor io dovea: non debil mano di debil donna. - E ben: io lo mertai 8o il supplizio, a cui corro, e 'l Ciel lo vuole. 61-2. onde ..• solo: vedi ALFIERI, Filippo, atto v, scena n, 101-2: •E fia pur ver, ch'infra tal gente io tragga/ gl'infelici miei di? [...] •; atto v, scena 111, 216: • trar disegnato avea miei di felici»; e vedi a p. 241 il sonetto Un dl, s'io non andrò sempre fuggendo, s(cr [ •••] or sol suo dl tardo traendo1 ), e la nota relativa. 68. ansia: dal latino anxius, 11 ansioso11 , 0 tormentato". 72. gelosa possa: 11 esclusivo potere", come in ALFIERI, Filippo, atto 11, scena 1v, 204: cte insidian più, quanto hai di me più possa». 76-7. Tuo ••• colpa1: la tua inutile difesa può esserti imputata a colpa? POESIE GIOVANILI (1797) 53 IPP. Ma il figlio tuo? ma un innocente? Oh numil qual è il delitto suo? ERO. Di colpa è questo frutto esecrando, e di colpa è rampogna. Ma oimèl non tu, figlio, sol io 85 la cagione, io ne son ... Pure morrommi; e in mezzo al duol te lascerò? Tu vivi, e ti segue ognor morte: Atreo non spira, che per sfamar sua rabbia in te: nel scorno benché tu nato, mi sei figlio, e merti 90 quella pietà che per me cerco. Invano e doni e pianti avrò d'aspri custodi a' piedi sparso? - No, s'io ti dischiusi dalla ferrea prigion, per morir teco ti schiusi; per morir ... IPP. A che tant'ira? 95 Qual n'hai ragion? D'Atreo, gli è ver, tu soffri dispregio sì, ma non a tal, che tanto ti spiri eccesso. ERO. Ippodamìa, nelPalma udisti mai rimorsi? Empia, abborrita passion t'agitò mai? Di madre i palpiti 100 troppo presaghi, che mio figlio un giorno vedrommi a' piedi straziar, e senza poter prestargli aita ? Ah! tu mal provi quanto mi lania e mi dispera. Oh truce pena del mio misfatto! Orror succede 105 a orror: veggo T1este egro rammingo per le terre non sue, squallido, solo gir strascinando una vita languente, de' suoi rimorsi preda: ora l'ascolto gemebondo invocar Cocito, e 'I giorno 110 maladir che mi vide: or mi s'affaccia 84. rampogna: ccrimprovero", come in ALFIERI, Filippo, atto u, scena IV, 187: • [...] la mortal rampogna•. 98. eccesso: "misfatto", come in ALFIERI, Filippo, atto 111, scena v, 78-9: •[...] al colmo / d'ogni più fero eccesso [...] ». 104. lania: dilania. 106. egro: dal latino aeger, uinfenno". 1 1o. invocar Cocito: invocare la morte. Cocito è un ramo dello Stige che sfocia nell'Acheronte; qui sta per Averno in genere. 54 POESIE ombra di morte, e con le mani scarne, colle livide braccia il crine, il petto afferrami, distrignemi, e mi grida AltAverno, alCAverno. -Ah! si, ti sieguo, 115 ombra amata ... IPP. Che di'? come! tu l'ami ancor? ERO. Io l'amo? ... Io lui? ... No: quando amai, sposa non era al re. Misera! Tace ogni dover, se si rialza amore dentro 'l mio petto. - Or ben; odilo: l'amo; IZO sì, l'amo: ah non l'amassi, o almen cotanto non l'abborrissi! ché s'io lo rammento, l'odio d'Atreo spaventami. Lo scaccio da' miei pensieri; ei la cagion di tutti i miei disastri, ei fu: ei mi sorprese; IZS ei violò di suo fratello il sacro talamo nuziale ... Ah! tutto, tutto io mi rimembro invano, e invan lo scaccio; eh'ei qual despota torna, e a' primi ardori, e ad altre colpe mi sospinge, ed io IJO fra gli attentati ondeggio e fra i rimorsi. IPP. Quanta mi fai pietà! Pur tu dovresti pietosa esser con me: poiché di grandi dolor causa mi fosti, e ancor lo sei, e d'esserlo pur brami? Ancor soppresso, IJS ancor non hai quell'ardore esecrando, alta cagion di rancor, di vergogna? Per te passo i miei di penosi, in grembo a' sospetti ed affanni. ERO. Odiami; degna sono dell'odio tuo: bersaglio femmi 140 de' suoi colpi il destino; odiami: io vivo per più penar; eseguirai mio fato. I 3I. attentati: tentativi colpevoli. I 37. alta cagion: 11grave ragione'', come in ALFIERI, Filippo, atto 11, scena 111 24: a alta cagion vuol ch'io t'appelli•; atto Ili, scena 11 4: «alta cagion mi vi stringea [...] •· POESIE GIOVANILI (1797) ss Ma ornai viver non posso: i numi, i numi col cenno lor mi spingono a' misfatti. Odi, e poi danna i miei trasporti crudi. 145 Mentre all1 orror di notte ululi, gemiti, e pianti diffondea su le passate sventure, su mio figlio, e su ... Tieste, ecco m'odo tuonar d'alto spavento voce, e di pianto intorno. A che ti stai? 150 grida: s'appressa l'ora, e ,l figlio tuo pasto sarà de' padri suoi. M'arretro: T'arma, ferisci,· vittima innocente fia cara al Cielo; schiverà delitti. E voce fu d1un dio: l'udii pur ora 155 nella gemente stanza rimbombar. IPP. D'accesa fantasia, figlia, son vote larve, che a' sensi tuoi tuo duol presenta ad angoscia maggior. Ma, e tu lor badi ? Sta in te, le scaccia. ERO. Oh! mal t'apponi. E come 16o che le scacci vuoi tu? Co' miei rimorsi deggion esse svanir; co' miei rimorsi mi seguiran perfino entro il sepolcro. Pace una volta, pace. - Io non lo merto perdon, né il chieggo: ma perché d'Atreo 165 non scoppia il sanguinoso rancor cupo a giusta pena? A che mi serba? - Ahi! forse all'inteso presagio. IPP. E che? d'Atreo qual mai tema n'hai più? ERO. Non è ancor caldo il ferro, ond'ei sotto amistà mi spense 170 il genitor? non odi aspre parole di menzogna e rimbrotto? irati sguardi non vedi in fiel cospersi? •.. Obbrobrioso 150. A che ti stai?: perch~ indugi? E vedi a p. z48 il sonetto Che stai1 già il secol l'orma ultima lascia, 1, e la nota relativa. 160. ,nal t'apponi: ti inganni. 168. all'inteso presagio: vedi i vv. 150-4. 170. sotto amistà: fingendo amicizia. 173. fiel: veleno. POESIE ripudio ?... atre rattenute minacce? .•. il suo cor ? . . . tutto, tutto ? IPP. I tuoi timori fanti veder più che non è. Ma, il credi, altri oggimai pensier ... ERO. E quai pensieri, tranne quei di vendetta? Io non mi lagno di sue rampogne; giuste son, le fuggo, ed a tacite lagrime le sconto. Ma a che di questo misero, di questo innocente fanciul, figlio, che un giorno odierà i suoi natali, i giorni in fosca prigion rinserra? A che mai farne ? Il credi: lppodamìa, fuor che di sangue, Atreo altro non ha pensier. IPP. Madre gli sono, né vuoi ch'io lo conosca? A fondo io leggo, Erope, nel suo cor. T'accerta, ad altro, che a nuovi eccessi, ei pensa. Il pargoletto troppo rileva custodire: ei l'ama, ché di Pelope in lui pur scorre il sangue. Discaccia alfine i tuoi sospetti, e, il credi: pur ei saggio previde. In Argo è sparsa fama, che di Tieste •.. ERO. E dove mai non s'udi il mio delitto ? IPP. Or statti, e m'odi. Temer del vulgo i detti a un re conviensi, e cercar di sopirli. Egli l'oggetto al vulgo cela, onde copra silenzio lo scorno de' Pelopidi, ed il tempo ogni memoria ne cancelli. Intanto questo fanciullo al carcere si renda, onde d'Atreo l'ancor piaga stillante non s'inacerbì, e non inferocisca contro Tieste, e contro noi. 175 18o 190 195 zoo 181. a che: perché. 190. rileva: importa. 191. Pelope: padre di Tieste e di Atreo. 193. saggio: saggiamente. POESIE GIOVANILI (1797) ERO. Ben parli. Ma tu, qual io, sei madre ? IPP. Oh che di' mai? Non son io madre? e madre sommi, e sono preda anch'io di sventura: io vissi, e, lassaI ahiI troppo vissi, se veder dovea morti nefande, ed odii ed ire e guerre 51 nella casa paterna. Io di Enomao 210 prole infelice, a Pelope consorte, io madre, e madre di discordi figli, cui di rabbia nefaria impeto tragge a sbranarsi fra lor, io sventurata, qual te, non sono? E soffrirò che sparso 215 d'innocente nipote il sangue sia? No, tel giuro, non mai: per questo petto pria de' il brando passar: vivrà tuo figlio, sgombra il timor, vivrà. Deh! a me l'affida; tutta la cura a me ne lascia. ERO. - Or prendi. 220 Ma ... oh dioI••• deh ••. deh mi lascia ... Almeno, o madre, seco lui fuggirò ... Romita, ancella, purché sia con mio figlio ... Ah lascia. - E dove? Dove tu il condurresti! ... Atreo! ... di troppo ti fidi tu ... No, no ... lungi da questa 225 reggia di sangue io me n'andrò ... Ma il figlio, il figlio meco, e poi morir. - Si ... morte quanto più cara assail ... morte; si, morte. [s'abbandona disperata sopra il Fanciulletto] IPP. Scena di lutto! Oh! figlia, Erope, al fine calmati; attendi del tuo fato i cenni: 230 tal si de' a' sventurati. ERO. I cenni e 'l fato sono di morte, e morte voglio. IPP. Indarno dunque fia ch'io ti prieghiI Il figlio tuo l'avrai, ti rassicura: ahi soffri ancora per poco; il rendi a' suoi custodi; Atreo mal soffrirebbe che degli ordin suoi 235 58 POESIB si violasse il menomo: di lui a' piè mi prostrerò ; bagnar di pianti mi vedrai le sue man; preci, scongiuri per te non fia ch'io mai risparmi; il sire 240 si piegherà, lo spero; il figlio allora renderatti spontaneo. - E, chi sai ... forse, chi sai umano ha core; a lui ti mostra più sommessa, men trista; i di tranquilli rendratti forse dopo dolor tanto. - 245 ERO. Sì, l'abbandono a te: [abbandona il Fanciu~letto a lppodamia] d'altri delitti, se fieno i suoi ed i miei di cagione, colpa non io n'avrò, ma tu: lo grido, e lo protesto a' numi. [parte] SCENA lii IPPODAMIA, il FANCIULLETTO IPP. E a' numi eterni questo fanciul, quella misera donna 250 in cura io porgo. Di terror, di sangue irrequieti omai gli anni trascorsero fra queste mura; ed io, madre infelice, altro non ho che il pianto ... Il Ciel non cessa di punire le colpe: orrida pena 255 della colpa di Tantalo, tu incalzi, e piaghe a piaghe aggiungi, e truci a truci opre. - Ma alfin temp'è che ceda il giusto sdegno vendicator: no, tanti affanni non allettano i numi : in cor mel dice z6o credula speme, fia che rieda pace. [parte col Fanciulletto] FINE DELL'ATTO PRIMO 237. menomo: vedi ALFIERI, Filippo, atto 11, scena IV, 229-30: •Padre, e fia che a delitto in me si ascriva / ogni mia menom'opra? [•..] •· 253-4. ed io .•. pianto: vedi a p. 237 il sonetto NI più mai toccherò le sacre sponde, 12 («Tu non altro che il canto [••.] •), e la nota relativa. 256. Tantalo: figlio di Giove e dell'oceanina Plute, re della Lidia, imbandl agli dèi le carni del figlio Pelope, venendo per ciò condannato al noto supplizio. ATTO SECONDO SCENA I TIESTE Queseè l'empia magion: io la riveggo colmo d'ira e terrore ... Erope ... è spenta; e tardi io giunsi. - Qui me forse pianse; qui forse cadde, e qui spirò ... Ma ascolto rumor: chi giunge mai? Fuggiamlo. È donna. Fosse mia madre! - Dessa. SCENA II IPPODAMIA, e detto. TIE. Oh madre, madre ... IPP. Oh! ... Tieste! ... se' tu? TIE. Che fai? di? vive Erope? IPP. Erope? lassa! TIE. Basta: intesi. Erope è morta. IPP. Noi ... TIE. IPP. e ... Vive? • Si, vive; s TIE. Oh gioia! oh mio timor falso! - Noi credo: 10 troppa hai di me pietà ... spiegami il vero, madre, ten prego ... Non temer ... IPP. Tel dissi: Erope vive. TIE. • •• Ma morrà ... dehI prima ... IPP. Vaneggi, figlio, tu ? TIB. Ma tu mel celi: il so pur troppo, il so. Fcroce Atreo dannolla a morte. IPP. Chi tel disse? TIE. Argivo uom mel disse a Micene. 15 6o IPP. POESIE E falsa nuova egli ti disse; non è ver: ché Atreo ciò nemmen sei pensò. TIE. Pure giurommi. Ma non perciò del mio venir mi pento. IPP. E qual folle pensier pasci ... Tieste? ... Come osasti venir? TIE. Erope mia a liberare, od a morir. Or volge ornai il quint'anno, che esule m'aggiro per le greche contrade, e con mentito nome traggo i miei giorni; e spargo pianti dovunque io passo; e di gemiti e strida empio gli ospiti alberghi. Erope sempre m'insegue; ed io? ... Me misero! Rivolgo contro il mio petto il ferro; ella s'affaccia, e lo ritorce, e par mi dica: un solo avel ci accolga: e l'acciaro di mano mi strappa, e fugge. - La soave idea di rivederla mi trattenne, oh quante volte sul margo della tomba, in punto che già volea precipitarmi! Al fine mendico e oscuro mi ritrassi in Delfo, vivendo in pianto. IPP. In Delfol O figliuol miol E qual Dio ti salvò? Tese t'avea il re insidie di morte. TIE. E men'avvidi: e i duo che d'Argo erano giunti, e tanto amici al sir di Delfo, io paventai. Fuggii; giunsi in Micene; indi cacciommi Pliste cognato al re. Scornato, afflitto, abbandonato, senza fida e cara sposa d'amore e affettuosa madre volli tentar gli estremi ... Avea già il piede volto ver Argo ... allor che Agacle argivo 20 25 30 35 40 45 26. traggo ... giorni: vedi a p. 52 atto 1, 61-2, nota. 35. margo: dal latino margo, "margine". POESIE GIOVANILI (1797) 61 d'Erope sparse l'imminente morte. E qui venni, e qui corsi, Erope mia so a liberare, od a morir. IPP. Mal festi: ch'è in suo proposto Atreo fiero, tremendo, inesorabil, duro: ira l'avvampa contro di te; noi disse, è ver; gran tempo è eh'ei non parla di vendetta; eppure 55 tremo ... Egli cova atri pensier: tu, figlio, fuggi, se cara è a te la mia, la vita d'Erope e di te stesso. TIE. Invan scongiuri: è ornai tutto risolto. Entrar le porte d'Argo, troppo costava: or sonci, e-mai 6o non fuggirò, se pria meco non viene Erope, o se con lei non vommi a morte. l\1a tu mi di: madre mi sei, qual fosti un giorno a me? tu m'ami? o sei d'Atreo più schiava assai che genitrice? ... schietta 65 dillo; non simular: ché non è nuovo cessar d'amare i sventurati. IPP. E il chiedi? Testimonii gl'iddii, che tanto acerbi or son con noi, de' miei sospir, del pianto furon essi dal di che tu volgesti 70 infausto il piè dalle paterne case. S'io ti son madre? Ahi il tuo sospetto estingui, e in me ravvisa Ippodamìa, la mesta, la sciagurata madre tua. Te chiamo nelle vegliate notti, e di te piango 75 con Erope tuttor. Pur e' m'è forza tremar, se a me veggioti appresso; io scelgo 49. sparse: diffuse la notizia. 56. atri: funesti. 59. Entrar le porte: il TOMMASEO-BELLINI registra: • Usato attivamente alla maniera latina; nel propr. e nel fig. Dant. Volg. Sai. 3 (M) Con tradimenti e con occulti inganni Pensava tutto dl d'entrar le porte. Vit. Col. Rien:r. lib. I (M) Entrò la porta della città ecc. •· 62 POESIE pianger senza di te, che strazio e morte vederti. - Io ti son madre, e le mie cure siegui. Fuggi di qui: va dove i passi So ed i fati ti portano. TIE. Tel dissi: io di qui non m'andrò. D'Atreo alle folte spade, ed ai sgherri di real possanza petto opporrò magnanimo. M'è sacra morte pria vendicata, e m'è soave 85 spirar su gli occhi d'Erope, ed in seno a te, mia madre. - Ma qui assai parlammo. Benché sott'altre vesti, io temo forte, che alcun mi scopra: or tu celami, e allora vedrò, che m'ami, e che sei madre in vero. IPP. (Numil che m'inspirate?) TIE. I tuoi ritardi esser ponmi funesti: un certo asilo m'addita, e vien con Erope. IPP. O mio figlio! Dehl lascia questa dolorosa calma a due donne infelici. Erope appena 95 teco sorpresa fu, vile ripudio ebbe dal sire, benché un dì soltanto delle nozze mancasse al giuramento. Altro le avvenne ... Ma l'istante e 'l luogo questi non sono: andiam ... Vedi: del tempio 100 è l'atrio quello: ivi t'ascondi, e sta. Null'uom vedratti; ché null'uom v'ardisce di penetrar. Sino a domani i stessi non vi son sacerdoti; all'alba fuggi. Ahi se pur sa che ivi tu se', da Atreo 105 rispettata non fia l'ara de' numi. Vanne ... se n'esci, sei perduto. TIE. Madre, veder Erope almen . . . [parte] 86. su gli occhi: sotto lo sguardo. POESIE GIOVANILI (1797) SCENA lii IPPODAMIA Che sarà mai? Crudeli figli! Or misera ben veggio, che dura cosa è l'esser madrel -All'uno s'io discopro il fratel, benché ei si finga, più non vive Tieste. - E se ... inasprito l'altro da' mali suoi, potrebbe il brando contro il fratel ... Già parmi orrido scorgere alto presagio! Qual ne sia l'evento con mia morte l'aspetto: ed or? ... Ma Atreo viensi, e minaccia. Ah minacciasse indarno! SCENA IV ATREO seguito da una GUARDIA che resta nel fondo, e detta. IPP. Figlio, qual nube d'oscuri pensieri ti siede in fronte! Ahi ti serena omai; no 115 ed una madre, che suoi giorni visse 120 sl gran tempo infelici, afflitti e rei, dehl una volta rallegra. ATR. Alte cagioni pensieroso mi fanno: io cinto e avvolto sommi da mille ognor: pur sol mi resto. E se il consiglio mio, se il braccio e 'l petto 125 mio non oppongon schermo, o madre, il trono vacillerammi. IPP. Infausto è il regno; e infausto più, se temuto è il re. Di schiavi e vili tu se' accerchiato; ognun t'adora, e sorte t'arride amica. Ma se' pago? - Tremi, 130 diffidi; e a dritto. Traditori, un giorno ti porranno le mani entro le chiome; · 121. rei: vedi a p. 223 il sonetto Meritamente, però ch'io potei, 7-8 (1[.. .] ove or meni sì rei, / me sospirando, i tuoi giorni fiorenti 11), e la nota relativa. 122. Alte cagioni: vedi a p. 54 atto 1, 137, e la nota relativa. 64 POESIE strapperanti il diadema, e riporranlo ad altri in capo. - Pur .•. se d'un fratello l'amor qui fosse .•. di temer sl grande 135 uopo, Atreo, non avresti. ATR. E di qual mai fratello parli, o donna? Infame stirpe fatta è la nostra. Or ciò sol pensa, e taci. IPP. Tuo sdegno è giusto; e del suo error Tieste la pena sconta ..• ATR. Errore! IPP. Alma bollente, 140 giovane etade, e di vendetta brama a' delitti strascinano! Rapito gli hai regno tu, rapita sposa, e in bando cacciato: or questo a mitigar non basta delitto forse? ATR. Spaventoso, orrendo, 145 non più inteso misfatto, avvi ragione che mitigar possa giammai? IPP. Ben alta pena portonne, e portaneI Rammingo, abborrito da' suoi, da' rii pensieri ognor seguito, ei mena gli anni; e forse 150 per inospite selve e per dirupi, senza fossa di morte, disperato di sua man li troncb. ATR. Ben ciò rammento io pur; e in core di furor tremendo le vampe spegne mia pietà fraterna: 155 e tu tel vedi. Ha un lustro, ed io non mai vendetta volli; eppur potea: svenati Erope, e il figlio della colpa, a brani potea vederli, e contentarmi almeno per qualche istante. - Ma son io Tieste? - 16o Or tu pon modo a femminil lamento, 150. mena gli anni: vedi la nota al v. 121. 161. pon modo: raffrena. POESIE GIOVANILI (1797) 65 che mal s'addice a te reina: offusca ciò l'onor nostro; e alcun conforto traggi dal saper ch'egli vive; io te l'attesto; ei vive: e chi sa forse, all'amor primo 165 d'Erope fida. IPP. Ahl mal conosci il core di quella donna sventurata. Orrendi sono suoi mali; e tu n'aggiungi orrendi. Misera! Tal, tu ben lo sai, non era dell'imeneo dinanzi i giorni; in lei 170 sol virtù risplendea: terrore or tutta l'anima le circonda. Or freme e piange, or chiama morte, e innorridisce. I tanti rimorsi suoi segno ci dan che nata a' misfatti non è. - Fato la trasse, 175 ond'essere infelice. ATR. E come vuoi, ch'io le ferree del fato leggi rompa? Per me, felice ella pur sia. Che deggio far a suo pro? - Sposa la volli; e sposa d'altri si fe9. Rinnovellar dovrei 18o con donna infame incorrisposto amore? Tant'io non soffro. IPP. E tanto Erope mesta da te non vuol. Ultima grazia, e sola, Atreo, ti chiede: il suo misero figlio. ATR. E del fanciullo a te ragione, o madre, 185 chieder men venni. Le sedotte guardie (che sotto scure lor pietà scontaro) pria di morir, agl'infernali lddii giurar che, non ha guarì, Erope ansante, pallida in volto, disperse le chiome, 190 pregò, pianse, donò. Vinti i custodi schiuser le porte alla furente donna. Or dì: questa è la fede? E tanto abusa di mia pazienza? e si rispettan tanto i voleri d'Atreo? IPP. Più consigliata 195 5 66 POESIE a sua carcere il rese. Oh se sapessi, quanto è il dolor di madre, e com'è dolce fra le sventure contemplare un figliol ATR. Se altrui lo celo, ella sel perde? IPP. Nulla di ciò non ode; una parola sola 200 gemendo sempre a mie ragion risponde: Il figlio! ATR. Guardia, Erope a me. [la Guardia parte] Secura faranla in breve i miei consigli, spero; ove non basti, i miei comandi. IPP. Inulte non vanno in ciel le colpe; e i numi sono 205 del male, e del ben memori: punirci a loro spetta. Ah! se a lor pene aggiungi, che pur son tante, i tuoi gastighi, lassal che fia di quella dolorosa donna? Vedila come i suoi passi strascina 210 pallida, muta; e di sua colpa ha in viso l'orror. ATR. A sue querele altre più tristi dehl non v'aggiunger, madre. SCENA V EROPE, preceduta dalla GUARDIA che resta nel fondo, ATREO, IPPODAMIA ATR. [ad Erope] A che mi fuggi? Fuggirti io sol dovrei: cagion non veggo in me d'orrore, onde ribrezzo tanto 215 Atreo t'infonda: e tu m'abborri? ERO. Abborro me stessa; abborro di mia vita i giorni perseguitati. Or che vuoi tu ? Qual cura me, rado, o mai chiamata, or mi ti chiama ?- 204. Inulte: invendicate. 213. A che: perché. POESIE GIOVANILI (1797) A tutto presta io vengo; ordin di morte attendo; e a me più dolce fia, che starmi al tuo cospetto. ATR. E sl crudel sarommi, che alla gentile un dl mia sposa, or d'altri, porger io voglia acerba morte? Eppure l'avrei dovuto; ma se con Ti'.este comune ho il sangue, non però comuni ho colpe ed alma. ERO. Io ti recai di colpa dote e di pianto; io le funeree furie al tuo letto invitai; ti posi in pugno ferro uccisor del padre mio. - Ti'.este a torto incolpi; ei non è reo; tu il festi; e la cagion io sol ne fui: me dunque danna al supplizio meritato, sola, me sola. ATR. Audaci nuovi detti ascolto, donna; dacché più non ti vidi, oh come ratto di colpa la baldanza hai presol IVIa al tuo signor dinanti stai; raffrena dunque tuo dire; dall'oprar tuo forse esser dissimil puote ? A garrir teco qui non ti chiesi: alto si dee rimbrotto a te, ma il taccio; e mite oprando, mite teco i' favello; or tu rispondi. In Argo sai tu chi regna? sai ch'è il regio cenno santo ? sai tu chi sei? - Taci? ben io dirollo. Il re son io. Tu ... ma che dico che tu non sappia? Ove apprendesti dunque te a frapporre a' miei cenni? e il figlio torti contro il divieto mio? Qual mai t'indusse pensiero a ciò? ERO. Tu il chiedi? A ciò m'indusse 220 225 230 235 2.10 245 pensier di morte ... O che dich'iol - Son madre: 250 e mia discolpa è questa. 220. presta: pronta. 239. ga"ir: "contendere"; e vedi a p. 46 la nota introduttiva al Tieste. 240. chiesi: invitai. 68 POESIE ATR. A vera e dritta madre di prole non orribil, sacra questa fora discolpa: altra più forte ben per te vuolsi a violar mie leggi; leggi di re. - Pure di te men prende 255 pietà; quantunque me tiran tu nomi; ed io, tiranno, ti do pena, e pena sia mia clemenza, e lo spavento, e l'onta, che hai di te stessa tu. - Duolmi, che pianto mi veggia intorno, e che materne m'oda 26o sonar querele, e ciò pel figlio: io quindi dareilo pronto, ove temprar potessi cotanta angoscia, e del regale nome assicurar la maestà: ma impresa è malagevol questa, e non concorda 265 ragion di stato a imbelle affetto. ERO. Pera tutto, mio figlio: altra non so ragione intender io. IPP. [ad Atreo] Qual tu l'attesti, m'ami? Or danne pruova, e me conforta, e dona alla madre il fanciullo. ATR. Mal tu libri 270 quanto mi chiedi; a pochi ei noto, pochi sanno del par da qual delitto impuro, inumano, incredibile egli nacque. Or perché vuoi ch'io gliel conceda? In Argo saria non sol tal scelleragin sparsa, 275 ma il regno, e Grecia tutta, e l'universo di tanta reità risonerebbe. E perché ciò ?-T'arrendi, o donna, e pensa che altre aspettano sorti il figliuol tuo, tranne quelle d'obbrobrio. ERO. Il figlio, il figlio, 28o Atreo, mi schiudi, e ogni obbrobrio mi siegua. Che altro debbo aspettar? ATR. Perduto e infranto 270. libri: soppesi. POESIE GIOVANILI (1797) ogni rossor, fama ed onor calpesti. Non io così: se I'abbominio sei 69 di te stessa e degli altri, a me non lice z8s seguirti. [parte, seguito dalla Guardia] ERO. E sl mi dai quel figlio, o crudo, che blandamente con pretesti accorti mi promettevi? IPP. Il forte è saggio! Andianne. [parte con Erope] FINE DELL'ATTO SECONDO ATTO TERZO SCENA I Notte. La sala è illuminata da alcune lampade. EROPE, IPPODAMIA ERO. Ove mi traggi? IPP. Or tutto tace: amiche stan le tenebre su la muta reggia; .vien ... ERO. Qual misteroI IPP. Alta è la notte; alcuno qui non avvi, che n'oda e che ne scorga; vien meco. ERO. E dove? IPP. ERO. IPP. ERO. IPP. ERO. IPP. ERO. Ove pietà comune ci chiama entrambe; or ti fa forza, e forza salda, sublime, quanta in cor ti senti: ed io pur ferma sto; benché vacilli mia afflitta debil anima. - Grand'opra compir dei tu. Qual opra mi s'addice non dolorosaI No ... lasciami: sacra è la notte al mio affanno; e questa è notte ... ultima. E stringe il tempo: affretta. È arcano inesplicabil questo? Ove noi spieghi, io non ti sieguo; no. Dunque l'intendi, e ti prepara ... Ma ... se il sai, fia vano: meglio il saprai tu stessa. Ippodamìa, libera parla, o mi ritraggo. Ahi penai O figlio, figlio a che m'adducil - Siegui. s IO POESIE GIOVANILI (1797) Tu di figlio, che mormoriI IPP. Del figlio, che più non veggo, i' parlo. Amor di madre! ERO. E del mio figlio nulla di' tu? nulla? Fingasi Atreo, ché mal meco s'infinge. IPP. Placati ... il duol troppo ti pinge Atreo perfido . . . forse ... ERO. Tu da me il rapisti, e da te voglio il figlio. IPP. Altre feroci cure tu pasci ? Io no: col figliuol mio feroce ? Ah! il fui! donna spietata! IPP. Cessa ... Tieste ... Oh stato! ERO. - E se spietato Atreo sarà più teco, o figlio? ... 71 20 2s IPP. Ornai tant'ira 30 spenta è dal tempo; così spento fosse di Tieste l'ardore. ERO. E chi mi nomi? Come tu sai, ch'ei m'ama? ... amarmi? ... Ei m'odia, com'io pur l'odio. - Io l'odio? - Ah! no: ma taci. Basti sin qui; non mi turbar nell'alma 35 gli affetti che sopir tento. IPP. Se in Argo? ... ERO. Oh ciel! Tiestel E dov'è mai? Che il veggia; ma per l'ultima volta: ov'è? Ma no ... fugga, dehl fugga: tema Atreo: più tema l'orrore ond1 io lo miro. -Ahi che vaneggio? 40 Di: che dicesti? Non è ver: tu d'altro parli; ti spiega. IPP. Sì, Tieste è in Argo. ERO. O cieli dove m'ascondo? IPP. Ahi se può almeno in lui tua voce, or tu l'adopra; ei ratto questo luogo abbandoni. ERO. È qui! 72 POESIE IPP. S'asconde 45 là nell'atrio del tempio: errar lo vidi testé là intorno, e fremendo guatava d'Atreo le soglie: O figliuol mio ritratti, dissi: Risolsi; ei mi riprese: e il capo crollò, e partissi, ripetendo il nome so d'Erope. - Or mira qual su noi sovrasta periglio, e qual su lui! ERO. Ch'altro n'attende più che morte? rnoriam. IPP. Figlia, deh! cedi, e ten prego piangendo: io qui a tant'opra traeati; or tu la compi: un solo istante ss tutto decide; le reali guardie vegliano ovunque, e mal sicuro in questo unico asilo vive; ei fermo giura di non partir senza vederti; e intanto passano l'ore e 'l pericolo avanza. 6o Altro non avvi, che condurlo in questa remota sala; non sperar d'altronde; credi, non v'ha riparo. ERO. lo? - No ... ricuso di rivederlo; troppo ahimèI in periglio ei fora allor. - Chi sa? ... No, non vedrollo; 65 voli subito d'Argo. IPP. O tu crudeleI Egli è mio figlio; a me salvar tu il puoi, e da te il chieggio. ERO. Del mio cor non basta lo strazio, o numiI IPP. Io ... si, dirogli ... Oh dio! [parte] ERO. lo rivedrollo ? ei partirà? - DehI fugga. 70 E dove? ... Atreo ... Tieste ..• - Oh mia smarrita virtùI [resta per brevi istanti in silenzio] POESIE GIOVANILI (1797) 73 SCENA Il IPPODAMIA, seguita da TIESTE, EROPE TIE. Qual vista! Erope miaI La veggo; al fin la veggo . . . Erope. ERO. Incauto, fuggi lungi da me. TIE. Dunque perigli e morte avrò affrontato, onde da te si acerbo 75 guiderdone ottener! ERO. E ben, Tieste, a che venisti ? Se tu a darmi morte vieni, t'arma, m'uccidi: altro non posso guiderdone a te dar che la mia vita. TIE. Io sì morte ti venni a dar, ma morte 8o a mercarmi con te; teco trascorsi i di felici, e teco i più infelici trascorrer bramo. Tu se' mia: ti strinse meco il voler d'Atreo: strinsero i numi i nostri nodi ... E ov'è la mutua fede? 8s Ove i spontanei giuramenti ? Infranse tutto il livor del re. Sua sposa a torto da me svelta ti volle. - VolleI Ah! tu nol fosti mai; no. Frapponeasi un giorno perché dinanzi ai dei saldo t'unisse 90 esecrabile nodo; io lo prevenni, e mia fosti per sempre: e pria ch'ei t'abbia, perderà l'alma. IPP. O core! E qual rivolgi altr'opra in mente più sanguigna? Io madre sonti; ma son del par madre ad Atreo. 9S Ed osi proferir tu del fratello lo scempio macchinato? e d'un mio figlio sp·argere il sangue? E non paventi in dirlo una folgor celeste? e non rispetti quel duol che tu sol mi cagioni? TIE. Eh, dimmi, 100 76. guiderdone: ricompensa. 94. sanguigna: sanguinosa. 74 POESIE testé non antevidi che il materno tuo amor non merto? - Sventurato io sono. IPP. Nol merti, no : ma sol le tue sventure fan ch'io m'acciechi, e che tel renda. -A tanto non m'accecan però, ch'io t'abbandoni 105 al disperato furor tuo. ERO. Tieste, troppe abbiam noi cagion di lai, di angosce; né venirle ad accrescere: ten prego, non aspreggiarle d'avvantaggio. I casi del tuo delitto segui, e se infelice JIO tu se', no, non temer, non invidiarmi: più di te lo son io. TIE. Crudel! non venni onde tiranneggiar l'alma tua afflitta; a liberarti io venni; e i numi io chiamo (se in questa reggia di delitti i numi 115 presiedono tuttor) che avrei sofferto mie pene, sol certo foss'io che vivi in pace almeno. ERO. In pace! ... Or tu tel vedi. Ma se a peggior non mi desii, mi lascia; me lascia in preda al mio dolor; me al giusto 120 sdegno d'Atreo; me di me stessa all'odio; me alla difesa di quel figlio ... TIE. Figlio! Come ? figliol di chi ? ERO. Tuo figlio e mio. TIE. Numi! ERO. Non ti stupir. Dall'atra notte di sventurato amor, poiché fuggisti 125 dalla possa d'Atreo, grav'ebbi il fianco d'un frutto più infelice: ei nacque, e cadde in man del re, senza che il latte possa succhiar bambin d'un'odiata madre. TIE. Ed il feroce Atreo ? IPP. Si ; ei veglia ancora 130 109. aspreggiarle d'avvantaggio: inasprirle di più. POESIE GIOVANILI (1797) 7S su lui; ma che perciò? Cagion non avvi poi di temer. ERO. Ippodamìa, scordasti quel momento terribile, che vide il figlio pargoletto ? Ei fra le braccia forte serrollo: ei gridò si, che ancora 135 nell'alma mi ripiomba il truce grido. Te, sì, te sol testimone esecrando dell'onte mie vedrò compiere un giorno le mie vendette. IPP. Alta minaccia in fatto! Ma riguardar conviensi anco suo tempo. 140 Che vorrestù? Che egual smania e livore l'occupi da quel dì! Quattr'anni, o figlia, quant'han possanza in uom! TIE. Troppo t'avvolge amor pel rio fratel: quindi mal vedi tu i suoi pensier. IPP. (Troppo li veggo!) ERO. [a Tieste] Ornai 145 che più si sta? Già mie sciagure udisti; fuggi, e ne godi. TIE. Cessa al fin tue amare rampogne, cessa; partirò: ma dimmi: i giuramenti ... m'ami? ... ti rimembra? ERO. Ciò per te non rileva: or vatti; ad altro, 150 che a tal, pensar tu dei: per te non sommi io più, né tu per me. TIE. Come! non sei ornai quella di pria? ERO. Debite e vile rimorsi non sentia, quali nel petto sento; era allora da profana ingombra ISS fiamma; da orrore or son. Tieste, è questa la differenza. Addio. [in atto di partire] TIE. Fermati .•. il figlio ... 146. che pi,, si sta?: perché indugiare oltre? E vedi a p. 55 atto I, 150, e a nota relativa. 76 POESIE ERO. Il figlio? Atreo sei tien: lo disserrai, pria che annottasse; e immergere volea ... (l'intendi, e fremi e abborri ed abbandona 16o questa barbara madre) insanguinarmi ... volea la man nel suo seno innocente. [dopo un breve silenzio] Ahi fuggi, fuggi, o mi trafiggi. - Scegli. [come sopra] Frappoco, sì, morrommi, e d'ogni intorno starotti ombra d'orrore: in mezzo a' cupi 165 più deserti recessi io seguirotti. Là tronca i giorni tuoi, là seppellisci una trista memoria, e là confina il vituperio delle genti. - Ancora per poco ... il figliuol mio; sol quello ... e poi . . . 170 o mio tenero figlio! O sangue mioI Te svenato volea ... non io, non io; voleanlo i numi. Misero! tu appena vedesti il giorno, e sciagurato, e tinto del delitto materno, in carcer tetra chiuso mi fosti sempre. Ohi se sapessi quel che un giorno saprai; se tu sapessi, come odierai la tua madre infelice che ti fe' nascer nell'obbrobrio ... adesso [come sopra] 175 morte vorresti ... ed io vorrei spirando 18o raccor l'ultimo tuo fiato innocente. - [a Ippodamia] Deh! perché tu non mi lasciasti i giorni e le sciagure al figliuol mio con questa man mia troncar? Fuor di periglio or ci fora con me, ch'ei sol trattiemmi il ferro, 185 che pace a me daria: vedi che avvenne per tua troppa pietà! Ma invan ten penti. TIE. Il figlio mio, sì, il figlio a me nel seno dehl perché a me non dassi ? Almeno io possa baciandolo morir: comun vendetta, 190 Erope, allora ci farein. - Con lui, con lui, e fia da noi tutto sfidato il furore d'Atreo. - [si trae un /erro] 169. il...genti: vedi DANTE, In/., XXXIII, 79: a Ahi Pisa, vituperio de le genti•. POESIE GIOVANILI (l 797) Vedi tu questo ferro di morte? Mentre noi morremo per nostra man, il dolce figliuol nostro stringendo insieme, spirerem felici. De' delitti che medita colui non vedrà il fine, no: vedrà piuttosto l'amor nostro finir nemmen con morte. - 77 195 Ma tu non mi negar l'estremo, il solo 200 che m'avanza conforto: dì se m'ami; indi mi svena; eccoti il petto, il ferro. ERO. Tu il vuoi, mel porgi; [prende il ferro] e da me ascolta al fine TIE. ERO. TIE. ERO. TIE. IPP. TIE. confession di lagrime ... Si, t'amo con ribrezzo e rancor; de' miei delitti il più enorme è l'amarti, e il non poterti odiar per sempre. - Ah potess'io, che il voglio, altrettanto abborrirti ... ma non posso. Quel punto, in cui giuraiti fé, mi torna ognora in mente, e m'atterrisce ... È scritto nell'averno ogni accento, e nel mio petto ripetendo si va .•. Pur ... t'amo ... io t'amo. Ma a che venisti mai? fuggiti, va. O infernale voragine, spalancati; sorgete, furie! Voi mi strascinate lungi da questa terra: io no, non volgo orma senza di voi. [accostandosi il ferro al petto] Vanne, o m'uccido. Ti diedi io il ferro ... ma ... me sol ... Vibro ... [come sopra] Sì, vo. Che stai? Trattienti; or no, ché incauto senno fora il fuggir: ferrate stanno le porte d'Argo: albeggerà; t'andrai, e ratto più, e con men rischio. E il ferro? •.. 218. Che stai?: vedi il v. 146. 205 210 215 220 78 POESIE ERO. A sant'opra io lo serbo. TIE. Esule, inerme fuggirò dunque? ERO. E fuggi? TIE. Il giuro. ERO. [dandogli il ferro] Or l'abbi. IPP. T'ascondi intanto in quell'asilo. TIE. • •• Addio. [parte] SCENA III EROPE, IPPODAMIA ERO. Ei fugge! ... IPP. Ahi tutto è pianto! ERO. A me non altro resta, che pianto e morte. Oimè, ch'io sento, che più non so resistere ... che l'amo. E da me intanto il scaccio! - Iniqua donna, l'adori ancora? IPP. [osservando] Il re s'avanza. Ahil forse svelato è tutto ... va. ERO. T'adopra ... esplora. [parte] IPP. Terrore sol innanzi stammi, e lutto. Che fial SCENA IV ATREO, IPPODAMIA ATR. Qual cura or qui ti mena, in queste ore tarde di notte? IPP. A pianger venni ... libera ... a pianger: né delitto è il pianto credo. - Ma tu? pur vegli. ATR. Il re non dorme; s'ei non vegliasse, guai! Disturb~tore suon di pianto qui trassemi. IPP. Gemea 226-7. A me • •• morte: vedi a p. 58 atto 1, 253-4, e la nota relativa. 230 235 POESIE GIOVANILI (1797) 79 da ogni uom qui lungi; e in questa reggia pure gemer di madre s'interdice. ATR. E sempre 240 dunque in dolor vedrotti? IPP. Orbata madre puote giammai serena starsi! spetta a te il temprare il mio dolor, ché il puoi. ATR. Tieste vive, io tel ripeto: e forse il sai tu pure. IPP. Io ? ... No ... tu rnel dicesti; 245 ed io te spero veritier. ATR. T'affida! Vanne; trascorsa è mezzanotte; è tempo che dal tuo duolo ti ristori calma. IPP. [parte]. SCENA V ATREO, poi una GUARDIA ATR. Vive; non dubitarne; e all'odio mio l'iniquo vive; e ancor per poco. Trama 250 col tuo vegliar inusitato e lungo tu m'accennasti, o donna: or tuo fia il danno, n1io il pensier di svelarla. - Emneo. [chiamando] [alla Guardia che comparisce] Tu riedi alle mie sale; Agacle sta: lo scorta fino al suo ostello; ed alla reggia intorno 255 spia se innoltra Tieste: entrato, mai uscir non possa. Va. [la Guardia parte] Già tesi tutti sono i nodi insolubili: ver Argo volse; il poter di Pliste, e i dotti inganni d'Agacle destro il trassero. Ch'io d'uopo 26o abbia pur d'altri a vendicarmi? - Or giunga Tieste, e sia cosi. Vendetta, oh gioia! piena otterrò; godrò dell'anelato piacer di sangue: e tremi ognun che offende d'un re i diritti: ché quai sien, son sacri. [parte] 265 FINE DELL'ATTO TERZO ATTO QUARTO SCENA I Notte. La sala è appena illuminata da un lontano chiarore. EROPE O Tieste ... Tieste ... ove mi lasci ? Ove tu fuggi ? e il misero tuo figlio come abbandoni? Deh! t'arresta ... lassa! E chi m'intende? - È notte; cupa, muta, profonda notte: ancor nell'atrio forse Tieste sta ... Dove m'innoltro? Infamia là dentro è, infamia: abbominevol donna cotanto io sono ? Oimè! che amante e madre del par son io: vano è il rossor; ti sieguo, t'ubbidisco, Tieste. - O vergognosa esecrabile idea! Notturno, fero delirio, fuggi; va: lascia ch'io torni al pianto; lascia. SCENA Il TIESTE, e detta. TIE. [inoltrandosi lentamente] O notte! ERO. (Parmi? O voce suona d'intorno?) TIE. O notte! io ti consacro fraterno sangue. s IO ERO. (Forsennato! Il passo •s qui gli fia tolto). TIE. Tremo? E pende intanto su me il brando tirannico. - [impugna un /erro] Tu, ferro vendicator, liberator, ferisci. ERO. Qui sol ferisci. TIE. 01 chi se' tu? Qual vocel ... POESIE GIOVANILI (1797) 81 Erope? ... ERO. Iniquo. [accostandosi a Tieste] TIE. Or tu t'arretra: inciampo 20 fia questo tuo, che costeratti sangue; né altro ci salva, che il delitto. Vanne. ERO. Ferma: dove precipiti? Quel ferro a me, Tieste, a me. TIE. L'avrai ... fumante. Orrido arcano è ornai svelato: insidia 2s di re vii qui mi trasse: ebben se l'abbia quella, ch'ei vuol, morte. ERO. Fraterna morte! Morte di re! TIE. Quest'è notte di pianto, e a noi di morte, o pace. Odi, e abbandona me al mio furor. - Come lasciaiti, e all'atrio 30 tornai del tempio, non veduto vidi al debil raggio di lontano lume l'Argivo ripassar, che per Micene tua morte sparse: e con voce soppressa a Emneo parlava, e 'l nome di Tieste 3S tra il silenzio mi giunse; io quindi volli seguirli ambo da lungi. - Qui s'aggira, ché anzi di me mosse ver Argo, intesi dire sommessamente. Muti, muti scesero, e nulla intesi io più. ERO. Sospetto 40 lieve ti tragge al fratricidio. TIE. Oh donna! Mal fermo hai cor: non se' tu madre? Trema. Fiati tal nome un dl causa perenne di lagrime, di sangue. Al re, se il vuoi, me vittima e tuo figlio offri: lo svena 4S su me già agonizzante: Atreo sul nostro sangue passeggi, e ci calpesti: è vita la mia d'orror; né di me duolmi; duolmi di te. - Di te che fia? ERO. Non sarò mai, 6 82 POESIE segua che può, di più feroci eccessi 50 complice mai. TIE. Il reo son io. ERO. Che! rea sareimi io più, se al tuo t'abbandonassi rabbioso attentato; or va: tua morte, folle, tu tracci, non d'Atreo; l'accerchia stuol di guardie fedeli, armate tutte 55 per trucidarti. TIE. Trucidarmi? M,arma vendetta il cor: avventerommi; esangue pel mio braccio cadrà; dispersi allora que' sgherri suoi, a me, quai sono, schiavi si prostreran. ERO. Nutri tua speme ad agio: 60 ma a fin per me non giungerà. TIE. Dicesti? Ora mi lascia. ERO. E quel che promettesti, è forse ciò? Cosi d'Argo abbandoni l'infauste mura? Folle mel A' tuoi detti creder io mai dovea? TIE. D'abbandonarle 65 tempo or non è. Più che a cimento, a certa morte n'andrei: troppo soffersi; è questo l'unico istante che da tanto affanno mi sciolga al fine, ove tu sgombri. ERO. Ah! fuggi: miei gli spasimi sien, miei sien gli affanni, 70 mie le lagrime, mie; tutto in me sia, purché libero tu. TIE. Né conoscesti di qual io t'ami amor? Te in pene, io salvo? Morire, o teco lagriinar sin morte resta solo a Tieste: e questo fia, 75 se te perder dovrò. ERO. T'affidi or tanto, empio, a tuo core? Chi te allor da eterno POESIE GIOVANILI (1797) 83 torriati affanno? Pur ch'altro ti manca fuorché gustar sangue german? Ma il gusta, t'abbevera, ti pasci: indi che speri? 8o Certo non me; che son d'infanùa carca, e troppe son: del talamo d'Atreo all'inaudito scorno, e chi riparo porger può mai ? non già Tieste. TIE. Or quella non se' tu, che giurasti amore e morte ? 85 ERO. Iniquo! amore a te! Non mai: non altro che orrore a te. Fuggi da me; tue mani son parricide; io la tua voce orrenda odo sonar dentro il mio cor: la voce dell'empio è questa, e seduttrice voce ... 90 A che ti stai ferocemente immoto ? Non vibri il colpo? vittima, trionfo pieno sarà del tuo furor: ma colpa infame, immensa, e di tutte tue colpe maggior ti fia di tuo fratel la morte. - 9S Oh! muto tu con torvi occhi mi guatil Eccoti dunque il petto: il pugnai drizza, e in mezzo al cor tutto mel pianta. TIE. . . . Taci. Non vedi tu? ERO. Vaneggi? TIE. - Ubbidirotti; ucciderò. ERO. Tu fremi? TIE. - Il braccio reggi 100 tu. ERO. Di morte tu parli? Ebben la bramo; ma da tue mani: svenami, il ridico, svenami, e fuggi. - Gli estremi momenti non funestar di mia misera vita; io te l'offro; ella è tua ... Sia tutto tuo; 105 ma va; ch'io non ti vegga. TIE. Ombra •.. gigante qui dinanzi non vedi? Ha fiamma il crine, 84 POESIE sangue negli occhi bolle, e di atro sangue sprazzi li grondan dalla bocca; mira ... sul mio volto gli slancia. Ella mi tragge 110 pel braccio. - Vengo, vengo. ERO. Ohi TIE. Vengo, vengo: sangue chiedi? l'avrai. Quelle grand'orme che tu stampi di foco ... sieguo. - Ohi lampo! Ohi tenebre! Oh singhiozzi moribondi! ... Erope ... il vedi ? senti tu ?- Ma dove ns lo spettro è, che scortavami ? Lo voglio, lascia, seguir. -Tu, tu, vii, mi trattieni. ERO. Q . . ...I •? D hluai prec1p1z11.... ove corri e •••• TIE. A tutto: sia che si vuole; scostati; ho risolto. ERO. Oh diol - Giacché non vuoi da me tu udire 120 nulla ragion, le voci ascolta almeno della pietà: per quel fatale amore, che ci congiunse, per tuo figlio, all'ira snaturata pon modo. -T1 amo, il sai, né tal compenso rendermi. Di colpe, 125 d'esecrazioni graverammi a dritto il mondo tecol ... Deh! cessa ... deh! fuggi, o mi trafiggi. TIE. Si. - Che fo? -T'ascolto, o donna, troppo; moriam tutti, o cada Atreo. SCENA Ili ATREO di dentro, che poi esce preceduto da GUARDIE con faci. ATR. Quai gridai [esce] TIE. [aooentandosi contro Atreo] Mori. ATR. Empii! - Non io; 130 sol voi morrete. - S'incateni, o guardie, lo scellerato. [/e Guardie eseguiscono] E tu, [ad Erope] non sazia ancora POESIE GIOVANILI (l 797) 85 di tanti eccessi, tel richiami in Argo, e tal t'appresti? - Ma fallito è 'l colpo. ERO. Son rea; tu il di'. ATR. Stolidamente rei 135 voi foste entrambi; ché dei re sul capo vegliano i numi; né uom v'ha iniquo tanto eh'Atreo deluder basti. TIE. E chi può forse l'uom più iniquo fra gli uomini, il tiranno, deluder mai? non io: ché tuo mi festi 140 con tue lontane invisibili trame, trame regali insomma. Or via disfoga l'astio ranchiuso, e solo in me rivolgi e tue rampogne e 'l tuo furor; costei, innocente, risparmia. Io solo, io solo 145 tue pene merto ; ché sol io qui venni, sol io furente di pugno strappaile il da lei tolto ferro, onde lanciarti inulto a Stige: e ormai forse il saresti, se in costei non avesse argin trovato 150 il mio proposto. ATR. Or vedi eroel ti vanta di tradimento, e del tuo amor: la cara esca tenta scusar: cosi fors'io a tant'uopo farei: cosi notturno assalitor sarei, s'io di fraterna 155 fede t'amassi, qual tu m'ami. - Intanto qual, ond'io deggia da te averne pena, qual a' tuoi vanti contrapporre io posso vanto sublime? Seduttor non io della consorte del mio re, non io 16o fratricida superbo, esule infame; non io Tieste insomma. 133. eccessi: vedi a p. 53 atto I, 98, e la nota relativa. 148-9. lanciarti . .. Stige: nel nome del fiume infernale Stige, gli dèi erano soliti giurare. Qui vale "spedirti nel regno dei morti,.. 86 POESIE TIE. Rapitore della promessa un dì tenera amante; usurpator del trono mio; feroce dell'oscurata mia vita raminga 165 persecutor, tiranno infine: questi i vanti son da contrappormi. Io mai, d'allor che mi svellesti Erope, e in bando tu mi cacciasti per aver mio regno, ti fui fratello; né fraterno amore 170 io ti promisi : ma fratello sempre tu mi nomasti, e nimistà frattanto, odio perenne, m'apprestavi. Il lungo esilio mio, le mie sventure, e l'alto terror che ognor mi seguitò, son nulla: 175 quindi ti vanti, che ti sembran dono miei tristi di, che tor tu non potevi. Or è l'istante. ATR. Giovanile etade era la tua, né adatta al scettro; e mente quindi non dritta, e non sublime core 180 male reggeano Calcide. Tu troppo concedevi alla plebe, e prepotente troppo a' grandi toglievi. Alla ruina argin por volli del fraterno regno, ch'era mio pure; ed argin posi; ch'arte 185 usai co' grandi, e con la plebe scure. Ed io fui re. Se a te in natio retaggio veniva il solio, sotto a te crollava. Io sol fermo l'eressi; ed io più fermo sul trono sto. - D'Erope il padre, il sommo 190 sacerdote di Calcide, Cleonte ti diè la figlia, ed io volealo: incauto fosti appressar di suo poter sublime: e in me affidassi, e la ritolse, e diella a me, e possanza per regnar m1 porse. 195 TIE. Capo Cleonte in Calcide sorgea dei pochi potentissimi; calcava I 97. calcava: opprimeva. POESIE GIOVANILI (1797) 87 il popol denudato; e di sue spoglie ei più feroce divenia. Cotanta autorità smodata io temprar volli, 200 re cittadino, e mal mercaimi - Atreo, non fui tiranno. ERO. [ad Atreo] Ahil di mio padre ancora qui fresco è il sangue; ei t'acquistò l'impero, accib con sacro giuramento in Argo tratto, ond'ei nullo si temea periglio, 20s crudo! a' tuoi piedi spirasse trafitto. ATR. Superbo ei troppo, a me volea rimpetto porsi laddove io sol regnava; ei cadde: ch'ei non sapea che d'assoluto sire dono è 'l viver de' sudditi. - E mio dono, 210 iniquo, era tua vita. Oh! chi mai sfugge di re sdegnato all'ira? A Rodi, e a Delfo, di là a Micene tu giugnesti, e fosti securo sempre, che pietade indegna per te parlommi; ed io rintesi, e troppo 215 l'intesi forse; né men pento: scritta era vendetta; e giunse il di; bench'io noi desiassi. TIE. E i tuoi sicarii in Delfo, e Pliste il sire di Micene, e 'l tuo Agacle fido, non tramavan forse 220 qui strascinarmi? Chi cacciò superbo me da Micene? chi mi spinse in Argo con dotti inganni altri, che Atreo? ATR. S'addice al core tuo tal tracotanza. A Delfo io sicarii inviai? Metaco e Pleo 225 . ivi ne andar, non per mio cenno: incolpa te, se Pliste cacciotti; i re medesmi non danno asilo a tai delitti: e pena Agacle avranne, che vulgb menzogna onde macchiar mio nome. 201. mal mercaimi: male me ne incolse. 223. eh,: altri che. 88 TIE. ERO. ATR. POESIE O come l'arti del tiranno possiedi! In cor furore, pace nei detti ; comandar misfatti, e punirne il ministro: e vita e fama tor, per rapir sostanze: adoprar fraude, ove spada non val: pietà con pompa mostrar, e bever sangue. Ohi ben t'adatti il regal manto! ei ben ti coprel regna, ché tiranno sei vero. [ad Atreo] Al fin: qual avvi ragion qui di garrir? Ambo siam rei, e tuoi gastighi ambo mertiam; ma cessa d'amareggiar nostre sventure, e ornai duo miseri sotterra infausti troppo a questa reggia. Pur, se gl'infelici mertan qualche pietà, re, il tristo figlio (e che rileva il modo ? è nostro, è nostro) pria di morir concedi: ei cada, e spiri su noi, ten priego. Sì, morrà, felloni; e pagherete quel desio di stragi, che sì v'accese: morirà. - Ma questo non è ancora l'istante. [a una Guardia] O tu, disgiunti custodisci costor: d'essi sarammi tua vita pegno. [la Guardia eseguisce] SCENA IV IPPODAMIA, e detti. 230 235 IPP. Oimèl che avvenne? [alla Guardia] Arresta, Emneo. - Miei figli ... ERO. Madre! ATR. [alla Guardia] Il re parlotti: non l'ubbidisci? ERO. O madre, il figlio ... 239. garrir: vedi a p. 67 atto n, 239. POESIE GIOVANILI (1797) ~P. Numi! TIE. Atreo, morte. [parte con Erope, seguito dalla Guardia] ATR. SCENA V ATREO, IPPODAMIA, GUARDIE nel fondo. Al nuovo di tremenda l'avrai. Giocondo il tuo morir mi fia, poiché assecura il viver mio. IPP. Qual volgi cura feroce ? ATR. No; lieve: di morte punir chi morte dar voleami: dritto 89 255 quest'è, che spetta a ogni uom: ma di tal morte.. . 26o di tal ... quest'è dritto di re: varrommi. IPP. Tieste ? ATR. Ei regicida. IPP. Oh ciel! ... vorresti ... punir delitti con maggior delitto. ATR. Altro ve n'ha del suo maggior? - Si ... forse ... altro ve n'ha: ma non delitto; è santo 265 anzi il castigo, ed il furor d'un sire. IPP. Dehl ti scorda quell'onta. ATR. Onta è di sangue, e sangue vuolsi, ond'obbliarla. [parte seguito dalle Guardie] SCENA VI IPPODAMIA Figlio ... pietà, figlio, pietà. - Passa, né degna d'un sol guardo la madre; ahi! che Tieste è già perduto. - Figli miei, qual mai trassevi odio di voi ? Perché nel vostro sangue lavate le man vostre? Ahi lassa! Non m'udi già Txeste; e m'ode or meno Atreo, quanto più offeso, più feroce. 275 90 POESIE Cadrà Tieste ... Sì! Ben cadrà meco che mal posso soffrir vista più rea d'eccessi: troppe ornai già ne soffersi. [parte] FINE DELL'ATTO QUARTO ATTO QUINTO SCENA. I Giorno. ATREO, e una GUARDIA ATR. Udisti? Ov'ei s'arrenda, a un cenno, tutto sia pronto: bada che nulla traspiri: cingan la sala i tuoi: null'uom qui innoltri: vanne. [la Guardia parte] Sempr'arte, e ferro mai? - Pur lieve fora adoprarlo, ma dannoso e poco: 5 e qui grand'arte vuolsi: alle promesse mescer ira e terrore. - Ippodamìa viensi piagnente: fia di pro suo pianto: in tempo giunge. SCENA 11 IPPODAMIA, ATREO IPP. [·in atto di gettarsi" a' piedi di Atreo] ATR. E perché, madre? Sorgi. IPP. L'ultime voci di tua madre intendi: 10 se tuo fratello ei non è più, Tieste è figliuol mio; grande è per te sua colpa; nulla è per me: se tu noi salvi, io vengo a' piedi tuoi prima spirar: decidi. ATR. Parole parli di furor, di cieca 15 disperazion; e non t'avvedi quanto strazio al mio core straziato aggiungi. OhI non foss'ei fratello mio, non fora misto il mio pianto al sangue suo: - pur deggio sopprimer tutto, rammentar ch'io sono 20 re, cui s'addice castigar delitti. Placato è mio furor, ma non placato è della legge il dritto. IPP. E chi t'astringe, chi il tuo poter ti toglie! 92 POESIE ATR. Altri, che Atreo, in Argo avvi signori - Pure tremendo 25 è sino ai re della giustizia il grido. Chi del sovrano suo tentò la vita, pera. Cosi tuonan le leggi; ed io deggio loro ubbidir. Ma a gemer teca quindi, madre, verrò: tuo cor sommetti, JO qual anch'io lo sommetta, al giusto, al sommo rigar del Cielo. IPP. Così molti e grandi son gl'infortunii miei, ch'omai ricuso di sofferirne più. Tu che tant'hai corraggio di sommetterti, tuo labbro 3S a tuo fratel dia morte: io per me, il dissi, prima perir, poi tanta a' piedi miei carnificina avvenga: il so, di sangue hai sete tu: dissetati del mio; egli tuoi scorni lavi. A che t'arretri ? 40 A me quel brando, a me: sazierott'io smania· tanta di sangue, e più fia caro a te, eh'egli è congiunto, ed è di madre. Ma almen meco svanisca ogni altro orrore dalla reggia di Pelope: dai numi 45 chiedesi innocua vittima; la porgo, o re, in me stessa; se obbliar prometti di Tieste le offese e alla dolente Erope rendi il pargoletto, io m'offro contenta all'ara degl'iddii sdegnati. 50 ATR. Madre, a che vuoi tu trarmi? io di tuo sangue bramosoI ... e '1 crederesti ? E di T1este forse in me vedi l'esecrabil alma ? IPP. Rimbrotta sl d'un'infelice madre l'amor, ma solo di tuo cor feroce 55 quest'è rimbrotto. Al par di te, nol nego, . -.& l'amo; figli mi siete . . . ATR. Egli tuo figlio I Ei che tramò di pur rapirten'uno? IPP. Vedi tu questo mio braccio tremante? POESIE GIOVANILI (1797) 93 Ei vendicava un figlio, ove Tieste 6o t'avesse ucciso: ora tu vivi, e regni; né egli fia spento anzi di me. ATR. Tieste morrà: tu meco viverai regnando. Fiati più caro il tuo lungo dolore diviso meco, che il perpetuo nostro 65 mortai periglio. Non sarem securi, fin che il fratello vive.. IPP. Alta, inumana crudeltà spiran tuoi tiranni dettiI Io morrò; e ratto: ché pugnale acuto a tant'uopo mi serbo. Io funestarti 70 vo' tua vendetta col morir mio prima; se pur funesta a te sarà mia morte. [in atto di partire] ATR. Or dove corri? IPP. Ad abbracciar morendo il figlio mio. - Di filial pietade dà questo segno almeno; unico forse, 75 ed estremo ei sarà. Sin che la luce del di rifulse, d'Erope e Tieste intorno all'atre carceri piangendo, io tutta notte errai: temea che crudo tuo manigoldo gl'immolasse entrambi. So Il giorno aprissi, e qui men venni. Indarno priegai; ciò non rileva: or sol ti prego, fa che il carcer si schiuda, ivi concesso l'entrare a madre sia. Stretta a mio figlio perdere io voglio l'estremo sospiro. 8s ATR. A pietà tu mi sforzi: a tue materne lagrime calde chi resister puote? Qui dunque fia che tu l'abbracci. [alla Guardia] Emneo, a me Tieste ed Erope. [la Guardi"a parte] Ti calma; ove Tieste il voglia, io ti prometto ... 90 forse ... perdono. IPP. Bada, Atreo, che fero più della pena il tuo perdon non sia. 94 POESIE Se infami patti tu proponi, infame vita Tieste non accetta mai. Quindi io di te più temo ... ATR. Generoso fia più d'Atreo Tieste? SCENA 111 EROPE, TIESTE accompagnati dalla GUARDIA che resta nel fondo, ATREO, IPPODAMIA TIE. [ad Atreo] Al fin scegliesti la più ria morte? pur, qual siasi, cara per noi sarà, purché finiam di vita questi odiosi istanti. ATR. O tu, superbo disprezzator di morte, abbila, e insulta. Soldato ... [la Guardia s'avanza] IPP. [alla Guardia] Empio carnefice, qui il brando; per questo seno tremante ripassa, l'immergi, su: stretta mi sto a mio figlio. [abbracciando Tieste] Qui per me solo giungerà a ferirlo. TIE. Madre, t'arretra; me morir sol lascia. IPP. Cosi perdoni? [ad Atreo] ATR. Perdonar misfatti, mercando oltraggi, io non appresi. - Udite: fien brevi i detti, e l'eseguir fia ratto. Soldato, va. [la Guardia si ritira nel fondo] - Perdonerò: m'è grave di madre il duolo, e al fratricidio Atreo non nacque: [a Tieste] or vedi, in te sta sol; tu scegli nuovo esilio perpetuo, e pria lo giura sulla solenne tazza: o per tuo figlio e per te scegli morte. ERO. E per me? ... ATR. Vita 95 100 105 110 POESIE GIOVANILI (1797) 95 qui a te si serba, ove peri tuo padre, 115 ove spirar del figliuol tuo nel sangue l'abbominevol amator vedrai. E tu, giuri? TIE. Ti giuro odio, tremendo oltre l'Averno alto furor ti giuro. ATR. Or tu li giura, ed io li compio. IPP. O figli! 120 fratelli siete; ornai cessate. - Il figlio, Atreo, mi salva. - Al figlio mio, Tieste, cedi. - Deh! perdonatevi. La Grecia dell'opre suona della reggia d'Argo. Pietà abbiate di me, degli anni miei 125 cadenti, e avvolti dall'orror, dal scorno, da rea tristezza: della tomba io miro l'orlo per me già spalancato ... Ah! basti mia sciagura sin qui, chiuda miei lumi contaminati da men colpe. TIE. Cessa: 130 tiranno preghi, e speri? - Io senza regno, e senza fama per la Grecia in bando andrò mendico? senz'osare altrui scoprir mio nome? Troppo ornai soffersi questa mia vita; or è ben tempo ch'io, 135 benché da scure di fratel, sia posto in libertà. ATR. Regno tu brami? Or vola da' miei scortato in Calcide: l'impero là ti s'appresta, ove lasciar tu voglia temuti i grandi ed avvilito il vulgo. 140 Ma giura tu di non por piede in Argo, né più ridomandarmi Erope e il figlio. Silenzio eterno ambo li copra: al trono sarieno d'onta e di ruina forse. TIE. Io re non nacqui; e a questi patti il regno, 145 che tu mi rendi, abborro: e questo abborro mio viver grave da tanti delitti contaminato; e da infamia cotanta. - 96 POESIE Pur io ti priego; e per l'amaro frutto, frutto innocente di profano ardore, 150 ti priego io sol. - Lasciarmi i dì non dei, né puoi, né il voglio: in cor d'entrambi avvampa, e '1 sai ben tu, feroce odio di morte; né spento andrà s'uno dei due nol tuffa del fratello nel sangue; a me non spetta, 155 ch'io re non sono: pazienza opposi a tuo furore io sempre; alle tue trame opposi ferro, e invano. Or tu pon fine a nostre gare, e all'infelice madre sol rendi il figlio: de' suoi mali fonte 16o noi fummo; e fonte di peggior sventura sarem noi pur? - Altro non chieggio: e in prezzo a te gradito ecco mia vita. ERO. Indarno parli, Tieste. Tu di me per sempre t'obblia, per sempre. Nel tuo soglio torna; 165 vivi: a morire qui starommi io sola, sola io, cagion d'ogni tuo fallo. Il figlio lasciami in cura. - O re, mal tu l'ascondi ad una madre; io veglierò, vivendo per lui soltanto; e se mel togli, un'ora 170 non rimarrommi, e '1 seguirò nell'urna. E chi, tranne una madre, il tuo divieto romper potea? Da' tuoi custodi il figlio strappai: me lassa! Ove celarlo ? Un crudo nume invadeami il cor: divina voce 175 sentia tonar a me dintorno. - Mori, ma pria lo svena. - E già la man sul capo stendea del figlio, e già feria ... delitto nerissimo! - Deh placati! dehl schiudi il pargoletto a una dolente madre; 18o quindi sarò, qual vuoi, sommessa e lieta a' tuoi tormenti, ove di più tu n'abbia. ATR. Tuo figliol ei crescerà tutto rigonfio 179. schiudi: libera, restituendolo. POESIE GIOVANILI (1797) di rabbia tiestea: di chi pietoso vita donagli e genitori, al sangue, allo sterminio anelerà. Puot'ei forse smentir suo infame nascimento? IPP. Tiranno inesorabile! placato non se' tu ancora? Or che riman? Vuoi forse con empii eccessi prevenir le colpe? Crudele! - Ornai trassi cinqu'anni in pianto, pace sperando; ma sperar che giova, se aneli al lutto? Or tu sguai'na il brando e il ruota a cerchio; semiviva, esangue cadratti a' piedi col fratel la madre. Ma di': felice tu sarai? No: cruda necessità di sangue il core irato t'arderà sempre, e d'uopo fia versarne a rivi; e più versato, e più tu ingordo ne diverrai; ma regia è l'opra: imprendi da me tu prima; io tel ridico, alcuno non preverrammi da te spento. ATR. Donna, li vedi tu ? Sai di qual marchio entrambi segnaro Atreo? - Non se' di re tu madre? IPP. Io di re moglie e di re figlia e madre la pena sconto di tai nomi; io quindi maladetta dal Ciel voi dal mio fianco trassi stromenti di mie pene, voi d'orrore insaziabili e di stragi. Io vi son madre: ecco mio vanto; all'opra m'unisco orrenda, e furibonda io bramo vendicativi parricidii. - Lassa! Con chi deliro? ..• Ov'io mi volgo? - A tutto deht t'arrendi, T'ieste: ti scongiura tua madre .•. fa' che quest'amplesso, o figlio, l'estremo •.. a me non sia. TIE. [abbracciando Ippodamia] Madre .•. IPP. E un sol mezzo, Atreo, teco m'avanza: ecco io l'adopro. Mi prostro, e bagno .•. tue vesti .•. di lagrime ••• , 97 190 195 200 205 210 215 98 POESIE Placati ... ATR. [sollevandola] Ad opra tu mi spingi, o madre, funesta forse ... Sia che può. - Tieste, 220 abbiti regno, abbiti sposa, e figlio; ma t'allontana da' miei sguardi: giura di non tornarti in questa reggia, e turpe macchia recare, dov'io regno: duro m'è il fratricidio; ma tua vista assai 225 è a me più dura. TIE. Madre, Erope, figlio, a che voi mi traete? Indegno dono aver da Atreo la vita! E ben soave fora il rifiuto, ma fatale ... io vengo al giuramento dunque, ove prometta 230 perdono tu. [ad Atreo] ATR. Perdono? TIE. A me fien gravi tuoi doni, e pena il rimembrar miei scorsi delitti, e a sdegno mi verrà la vita poiché rapirla a te tentai; mio core non avrà pace mai: credi ... ATR. Mendaci 235 parole spargi: io ben fui teco ingiusto; e ciò mi dolse, e duolmi: ma più fosti empio tu meco. TIE. Qual con me se' stato, i' noi rammento; tua clemenza tutto cancella: or odi, io tel confesso; duolo 240 avrò mortale in rammentarla; acerbo tu sembreraimi più: ritogli dunque ogni tuo dono: ei m'è più amaro assai de' tuoi tormenti; o se lasciar tu il vuoi, perdonami. ATR. Ad un tratto or se' pentito 245 veracementeI TIE. E che a te dir poss'io, che te l'attesti ?- Ben hai scelta vera POESIE GIOVANILI (1797) vendetta, Atreo, col non svenarmi. IPP. [ad Atreo] Ancora tu non assenti? - Ed io l'attesto ai numi, pentito egli è. TIE. Fratel, ti cedo io tutto: fratello, io scordo, e ti perdono tutto. Giovin alma ardentissima a funeste opre m'addusse; a pentimento vero or mi ti guida: questo caldo pianto deh ti sia pegno. ATR. Cupamente finto non ti cred'io; se veritier non sei, dorrammi men, che il non avermi arreso a tuo pregar: io fé ti presto, e dolce m'è il prestarla a fratello, e dir parole di pace alfine. Franco parlo: tutti i miei pensieri eran di morte; immenso scorno mi festi, ed io rancore immenso contro di te pascea: pur di fraterno affetto i moti mi sentia nelealma; però talvolta te punir col bando pareami molto; ma furor sorgea, e ratta, ferocissima, infernale io meditava contro te vendetta. La distolsero i numi, e amor n1aterno dall'ira mia mi svelse. - Il so: tiranno io sembro, e forse il fui: ma chi può saldo in solio starsi, e non rigarlo in sangue? Temp'è di calma: or ti racquisto. - Questo lavi i delitti nostri. lo ti perdono: tu m'abbraccia, e perdonami. [s'abbracciano] TIE. [dopo u,z breve sile11zio] Fratellol IPP. O miei figliuoli! Io pace vidi! Or meno venga mia vita; io lieta muoio ... Ahi quale nel core palpitante mi funesta presentimentoI - E fia pur veroI Amici tornate voi ? Fia vero! Ah che in cor tristo trista è per fin la gioia! 99 255 275 100 POESIE TIE. O mio fratello! O madre! Erope! figlio! ERO. [ad Atreo] Il figliuol mio tu generoso ora mi schiudi. ATR. Un sacro innanzi ai numi giuramento stringa nostra amistà. ERO. Mio figlioI ATR. [alla Guardia] Emneo la tazza, 285 e il fanciulletto. - [la Guardia reca una tazza] Ecco la tazza: [a Tieste] giura. ERO. Ov'è mio figlio? ATR. Il figliuol tuo verratti. Gli augusti giuri non tardar. [alla Guardia] Gli porgi il nappo; va': guida il fanciul. [la Guardia porge la tazza a Tieste, eparte] TIE. Bersaglio d'aspra sorte io mi sia, qual fui sin ora; 290 più che di tomba, di rimorsi eterni preda io divenga, se sleal del santo giuramento oserò frangere i nodi. L'inviolabil tazza ella gli stringa. In faccia i numi io giuro pace; io ferma 295 amistà giuro. ERO. Il figlio mio ... TIE. [accostando la tazza alle labbra] Che bevo? Sangue! . . . [getta la tazza] ATR. Felloni! è questo il figliuol vostro: [mostrando il sangue, che è sparso in terra] del misfatto godete. TIE. Un brando, un ferro. [parte disperatamente] POESIE GIOVANILI (1797) SCENA IV ATREO, EROPE, IPPODAMIA IOI IPP. [corre, e poi s'arresta, guardando dal lato ov'è partito Tieste] Ferma, figlio, deh! ferma. - Oh tu, soldato, non lasciargli quel brando. - Ahi! glielo strappa. 300 [si lancia verso il detto lato] SCENA V ATREO, EROPE, TIESTE di dentro che poi esce seguito da IPPODAMIA e da GUARDIE ERO. [guata stupida il sangue] TIE. [di dentro] Via, traditori. - Madre, sgombra ... mora prima il tiranno. - Ebben, crudeli, io stesso [comparisce con ferro in mano circondato e incalzato dalle Guardie] trafiggerommi. [si ferisce] ERO. [guata ancora stupida il sangue] TIE. [sostenuto da lppodamia] Ah ... qui mi traggi ... Io voglio mescer mio sangue a quel ... del figlio. -Atreo! ... Vista d'orror! ... Ch'io morendo ... noi veggia. . . 305 ERO. Figlio! TIE. Ero ... pe ... madre . . . IPP. [sostenendo sempre Tieste] O mio 'IìesteITi seguirò. TIE. Ven ... dettai ... [spira tra le braccia d'lppodamia] ATR. Vendicarvi vostro è dovere, o numi: io •.. vendicato ..• fulmin di morte sul mio capo attendo. FINE DELLA TRAGEDIA LA GIUSTIZIA E LA PIETÀ (1797) Composto ad istanza di Angelo Chiozzotto (nella carta successiva al frontispizio dell'editio princeps si legge infatti la dedica: «Al giusto e pietoso Angelo Memmo IV benemerito rettore di Chioggia la gratitudine e la riverenza di Angelo Chiozzotto, D.O.C. li), il poemetto La Giustizia e la Pietà vide probabilmente la luce intorno agli inizi del 1797, dato che di esso non è menzione nel Piano di Studii (1796). Giuseppe Chiarini, che per primo lo pubblicò nelle Poesie di Uao FoscoLo, Livorno, Vigo, 1882, nella ristampa del 1904 (Livorno, Giusti), così scriveva: «Il signor Tommaso Emanuele Cestari, che trovò questo opuscolo nella Marciana, ne trasse copia e la mandò al Bianchini. Il Bianchini la comunicò a me, che me ne servii per la prima edizione critica delle Poesie del Foscolo e credendola esatta, non pensai a farla riscontrare con la stampa. Ciò che io non feci, lo fece poi il Mestica, il quale poté cosi correggere alcune inesattezze, che naturalmente ho poi corrette anch'io. Il Bianchini, mandandomi copia dei Canti, vi aggiungeva queste notizie estratte dalla lettera con cui il Cestari l'aveva inviata a lui: "Nell'autunno del 1846, il signor Cestari, ordinando gli opuscoli della Marciana, ne trovò uno sulla cui copertina era scritto: Canti di Ugo Foscolo dedicati a Memmo IV da Angelo Chiozzotto. Lettili e fattili leggere ad alcuni amici, fra i quali il Carrer, che tutti li giudicarono opera del Foscolo, il signor Cestari, desideroso di accertare anche meglio la loro autenticità, si rivolse ad un suo parente in Venezia, il signor Felice Chiozzotto, figlio del nominato Angelo Chiozzotto, che avea fatti imprimere e dedicati a Memmo IV i due canti. Felice Chiozzotto avea da fanciullo conosciuto il Foscolo, che usava frequentemente in casa del padre suo. Fatta qualche ricerca tra le carte di famiglia, il Chiozzotto vi rinvenne un'altra copia dell'opuscolo trovato dal Cestari nella Marciana, ma niente altro che potesse dar lume intorno a quella poesia. Disse però al Cestari, rammentarsi che né suo padre né alcuna delle persone che praticavano in casa sua erano soliti scriver versi, ad eccezione del Foscolo; il quale spesso ne componeva anche d'improvvisi e satirici, che andava poi recitando nelle allegre brigate: ritenere egli perciò che il Foscolo fosse senz,altro l,autore dei Canti. Il signor Cestari, avutane licenza dal Chiozzotto, voleva nel 1847 pubblicarli, e ne diede fuori l'avviso: ma il ritardo della Censura austriaca a dare il permesso di stampa e gli avvenimenti politici sopravvenuti lo distolsero da quella pubblicazione" n (op. cit., p. 467, nota 1). La commissione celebrativa delle benemerenze amministrative del l\1cmmo, pur procrastinata al Canto Secondo, e Il esaurita senza particolare interesse stilistico e con ulteriore scadimento rispetto al Canto Primo, non consente al Foscolo, ancora in scarsa dimestichezza con il metro assunto, di andar oltre una scolastica impaginazione di luoghi comuni POESIE GIOVANILI (1797) 103 relativi agli attributi di una Giustizia tanto più aulicamente descritta nei consueti atteggiamenti retorici, quanto meno storicizzata in un determinato contesto politico. METRO: endecasillabi sciolti e terzine. 104 POESIE LA GIUSTIZIA E LA PIETÀ CANTO PRIMO Quando l'Eterno passeggiò col guardo tutto il creato, diffondendo intorno riso di pace, e fiammeggiante si vide ne' cieli il Sole, e rotear le stelle dietro la dolce-radiante Luna s tra il fresco vel di solitaria notte, e germogliò natura, e al grigio capo degli altissimi monti alberi eccelsi fero corona, e orrisonando udissi l'ampio padre Oceàn fremer da lungi: 10 sin da quel giorno d'aquilon sui vanni scese Giustizia, e i fulmini guizzando al fianco le strideano, i dispersi crini eran cinti d'abbaglianti lampi. In alto assisa vide ergersi il fumo 1s d'innocuo sangue, che fraterna mano invida sparse, e dagli vacui abissi a tracannarlo, e tingersi le guance Morte ansante lanciossi: immerse allora la dea nel sangue il brando, e a far vendetta 20 piombò sull'orbe, che tacque e crollò. Ma fra le colpe di natura infame, i.passeggiò: percorse. Vedi DANTE, Par., XXXI, 43-7: •E quasi peregrin che si ricrea / nel tempio del suo voto riguardando, / e spera già ridir com'ello stea, /super la viva luce passeggiando,/ menava io li occhi per li gradi». 2-3. diffondendo . •. pace: infondendo la vita al creato. 4. rotear le stelle: animarsi il firmamento. 5. dolce-radiante: raggiando, diffondendo un tenue chiarore. 6. tra ... notte: nella frescura della notte silenziosa. 9.Jero: fecero; orrisonando: risuonando in modo spaventevole. io.fremer: agitarsi. 11. quel giorno: della creazione; d'aquilon sui vanni: sulle ali del vento. Aquilone è vento settentrionale (vedi DANTE, Pi,rg., XXXII, 99: •che son sicuri d'Aquilone• ccc.), ma qui viene genericamente impiegato per "vento". 12.Julmini: figuratamente per "pene". 13-4. i dispersi I crini: i capelli scomposti. 14. cinti: aureolati. 15. assisa: la Giustizia. 16. d'innocuo sangue: del sangue di un innocente (Abele). Vedi Il mio Tempo, 34, a p. 21; fraterna mano: di Caino. 17. invida: invidiosa; vacui: vuoti. 21. crollò: sussultò. 22. di natura infame: di una natura degenerata contro sé stessa. POESIE GIOVANILI (1797) 105 brutta d'orrore la tremenda dea si fe' nel viso, e 'I lagrimato manto e le aggruppate chiome ad ogni scossa 2s grondavan sangue, e fra gemiti ed ululi s'udia l'inferno e la potenza eterna bestemmiando invocati. - A un tratto sparve contaminata la Giustizia fera, e al sozzo pondo dell'umane colpe 30 le sue immense bilance cigolaro; balzò l'una alle sfere, e l'altra cadde inabissata nel tartareo centro. L'Onnipossente dal più eccelso giro della sua gloria, d'onde tutto move, JS udi le strida del percosso mondo, e al ciel lanciarsi la ministra eterna vide: accennò la fronte, e le soavi arpe angeliche tacquero; e la faccia prostraro i cherubini, e 'l firmamento 40 squassato s'incurvò. - Verrà quel giorno, verrà quel giorno, disse Dio, che all'acre 2.3-4. bnltta d'orrore . .. viso: la Giustizia, per il raccapriccio delle colpe di natllra infame, assunse spaventevole aspetto. 24. lagrimato manto: manto della Giustizia, cosparso delle lacrime di chi ne ha sperimentato i rigori. 25. aggmppate chiome: perché intrise di sangue. 28. bestemmiando invocati: nominati nella bestemmia. Vedi DANTE, In/., v, 36: «bestemmian quivi la virtù divina». 29. contaminata: dalle colpe di natura infame (v. 22) ; f era: feroce. 31. bilance: attributo della Giustizin. «Ma qui bilance, plurale, sta per lance, i due piatti di cui la bilancia è composta• (CHIORBOLI). 32. alle sfere: al ciclo. 33. tartareo centro: profondità infernali (nella rappresentazione poetica il Tartaro è il luogo più profondo dell'Inferno, posto al centro della terra). 34. L'Onnipossente: vedi a p. 37 la nota al v. 77 dell'ode La Verità, e Bonaparte liberatore, 72, a p. 147; più eccelso giro: l'Empireo. 35. d'onde tutto move: vedi DANTE, Par., 1, I: «La gloria di colui che tutto move •· 36. percosso: dalla Giustizia. 37. lanciarsi: in seguito al dissesto delle bilance del v. 31, causato dalla gravità e numero delle colpe umane; la ministra eterna: la Giustizia. 38. accennò la frontei la fronte fece un cenno. 41. squassato: dal piatto della bilancia della Giustizia, di cui al v. 32; s'incuroò: figuratamente, in segno di riverente attenzione; quel giomo: del Giudizio Universale. 106 POESIE ondeggeranno quasi lievi paglie l'audaci moli; le turrite cime, d'un astro allo strisciar, cenere e fumo saranno a un tratto; tentennar vedrassi orrisonante la sferrata terra, che stritolata piomberà nel lembo d'antiqua notte, fra le cui tenèbre e Luna e Sol staran confusi e muti; negro e sanguigno bollirà furente lo spumante Oceàn, rigurgitando dall'imo ventre polve e fracid'ossa, che al rintronar di rantolosa tuba rivestiran lor salma, e quai giganti vedransi passeggiar sulle ruine de' globi inabissati! E morte e nulla tutto sarà: precederammi il foco, fia mio soglio Giustizia, e fianmi ancelle armate il braccio ed infiammate il volto, Ira e Paural - Ma Pietà sul mondo scenda sino a quel giorno, e di tremenda Giustizia fermi l'instancabil brando. Disse: e Pietà dei Serafin tra mille voci di gaudio, dell'Eterno al trono le ginocchia piegò: stese la palma il Re dei re su la chinata testa, 45 50 ss 6o 65 44. l'audaci moli: le più ardite costruzioni degli uomini; le turrite cime: delle torri (e vedi Bonaparte liberatore, 85, a p. 148). 45. d'rm astro allo strisciar: appena toccate da una stella. 46. a un tratto: di colpo. 47. orrisonante: vedi il v. 9; la sferrata terra: come divelta dal suo cardine. 48. stritolata: disfacendosi. 49. d'antiqua notte: della notte eterna, del Caos. E vedi a p. 211 la nota al v. 4 del sonetto Te nudrice alle muse, ospite e Dea. 50. muti: "spenti", come in DANTB, Jn/., v, 28: «Io venni in loco d'ogne luce muto». 52. spumante: ribollente di tempesta. 53. dall'imo ventre: dalle sue profondità; polve •.. ossa: i resti di quanti vi perirono. 54. rantolosa tuba: la minacciosa tromba del Giudizio Universale. 55. salma: corpo. 57. globi: corpi celesti. 60. infiammate: per differenti ragioni, e cioè, rispettivamente per indignazione e vergogna. 62. sino a quel giorno: del Giudizio Universale. 63. instancabil: nel senso di implacabile, sino a che non abbia esaurito il suo compito. POESIE GIOVANILI (1797) e l'unse del suo amor. Udissi allora spontaneamente volteggiar pe' cieli inno sacro a Pietà: m'udite attenti e terra e mare; e canterò; m'udite, che questo è un inno che dal ciel discende. Coro Candida al par di neve, e pura e bella siccome raggio di lucente aurora, o del trono di Dio splendida ancella. Semicoro E quanto il Sole l'universo indora, tanto col guardo tuo tu bèi Natura, che da lungi ti sente, e che t'adora. Coro Candida al par di neve, e dolce e pura siccome raggio d'aspettata aurora, che il velo rompe della notte oscura. Semicoro O dell'eterno amore eterna suora, tua mano tutti colorisce e molce, e Dio intanto ti guarda, e s'innamora. Coro Candida al par di neve, e fresca e dolce siccome raggio di novella aurora, che drizza i fiori, li ravviva, e folce. 15 So 85 68. unse: come investendola della prerogativa della pietà divina. E vedi La Verità, 53, a p. 36. 77. bèi: beatifichi. 82. suora: sorello. 83. mo/ce: addolcisce. E vedi Sepolcri, 192-3, a p. 317: «[...]e poi che nullo/ vivente aspetto gli molcca la cura 11. 87.Jolce: sostiene. 108 POESIE Semicoro Scendi tu rapida, scendi sul mondo, stendi pietosa le braccia, e a' miseri tergi le lagrime col crine biondo. Tutti Scendi tu rapida, scendi sul mondo. All'arpeggiar di mille aurate cetre, all'inneggiar di mille Angeli, e mille spirti di Paradiso, erse la fronte 90 Pietà, la bella fra le belle dive, 95 che sotto l'alto padiglion del Sole fanno sgabello dell'Immenso al trono; erse la fronte, e su leggera nube, cui fra colori candidi e rosati trapelan raggi di beltà celeste, 100 scese sul mondo: al suo passar di doppia luce brillar le mattutine stelle, al suo passar piobbero fiori intorno, e l'aer, che vide quel beato riso, con zeffiri giocondi le rispose. 105 Girò lo sguardo, e di mortali eletti vide uno stuolo; e il manto ampio di. tergo si scinse, e diello a quei che temprar sanno con pietade giustizia; indi rivolse poiché sorrise su la mesta terra, 110 l'alata nube ver l'empiree volte, il suo ricovrator manto lasciando. Fine del Canto Primo. 94. spirti di Paradiso: i beati, 96-7. che sotto ... trono: vedi Ai novelli repubblicani, 10-3, a p. 134, e Bonaparte liberatore, 63, a p. 147. 96. padiglion: volta. E vedi Sepolcri, 161, a p. 313: a sotto l'etereo padiglion rotarsi / più mondi [...] ». 101-2. di doppia • •• brillar: brillarono con maggiore splendore. I 03. piobbero: piovvero. 104. beato riso: dei vv. 1o1-2. 105. zeffiri giocondi: venti primaverili, che, con la stagione, allietano la natura, e però rispondono alla letizia delle stelle (vv. 101-2). E vedi il sonetto Forse perché della fatai quiete, 4, a p. 200: « [•••] zeffiri sereni•· 110. poiché so"ise: dopo aver sorriso; mesta: afflitta. 111. alata: rapida. 112. ricovrator: nel senso di riparatore dei torti. POESIE GIOVANILI (1797) CANTO SECONDO O beato colui, che il sacro manto di pietà stende, ed il sudor non terge dalla stanca sua fronte, onde in soave obblio sopire l'infinite angosce dell'infelice umanità! Beato tre e quattro volte! e te beato, o MEMMO ANGELO in terra, che nel sangue mai tingesti il ferro, che a tua man commise Giustizia dura, pria che il dolce labbro della Pietà nel generoso petto . . . . . . . . . . . . . con accenti caldissimi, sublimi a pro dell'uom, che di non visti casi tratto è dall'urto a involontarie colpe. Te la più bella fra le belle dive, Pietà, nel giorno che gl'illirii campi in maestà calcasti, e passeggiava a te dinnanzi colla spada in alto Giustizia fera, te Pietà clemente seguì di retro, e benedl tua destra il villanello, che sui pingui colti con l'innocente famigliuola il grano a' rigidi apprestava boreali giorni del verno; e il pescator stillante 109 s IO 15 20 1. colui: il giudice che, ccc. ~-3. ed il sudor ••. fronte: che cioè non si stanca di amministrare la giustizia secondo i principi di pietà. 5-6. Beato ••• e te beato: ricorda l'attacco dei Sepolcri, 165: «te beata, gridai• ecc., e la ripresa, 180: «ma più beata» ecc., qui alle pp. 313 e 315. 6-7. Memmo I Angelo: angelo di nome e di fatto. E vedi la nota introduttiva alla poesia. 8. commise: affidò. 9. dura: inflessibile; dolce labbro: vedi Sepolcri, 176, a p. 31 s: «[•••] quel dolce di Calliope labbro». 12. non visti: imprevisti. 14. Te • •. dive: vedi il Canto Primo, 95. 15. gl'illirii campi: la Dalmazia; e vedi i vv. 27-33. 16. in maestà: la dignità competente aIl'ufficio ricoperto dal Memmo. 18. Gi,uti::ia f era: vedi il Canto Primo, 29. 20. colti: campi coltivati. 22-3. a' n"gidi • •• verno: per la stagione invernale. 23. stillante: l'oggetto è ,narine gocce del v. 25. IIO POESIE dalle lacere vesti, e dalle fredde membra marine gocce accolte in ghiaccio dall'impetrita sabbia, inni ed evviva a te lanciava, e a tua pietàl S'udiro, quando partisti, lamentose e sole errar le ninfe, dell'illiria terra presidi eterne, e di MEMMO, e di MEMMO gir ripetendo fra sospiri il nome; e per più giorni impietosita l'Eco MEMMO d'intorno rispondeva MEMMO. Te accompagnò Pietà quando volgesti leggiadramente alteramente un tempo per le cerulee splendidissim'onde dell'Ionio soggetto aurata nave cinta di quercia; su l'eccelsa prora stea tua fortuna, ed al governo attento presiedeva il tuo fato, augusto fato da Dio scolpito nell'eterno libro: Zeffiro fra le vele agili piume spiegava, e 'l crin della superba testa del tuo Leon, che ti ruggiva al fianco, scuotea passando. Di trofei ricinta te Corcira adorò; d'Itaca i solchi al tuo apparire germinaro offrendo 30 3S 45 25-6. accolte . .. sabbia: che cadevano rapprese in ghiaccio, per il rigore della stagione, sull'arenile indurito dal gelo. 30. presidi eterne: divinità, da sempre, tutelari. 30•3. e di Memmo ... Memmo: «Imitazione dei noti versi virgiliani a proposito di Orfeo (Georg., IV, 523-27): Trmi quoque, marmorea caput a cervice revulsum, Gurgite quum medio portar,s Oeagrius Hebrus Volveret, Eurydicen vox ipsa et frigida lingua Ali miseram Eurydicen! anima fugiente vocabat; Eurydicen toto refereba,rt flumi11e ripae» (MESTICA); e vedi PARINr, Il Mezzogiorno, 529: «a lei l'impietosita Eco rispose». 37. soggetto: al dominio della Repubblica di San Marco; aurata: cc nei pavesamenti » (CHIORBOLI). 38. cirrta di quercia: «Premio alle virtù civiche» (CHIORBOLI). 39. stea: stava; governo: timone. 42. agili: "mobili", "veloci"; spirava cioè intensamente nella velatura, imprimendo alla nave un celere corso. 44. Leon: di San Marco. 46. Corcira: Corfù. 46-8. d'Itaca ..• tributo: la fecondità della crpetrosa Itaca» (vedi il sonetto Né più mai toccherò le sacre sponde, 11, a p. 236) evidenzia, iperbolicamente, il benefico influsso del Memmo. POESIE GIOVANILI (1797) a te raro tributo; e Cefalene ancor ne serba la memoria dolce. Ma Pietà tacque, e tuonasti vendetta decretata già in ciel, quando alle ricche zacintie spiagge tu lanciasti un guardo. Tremaro. -Ahi come abbandonate e sole stavan sui freddi talami le meste III so consorti cinte dai piangenti figli; 55 ahi! come il sangue uman sparso dall'uomo scorreva a rivi! ahi! come in man del ladro era la lance di giustizia, e come tutto era notte, tempesta, spavento. Ma tu sorgesti, e il lutto sparve: ancora, 6o al MEMMIO nome, l'omicida infame getta il pugnale, ed all'aratro torna; onde sien carchi di Britannia i pini, del dolce frutto di Zacinto onore. Ma te richiama, e tua pietà, la mite 65 città di Clodio, e tu rimetti il brando nella vagina, e col soave manto della pietà per le contrade umìli passi e sorridi; e si rallegra il retto popolo industre, che di frutta e fiori, 70 e di coralli, e di crostacei t'offre 48. Cefalene: Cefalonia. 52. zacintie spiagge: Zacinto (Zante). 55. cinte: circondate. 58. la,ice: bilancia. 63-4. 011de • •• onore: tra i prodotti agricoli di Zante, la voce più pregiata era costituita dall'uva passa, cui qui, stante la forma singolare, il Foscolo probabilmente allude. E vedi a p. 236 il sonetto Né più mai toccherò le sacre spo11de, 71 e la nota relativa, e Le Grazie, 11 58-601 a p. 413: «Bella è Zacinto. A lei versan tesori/ l'angliche navi; a lei dall'alto manda / i più vitali rai l'eterno sole». 63. pini: navi. Vedi MONTI, Al Sig11or di Mo11tgolfier, 1-2: «Quando Giason dal Pelio / spinse nel mar gli abeti•, 66. città di Clodio: Chioggia. «Plinio, nella Storia naturale, III, 16, menziona una Fossa Claudia; un canale, su cui verosimilmente sorse poi, da una stazione o "mansio", Claudiopoli, ossia la città di Clugia o Chioggia, nome che potrebbe provenire dalla tribù claudia o clodia, alla quale erano ascritti non pochi municipi della regione» (CHIORBOLI). 70. popolo industre: popolazione (di Chioggia) laboriosa, di agricoltori (frutta e fiori, v. 70), di pescatori (coralli • .• crostacei, v. 71), di costruttori di navi (navali moli, v. 72). 112 POESIE pieni canestri, e le navali moli t'addita al guardo, che dal genio erette di non superbo artefice, vedransi dovizianti, e d'ampie merci onuste un giorno forse primeggiar sui mari. Quando il Settentrion l'onde solleva, quando sul lido la procella mugge, e notte casca sul turbato mondo, quante s'ingoia, oimè! vittime umane l'irato mare; quante disperdendo vane querele nell'iante bocca soffoca il nome di padre e di figli, ché senza scorta il navigante invano drizza le vele, ed il timon governa tra il calcato notturno immenso orrore. Ma di te, padre di tua grata gente, Angel sublime, ell'è opra (di te degna) la somma lampa che s'estolle, e annunzia di MEMMO il vanto sul marmoreo ponte, che innanzi alla città tutto il mar guarda. Oh! quante volte il liberato amico baciar vedrassi su quel ponte; oh quante di benedizion tenere voci s'udranno sparse a te; quante corone su la memore lapide sacrate, poiché tu scorta a' naviganti ergesti, e bastò MEMMO gl'implacati flutti deluder solo, ed il furor de' venti. 7S So 85 95 75. dovizianti: recanti ricchezze; on11ste: cariche. E vedi Bonaparte liberatore, 205 e 206, a p. 154. 77. Settentrion: il vento di tramontana, proveniente da settentrione. 79. notte casca: vedi In morte del padre, sonetto Ohi qual'o"or! un fremito funèbre, 10-1: a[•••] la più cupa notte / mi casca intorno [...] • (Edizione Nazionale, 11, p. 301). 81. disperdendo: nell'infuriare della tempesta. 82. vane q11erele: inutili invocazioni, perché inascoltate in quanto disperse dal vento; iante: spalancata. 86. calcato: incombente; orrore: vedi Sepolcri, 207-8: «[..•] e all'orror de' notturni I silenzi [...] •, e la nota relativa, a p. 319. 89. la somma lampa: il faro; s'estolle: s'innalza (e vedi a p. 20, la nota al v. 12 dell'ode Il mio Tempo). 92. liberato: scampato alle insidie del mare. 97. scorta: vedi il v. 84. POESIE GIOVANILI (1797) I IJ Pera colui, che il popolar diritto 100 infranse primo, e calpestb la plebe schiava, già donna di sé stessa e d'altri. Tu, MEMMO augusto, dal suo vile fango l'alzasti, e i dritti antiqui ormai scordati tu le rendesti, e di Pietà fu voce 105 mista a Giustizia; e in te l'orgoglio tacque, che prepotente di chi regna, siede sul soglio, e spegne di virtù la face; e tu mostrasti alla dodiense gente che mal s'accorda con virtù l'orgoglio. no Del giudizio final suoni la tromba, e l'Eterno discenda; innanzi al santo giudice tremendissimo trarranti e Giustizia e Pietà: quest'è 'l ministro, diran, sacro a noi sole. Eccheggeranno 115 gli angeli tutti, e su le candid'ali fra plausi eterni recheran tuo spirto nell'increata inenarrabil luce. 100. Pera: vedi a p. 184 la nota al v. 79 dell'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. 102. già donna: un tempo padrona. 104. antiqui: vedi il Canto Primo, 49, e la nota relativa. 109. clodie11se gente: popolo di Chioggia. 1 18. increata: perché manifestazione di Dio, e però esistente ab aeterno. 8 LE RIMEMBRANZE (1797) Pubblicate nel1111 Anno poetico ossia Raccolta annuale di poesie inedite di autori viventi•, v, Venezia, Dalla Tipografia di A. Curti, 1797, pp. 22-5 (stampato presumibilmente dopo il 12 maggio, e prima del 17 ottobre 1797), unitamente agli sciolti Al Sole, al sonetto Era la notte; e sul funereo letto, alla ristampa delle odi Bonaparte liberatore e Ai novelli repubblicani, e al sonetto A Venezia, le terzine Le Rimembranze sono da ritenersi composte l'anno precedente, per le affinità tematiche e formali che presentano con l'elegia In morte di Amaritte, e per essere menzionate nel Piano di Studii (1796) tra i •Canti in terzine e in isciolti » (c. 2v.) indirizzati a Laura, destinataria anche di Lettere (c. 2r.), nelle quali si suole ravvisare la prima idea dell'Ortis, in cui è del resto ancora materialmente traccia della giovanile protagonista delle Rimembra11ze nell'estravagante Frammento della storia di Lauretta. Il piano dell'opera sopra citata, oltre al testo qui riprodotto, doveva comprendere: •L'aurora-terz. La notte-terz. [...]La mortesciol. Le ore-terz. Il tempietto-sciol. Amore-sciol. I delirii-sciol. Il PiacereCanti 3 in terza rima• (c. 2.v.). Circa la stessa poco ci è dato inferire dalla mera registrazione dei titoli (che è quanto, a tutt'oggi, è dato sapere). Più significativa l'alternanza di componimenti in terzine e in endecasillabi sciolti, e non tanto per ciò che riguarda il primo metro, bensì gli sciolti, che, all'altezza cronologica del 1796-1797, e in rapporto al motivo elegiaco, sembrano rinviare ad un testo celebre, ma di non larga influenza, gli sciolti A Sigismondo Chigi (1787) di Vincenzo Monti. Difficilmente comprensibile, pur se paleograficamente ineccepibile, riesce poi l'inclusione del poemetto Il Piacere tra i • canti • destinati a Laura. Cosi come non può non apparire sorprendente la pubblicazione di un testo quale Le Rimembranze, e parzialmente anche del sonetto Era la notte; e sul funereo letto, in una con gli sciolti Al Sole, le due odi politiche e il sonetto A Venezia, ove di ciò non sia unicamente responsabile il compilatore dell'«Anno poetico» ecc., Angelo Dalmistro. L'elegia, infatti, pur affrancata dagli obblighi occasionali della precedente In morte di Amaritte, ed esclusivamente rivolta a un tema di stretta pertinenza personale, stante l'evidente impaccio della terza rima, denuncia intera la fragilità del proprio impianto stilistico nella precaria convivenza di un'ornamentazione sepolcrale di ascendenza younghiana con il Petrarca più elegiaco, ulteriormente complicato da melodrammatiche cadenze tassiane, cui si associano crude contaminazioni del Dante "infernale" con quello "paradisiaco", in funzione di un'ineffabilità di linguaggio, tanto meno raggiunta, in quanto costantemente perseguita per il tramite di scontate citazioni, antonomasticamente deputate a formalizzare generici -r6n-oL. METRO: terzine. POESIE GIOVANILI (1797) LE RIMEMBRANZE E questa è l'ora: mormorar io sento co' miei sospiri in suon pietoso e basso tra fronda e fronda il solitario vento. E scorgo il caro nome; e veggo il sasso ove Laura s'assise, e scorro i prati ch'ella meco trascorse a passo a passo. Quest'è la pianta che le diè i beati fior ch'ella colse, e con le molli dita vaga si fe' ghirlanda ai crini aurati. E questo è il conscio speco, e la romita sponda cui mesto lambe un fonte e plora, e i ben perduti a piangere m'invita. Qui de' più gai colori ornassi Flora, qui danzaro le Grazie, e qui ridente a mirar la mia donna uscì l'Aurora. 115 3 6 9 12 15 1. E questa è l'ora: vedi Young, Notte quarta, Narc,"sa, 12-4: •Questa è l'ora promessa, e questa è l'ora,/ in cui vegliano insiem tutte le notti/ i mali miei [...] » (Le Notti di YoUNG, traduzione poetica di Giuseppe Bottoni, Vercelli, Dalla Tipografia Patria, 1793, p. 76). 2. co' n,iei: unitamente ai miei; basso: sommesso. 3. il solitario vento: «Trasferito al vento ciò ch'è proprio del luogo, ma che per essere del luogo viene a essere insieme del vento» (CHJORDOLI). 4-6. E ... passo: riecheggia PETRARCA, Rime, cxn, 5-10: •Qui tutta humile, et qui la vidi altera, / or aspra, or piana, or dispietata, or pia; / or vestirsi honestate, or leggiadria, / or mansueta, or disdegnosa et fern. / Qui cantò dolcemente, et qui s'assise; / qui si rivolse, et qui rattenne il passo». 5. scorro: percorro. 7. beati: cr Perché ebbero la ventura di essere còlti da lei, e intrecciati dalle sue mani in ghirlando e assunti a ornamento dell'aureo suo crine» (CHIORBOLI). E vedi a p. 175 l'ode A Lmgia Pallavicini caduta da cavallo, 1, e la nota relativa. 8. molli: flessuose. 10. conscio. speco: spelonca consapevole delle confidenze amorose, perché ritrovo dei due amanti. 12. i be11: la felicità. 13. Q11i . •• Flora: qui la natura, in onore di Laura, era solita mostrarsi più risplendente che altrove. 116 POESIE E qui la Luna cheta e risplendente guatocci, e rise; e irradiò quel ramo ove ha nido usignuol dolce-gemente; 18 e scosso l'augellin mentre ch'io «t'amo» a Laura replicava, uscir s'udia da' suoi dolci gorgheggi : «io t'amo io t'amo». 21 O sacra rimembranza, o de la mia prima felicità tenera immago, cui Laura forse a consolarmi invia; 24 vieni: tu vedi solitario e vago il giovin vate, che piangendo porta ahi! d'affanni più gravi il cor presago. 27 Già s'avanza la sera, e la ritorta conca tiene a la destra, e di rugiade le languid'erbe, e i fiori arsi conforta. 30 E il Sol che all'Oceàn fiammeo ricade, vario-tinge le nubi, e lascia il mondo a l'atra Notte che muta lo invade. 33 E tutto è mesto; e dal cimmerio fondo s'alzan con l'Ore negre e taciturne oscuritate e silenzio profondo. 36 17. guatocci, e rise: rivolse su di noi il suo sguardo ilJuminante; irradiò: illuminò col suo raggio. 18. dolce-gemente: dal canto simile a un dolce lamento. E vedi a p. 39 la nota al v. 14 dell'elegia In morte di Amaritte. 19. scosso: risvegliato. 24. cui •.. invia: inviatami (l'immago del verso precedente) allo scopo di rendere meno aspro il mio dolore. 27. presago: carico di presagi. 28-9. e la ritorta ... destra: e copre (la sera) il lato destro della non dritta valle. 29-30. e di rugiade .•• conforta: e ristora con la rugiada le erbe avvizzite e i fiori bruciati dal calore del sole. 32. variotinge: colora variamente. 34. cimmeriofondo: « I cimmerii erano un popolo favoloso che Omero, nell'Odissea, XI, 14, poneva presso le porte dell'Ade [...], e Ovidio poi, nelle Metamorfosi, x1, 592-93, presso la casa del Sonno• (CHIORBOLI). 35-6. s'alzan .. . profondo: vedi a p. 40 la nota ai vv. 23-4 dell'elegia In morte di Amaritte; e vedi anche, a p. 120, la nota ai vv. 4-5 degli sciolti Al Sole. POESIE GIOVANILI (1797) Era l'istante che su squallide urne scapigliata la misera Eloisa invocava le afflitte ombre notturne; e sul libro del duolo u' stava incisa ETERNITADE E MORTE, a lamentarsi 117 39 veniasi Young sul corpo di Narcisa: 42 ch'io smarrito in sembiante, e aperti ed arsi i labbri, e incerto i detti, e gli occhi in pianto coi crin sul fronte impallidito sparsi, 4S addio diceva a Laura, e Laura intanto fise in me avea le luci, ed a gli addio ed ai singulti rispondea col pianto . . . 48 E mi stringea la man: - tutto fuggìo de la notte 1'orrore, e radiante io vidi in cielo a contemplarci Iddio, 51 e petto unito a petto palpitante, . . . . e sospiro a sosp1r, e riso a nso la bocca le baciai tutto tremante. 54 37. urne: tombe. E vedi a p. 39 la nota al v. I dell'elegia In morte di Amaritte. 38. Eloisa: nipote del canonico Fulberto, nata nel I 101, morta nel 11641 amata dal filosofo e teologo Abelardo (1079-1142), che per lei si ritirò nel convento di San Dionigi, mentre la donna entrava nel monastero di Argenteuil. Come una nuova Eloisa, Jean-Jacques Rousseau presenta poi la protagonista del romanzo epistolareJu/ie ou la Nouvelle Héloise (1761). 39. afflitte ombre: a Nei Sepolcri, 289: "afflitte alme"» (CHJORBOLI), qui a p. 326. 40. e nll libro del duolo: sulla tomba. 42. veniasi . .. Narcisa: vedi a p. 40 la nota al v. 20 dell'elegia In morte di Amaritte. 44. incerto i detti: balbettante. 45. coi crin •. . sparsi: vedi In morte di Amaritte, 6, a p. 39, e Ai novelli repubblicani, 57, a p. 136. 52-3. e petto . •• riso: vedi TASSO, Ger. lib., 11, 35, 1-6: • Ed oh mia sorte aventurosa a pieno! / oh fortunati miei dolci martirii / s'impetrarò che, giunto seno a seno, / Panima mia ne la tua bocca io spiri; / e venendo tu meco a un tempo meno, / in rime fuor mandi gli ultimi sospiri», ed anche MONTI, A Sigismondo Chigi, 111, 12-5: «Ma l'immago dagli occhi non s'invola; / anzi s'accosta, e par che ciglio a ciglio, / gote a gote congiunga, e tal poi meco / reclini il capo e s'abbandoni al sonno». 54. la bocca •.• tremante: vedi DANTB, In/., v, 136. 118 POESIE E quanto io vidi allor sembrommi un riso de l'universo, e le candide porte disserrarsi vid'io del Paradiso . • . 57 Deh! a che non venne, e Pinvocai, la morte? 55-6. un ... universo: vedi DANTE, Par., xxvn, 4-5: •Ciò ch'io vedeva mi sembiava un riso/ de l'universo [...] •· 58. Deh • •. morte?: vedi a p. 207 la nota al v. 14 del sonetto Non son chi fui,· perì di noi gran parte. E vedi anche MONTI, A Sigismondo Chigi, x, 31-5: a Perché dunque a venir lenta è cotanto, / quando è principio del gioir, la Morte? / Perché sl rado la chiamata ascolta/ degl'infelici, e la sua man disdegna/ troncar le vite d'amarezza asperse?•· AL SOLE (1797) Pubblicato dapprima nell'« Anno poetico, ossia Raccolta annuale di poesie inedite di autori diversi», v, Venezia, Dalla Tipografia di A. Curti, 1797, pp. 26-9, unitamente ad altri componenti (e vedi a p. 114 la nota introduttiva a Le Rimembranze), gli sciolti Al Sole non risultano registrati nel Piano di Studii (1796). Ciò varrebbe senz'altro a fissarne il terminus post quem ove l'ipotesi che il presente testo altro non sia che uno spezzone di un non meglio precisabile ..canto" tra quelli «in terzine e in isciolti • indirizzati a Laura, e segnalati nel giovanile prospetto foscoliano (al riguardo vedi la nota introduttiva a Le Rimembranze), riuscisse affatto incredibile. A sostegno della stessa soccorrono infatti elementi tematici e stilistici che, immediatamente, o mediatamente per il tramite di fonti comuni, riconducono gli sciolti nell'ambito di una letteratura variamente praticata nel biennio 1796-1797. Tali la presenza degli sciolti montiani A Sigismondo Chigi, ai vv. 49-50 e ai vv. 52-4 (e degli stessi si tenga anche presente il saluto al sole, ai vv. 31-54), la descrizione di fenomeni naturali come la tempesta, ingrediente tipico del genere della visione (vedi a p. 13 vv. 1- 21 della Croce, e la nota relativa), così come la rappresentazione del paesaggio sconvolto dalla violenza della bufera, nel segno dell'iconografia pre-romantica dell'Ortis 1798, ancora mantenuta in vita nella redazione milanese del 1802, dove alla rievocazione dell'ordine sconvolto si accompagnano ricercati iperbati di ascendenza pariniana (vv. 39-40: «[•••]i pria sì vaghi/ alberi gravi [...] »; vv. 40-2: «[•••] le acerbette e colme I promettitrici di liquor giocondo / uve [...] »), di contro all'immediata evidenza di costruzioni volte a raffigurare opposte situazioni (vv. 38-9: «[•••] Spogli di frutta, / aridi, e mesti sono [...] »; vv. 45-6: «[ •••] scompigliata, irta, e piangente / [...] ripriega la natura [...] »). O ancora l'impiego di una figura di estrazione classicistica come la personificazione (vv. 4-5: «Ore e stagioni / [.•.] danzano belle»; vv. 54-6: «[•••] non più le nubi / corteggeranno a sera i tuoi cadenti / raggi [...] »), retoricamente affine al registro delle influenze ossianiche e montiane (vedi, ad esempio, la personificazione della morte ai vv. 30-3). E però non sarà fuor di luogo concludere che se da un lato gli sciolti Al Sole non costituiscono, in via assoluta, un fatto nuovo nei confronti dei componimenti del biennio 1796-1797, distinguendosene soprattutto per 1•elezione di una particolare auctoritas (gli sciolti A Sigismondo Chigi), da un altro presentano uno spessore storico che a quelli non sembra competere, grazie all'intreccio tematico-stilistico che da essi si estende all'ode Alla amica risanata e ai Sepolcri (vedi i vv. 4-5), così come, dall'iniziale fonte montiana, agli Ortis 1798 e 1802, ai Framme11ti di un romanzo autobiografico, e al sonetto Alla sera (vedi i vv. 2-3 e 49-58). METRO: endecasillabi sciolti. 120 POESIE AL SOLE Alfin tu splendi, o Sole, o del creato anima e vita, immagine sublime di Dio che sparse la tua faccia immensa di sua luce infinita! Ore e stagioni tinte a varii color danzano belle per l'aureo lume tuo misuratore de' secoli, e de' secoli scorrenti. Alfin tu splendi! tempestoso e freddo copria nembo la terra; a gran volute gravide nubi accavallate il cielo empiean di negre liste, e brontolando per l'ampiezza de l'aere tremendi rotolavano i tuoni, e lampi lampi rompeano il buio orribile. - Tacea spaventata natura; il ruscelletto timido e lamentevole fra l'erbe volgeva il corso, né stormian le frondi 5 IO 15 2-3. immagine .•• Dio: vedi Ortis (1798): • Lettera XXIV. 3, Aprile. [...] Frattanto tutta la natura ritorna bella ... bella così quale dev'essere stata quando nascendo per la prima volta dall'informe abisso del caos mandò foriera la ridente aurora d,aprile. Ed ella abbandonando i suoi biondi capelli sull'oriente, e cingendo poi poco a poco l'universo del roseo suo manto, diffuse benefica le fresche rugiade, e destò l'alito vergine de' venticelli per annunziare ai fiori, alle nuvole, alle onde e agli esseri tutti che la salutavano la comparsa del Sole: del Solei sublime immagine di Dio, e luce anima e vita di tutto il creato» (Edizione Nazionale», 1v, p. 38). Sostanzialmente cosi poi anche nell'Ortis (1802), salvo una variante formale di scarso conto. 4-5. Ore ••. danzano: oltre alla personificazione delle ore nell'elegia Le Rimembranze, 35, a p. 116, nell'ode Alla amica risanata, 19, a p. 191 («Le Ore che dianzi meste1), vedi Sepolcri, 7, a p. 292: «a me non danzeran l'ore future"· s-6. belle . .. tuo: illuminate, e quindi rese splendide dalla tua luce. 6-7. misuratore •. . scorrenti: che è misura del passare del tempo. 8. tempestoso e freddo: apportatore di tempo burrascoso e gelido. 9. a gran tJolute: con grandi avvolgimenti (causati dal vento). 10. gravide: cli tempesta; accavallate: l'una sull'altra. 11. empiea11 ..• liste: segnavano fittamente il cielo di nere strisce. 13. e lampi lampi: ulampi aggiunti a lampi", come al v. 7: de' secoli, e de' secoli, per significarne l'ininterrotta teoria. 15-6. il ruscelletto . .. lamentevole: sommesso (timido), perché coperto dall'infuriare della tempesta, sino a risultare quasi un fievole lamento, POESIE GIOVANILI (1797) 121 per la foresta, né da l'atre tane sporgean le belve l'atterrita fronte. Ulularono i venti, e ruinando zo fra grandini, fra folgori, fra piove la bufera lanciosse, e riotoso diffuse il fiume le gonfie e spumose onde per le campagne, e svelti i tronchi striderono volando, e da scommossi 25 ciglion de l'ondeggianti audaci rupi piombar torrenti che spiccati massi co' l'acque strascinarono. Dal fondo d'una caverna i fremiti e la guerra de gli elementi udii; morte su l'antro 30 mi s'affacciò gigante, ed io la vidi ritta: crollò la testa: e di natura l'esterminio additommi. - In ciel spiegasti, o Sol, tua fronte, e la procella orrenda ti vide e si nascose, e i paurosi 35 irti fantasmi sparvero ... ma quanti segni di lutto su i vedovi campi, oimè, il nembo lasciò! Spogli di frutta, aridi, e mesti sono i pria si vaghi alberi gravi, e le acerbette e colme 40 promettitrici di liquor giocondo uve giacciono al suol; passa l'armento, e le calpesta; e istupidito e muto l'agricoltore le contempla e geme. 18. atre: "nere", "buie", a designarne la profondità. 19.fronte: aspetto. 21. piove: scrosci di pioggia. 22. lanciasse: per tale forma di perfetto vedi alle pp. 183-4 la nota ai vv. 73 e 75 dell'ode A Lm'gia Pallavicini caduta da cavallo; riotoso: indocile, mal contenuto dagli argini. 25. scommossi: sconvolti. 26. ciglion: sporgenze; ondeggianti: sporgenti e rientranti a guisa di onde; audaci: erte, impervie. 27. piombar: caddero a piombo, all'improvviso; spiccati: divelti. 28. co' l'acque: con la forza delle acque. 30. su l'antro: sulla soglia della caverna. 32. ritta: all'impiedi, intera. 32. ero/Il, la te.sta: come a negarmi ogni possibilità di scampo. 33. l'esterminio: la rovina. 33-4. spiegasti ••• fronte: manifestandoti nel tuo completo splendore. 36. irti: ispidi, orribili. 37. vedovi: privati dei loro frutti. 40. vavi: carichi di frutti. 41. liquor giocondo: vino. 122 POESIE Intanto scompigliata, irta, e piangente te, o Sol, ripriega la natura; e il tuo di pianto asciugator raggio saluta; e tu la accendi, e si rallegra e nuovi promette frutta e fior. Tutto si cangiai Tutto pere quaggiùI Ma tu giammai, eterna lampa, non ti cangi ? mai? Pur verrà di che ne l'antiquo voto cadrai del nulla, allor che Dio suo sguardo ritirerà da te: non più le nubi corteggeranno a sera i tuoi cadenti raggi su l'Oceàno; e non più l'alba cinta di un raggio tuo verrà su l'orto ad annunziar che sorgi. Intanto godi di tua carriera: oimèt ch,io sol non godo de' miei giovani giorni, io sol rimiro 4S so ss 6o 45. irta: resa come incolta dalla distruzione della tempesta. 47. di pianto asciugator: consolatore dei lutti causati dalla tempesta. 48. accendi: illumini. 49-58. Tutto ... sorgi: il passo è parafrasato come segue nell'Ortir (1798): u Lettera xxn. 19, Gennaro. [••.]o Sole, diss'io, tutto cangia quaggiù! ma tu giammai, eterna lampa, non ti cangi? mai! Pur verrà dì che Dio ritirerà il suo sguardo da te, e tu ancora cadrai nel vuoto antico del caos: né più allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti; né più l'alba inghirlandata di celesti rose verrà cinta di un tuo raggio sull'oriente ad annunziar che tu sorgi» (Edizione Nazionale, IV, pp. 35-6). Sostanzialmente cosi poi anche nell'Ortir (1802), salvo una variante formale di scarso conto. 49-50. Tutto ... quaggiù: l'espressione, oltre che nel passo dell'Ortis (1798) citato in nota ai vv. 49-58, è ancora ripresa nell'Ortis (1798): a: Lettera XXXVII. 14, Maggio. [...] nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce!» (Edizione Nazionale, IV, p. 60), nei Frammenti di un romanzo autobiografico, qui a p. SSS: a Tutto cangia, tutto si perde quaggiù .•• tuttoI», e finalmente nell'Ortis (1802): a 2 giugno. [..•] tutto pere, quaggiùItutto», qui a p. 626; e vedi MONTI, A Sigismondo Chigi, x, 1-2: «Tutto pere quaggiù. Divora il Tempo / l'opre, i pensieri [•..] •. s1. eterna lampa: lume immortale (come tale vedi, ad esempio, DANTE, Par., XVII, s: «e da Beatrice e da la santa lampa»); cangi: muti. 52-4. Pur •.. te: vedi MONTI, A Sigismondo Chigi, VIII, 9-11: «Oh vaghe stelle! e voi cadrete adunque, / e verrà tempo che da voi l'Eterno / ritiri il guardo, e tanti Soli estingua?». 57. orto: oriente. 59. di tua carriera: del tuo corso. Vedi MONTI, Prometeo, I, I21 -J : «O Sole, ei disse, o tu che tutte osservi / maestoso e tranquillo in tua carriera / da' mortali le cure e de' celesti • (vedi G. FISCHIETTI, L'episodio di Elettra nei Sepolcri del Foscolo, in •Giornale Storico della Letteratura Italiana», LXXXVIII, 443, p. 364). 60. d~' miei • • . giorni: della mia giovane età. POESIE GIOVANILI (l 797) gloria e piacere, ma lugubri e muti sono per me, che dolorosa ho l'alma. Sul mattin della vita io non mirai pur anco il sole; e ornai son giunto a sera 123 affaticato; e sol la notte aspetto 65 che mi copra di tenebre e di morte. IN MORTE DEL PADRE (1797) Pubblicato dapprima nell'«Anno poetico ossia Raccolta annuale di poesie inedite di autori viventi•, v, Venezia, Dalla Tipografia di A. Curti, 1797, p. 30, il sonetto Era la notte; e sul funereo letto faceva originalmente parte di un minuscolo canzoniere in morte del padre, di cui è notizia nel Piano di Studii (1796), c. 2v., là dove, alla sezione Originali della voce Versi, si legge: «La morte di mio Padre - Sonetti 4 e Canzone,,. In effetti l'autografo foscoliano del canzoniere (oggi giacente presso la Biblioteca Vaticana, Autografi Ferraioli, lettera F) oltre alla canzone, contiene sei sonetti, di cui il sesto Rotte da tetro raggio le tenèbre costituisce la palinodia del terzo (nell'ordine che in prima sede vede collocata la canzone) Era la notte; e sul funereo letto, poi pubblicato, con lievi varianti, di cui, volta a volta, si dà conto in nota, nel citato «Anno poetico II ecc. Nella dedica alla madre premessa alla raccolta il Foscolo scriveva: a: Scorsero ormai sett'anni dopo la morte del tuo dolce compagno, e del nostro tenero genitore [13 ottobre 1788]. Tutto questo tempo fu di dolore, ed io benché avessi appena due lustri ho saputo meco dividere le tue pene, e quelle rimembranze funeste che mi tornano innanzi, e che mi torneranno fino al sepolcro. Non sapendo in qual modo disfogar il mio affanno, raddolcire, o mia tenera genitrice, il tuo, e rendere un ommaggio a mio Padre, scrissi questi versi che or t'indirizzo con le mie lagrime. Addio, benefica Madre. Se i talenti e l'età non mi concessero versi migliori il mio core, il mio core saprà compensare, amandoti, tutti i loro diffetti » (Edizione Nazionale, II, p. 294). METRO: sonetto: ABAB, ABAB, CDC, DCD. POESIE GIOVANILI (1797) IN MORTE DEL PADRE Era la notte; e sul funereo letto agonizzante il genitor vid'io tergersi gli occhi, e con pietoso aspetto mirarmi, e dire in suon languido: addio. Quindi scordato ogni terreno obbietto erger la fronte, ed affisarsi in Dio; mentre disciolta il crin batteasi il petto la madre rispondendo al pianto mio. Ei volte a noi le luci lagrimose, deh basti! disse; e a la mal ferma palma appoggiò il capo, tacque, e si nascose. 125 4 8 Jr 2. il genitor: Andrea Foscolo, nato, da Nicolò e Isabella Mano di Napoli di Romania, a Corfù 1'8 novembre 1754, e morto a Spalato il 13 ottobre 1788. 3. tergersi gli occhi: vedi la canzone Perché, o mie luci, l'angoscioso pianto, 97-8: «[ •••] e un altro che col dito / tergesi i lumi, e fa al suo pianto invito» (Edizione Nazionale, 11, p. 298); pietoso: che destava pietà. 4. dire: nel ms.: «dir»; in suon languido: con voce flebile. 5. Quindi: nel ms.: «Indi»; scordato ... obbietto: dimentico di quanto lo circondava. Nota il BEZZOLA, in Edizione Nazionale, II, p. 300: «"obbliato" è scritto [nel ms.] nell'interlinea sopra "scordato", cancellato (forse in un primo tempo il F. aveva tentato di correggere direttamente "scordato" in "obbliato": poi, non riuscendovi, riscrisse la parola più sopra); prima di "terreno" sono due lettere isolate, cancellate ("on"?)•· 6. erger lafro11te: sollevare la testa. E vedi DANTE, Jn/., x, 35: 11ed el s'crgea col petto e con la fronte»; affisarsi in Dio: rivolgersi unicamente a Dio. E vedi DANTE, Pu,g., 111 73: 11 cosi al viso mio s'affisar quelle». 7. disciolta: nel ms.: «avvolta»; batteasi il petto: vedi DANTE, Purg., vn, 106: •guardate là come si batte il pettof ». 8. la madre: Diamante Spathys, nata, da Narciso e Rubina di Giorgio Serra, a Zante, dove era battezzata il 13 settembre 1747, e morta a Venezia il 28 aprile 1817. Aveva sposato in prime nozze Giovanni Aquila Serra, morto il 16 giugno 1768, e si era successivamente unita in matrimonio con Andrea Foscolo il 6 maggio 1777. 10. mal ferma: incerta, tremante. Per il calco classicistico dell'aggettivo in forma di litote vedi a p. 184 la nota al v. 78 dell'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. POESIE E tacque ognun: ma alfin spirata l'alma cessò il silenzio, e a le strida amorose la notturna gemea terribil calma. I4 12. E tacque .•• l'alma: nota il BEZZOLA, in Edizione Nazionale, n, p. 300: a: Sopra il verso, non cancellato, nell'interlinea è scritto lo stesso verso, modificato in uE ciascun tacque: ma spirata l'alma"»; alf,11: nel ms.: •già•· 13. a le strida amorose: per i pianti, e i lamenti dettati dall'affetto dei parenti; amorose nel ms. è scritto nell'interlinea, in sostituzione di a: profonde•• cassato. A VENEZIA (1797) Pubblicato dapprima nelP«Anno poetico ossia Raccolta annuale di poesie inedite di autori viventi», v, Venezia, Dalla Tipografia di A. Curti, 1797, p. 311, unitamente ad altri componimenti (vedi a p. 114 la nota introduttiva a Le Rimembranze), questo sonetto appare pensato e scritto intorno all'autunno dell'anno 1796 (e vedi la nota ai vv. 5-6). All'esile tradizione del sonetto "democratico" (cui appartengono i sonetti di Giovanni Pindemonte A Venezia l'anno I784; Il giorno I6 maggio I797; Il giorno 4 giugno, pure pubblicati nel v volume dell'«Anno poetico II ecc., alle pp. 157, 159, 160), un genere di sensi alfieriani, e talvolta anche alfieriano per una vaga coloritura lessicale, ma formalmente derivato dal sonetto penitenziale, il presente testo non apporta sensibili innovazioni. Di quello infatti il Foscolo, limitandosi ad evidenziarne il gesto oratorio per il tramite di una mimeticamente adeguata sottolineatura ritmica, accetta il rigido schema, generalmente articolato nell'apostrofe del soggetto (vv. 1-4), cui fa seguito l'allocuzione in forma di interrogativa retorica (vv. 5-8), alla quale si contrappone il quadro, a forti tinte, della situazione reale (vv. 9-11), e il finale, profetico auspicio (vv. 12-4). Scarsamente consistenti risultano poi i precorrimenti stilistici dei componimenti maggiori nella fattispecie del metro prescelto, identificabili innanzitutto nella struttura vocativa della quartina di esordio {propria anche a Forse perché della fatai quiete, Te nudrice alle muse, ospite e Dea, E tu ne' carmi avrai perenne vita, Un di, s'io non andrò sempre fuggendo, Pur tu copia versavi alma di canto), ma ravvisabili anche nell'inarcatura dell'iperbato (vv. 5-6: Il a te vicina / compra e vii pace dorme»; vv. 12-3: • e gallico lo affretta / sublime esempio»; Forse perché della fatai quiete, 5-6: Il inquiete / tenebre e lunghe», qui a p. 200). METRO: sonetto: ABBA, ABBA, CDC, EDE. 128 POESIE A VENEZIA O di mille tiranni, a cui rapina riga il soglio di sangue, imbelle terrai 've mentre civil fame ulula ed erra, siede negra Politica reina; dimmi : che mai ti val se a te vicina compra e vil pace dorme, e se ignea guerra a te non mai le molli trecce afferra 4 onde crollarti in nobile ruina? 8 Già striscia il popol tuo scarno e fremente, e strappa bestemmiando ad altri i panni, mentre gli strappa i suoi man più potente. n 1-2. O di mille ... terra: o Venezia, patria impotente di innumerevoli despoti, il cui potere si macchiò del sangue d'ogni sorta di prevaricazione. 3. 've . .. erra: ove, mentre per il mondo risuona altamente la fama della saggezza dei tuoi civili ordinamenti. 4. siede .•• reina: governa invece la tenebrosa ragion di stato. 5. val: giova, serve. s-6. se a te .•. dorme: se pace acquistata mediante danaro, e quindi ignobile, poltrisce accanto a te. Sulla fine del 1796 il governo veneto, contro le speranze dei democratici, rifiutata l'alleanza con la Repubblica francese, aveva proclamato la propria, patteggiata, neutralità. Si segnala inoltre che nella stampa del citato «Anno poetico» ccc. al v. sè apposta in calce la seguente nota, di probabile paternità foscoliana: • Questo sonetto fu scritto quando Venezia si decise neutra. I patrioti che non sono dc' 14 maggio, lo conoscono sin da quel tempo». Il 14 maggio (ove tuttavia non si tratti di materiale refuso tipografico per 12) designa i democratici dell'ultima ora, stante il fatto che il 12 maggio 1797 il Maggior Consiglio aveva stabilito di sopprimere l'antico ordinamento, instaurando un governo provvisorio democratico, appoggiato dai Francesi, che entrarono in Venezia il 16 dello stesso mese. E vedi a p. 135 la nota al v. 37 dell'ode Ai novelli repubblicani, e Bonaparte Liberatore, 102, a p. 149. 6. ig11ea: 11 fiammeggiantc", perché apportatrice di distruzione. 7. molli: cedevoli. 8. crollarti: scuoterti sino a provocare il tuo crollo; nobile: dignitosa. 9-11. A Giovanni Pindcmonte, autore di un sonetto A Venezia l'anno I784, pubblicato nel citato • Anno poetico» ecc., p. 157, vv. 12-4, il quadro sociale era precedentemente così apparso: •Ahimè! che tra viltà, miserie e inganni / veggo sol vegetar con giro alterno / schiavi tranquilli e timidi tiranni». 10. ad altri: ai nobili. 11. man: quella del governo oligarchico. POESIE GIOVANILI (1797) Ma verrà il giorno, e gallico lo affretta sublime esempio, ch'ei de' suoi tiranni farà col loro scettro alta vendetta. 129 14 12-3. e gallico .•. nnnpio: e il luminoso esempio della Rivoluzione francese lo rende imminente. 13. ei: il popolo. 14. col loro scettro: mediante il potere stesso sottratto ai tiranni oppressori; alta: feroce, micidiale. 9 AI NOVELLI REPUBBLICANI (1797) Dopo che sulla fine dell,aprile 1797 il Foscolo era stato costretto a lasciare Venezia (le due ultime lettere dalla città lagunare recano appunto la data del 22 aprile, e sono dirette rispettivamente all'Alfieri e a Diodata Saluzzo, ai quali il poeta inviava copia della stampa del Tieste; vedi nel II tomo la lettera 4, e in Epistolario, I, pp. 43-4), riparato a Bologna, in lettera delPaprile indirizzata a Giuseppe Rangoni, il poeta così motivava le ragioni del suo esilio: «Abbandonai la mia patria per vivere libero: rinunziai per l'indipendenza, ch'ho sempre adorato, alla gloria, ai commodi ed ai miei genitori n (Epistolario, I, p. 44). È dubbio che la rinuncia ai «commodi », stante le condizioni economiche della famiglia Foscolo, rispondesse a verità. Certo la «gloria», cioè la notorietà seguita al successo della rappresentazione del Tieste (4 gennaio 1797), ebbe verosimilmente l'effetto di attirare sulle non equivoche intenzioni antitiranniche del giovane autore, dell'amico di Antonio Cristoforo Saliceti e di Vincenzo Dandolo, l'attenzione della sempre più preoccupata e vessante polizia della Repubblica di San Marco. Se si deve credere al biografo foscoliano De Winckels, che riferisce l'episodio come avvenuto sulla fede della sorella del poeta Rubina, il Nostro avrebbe subito due interrogatori da parte degli inquisitori veneti (Vita di Ugo Foscolo, Verona, Milnster, 1885, I, pp. 29-30). E lo stesso poeta ebbe poi a confermarlo, a Londra, a Santorre Santarosa (vedi V. CIAN, Ugo Foscolo a Londra nei ricordi di Santorre Santarosa, in cc Giornale Storico della Letteratura Italiana», LXXIII, 1° semestre r919, pp. 69-70). Ciò che, ove quanto sopra si fosse realmente verificato, ne renderebbe meno disinteressata l,elezione dell'esilio. A Bologna, capitale della Repubblica Cispadana, proclamata a Reggio nel dicembre del '96, il Foscolo si arruolò volontario nello squadrone dei Cacciatori a cavallo che ivi si andava approntando, venendo successivamente nominato brigadiere. Resosi, tuttavia, poco dopo, inabile per motivi di salute (vedi la citata lettera al Rangoni, p. 45), era congedato il 28 aprile 1797 (su tutto ciò vedi Epistolario, 1, p. 45, nota 3). A Bologna, intorno alla metà maggio del 1797, e per conto della Giunta di difesa generale della Cispadana, vedeva la luce l'ode Bonaparte liberatore, della quale, il 16 maggio, la Giunta stessa inviava • un buon numero d'esemplari,, alla Municipalità di Reggio Emilia (vedi Epistolario, I, p. 49, nota). E il medesimo giorno il Foscolo scriveva alla Municipalità di Reggio Emilia: aAbbandonai Venezia patria de' miei genitori, e venni nella Cispadana con la devozione del democratico, e con la sublime baldanza dell'Uomo Libero. Le prime linee ch'io scrissi furono di libertà; ed osai consacrarle ai Reggiani. Sarei venuto a recarle io medesimo, ma la patria già libera dalla esecrabile oligarchia mi richiama al suo seno. Io volo I io vado a spargere le prime lagrime libere, ed a parlare a, miei concittadini che per tanto tempo soffersero le loro catene>> (Epistolario, 1, pp. 49-50). Come è noto, in seguito all'incidente relativo alla cattura del vascello francese Liberateur d'Jtalie, che aveva forzato il divieto di entrare nella laguna, il 12 maggio, l'oligarchia nobiliare, pur tentando in extremis di suscitare la rivolta della plebe contro i "giacobini" (e vedi la nota al v. 90), doveva POESIE GIOVANILI (1797) 131 lasciare il potere nelle mani dei democratici, rafforzati poi dall'ingresso dei Francesi in Venezia, in numero di seimila e guidati da Baraguays d'Hilliers, il 16 maggio. Concomitante fu anche il ritorno del Nostro, se da Venezia il 20 maggio poteva indirizzare alla Giunta di difesa generale della Cispadana, la richiesta di «un'uniforme qualunque di Uffiziale di onore della Cispadana» (Epi.stolario, I, p. s1): richiesta esaudita il 23 maggio con il conferimento della nomina di tenente onorario aggregato alla Legione Cispadana (vedi Epi.stolario, I, pp. 51-2, nota 4). Il termine post quem della stampa dell'ode Ai novelli repubblicani (se non della sua composizione, da porsi invece verosimilmente dopo l'annuncio della caduta dell'ancien régime, contenuto nella lettera di Almorò Fedrigo citata in nota al v. 90) coincide dunque con il rientro del Foscolo a Venezia (17-19 maggio), mentre il termine ante quem è costituito dalla ristampa dell'ode nell'a Anno poetico ossia Raccolta annuale di poesie inedite di autori viventi 11, v, Venezia, Dalla Tipografia di A. Curti, 1797, pp. 312-8 (per la cui pubblicazione vedi a p. 114 la nota introduttiva a Le Rimembranze). Steso in un metro del tipo di quello usato dall'Alfieri nelle odi dell'America libera e Parigi sbasti'gliato, il presente testo, più che a celebrazione della sconfitta della tirannide oligarchica, sembra inteso a suscitare nei novelli repubblicani veneti, in un momento storico di capitale importanza, l'energia e la vigilanza necessarie a debellare i nemici di quella libertà che, recuperata grazie a circostanze non direttamente determinate dall'azione rivoluzionaria dei democratici di Venezia, esigeva ora da questi l'accortezza di un impegno atto ad imporne la sua definitiva affermazione contro le debellate, ma non interamente sopite e vinte ambizioni di rivalsa dell'ancor minacciosa classe nobiliare. METRO: ode: ABBACcded. 132 POESIE AI NOVELLI REPUBBLICANI A GIOAN-DIONIGI FOSCOLO 1 Eccoti un1oda che ti si spetta perché ispirata dall'amore di libertà. Ei ti guida alle schiere di Bonaparte, e tu fra i soldati repubblicani morrai forse felice veggendo le patrie bandiere annunziar vittoria. Né la mia sorte è già dubbia: io mi resi santo il proposito di morir con la libertà, di espormi contro il furore della licenza prima motrice di tirannia: difficile impresa ma degna di tutti i liberi. Io gli invito a seguirmi, e sieno più feroci di me, ch'io sarò lor seguace. Ove ciò sia non dei più temere della vera repubblica. I democratici deliberati atterriscono tutti i popoli: noi sarem liberi veracemente o morremo. - Salute Tuo FRATELLO [Credo adattata a quest'oda la lettera scritta a Tullio da Marco Bruto. Ella nel Consolo, e nell'Oratore di Roma, ci pinge l'uomo malfermo, e quindi il non vero Repubblicano. MARCO BRUTO A CICERONE SALUTE A te non duole il tiranno; bensì ti duole il tiranno nemico. Soffrire un servaggio piacevole; ecco tuo scopo. Qùind'è che mi pinsi fra gli ottimi l'Addottivo di Cesare. Ma sai tu pure che i nostri padri sempre abborrirono signoria benché mite. Per me non ho ancor divisato né riposo, né guerra; ho bensl fermamente proposto di non servire. Meravigliami che il timor d'una guerra civile l'orror tutto ti sgombri d'una pace dannosa ed infame. Soqquadrasti la tirannide di Mare'Antonio, e chiedi perciò in mercede quella del Figlio di Cesare, sta sano. Versione da Plutarco nella vita di Bruto] I. Giovan Dionigi Foscolo (Zante, 27 febbraio 1781-Venezia, 8 dicembre 1801). Dopo il 1797 frequentò la Scuola di artiglieria e genio di Modena conseguendovi, il x800, il brevetto di sottotenente. Combatté col frateJlo Ugo in Liguria e poi fu inviato in Francia. Nel 1801 era primo tenente a Bologna dove, avendo perso una forte somma al gioco, e facendosela prestare da un sottoispettore venne da questo accusato di averla sottratta alla cassa del reggimento e fu processato. Riparato a Venezia, due supposizioni vengono avanzate circa la sua morte: che ammalato, apprendendo la sua condanna, si uccidesse; oppure che, pugnalandosi, sopravvivesse parecchi giorni ancora così da giustificare il certificato di morte, dal quale risulta defunto per • febbre nervina perniciosa ». POESIE GIOVANILI (1797) Questo ch'io serbo in sen sacro pugnale, io l'alzo, e grido a l'universo intero: cc Fia del mio sangue un dl tepido e nero ove allontani le santissim'ale dal patrio cielo Libertà feroce». Già valica mia voce 133 s La prima edizione veneziana: A' repubblicani. Oda del cittadino NICCOLÒ Uoo FoscoLo. Deliberata morte ferocior [ORAZIO, Od., I, 37, 29]. Venezia, Anno primo. Registrato al Comitato d'i.struzion Pubblica dall'autore, recava a p. III la dedica al fratello, a p. IV la lettera di Bruto a Cicerone da Plutarco, alle pp. V-VI i chiarimenti alle strofe VI-X (vv. 46-81), pubblicati di seguito: «Lo spirito di quest'oda, e le stanze VI e segr,enti sino alla X esigono che preceda il presente squarcio. La legge agraria vietava in Roma le immense ricchezze cagioni d'immensa miseria, di ineguaglianza, e d'oligarchia. Obbliata perché non cara a potenti fu da Tiberio Gracco restituita. Il senato s'oppose; il popolo la protesse: l'interesse piucché la santità della legge animava le due fazioni. Dopo lunghe contese Tiberio, benché tribuno della plebe, fu ucciso, e gettato co' suoi seguaci nel Tevere. Caio Gracco suo Fratello minor di nov'anni vide Tiberio fra l'orror della notte: - Che stai? gli disse: non v'ha riparo,· tu dei seguirmi. - Questa visione la narra Tullio, e Plutarco la addotta. Tutti i veri Repubblicani hann'un genio che li rende divini; e questo genio gli offrì la larva notturna ond'ei si mosse dietro le traccie Fraterne. Propose con forza la legge Agraria e la diffese con forza. Il senato mostrossi feroce ed artifizioso: il popolo seguì Gracco suo tribuno: ma quando non vinse l'oro? Successe alle dispute il sangue. Caio sublime in campo e vincitore della Sardegna, ma nemico dell'ire interne, ne pianse. Opimio Consolo sorprese per mezzo de' mercenarii il tribuno che non volle al suo fianco la plebe armata mostrandosi inerme nel Foro. Assalito non chiamò i suoi: fra le straggi de' cittadini fuggì con un servo nel tempio di Diana dove prevvide Roma futura; ind'inscguito, corse pel ponte sublicio nel bosco sacro alle Furie. Tentò per via di traffigersi ma fu impedito; involandosi a suoi famigliari gridava rivolto al cielo "abborro il sangue civile". Filocratc Io seguì, e per suo cenno il traffisse: ma poscia immergendosi in petto il pugnale medesimo, abbracci<\ Caio agonizzante, e spirò. I corpi furon del Tevere. La madre di Caio non pianse: narrando i fatti de' suoi due figli chiamavnsi: - CORNELIA MADRE DE' GRACCHI ». 1. serbo in sen: conservo nascosto in seno; sacro: consacrato alla causa della libertà. 3. Fia ..• nero: sarà (il pugnale) riscaldato e tinto dal mio sangue. 4. ove: con valore ipotetico, come nei Sepolcri, 89-90, a p. 306: • non sorge fiore ove non sia d'umane / lodi onorato e d'amoroso pianto»; allontani: il soggetto è la Libertà del verso seguente. 5. dal patrio cielo: anche i'ALFIERi, nelttAmerica libera, Ode quarta, v1, 81-3, rappresenta la libertà alata: «Oh come ratte l'ali al voi dispiega / di sua nobile preda / lieta la Diva, oltre ogni dir splendenteI• (Opere di VITTORIO ALFIERI da Asti, voi. IV, t. u, Scritti politici e morali, a cura di P. Cazzani, Asti, Casa d'Alfieri, 1966); e vedi Bonaparte liberatore, 3, a p. 144; feroce: latinismo per "fiera", "indomita". 134 POESIE d'Adria le timid'onde, e la odono eccheggiando le marsigliesi sponde. Voi, che ignari di voi, già un tempo feste 10 di mille regi sanguinarii al soglio, cui cingeva Terror, Morte ed Orgoglio, sgabello eccelso de l'oppresse teste; e de gli ottimi al sangue inutil pianto (di tirannide vanto!) 15 mesceste a piè degli empii; sorgete: il giorno è giunto di vendetta e di scempii. A l'armi! Enteo furor su voi discende che i spirti sgombra, e l'alme erge ed avvampa, 20 e accesa in ciel di ragion la lampa, vi toglie a gli occhi le ingannevol bende. Ché ragion, figlia di dio, v'invita a vera morte, e addita 7. d'Adria le timid'onde: le onde del mare Adriatico, ancora intimorito dalla soggezione della tirannide del dominio di Venezia. 9. le marsiglien sponde: genericamente (la designazione particolare è in ragione anche della prossimità geografica), le coste di Francia. 1o. Voi: 11 Voce di richiamo: come nel Petrarca, Ai signori d'Italia, Rime sparse, CXXVIII, 17, e già in J, 1, e poi in CCXLII, 9 D (CHIORBOLI); ignari di voi: dimentichi di voi stessi. 12. cui cingeva: circondato; Terror, Morte ed Orgoglio: personificazioni dei principali contrassegni della tirannide. 13. sgabello eccelso: 11 eminente appoggio"; è retto da feste del v. 10. E vedi La Giustizia e la Pietà, 97, a p. 108, e Bonaparte liberatore, 63, a p. 147; de l'oppresse teste: figuratamente, 11 con le sottomesse teste". I 4. ottimi: cittadini che non si erano piegati alla tirannide; sangue: vedi Bonaparte liberatore, 69, a p. 147, e Sepolcri, 157-8, a p. 312: 11 gli allor ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue D, 18. scempii: vedi a p. 32 La morte di •••, 13 e la nota relativa. 19. A l'armi!: vedi l'ode alfieriana Parigi sbastigliato, 1-4: «All'armi, all'armi, un generoso grido / fa rintronar di Senna ambe le rive: / all'armi, all'armi, eccheggia / Francia intera dall'uno all'altro lido• (in Opere, voi. 1v, t. 11, cit., p. 104); e vedi Bonaparte liberatore, 116, a p. 150; Enteo: dal greco fvDeo;, "ispirato", "divino". 20. sgombra: libera; l'alme .•. avvampa: solleva cd infiamma le anime. 21. e accesa ... la lampa: e sostituito alla fede religiosa l'esercizio delln ragione. 22. le ingannevol bende: le menzogne della superstizione, che fanno velo alla verità, illuminata dalla ragione. 23-4. v'invita • •• morte: vi chiama a rischiare la vita per l'affermazione della verità. POESIE GIOVANILI (l 797) 135 i rei petti esecrandi 25 ove, «piantate », grida: «infin a l'elsa i brandi ». Tremate? e invece d'inimico sangue lacrime infami il ferro imbelle gronda? A che di civil quercia augusta fronda 30 chieder, se ardor civile in sen vi langue? - Baciar vi veggio, e tergere col crine, o spartane eroine, le piaghe de' feriti figli, e vantar la morte 35 de' padri e de' maritiIMa Genio intanto a noi scende di pace, e con la destra un ramuscel di ulivo alza, e dolce cantando inno giulivo, scote con l'altra man candida face; 40 e de le morte età la tacit'ombra col puro lume ei sgombra, e sul sublicio ponte 25. rei . .. esecrandi: i petti dei tiranni, degni di esecrazione in quanto colpevoli. 29. infami: ridondanti infamia su chi, per timore, le versa: il ferro imbelle: la spada impugnata da mano timorosa. 30. di civil • • •fro11da: la corona di foglie di quercia, competente ai benemeriti di virtù civiche (donde civil). 37. Genio ..• di pace: si potrebbe qui forse cogliere un'allusione alla pace con i Francesi, che entrarono in Venezia il 16 maggio 1797, dopo che il 12 dello stesso mese il governo oligarchico, responsabile di avere rifiutato nel 1796 un trattato di alleanza con la Repubblica francese, era decaduto (su tutto ciò vedi a p. 128 la nota ai vv. 5-6 del sonetto A Venezia). 40. ca,idida /ace: luminosa fiaccola. 41-2. e de le morte .•• sgombra: e con la sua chiara luce mette in fuga (e quindi illumina) roscurità che avvolge le età rivolte. 43. sublicio ponte: ponte di legno. Gaio Sempronio Gracco (per il quale vedi la nota al verso seguente), ritiratosi sull'Aventino, per sfuggire all'assalto dei nobili, dopo essersi rifugiato nel tempio di Minerva, fuggi sulla sponda destra del Tevere (e nell'atto di attraversare il ponte lo rappresenta il Foscolo), dove, incalzato dai nemici, nel bosco delle Furie si fece uccidere da un suo servo. 136 POESIE mostra il secondo Gracco pallido e cupo in fronte. Tu fuggi, o Caio ? e ov'è la tua possanza e il tuo repubblicano almo furore? E del divino tuo tenace core la mai non atterrita ov'è fidanza? Nudasti il brando; e su le sarde porte presentasti la morte: tuonasti il vero; e doma al tuo parlar tremonne la senatoria Roma. Quando a l'orror di notte taciturna del tuo spento fratel lo immane spetro coi crin su gli occhi, e sanguinoso e tetro surse del Tebro da l'incognit'urna; 45 so ss 44. mostra: lascia vedere. Gaio Sempronio Gracco, figlio di Tiberio Sempronio Gracco (console nel 177 e nel 163 a. C.), e di Cornelia, figlia del primo Africano, nato nel 154 e morto nel 121 a. C. 45.fronte: volto. 46. possanza: potere. 47. almo: divino. 48. tenace: perseverante, nella lotta politica. 49.fidanza: fermezza. 50-1. e su le sarde .•. morte: Gaio Sempronio Gracco nel 126 a. C., in qualità di questore, si recò in Sardegna, donde rientrò in Roma nella primavera del 124 a. C. 54. la senatoria Roma: la fazione dei Senatori. 55-63. Quando .. . morrai: la stampa del citato «Anno poetico» ecc., riporta la seguente Nota dell'autore alla stanza VII: • Tiberio Gracco rinovò la Legge Agraria in Roma, santissima fra le leggi. Il senato lo trucidò a tradimento, e fé gettare il corpo nel Tevere. Apparve l'ombra di questo repubblicano a Caio Gracco suo fratello: sieguimi, gli disse. Caio sostenne la Legge Agraria con forza: il senato armò de' mercenarii: perseguitato da questi, Caio, benché valoroso e vincitore della Sardegna, per non versare il sangue d'uno de' suoi concittadini, fuggendo si uccise. - Ecco il destino de' veri repubblicani. - Seguiam le lor orme, e incontriamolo». 56. spento fratel: ucciso fratello. Tiberio Sempronio Gracco, nato nel 162 a. C., e morto nel 133 a. C. (e vedi la nota al v. 63); immane: smisurato. 57. coi crin su gli occhi: vedi In morte di Amaritte, 6, a p. 39, e Le Rimembranze, 45, a p. 117; sanguinoso: per le ferite che ne avevano cagionato la morte. E vedi la nota al v. 63. 58. surse del Tebro: vedi a p. 183 l'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, 69-70 (« surse per le profonde / vie dal Tirreno talamo 11), e la nota relativa. 58. incognit'urna: ignota tomba; urna, propriamente vaso cinerario, vale genericamente "tomba". Il cadavere di Tiberio Sempronio Gracco, invano richiesto dal fratello Gaio per le esequie, venne gettato nottetempo nel Tevere dall'edile Lucrezio. POESIE GIOVANILI (1797) 137 al lampeggiar di livido baleno voce da l'imo seno 6o trasse e gridò: «Che stai ? T'alza; tuo fato è scritto: di mia morte morrai». E dal fatai suo genio a man guidato le agrarie leggi e le virtudi antiche 65 chiamasti al popol vulgo ornai nemiche, e più nemiche del tiran senato: ma Roma freme; e fra tremendi carmi suonan tremende l'armi: or dove cerchi scampo? 70 Perché l'acciar non vibri che ti fé primo in campo? Ma voce fra 'I lontan spazio de gli anni mi dice: (( Infame è chi nel patrio petto immerge il ferro per la patria stretto 75 onde balzar dal soglio empii tiranni: o padre, o padre! ne l'elisie sponde cinto di triste fronde scendo, ma non mi vedi di civil sangue lordo 8o né fra regali arredi ». 59. al lampeggiar . .. baleno: al balenare di un lampo, livido per l'o"or di notte taciturna (v. 55). 60. imo: profondo. 61. Che stai?: perché indugi? E vedi a p. 248 la nota al v. 1 del sonetto Che stai? già il secol l'orma ultima lascia. 63. di mia morte: della mia stessa morte. Tiberio Sempronio Gracco venne infatti ucciso a colpi di bastone da P. Saturnio e da L. Rufo, esponenti della fazione senatoria, nel 133 a. C. 64. E dal . •. guidato: e direttamente ispirato dall'esempio fraterno. 65. le agrarie leggi: durante il suo secondo tribunato Gaio Sempronio Gracco richiamò in vita la legge agraria, varata da Tiberio Sempronio Gracco nel 133 a. C., e a sua volta modellata sopra la legge Licinia-Sestia del 367 a. C.; le virtudi antiche: le virtù repubblicane. 66. chiamasti: richiamasti in vigore; al .•. nemiche: avversate ormai dalla plebe. 67. e più: ma più ancora. 73. Ma voce •.. anni: ma una voce, lontana quanto il tempo trascorso dall'eccidio dei Gracchi ai novelli fasti repubblicani di Venezia. 74. nel patrio petto: nel petto dei propri concittadini. 76. balzar: sbalzare, spodestare. 77. ne l'elisie sponde: nell'Eliso, luogo dell'inferno pagano destinato alle ombre dei virtuosi. 78. tn'ste: funebri. 81. néfra regali a"edi: né paludato delle spoglie, degne di un re, frutto dell'aver sparso il civil sangue degli empii tiranni. 138 POESIE Pur non vi Ieee le mal-ferme spade, o di novella libertà campioni, ripor, che caldo da i calcati troni a stilla a stilla ancora il sangue cade: 85 - Sia pace: - Armati di terror la faccia, pronti a ferir le braccia aggiate intanto, o prodi: cadran sepolte e nulle le tirannesche frodi. Vile è il torpor ch'a intiepidir vostr'alme al molle avvezze infame empio servaggio, piove, e cieche le rende al divin raggio di Libertà ch'auro diffonde e palme: folle è la fama, e mille ha orecchie e lingue, 95 né il falso e il ver distingue; quindi ministra ornai d'oligarchica rabbia .sogna menzogne e guai. 82. h mal-ferme spade: le spade impugnate con scarsa fermezza d'animo, stante il carattere incruento della rivoluzione veneziana. 83. o di novella . •• campioni: i Veneziani. 84. ripor: rinfoderare; calcati: calpestati. 86. Armati ... faccia: disposti i volti a incutere terrore al nemico. 88. aggiate: abbiate. 89. nulle: inutili. 90. h tiran11esche frodi: le mene dei tiranni per riconquistare il potere. E probabile che qui il Foscolo alluda al tentativo, di ispirazione aristocratica, di scatenare la II turba di vili e feroci Dalmati• contro i giacobini veneziani, durante la giornata del 12 maggio 1797, di cui è notizia nella lettera cli Almorò Fcdrigo al Foscolo del 13 maggio 1797 (la si veda in Epistolario, 1, pp. 46-9). 91. intiepidir: render deboli. 92. al molle •.. servaggio: abituate all'infamante e colpevole schiavitù che le rende (le anime) prone alla volontà dei tiranni. 93-4. e cieche . •• palme: e le rende incapaci di ravvisare i vantaggi che la libertà comporta. 97. quindi: perché non sa scemere il vero dal falso (v. 96); ministra omai: serva ormai solo. 98. d'oligarchica rabbia: del livore nobiliare. 99. sogna .•. guai: diffonde voci menzognere e fantastica di danni futuri. Guai nel senso di "danni" è anche in PBTRARCA, Rime, LIII, 10-1: «Che s'aspetti non so, né che s'agogni, / Italia, che suoi guai non par che senta•· POESIE GIOVANILI (1797) E guai sien pur: né sol a Grecia e a Francia, né sol a Fabii ed a i roman cavalli, vincer fu dato i Sersi e gli Anniballi alto-squassando la funerea lancia. E noi liberi siam. - Ben l'universo sia contro noi converso. Forse sol degno è Cato di morir con acciaro a Libertà sacrato ? 139 100 105 101. Fabii: Quinto Fnbio Massimo, dittatore nel 217 a. C., durante la seconda guerra punica, dopo la sconfitta presso il logo Trasimeno, si oppose vittoriosamente ad Annibale. 102. Sersi: Serse I, figlio di Dario I, imperatore di Persia dal 485 al 465 n. C., fu sconfitto a Salamina da Temistocle nel 480 a. C., a Platea da Aristide e da Pausania nel 479 a. C. E vedi Bonaparte liberatore, 216, a p. 155. 103. alto-squassando: agitando fieramente. 104. E: anche. 106. Cato: l\1arco Porcio Catone, di parte pompeiana, dopo la vittoria di Cesare a Tnpso, si uccise in Utica, presso Cartagine, nel 46 a. C., gettandosi sulla propria spada. BONAPARTE LIBERATORE (1799) Composto a Bologna, ed ivi pubblicato, con dedica «Alla città di Reggio•, per conto della Giunta di difesa generale della Cispadana, intorno alla metà maggio del 1797 (e vedi a p. 130 la nota introduttiva all'ode Ai novelli repubblicani), il presente testo venne ristampato a Genova tra il 27 (data della dedicatoria a Bonaparte), e il 30 novembre 1799 (data del n. 25 della «Gazzetta Nazionale Ligure», in cui si legge che «La stamperia Frugoni ha pubblicato una bellissima ode di Ugo Foscolo dedicata a Bonaparte»). Circa le otto edizioni che videro la luce tra il 1797 e il 1800 vedi Edizione Nazionale, II, pp. LXXVI-LXXVIII. Quanto al movente che ne dettò la ristampa genovese, non par dubbio che, sulla scorta della dedicatoria al Bonaparte, tanto politicamente affine al coevo Discorso su la Italia indirizzato allo Championnet (e del quale vedi nel tomo II la nota introduttiva), lo stesso sia da porsi in relazione al colpo di stato del 18 brumaio (9 ottobre), in seguito al quale il noto improvvisatore Francesco Gianni, da Parigi, dove si trovava dalla metà del 1799, inviava a Genova La Vendetta, canto militare dedicato a Bonaparte l'italico, pubblicato nella «Gazzetta Nazionale Ligure» del 9 novembre 1799. Dato il taglio incondizionatamente apologetico del componimento del Gianni, ciò forse valse, senza tuttavia dimenticare che la provocazione fondamentale venne dal fatto politico in sé, a che il Foscolo si decidesse a procurare una nuova edizione dell'ode, con l'aggiunta della lettera A Bonaparte, di importanza non meno capitale, nel prevalente registro della prosa del Nostro, di quanto non sia in quello poetico la pressoché coetanea ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. Ha più che giustamente notato il Dionisotti: «Si può discutere se il primo Ortis, quale è giunto a noi, l'Ortis bolognese del 1798, sia documento di una nuova letteratura. A mio giudizio non è: il paragone con l'Ortis milanese del 1802 mi pare decisivo. Ma decisivo è anche il paragone colla seconda dedicatoria dell'Ode a Bonaparte liberatore, perché questa prosa, d'uno stile che né il primo né il secondo Ortis pareggia, degna insomma di stare in quanto si voglia ristretta antologia foscoliana, non ha, ch'io sappia, riscontro alcuno nella letteratura italiana del Settecento. Neppure l'aristocratico e prepotente Alfieri si era mai levato tanto alto, con occhio così impavido e chiaro, sui personaggi e sugli eventi della tragedia storica. Indubbiamente questa prosa appartiene ancora al Settecento, e se per il nodo che la stringe al secondo Ortis e alla breve stagione poetica dei primi anni del secolo successivo, potrà sembrare a qualcuno che si tratti d'un solo capitolo di storia letteraria e d'un capitolo ancora nel suo insieme settecentesco, non sarà certo il caso di far questione per cosi poco. Ma se con ciò s'intendesse attenuare la frattura che stacca questo capitolo dal precedente, la frattura aperta anche nella storia della letteratura italiana dalla rivoluzione francese, si rischierebbe a mio giudizio di perdere affatto il senso della realtà e delle proporzioni• (C. DIONISOTTI, Venezia e il nooiziato poetico del Foscolo, in• Lettere italiane•, gennaio-marzo, 1966, pp. 13- 4). Altrettanto non pare dovuto all'ode. Il Foscolo stesso (che ancora il 31 ottobre 1812, scrivendo a Giovan Paolo Schultesius, la riteneva degna di POESIE GIOVANILI (1799) menzione, unitamente al Tieste, pur aggiungendo: •ad ogni modo è poesia giovenile », Epistolario, IV, p. I 92), in una postilla bio-bibliografica apposta il 10 settembre 1798 nel frontispizio di un esemplare dell'editio princeps bolognese, ammetteva: 1 L'oda non è mediocre attesi i tempi ne' quali fu scritta. - Annovi però infiniti modi ch'io non approvo, molti versi inutili, due stanze, la J31 e la ga bisognose di gran cangiamento. L'idea dell'oda sembrami originale 11 (Edizione Nazionale, II, p. LXXV). Di più ambiziosa tessitura (e stesa probabilmente con maggior agio), dell'altra Ai novelli repubblicani, l'ode Bonaparte liberatore fu sottoposta dal poeta ad accurata revisione, intorno all'autunno del 1 99. Oltre a fatti meramente grammaticali, ma sintomatici dell'incipiente fase classicistica, come la costante disgiunzione delle preposizioni articolate (vv. 1, 3, 17, 35, 651 116, 123, 169, 171, 184, 188, 208, 23 I, 233), l'eliminazione dell'elisione (v. 71), secondo una tendenza condotta al massimo grado di artificio espressivo nel processo di revisione testuale dell'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo (della quale vedi nella nota al testo, alla fine del Il tomo, l'apparato ai vv. 23, 37 [31), 58 [52), 85 (79), e la nota introduttiva, a p. 173), omogeneamente al vettore formale sopra segnalato, e per quanto più genericamente pertiene allo stile, il lavoro correttorio del Foscolo si identifica soprattutto con l'introduzione di latinismi (vv. 14, 67, 215), la sostituzione di zeppe poetiche con "tecnicismi" (vv. 5, 17, 44, 87, 152), l'attenuazione dell'enfasi nell'aggettivazione deprecatoria (vv. 157, 178), l'uso più discreto dell'iperbato, ora instaurato (v. 88), ora invece soppresso {vv. 200-1), secondo una più razionale, e meno "poetica", distribuzione del periodo, come finalmente risulta dalla conclusiva lezione dei vv. 193-9. Ciò che, ovviamente, non modifica il primitivo impianto dell'ode. Meno originale di quanto non sembrasse al Foscolo, e riferentesi, anche per l'analogia metrica con la stanza di canzone, a celebri modelli alfieriani (di cui è cenno a p. 131 nella nota introduttiva all'ode Ai novelli Te/)rlbblicani), e solo, se così può dirsi, attualizzata da una patina linguistica di ascendenza montiana, ritoccata, ma non sostanzialmente rimossa nella revisione genovese del testo del 1799. METRO: canzone: ABCBCAaDdEFgHGEIFHilmLMNMN (strofe: 1, 11, III, IV, v); ABCBCAaDdEFgHGEIHFilmLMNMN (strofe: VI); ABC BCAaDdEFgHGEIFHllmLMNLN (strofe: vu); ABCBCAaDdEFgHG EIFLlmnMNONO (strofe: v111); ABCBCAaDdEFgHGFIHEilmLMN MN (strofe: 1x). POESIE BONAPARTE LIBERATORE A BONAPARTE lo ti dedicava questa Oda quando tu, vinte dodici giornate e venticinque combattimenti, espugnate dieci fortezze, conquistate otto provincie, riportate centocinquanta insegne, quattrocento cannoni e centomila prigionieri, annientati cinque eserciti, disarmato il re sardo, atterrito Ferdinando IV, umiliato Pio VI, rovesciate due antiche repubbliche, e forzato l'imperatore alla tregua, davi pace a' nemici, costituzione alla Italia, e onnipotenza al popolo fran- cese.1 Ed ora pur te la dedico non per lusingàrti col suono delle tue gesta, ma per mostrarti col paragone la miseria di questa Italia che giustamente aspetta restaurata la libertà da chi primo la fondò. Possa io intuonare di nuovo il canto della vittoria quando tu tornerai a passare le Alpi, a vedere, ed a vincere!2 Vero è che, più che della tua lontananza, la nostra rovina è colpa degli uomini guasti dall'antico servaggio e dalla nuova licenza. Ma poiché la nostra salute sta nelle mani di un conquistatore, ed è vero pur troppo che il fondatore di una repubblica deve essere un despota, noi e per i tuoi beneficii, e pel tuo Genio che sovrasta tutti gli altri della età nostra siamo in dovere di invocarti, e tu in dovere di soccorrerci non solo perché partecipi del sangue italiano, e la rivoluzione d'Italia è opera tua, ma per fare che i secoli tacciano di quel Trattato che trafficò la mia patria,3 insospetti le nazioni, e scemò dignità al tuo nome. 1. lo ti dedicava . . .francese: allude alla prima campagna d'Italia di Napoleone, che, iniziata il 9 aprile 1796, dopo che il 9 marzo gli era stato conferito il comando dell'esercito d'Italia, si concluse con il trattato di Lcoben, il 18 aprile 1797. Per il re sardo vedi la nota al v. 96, per Ferdinando IV la nota al v. 89, per Pio VI la nota ai vv. 163-5, per le d11.e antiche repubbliche le note ai vv. 101 e 102, mentre l'imperatore costretto alla tregua è Francesco Il, e la tregua, l'armistizio di Leoben, di cui sopra. Quanto all"espressione davi • •• costituzione alla Italia, il Foscolo, più che ad uno specifico istituto normativo, potrebbe riferirsi, sorpassando il termine ante quem deJl'ode (per il quale vedi a p. 140 la nota introduttiva), alla fondnzionc della Repubblica Cisalpina (29 giugno 1797). 2. a vedere, ed a vincere: vedi la nota al v. 182. 3. Trattato .. . patria: in forza del trattato di Campoformio (villaggio situato tra Udine e Passariano), sottoscritto da Napoleone POESIE GIOVANILI (1799) 143 E' pare che la tua fortuna, la tua fama, e la tua virtù te ne abbiano in tempo aperto il campo. Tu stai sopra un seggio donde e col braccio e col senno puoi restituire libertà a noi, prosperità e fede alla tua Repubblica, e pace all'Europa. Pure né per te glorioso, né per me onesto sarebbe s'io adesso non t'offerissi che versi di laude. Tu se' ornai più grande per i tuoi fatti, che per gli altrui detti: né a te quindi s'aggiugnerebbe elogio, né a me altro verrebbe tranne la taccia di adulatore. Onde t'invierb un consiglio, che essendo da te liberalmente accolto, mostrerai che non sono sempre insociabili virtù e potenza, e ch'io, quantunque oscurissimo, sono degno di laudarti perché so dirti fermamente la verità. Uomo tu sei e mortale e nato in tempi ove la universale scelleratezza sommi ostacoli frappone alle magnanime imprese, e potentissimi incitamenti al mal fare. Quindi o il sentimento della tua superiorità, o la conoscenza del comune avvilimento potrebbero trarti forse a cosa che tu stesso abborri. Né Cesare prima di passare il Rubicone ambiva alla dittatura del mondo. Anche negli infelicissimi tempi le grandi rivoluzioni destano feroci petti ed altissimi ingegni. Che se tu aspirando al sommo potere sdegni generosamente i primi, aspirando alla immortalità, il che è più degno delle sublimi anime, rispetterai i secondi. Avrà il nostro secolo un Tacito, il quale commetterà la tua sen-- tenza alla severa posterità. Salute Genooa 5 agghiacciatore anno VIII [27 novembre 1799]. Uco FoscoLo nella Villa Manin di Passariano il 17 ottobre 1797, a perfezionamento dei preliminari di Leoben (18 aprile 1797), l'Austria, oltre che dell'Istria, della Dalmazia, delle Bocche di Cattaro, delle isole veneziane dell'Adriatico, entrava in possesso di Venezia e della laguna veneta. POESIE Dove tu, diva, de l'antica e forte dominatrice libera del mondo felice a l'ombra di tue sacre penne, dove fuggivi, quando ferreo pondo di dittatoria tirannia le tenne umil la testa fra servaggio e morte? Te seguir le risorte ombre de' Bruti, ai secoli mostrando alteramente il brando del padre tinto e dei figliuol nel sangue; te, o Libertà, se per le gelid'onde del Danubio e del Reno gisti fra genti indomite guerriere; te se raccolse nel sanguineo seno Brittannia, e t'ascondea mortifer angue; te se al furor di mercenarie spade de l'oceano da le ignote sponde s 10 15 1. de: allontanandoti da. 2. dominatrice .•. mondo: Roma. 3.felice: prospera, perché retta da istituti repubblicani; pe11ne: per la raffigurazione della libertà quale dea alata, vedi a p. I 33 la nota al v. 5 dell'ode Ai novelli repubblicani. 4-5. ferreo ... tiramria: il grave (ferreo) peso della dittatura di Caio Giulio Cesare, cui il Foscolo allude nella dedicatoria al Bonaparte: • Né Cesare prima di passare il Rubicone ambiva alla dittatura del mondo•· 6.fra servaggio e morte: e l'alternativa era tra la schiavitù e la morte. 8-10. de' Bruti . .. sangue: Marco Giunio Bruto, marito di una sorella di Tarquinio il Superbo, da questo mandato a morte unitamente al figlio maggiore; il figlio Lucio Giunio, dopo i-oltraggio di Sesto Tarquinio a Lucrezia, moglie di Collatino, cacciati i Tarquini, insieme a quello, istitui la repubblica nel 509 a. C. 11-2. per . .. Reno: allude alle conquiste romane nelle terre solcate dai due fiumi. 14-5. nel ... Brittannia: alla fine del V secolo la Britannia fu invasa da Angli e Sassoni, e le sanguinose lotte che ne seguirono ebbero termine solo alla fine del X secolo. E vedi il sonetto Non son chi fui,· perì di noi gran parte, 6, a p. 206: •vestivan me del lor sanguineo manto•. 15. t'ascondea mortifer angue: ma nel suo seno nascondeva anche una serpe velenosa e mortale per quella libertà che pure aveva informato la tenace opposizione dei Britanni agli invasori. L'allusione riguarda non solo la posizione reazionaria assunta dall'Inghilterra nei confronti della Francia rivoluzionaria, mo anche la guerra condotta contro l'indipendenza americana. 16-9. te se ... contrade: le colonie inglesi delPAmerica settentrionale, insorte nel 1775 contro la tirannide del dominio britannico. 16. mercenarie: milizie assoldate dagli Inglesi. 17. ignote sponde: dell'Oceano Atlantico, ancora in parte scono• sciute. POESIE GIOVANILI (1799) t'invitar meste, e del tuo nome altere le americane libere contrade; o le batave fonti, o ti furo ricetto coronati di gel gli elvezii monti; or che del vero illuminar l'aspetto non è delitto, or io te, diva, invoco: scendi, e la lingua e il petto mi snoda e infiamma di tuo santo foco. Ma tu de l'alpi da l'aerie cime al rintronar di trombe e di timballi Ausonia guati e giù piombi col volo; anelanti ti sieguono i cavalli che Palla sferza, e sul latino suolo l\'Iarte furente orme di foco imprime: odo canto sublime di mille e mille che vittoria, o morte da !'italiche porte giuran brandendo la terribil asta; e guerrier veggo di fiorente alloro 145 zo 2s JO JS 18. meste: perché ancora soggette aU-lnghilterra. 20. le batave fonti: le provincie olandesi, ribellatesi alla Spagna nel 1566, nel 1581 si costituirono in repubblica, riconosciuta poi solo con la pace di Westfalia (1648). 22. gli elvezii monti: le popolazioni svizzere, in lotta dal secolo XIII, riuscirono a costituirsi in confederazione solo sulla fine del secolo XV. 23-4. or . .• delitto: ora che, recuperata la libertà, non è più imputato a colpa dire la verità. 24. diva: la libenà. 26. moda: libera, sciogli. sMa nel Petrarca, Rime sparse, cxxv111, 12-14, lo snodare è pur riferito a cuore: "E i cor, che 'ndura e serra Marte superbo e fero, Apri tu, padre, e 'ntencrisci e snoda"• (CHIORDOLI). 27. de l'alpi . .. cime: dalle sublimi (aerie) vette delle Alpi. 28. timballi: vedi a p. 21 la nota al v. 16 dell'ode Il mio Tempo. 29. Ausonia guati: volgi intensamente il tuo sguardo sull'Italia. 30. anela,,ti: respirando con affanno sotto l'impulso di Pallade (v. 31), per tener dietro al volo (v. 29) della libenà. JI. Palla: nella medesima forma, Atena è anche citata al v. 28 [23] dell'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, a p. 179; latino: italico. 32. Marte •.• imprime: «Tanto il loro impeto aveva di ardore insieme e di furore che pareva fosse con loro lo stesso dio della guerra• (CHIORBOLI). 35. da l'italiche porte: dai valichi alpini. 37. e guerrier veggo: Napoleone Bonaparte, al quale, più che a François-Christophe Kellermann (nato nel 1735, e protagonista della vittoria di Valmy [1792], comandante dal 1793 al 1795 delle ar- IO POESIE cinto le bionde chiome su cui purpuree tremolando vanno candide azzurre piume; egli al tuo nome suo brando snuda e abbatte, arde, devasta; Senno de' suoi corsier governa il morso, Ardir li 'ncalza, e de' marziali il coro Genii lo irraggia, e dietro lui si stanno in aer librate con perpetuo corso Sorte, Vittoria, e Fama. Or che fia dunque, o diva? Onde tal'ira? e qual fato te chiama a trar tant'armi da straniera riva su questa un dì reina, or nuda e schiava Italia, ahi! solo al vituperio viva, al vituperio che piangendo lavai E depor le corone in Campidoglio, e i re in trionfo tributarii e schiavi Roma già vide, e rovesciati i troni: re-sacerdoti or con mentite chiavi di oro ingordi e di sangue, altri Neroni, 4S so ss mate che dovevano operare in Italia), cui altri intende che qui il Foscolo alluda, meglio si addicono le vicende militari descritte ai vv. 40-6, e il fiorente alloro, cioè l'incipiente gloria militare. 39-40. purpuree ..• piume: piume, nell'ordine, dei tre colori della bandiera della Francia repubblicana. 40. al tuo nome: nel nome della libertà. 42. Senno: come Ardir (v. 43), personificazione contrassegnante la virtù militare. 43-4. de' marziali • .. Genii: il coro dei Geni guerrieri. E vedi Te nudrice alle muse, ospite e Dea, 9, a p. 212: • Or ardi, Italia, al tuo genio ancor queste•• e Sepolcri, 133-4, a p. J10: a[•••] ove clementi /pregaro i Genii del ritorno al prode,,_ 44. irraggia: illumina, aureolandolo. 45. perpetuo: eterno. 47. Or... diva?: nota il CHIORBOLI: «Trapasso dalla guerra rivoluzionaria francese degli anni 1793-95 alla campagna napoleonica del 1796 ». Ma vedi la nota al v. 37. L'interrogativa introduce genericamente a quella, circostanziata, del verso successivo. 48. Onde tal'ira?: quale il motivo dell"ira di cui al v. 41; te: la libertà. 49. da straniera riva: dalla Francia. 50. nuda: imbelle. 51. ahi! ... viva: esistente solo per essere offesa. Ricorda DANTB, lnf., XXXIII, 79: «Ahi Pisa, vituperio de le genti•· 52. che . .• lava: che espia con il pianto. 53. in Campidoglio: presso l'ara di Giove capitolino. 56. re-sacerdoti: a designare la confusione del potere spirituale con quello temporale; mentite chiavi: chiavi che dovrebbero aprire cieli illusori, e quindi adatte a uno scopo menzognero. 57. altri: altrettanti. POESIE GIOVANILI (1799) 147 grandeggiar mira in usurpato soglio: siede a destra l'Orgoglio cinto di stola, e ferri e nappi accoglie 6o sotto le ricche spoglie, vendendo il cielo, ai popoli rapite; sgabello al seggio fanno e fondamento cataste di frementi capi co gli occhi ne le trecce involti, 6s e tepidi cadaveri innocenti, cui sospiran nel fianco alte ferite pel fulminar di pontificio labbro; e misti in pianto e in sangue, atro cemento, calcati busti e cranii disepolti 70 fanvi, e lo Inganno di tal soglio è fabbro: quindi, al Solopossente la folgore strappata, eran d'Orto terrore e d'Occidente, e si pascean di regni e di peccata. 1s 58. mira: il soggetto è Roma; usurpato soglio: il potere temporale. 60. cinto di stola: come il sacerdote. La stola è una striscia di stoffa ricamata con simboli religiosi, che viene indossata sopra la cotta dal sacerdote durante le funzioni; ferri e nappi: spade o pugnali, e coppe per somministrare il veleno, strumenti cioè di assassinio; accoglie: nel senso di "nasconde". 62. ve,,dendo il cielo: allude alla pratica della vendita delle indulgenze. 63. sgabello . . .fo11damento: gradino al soglio pontificio (cioè al suo potere), e al tempo stesso suo fondamento. Vedi La Giustizia e la Pietà, 97, a p. 108, e Ai novelli repubblicani, 10-3, a p. 134. 64.frementi: ancora percorsi da fremiti vitali, cioè recenti. 65. ne le trecce involti: nascosti dagli scomposti capelli. 66. tepidi: non ancora raffreddati dal gelo della morte, cioè recenti. 67. sospiran: «Quasi ne uscisse con l'ultimo respiro l'ultimo sospiro• (CHIORnou). Il verbo è certo suggerito dal ricordo del supplizio dei suicidi in DANTE, lnf., XIII. 67. alte: profonde. 68. fulminar: il verbo sottolinea la presunzione di divinità competente al carattere delle sentenze o scomuniche pontificie. 69. e ••. sangue: vedi Ai novelli repubblicani, 14-6, a p. 134. 69. atro: orrido. 70. calcati: calpestati. 72. Solopossente: Dio. E vedi a p. 37 la nota al v. 77 dell'ode La Verità, e La Giustizia e la Pietà, 34, a p. 105. 73. la folgore strappata: arrogatisi surrettiziamente le prerogative della giustizia divina in terra. 74. Orto: Oriente. 75. peccata: latinismo d'uso anche dantesco (vedi, ad esempio, DANTE, In/., v, 9: • e quel conoscitor de le peccata•). POESIE Non più: - Dio disse: e lor possa disparve; pur ne l'Ausonia ancor egra e acciecata passeggian truci le adorate larve. Passeggian truci, e 'I diadema e il manto de' boreali Vandali ai nepoti So vestendo, al scettro sposano la croce; onde il Tevere e l'Arno a te devoti, Libertà santa dea, cercan la foce sdegnosamente in suon quasi di pianto; e la turrita Manto 8s offre scampo ai tiranni, e il bel Sebeto irriga mansueto le al Vesuvio soggette auree campagne e ricche aduna a usurpator le messi; 76. possa: potere. 77. ne . •. acciecata: nell'Italia non ancora interamente toccata dai benefici effetti della libertà (e però egra, "malata", e acciecata). 78. passeggian ... larve: i fantasmi degli antichi tiranni, grazie ali,inveterata soggezione ai miti superstiziosi, si aggirano, in atteggiamento minaccioso, ancora venerati. 79. 'l diadema e il manto: contrassegni rispettivamente della potestà temporale e religiosa. 80. de' boreali .•• nepoti: ai discendenti dei Vandali settentrionali. 81. al ... croce: uniscono il potere temporale a quello religioso (scettro e croce stanno in parallelo a diadema e manto). 82. il . .. devoti: perché memori rispettivamente delle benemerenze repubblicane di Roma antica, e libertarie di Firenze comunale. 83-4. cercan ... pianto: fuggono, scorrendo in suono lamentevole, come di pianto, verso la foce, quasi per allontanarsi dallo spettacolo della tirannide imperante in Roma e Firenze. Il papa Pio VI e Ferdinando II I granduca di Toscana si erano federati contro la Francia nell'ottobre del 1793, e solo il 9 febbraio 1795 Ferdinando III si era staccato dall'alleanza. 85-6. e la turrita . •. tiranni: dopo essere stato sconfitto a Borghetto (30 maggio 1797) da Napoleone, il generale austriaco J.-P. Beaulieu si rinchiudeva nella fortezza di Mantova, che, assediata dal Bonaparte, veniva successivamente liberata dal maresciallo D. G. Wurmser (30 luglio 1796). Battuto il Wurmser a Lonato (3 agosto 1796), a Castiglione (s agosto 1796), a Primolano (7 settembre 1796), Napoleone costrinse gli Austriaci a rinserrarsi nuovamente in Mantova, cosl che, dopo avere disfatto le truppe di J. von Alvinczy ad Arcole (17 settembre 1796), e a Rivoli (14 gennaio 1797), sconfitto definitivamente il Wurmser alla Favorita (16 gennaio 1797), poteva impadronirsi di Mantova (2 febbraio 1797). E vedi La Giustizia e la Pietà, 44, a p. 106. 86. Sebeto: fiume che scorre a oriente di Napoli, e sfocia nel golfo di Pozzuoli. 88. le al Vesuvio . .. campagne: le feraci (auree) terre dominate dal Vesuvio. 89. ~ ricche . .• messi: e copiose messi ammassa per Ferdinando I di Borbone (l'usurpator, IV come re di Napoli, e III come re di Sicilia). POESIE GIOVANILI (1799) abbevera il Ticino ungari armenti, e l'ospitali arene non saluta il Panaro in suo cammino; t'ode gridar oltre le sue montagne la subalpina donna e l'elmo allaccia e s'alza e terge i rai nel duol dimessi, ma le gravano il piè sarde catene, onde ricade e copresi la faccia; e le a te care un giorno città nettunie, or fatte son di mille Dionisii empio soggiorno: Liguria avara contro sé combatte; e l'inerme leon prostrato avventa ne' suoi le zampe e la coda dibatte e gli ammolliti abitator spaventa. Deh! mira, come flagellata a terra Italia serva immobilmente giace 9S 100 105 91-2. e l'ospitali •.. cammino: e il Panaro, fiume che scorre ad oriente di Modena, dove era duca Ercole III d'Este (fuggito tuttavia a Venezia il 7 maggio 1797, dopo che il 20 maggio 1796 aveva dovuto sottoscrivere un armistizio, impostogli, a dure condizioni, da Napoleone), come il Tevere e l'Arno (v. 82), memore delle trascorse libertà comunali, non incontra nel suo corso sponde amiche. 93. oltre le sue montagne: in Francia. 94. la subalpina donna: Torino. 95. terge i rai: asciuga gli occhi; dimessi: abbassati. 96. ma le grQfJano . •. catene: ma ne reprime le aspirazioni di libertà l'oppressione della dinastia sabauda. Napoleone, dopo le vittorie di Montenotte, Millesimo e Dego, onde staccare Vittorio Amedeo III dagli Austriaci, il 28 aprile 1796 aveva sottoscritto l'armistizio di Cherasco, in forza del quale la Francia entrava in possesso della Savoia e di Nizza, fruendo inoltre dell'uso del Piemonte come base operativa delle operazioni belliche contro l'Austria. 98. e le a te . .• giorno: perché rette da governi repubblicani, informantisi, secondo il Foscolo, a princìpi di libertà. 99. città nettunie: città marinare, Genova e Venezia. 100. Dionisii: tiranni, per antonomasia da Dioniso, tiranno di Siracusa dal 405 al 367 a. C. 101. Liguria avara: Genova avida solo di guadagno. E vedi l'ode Alla arnica risanata, 71, a p. 195: «[ •••] l'Anglia avara»; contro si combatte: è divisa in una fazione favorevole, e in una avversa ai Francesi, e comunque non decidendosi a prender partito (Genova doveva democratizzarsi il 31 maggio 1797), contribuisce alla propria rovina. 102. 1•;n~ leon: l'imbelle, neutrale, Repubblica di San Marco. E vedi a p. 128 la nota ai vv. 5-6 del sonetto A Venezia; prostrato: pure abbattuto. 103. ne' suoi: contro i suoi cittadini. 104. ammolliti: indeboliti per l'assuefazione alla tirannide. 150 POESIE per disperazion fatta secura: or perché turbi sua dolente pace, e furor matto e improvida paura le movi intorno di rapace guerra? no Piaghe immense rinserra nel cor profondo; a che piagar suo petto, forse d'invidia oggetto, per chi suo gemer da lontan non sente? l\1a tu, feroce Dea, non badi e passi, ns e a l'armi chiami, a l'armi, e al tuon de' bronzi e al fulminar tremendo e a l'ululo guerrier perdonsi i carmi. Cede Sabaudia, e in alto orribilmente del tuo giovin Campion splende la lancia; 120 tutto trema e si prostra anzi i suoi passi, e l'Aquila real fugge stridendo ferita ne le penne e ne la pancia. Gallia intuona e diffonde di Libertade il nome, 125 e mare e cielo Libertà risponde: l'Angel di morte per le imbelli chiome squassa ed ostende coronata testa: 107. per disperazion •.• secura: «Da Seneca, Questioni naturali, VI, 2: uRatio terrorem prudentibus excutit, imperitis fit magna ex desperatione securitas"; ch'è poi Virgilio, Eneide, 11, 354, e lo cita: "Una salus victis nullam sperare salutem" » (CHIORBOLI). Ma vedi soprattutto PETRARCA, Trionfi, III, I, 157-9: «Poi che deposto il pianto e la paura / pur al bel volto era ciascuna intenta, / per desperazion fatta sicura» (MESTICA). 108. dolente pace: dolorosa inerzia. 109. matto: folle; improvida: •Nel significato etimologico: che non provvede a nulla, e per ciò dannosamente inerte» (CHIORDOLI). uo. rapace: che conduce seco rovina e spogliazioni. 112. nel cor profondo: nel profondo del cuore. u6. a l'armi . .• armi: vedi a p. 134 la nota al v. 19 dell'ode Ai novelli repubblicani. 117. e al tuon •.. tremendo: e allo scoppio e al lampeggiare spaventevole dei cannoni (paragonati, negli effetti, alla folgore). 1 18. perdonsi i carmi: vedi il v. 33. 119. Cede Sabaudia: allude all'armistizio di Cherasco, per il quale vedi la nota al v. 96. 120. Ca,npion: Napoleone Bonaparte. 122. l'Aquila real: simbolo della dinastia absburgica. 123. pancia: figuratamente, come in DANTE, Purg., xx, 75: cc si, ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia». 124. Gallia: Francia. 127. l'Angel di morte: vedi Il mio Tempo, 49-50, a p. 22. 128. squassa • •. testa: mostra, scuotendola, la testa di Luigi XVI. E vedi Il mio Tempo, 7-12, a p. 20. POESIE GIOVANILI (1799) 151 Libertà! grida a le provincie dome, del Re dei folli Re vendetta è questa. 130 Del Re dei Re! - Quindi tra il fumo e i lampi s'involve in sen di tempestosa nube, che occupa e offusca di Germania il suolo; donde precorsa da mavorzie tube balda rivolge e minacciosa il volo 135 l'Aquila, e ingombra di falangi i campi; e par che Italia avvampi di foco e guerra, di ruina e morte: né spezzar sue ritorte osa, né armarsi del francese usbergo. 140 l\!Ia s'affaccia l'Eroe; sieguonlo i prodi repubblicano in fronte . nome vantando con il sangue scritto; ecco d'estinti e di feriti un monte, ecco i schiavi aleman ch'offrono il tergo 14s e la tricolorata alta bandiera in man del Duce che in feral conflitto rampogna, incalza, invita, e in mille modi passa e vola qual Dio di schiera in schiera: pur dubbio è marte; ei dove 150 130. del Re ... questa: è vendetta divina, di Dio re dei folli re, più che di Luigi XVI: 11 Quasi gli altri re ricevessero da lui forza e prestigio• (CHIOR• BOLI). 131-40. Del Re . .. wbergo: allude alle guerre di Germania e d'Italia, iniziate contemporaneamente sotto il Direttorio nel 1796-1797. 132. s'involve: si avvolge (l'A,rge/o di morte del v. 127). 134. precorsa ••. tube: annunziata dal suono marziale delle trombe. Mavorzie è aggettivo di MavorsMarte. 135. rivolge: torna a spiegare. 136. l'Aquila: vedi la nota al v. 122. 139. ritorte: lacci. 140. n,...wbergo: né vestire l'usbergo (corazza a lame di ferro, a difesa del collo e del petto) francese: schierarsi cioè con le armate repubblicane. 141. l'Eroe: Napoleone Bonaparte. t42-3. repubblicano • •• scritto: denunciano nel loro stesso aspetto, segnato dalle ferite guadagnate combattendo per la libertà, Pidentità repubblicana. 145-56. ecco ••• grida: allude al celebre episodio del ponte di Arcole, durante la prima giornata di combattimento, il 15 novembre 1796, o forse anche, come suggerisce il CHIORDOLI, a quello del 10 maggio 1796, del ponte di Lodi. 145. i schiavi ••• tergo: le truppe austriache volte in fuga. 147. Duce: Napoleone Bonaparte; feral: mortale. 150. pur •.. ma,te: ma la battaglia è ancora incerta. E vedi ALFIERI, Polinic~, atto v, scena 11, 62-3: «[•••] battaglia quivi / in dubbio marte ardea [.••] ». 150-z. ei ••• pesta: dove più folta è la mischia. POESIE più de' cavalli l'ugna nel sangue pesta, e sangue schizza e piove, . .' .e regna morte 1n p1u ostinata pugna, co' suoi si scaglia, e la fortuna sfida guerriero invitto, e tra le fiamme pugna 155 e vince; e Italia libertade grida. E del Giove terren l'augel battuto drizza a l'acre natio tarpati i vanni e sotto il manto imperial si cela: ma il vincitor lo inceppa, e gli alemanni 16o colli che borea eternamente gela, senton lo altero vertice premuto dal Guerrier cui tributo offre atterrita dal suo cenno e doma la pontificia Roma, 165 dal Guerrier che ad Esperia i lumi terge e falla ricca de' tuoi puri doni, o Libertà gran dea, e l'uom ritorna ne gli antichi dritti 1 57. del Giove terren: deWimperatore d'Austria Francesco II ; l'augel battuto: l'Aquila dei vv. 122 e 136, sconfitta. 158. drizza ... vanni: indirizza verso il cielo natale le ali tagliate in punta, e quindi indebolite. 160-3. e gli alemanni . .. Guerrier: secondo il CHIORBOLI: u Allude alla battaglia di Rivoli, sopra Verona, in val d'Adige, poc'oltre la Chiusa, 14 gennaio 1797; ma già sul cader dell'estate del 1 96 li aveva battuti più oltre, fino a Trento». Si badi, però, che dopo la vittoria del Massena a Tarvisio (24 marzo), Napoleone avanzò sino a Villach (25 marzo), e a Klagenfurth (30 marzo). 160. lo inceppa: lo attarda, incalzandolo. E vedi ALFIERI, Antigone, atto IV, scena IV, 161-2: • [•.•] gran parte / del suo furor la mia fidanza inceppa». 162. altero: perché di difficile accesso. 163-5. cui •.• Roma: dopo la resa di Mantova, Napoleone, disperse le truppe papali a Castelbolognese (2 febbraio 1797), impose al papa il trattato di Tolentino (19 febbraio 1797), in forza del quale Pio VI (che già il 23 giugno 1796 aveva dovuto sottoscrivere in Bologna un armistizio con la Francia), rinunciava definitivamente ad Avignone, al Contado Venassino, alle Legazioni di Bologna, Ferrara, e Romagna, consentendo inoltre l'occupazione provvisoria di Ancona. I 66. ad Esperia ... terge: ali'Italia asciuga gli occhi. E vedi il v. 95. 167-70. e falla ... premea: del dicembre del 1796 è infatti la costituzione della Cispadana (che doveva poi essere fusa alla Cisalpina il 17 luglio 1797). POESIE GIOVANILI (1799) che prepotente tirannia premea. In vetta a l'Aventin Cesare s'erge tirannic'ombra rabbuffata e fera, e mira uscir di Libertà campioni popoli dal suo ardir vinti e sconfitti, ond'alza il brando, e cala la visiera ..• Ombra esecrandat torna sitibonda di soglio ove lo stuol dei despoti soggiorna oltre Acheronte a pascerti d'orgoglio: eroe nel campo, di tiran corona in premio avesti, or altro eroe ritorna, vien, vede, vince, e libertà ridona. Italia, Italia, con eterei rai su l'orizzonte tuo torna l'aurora 153 175 180 annunziatrice di perpetuo sole; 185 vedi come s'imporpora e s'indora tuo ciel nebbioso, e par che si console de' sacri rami dove a l'ombra stai! I desolati lai non odi più di vedove dolenti, 190 non orfani innocenti che gridan pane ove non è chi 'l rompa: ve' ricomporsi i tuoi vulghi divisi 170. premta: conculcava. 171. Cesare: Caio Giulio. 172. rabbuffata: scapigliata. 174. popoli: i Francesi, discendenti dei Galli sconfitti da Cesare. 175. e cala la flisiera: 11 in significato contrario, ricorda i primi versi del famoso sonetto del FRUCONI, Annibale sulle Alpi: "Ferocemente la visiera bruna/ alzò sull'alpe l'affrican guerriero, ccc."• (GIGLI). 177. ritibonda di soglio: assetata di potere. 179. oltre Acheronte: •è ricordato il posto assegnato da DANTE a Cesare, nel suo Inferno, cfr. canto IV, 121- 23: "Io vidi. .. / Cesare armato con gli occhi grifagni"• (G1cu). 181. altro noe: Napoleone Bonaparte. 182. fJien, fJede, fJince: è parafrasi del fJeni, vidi, vici, da PLUTARCO nei Mnnorabilia attribuito a Cesare, quando ebbe ad annunciare ad Aminzio la vittoria di Zela nel Ponto (47 a. C.). 183. Italia, Italia: •ricorda la medesima invocazione nel sonetto All'Italia, scritto probabilmente nel 1690, da Vincenzo da FILICAIA • (GIGLI); eterft: luminosi. 188. sacri rami: gli allori della libertà, simbolo dell'affrancamento dalla tirannide. 192. ove ••• rompa: il padre. 193. ve': vedi; fJulghi: •Non popoli 154 POESIE nel gran Popol che fea prostrare i re col senno e col valore, poi l'universo col suo fren reggea; vedi la consolar guerriera pompa e gli annali e le leggi e i rostri e il nome! Come non più del civil sangue intrisi vestonsi i campi di feconde messi e di spiche alla pace ornan le chiome! E come benedice il cittadin villano, tergendo il fronte, Libertà felice! Come dovizianti a l'oceàno fendon gl'immensi flutti onusti pini, cui commercio stranier stende la mano sin da gli americani ultimi fini! Ma de l'Italia o voi genti future, me vate udite cui divino infiamma libero genio e ardor santo del vero: di Libertà la non mai spenta fiamma rifulse in Grecia sin al di che il nero vapor non surse di passioni impure; 195 200 205 210 erano più i singoli popoli d1 ltalia1 ma volghi. Onde il Manzoni dirà poi nell'Adelchi, 111, coro, 66: 11 D'un volgo disperso che nome non ha"• (CHIORBOLI). 194. gran Popol: popolo romano. 196./ren: delle leggi. 197. consolar ••. pompa: gli eserciti guidati dai consoli. 198. annali: sorta di raccolta ufficiale dei fatti storici di Roma; rostri: le tribune donde si arringava; nome: rinomanza, fama. E vedi il sonetto E tu ne' carmi avrai perenne vita, 4, a p. 231: •nome accogliea finor l'ombra fuggita•. 201. e di spiche ••• chiome: le spighe di grano erano ornamento di Cerere, dea della terra e della pace. 203. il cittadin villano: il contadino reintegrato nei suoi diritti di cittadino. 205. dovizianti: recanti ricchezze. Vedi La Giustizia e la Pietà, 75, a p. 112. 206. om,sti pini: navi cariche di merci. E vedi La Giustizia e la Pietà, 75, a p. 112. 208. sin . •• fini: fino dai lontani territori dell'America. 210-1. me vate . .• vero: oltre ai vv. 25-6, vedi La Campagna, 7-10: «Odi un Poeta giovane,/ che il genio, che l'ispira / devoto siegue, e libero / percote ardita lira» (Edizione Nazionale, n, p. 285); A Dante, 49-54J a p. 28, e La Verità, 41-81 a p. 36. 213-4. nero Jvapor: offuscando, in una con la ragione (in quanto effetto di passioni impure), la mai spenta fiamma della libertà. 214. passioni impure: quelle descritte ai vv. 219-22. POESIE GIOVANILI (1799) 155 e le mura secure 215 stettero, e l'armi del superbo Serse dai liberi disperse di civico valor fur monumento: ambizion da le dorate piume sanguinosa le mani, 220 e di argento libidine feroce, e molli studii, e piacer folli e vani a libertà cangiar spoglia e costume. Itale genti, se Virtù suo scudo su voi non stende, Libertà vi nuoce; 225 se patrio amor non vi arma d'ardimento, non di compre falangi, il petto ignudo, e se furenti modi dal pacifico tempio voi non cacciate, e sacerdozie frodi, 230 sarete un dì a le età misero esempio: vi guata e freme il regnator vicino de l'Istro, e anela a farne orrido scempio; e un sol Liberator dievvi il destino. 216. Serse: vedi a p. 139 la nota al v. 102 dclrode A nooelli repubblicani. 217. liberi: cittadini liberi da ogni sorta di tirannide. 220. sanguinosa le mani: dalle mani sporche di sangue. 222. molli studii: occupazioni che infiacchiscono. 223. spoglia e costtlme: endiadi per ccaspetto". 227. comprefalangi: milizie mercenarie sostituenti rardimento patriottico. 228.furenti modi: quelli della tirannide (è forse accenno al Terrore robespierriano). 230. sacerdo::iefrodi: gli inganni dei preti. 232-3. il regnator •.• l'Istro: la confinante dinastia absburgica (Istro per Danubio). 234. un sol Liberator: Napoleone Bonaparte. POESIE (1803) NOTA INTRODUTTIVA Da Milano, il 13 aprile 1803, il Foscolo scriveva a Giovanni Rosini, a Pisa: « Dal signor Gio. Battista Nicolini riceverete una copia dell'edizioncella delle mie poesie ch'io feci stampare assai più emendate ed in più numero del manoscritto che nell'autunno scorso vi diedi. Se non ve le ha per anco mandate, scrivetegli: e se siete ancora d'intenzione di stamparle seguite esattamente questa prima edizione di cui come vedrete ne ho fatto stampare solo copie 260 numerate » (Epistolario, 1, pp. 177-8). Gli otto sonetti e l'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo avevano infatti già visto la luce nel tomo IV del pisano «Nuovo Giornale dei Letterati,,, dell'ottobre del 1802. È probabile che un ritardo nella pubblicazione del fascicolo avesse impedito al- 1'autore di prendere conoscenza di tale stampa, ciò che, unitamente all'intenzione di accrescere la primitiva compagine di quattro nuovi pezzi, può ben avere costituito il movente dell'edizione milanese del Destefanis (di cui è cenno nella sopra citata lettera al Rosini), pubblicata tra il 2 aprile (data della dedica al Niccolini preposta alle Poesie), e il 9 aprile del 1803 (data della lettera al libraio fiorentino Guglielmo Piatti, in cui si notifica la spedizione al Niccolini di un • pacchettino » contenente copie delle Poesie; la si veda in Epistolario, 1, p. 177). Né sorte diversa, stando a quanto desumiamo dalle righe indirizzate al Rosini, pare sia toccata alla ristampa in opuscolo degli otto sonetti e dell'ode, pure effettuata in Pisa (1803), circa la quale il MESTICA (p. CXXXVI) notava: • La data però 1803 crediamo doversi limitare ai principi di quell'anno (se pur tutta la stampa non fu terminata nel precedente deccmbre); poiché a mezzo aprile del 1803 suddetto era già fuori la prima edizione milanese (St. 12) recante poesie nuove e correzioni alle già messe in luce a Pisa. Ma quel che per noi fa soprattutto, è la data della dichiarazione: "Milano, agosto 1802" [la si legge nel verso del frontespizio della seconda stampa pisana: cc Ugo Foscolo pubblica queste poche Poesie per rifiutare tutte le altre fino ad oggi stampate, e segnatamente una lunga Oda a Bonaparte ornai troppo divulgata, e il Tieste Tragedia inserita nel tomo x del Teatro Moderno applaudito; cose tutte e troppo giovenili, e non sempre pubblicate di consentimento dell'Autore. Milano; Agosto 1802"]; che segna la spedizione delle nove poesie da Milano a Pisa, perché fossero là pubblicate». Il 13 aprile il Foscolo· inviava poi al Bodoni un esemplare dell'edizione Destefanis (Epistolario, 1, pp. 178-9), cli cui il tipografo accusava ricevuta H 14 giugno, offrendosi inoltre di «eseguire una ristampa in 4°» tale da non riuscire «indegna di essere offerta a qualunque più schifiltoso bibliofilo del nostro sdruscito 160 POESIE stivale» (Epistolario, 1, p. 182). La proposta incontrò il favore del Nostro, che il 22 giugno 1803 scriveva al Bodoni: «Sono ancora nello stesso proposito di ristampare in 4° le mie poesie. Se il mio nome morrà con me, que' pochi versi vivranno almeno per l'immortalità del vostro,, (Epistolario, 1, pp. 182-3). Il tipografo rispondeva in data 28 giugno 1803: «Sono tuttavia d'animo volonterosissimo per pubblicare in 4° grande i vostri bei carmi che ottennero qui favorevole incontro anche presso gli Omeromastici più severi [...]. Se mai aveste in pensiere di fare qualche correzione, indicatemela con ogni celerità, acciò possa giovarmene riproducendo le vostre poetiche produzioni» (Epistolario, I, p. 183). Il poeta replicava con lettera della fine giugno o dei primi di luglio 1803 : cc Starò alle condizioni che vi piacque di propormi; ed oltre le rade correzioni che mi paiono necessarie vi mando un altro sonetto [Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo] che vi prego di stampare prima dell'ultimo» (Epistolario, I, pp. 185-6). Della progettata stampa bodoniana, per ragioni che a tutt'oggi restano oscure, non si fece poi nulla. In suo luogo, ancora a Milano, per i tipi di Agnello Nobile, verosimilmente dopo il giugno 1803 (se ancora sulla fine del mese il poeta era in trattative con il Bodoni), vedeva la luce la ristampa delle Poesie, accresciuta del sonetto in morte del fratello Giovanni, e con le veramente • rade correzioni», interessanti la dedica al Niccolini, e le odi A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e Alla amica risanata. Inattendibile è però la notizia bibliografica inviata dal Foscolo stesso a Giovan Paolo Schultesius, da Firenze, il 31 ottobre 1812: «6. Poesie di Ugo Foscolo Milano 1803: è un volumetto contenente due Odi e 12 Sonetti; !'edizioni quindi, stante la piccola mole, furono ripetute: ma perché mentr'io apparecchiava l'edizione di queste Poesie, altri la fece senza il mio consenso, molti versi, specialmente ne' sonetti, sono stati stampati a capriccio: anzi ad una d'esse edizioni, e credo alla prima, manca un sonetto» (Epistolario, IV, p. 192). L'esile raccolta di dodici sonetti e di due odi, prima ancora che in ragione della propria individualità stilistica, vale, fin nella sua consistenza numerica, quale traumatico correttivo nei confronti di esercizi ben diversamente corrivi, e insieme attesta un non pleonastico rispetto della tradizione lirica nazionale, omaggiata nel suo schema di maggior prestigio, il sonetto, e ancora parcamente tentata nella forma che per tutto il Settecento aveva costituito, al di fuori d'ogni esperimento più propriamente barbaro, l'aspetto più genuinamente conservativo nella generale corruzione delle mode classicistiche, l'ode. Valutata con acuto senso storico la realtà del gioco politico che tra il '97 e il '98 era andato assumendo i tratti dell'avventura napoleonica, giudicata dal Foscolo con inalterata obiettività dal suo na- POESIE (1803) • NOTA INTRODUTTIVA 161 scere al suo svanire, lungo l'arco intero della propria vita, precocemente e bruscamente posto di fronte a un dilemma che non poteva esser risolto per nessuno dei due comi con piena soddisfazione, il risultato che ne doveva sortire non poteva che essere di rapida e definitiva ricapitolazione autobiografica, di congedo dalla poesia con la poesia, sulla scorta di una tematica, certo non estranea all'ambito della lirica nostrana, che un serrato giro d'esperienza gli aveva incalzantemente, e ad usura, proposto. Tematica non ulteriormente variabile nei molteplici risvolti di uno o più canzonieri, perché dal giudizio della situazione da cui nasceva immediatamente sottratta alla possibilità di meccaniche ripetizioni, e collocata in una prospettiva che, direttamente allacciante il presente al passato, esauriva nell'attimo stesso in cui si istituiva come tale, dimensioni da cui di nuovo potesse crescere un qualsiasi fare poetico, intenzionato a fondarsi come riconoscimento e giudizio. Quale diverso significato attribuire alla terzina suggellante il sonetto Pur til copia versavi alma di canto: «Però mi accorgo, e mel ridice amore, / che mal ponno sfogar rade, operose / rime il dolor che deve albergar meco »? Affermazione che, al di là dell'evidente valore dichiarativo, ha per noi importanza tutta particolare in quanto stabilisce un nesso di natura gramn1aticale tra l'apostrofe alla poesia e la constatazione del poeta: «che mal ponno sfogar rade, operose / rime il dolor che deve albergar meco ,,. Il legame costituito dal •Però» del v. 12, nel suo valore di "per ciò", "per questo", rimanda infatti immediatamente al movente dell'asserzione, e cioè prima ancora che alla fuga dell'«Aonia Diva• in «compagnia dcli'ore », del tempo insomma dei « fiorenti anni», alle conseguenze di tale abbandono o catabasi uper la via del pianto • verso la «muta riva» di Lcte, che è dimenticanza e silenzio proprio e solo in quanto scorre al di fuori del tempo, rinviando alle «penose / mcmbranze », e, soprattutto, al «timor cieco» del futuro. Cosi che rime pur «rade», limitate da vigile consapevolezza, e orazianamente «operose», condotte dall'assiduo labor linrae all'ultimo grado di finitezza, quali quelle stampate e ristampate quattro volte tra il 1802 e il 18031 «mal ponno sfogar», cioè esprimere nella forma di un giudizio in sé.maturo e compiuto, la condizione di caotica assenza di concrete prospettive che, sottraendo all'uomo ogni possibile scelta, sembra schiacciarlo sotto il peso di un anonimato ineffabile, tanto più difficile da rimuoversi, in quanto politicamente garantito dalla presenza di un'oppressiva tirannide. Ciò che rende ragione dell'impossibilità di tornare di lì innanzi a dar voce poetica alla propria esperienza, e, al limite, sottintende anche la sfiducia a che la vita potesse restituirsi al pensiero come giudizio (donde il presente «deve» del v. 14, in luogo del più logico futuro). E ancora si noti come la constatazione Il POESIE di non godere più dei favori della Dea, e dalle «penose / membranze • e dal «timor cieco» del futuro d'esser costretto a prendere atto dell'inadeguatezza di rime pur ,, rade» e aoperose», è parallelamente, ma separatamente, confermata da amore, che ridice, a stornare ogni eventuale illusione, che anche il suo oggetto: «l'aurea beltate ond'ebbero / ristoro unico a' mali/ le nate a vaneggiar menti mortali», come tutto abbia senso d'umanità e intelligenza, soggiace alla dura legge del timore del cieco futuro, del Caos; incapace di affrancarsi, e di affrancare da una condizione di dolore, per la cui comprensione gioverebbe certo richiamare la definizione sensistica, ove poi si avesse riguardo d'avvertire che, salva l'identità degli effetti, le sue cause vanno rintracciate in un universo non più metafisico, ma storico e politico. E perché tutto ciò non abbia ad esser reso pleonastico dalla presenza di simile congedo in forma di sonetto, si badi che la rievocazione della felice stagione della poesia, abbracciante la prima quartina e i primi due versi della seconda, in tanto si spiega, in quanto funge da supporto all'asserzione, sintonizzata al presente: «non udito or t'invoco: ohimè! soltanto / una favilla del tuo spirto è viva», da cui pure è partita, e a cui poi ritorna; e che quindi quale cardine mediano (non a caso i versi citati si collocano in settima e ottava sede) consente che nelle terzine effetti e cause si scambino di posto, conservando l'alternanza delle quartine tra la rievocazione (qui ulteriormente ristretta dal «pur» del v. 10, con valore di "anche", al suo ultimo oggetto, la poesia), e la constatazione esclamativa. Anche si osservi: una «favilla», vale a dire una tenue riserva di verità e di giudizio ancora reperibile, e che· però consente e spiega il fatto che il poeta abbia coerentemente potuto, da ultimo, conferire al proprio agire e pensare la forma della poesia, dopo aver toccato tutti i tasti di una situazione delineatasi attraverso il conflitto della persona con la storia, con il perentorio risalto che ogni età di crisi, soggettivamente ed oggettivamente, comporta. Il proposito foscoliano nel ristampare due volte, in breve giro di tempo, presso il Destefanis e il Nobile, il ridotto manipolo dei sonetti e delle odi, è chiaramente espresso nella dedica al Niccolini delle edizioni milanesi, ricalcante la dichiarazione citata, apposta nel verso del frontespizio dell'edizione pisana del 1803, in data agosto 1802. In essa è detto che quei versi vedevano la luce non perché fossero d'esempio al dedicatario, né perché ad essi competesse di procacciare onore all'autore, non professando questi poesia, ma per rifiutare tutti gli altri, precedentemente divulgati per «vanità giovenile n. Affermazione di particolare importanza perché nel tempo stesso in cui veniva rifiutata la qualifica di poeta, di cui a quell'altezza cronologica non potevano certo far fede undici, e poi dodici sonetti e due odi, POESIE (1803) • NOTA INTRODUTTIVA 163 era implicitamente ribadita la volontà di praticare un taglio netto con il proprio passato. Ciò che non suonava solo a condanna delroccasionalità di un esercizio conformato su moduli spersonalizzati, ma ancor prima significava por fine all'identificazione della propria immagine con quella di un tecnico dell'espressione letteraria, professionalmente investito di una distinzione categoriale, e come tale costretto in un giro angusto d'orizzonte, e implicitamente rilanciava la concezione di una poesia fondata sulla capacità della parola di rietimologizzarsi nella frizione con la realtà, per attingere un'autenticità che poteva istruirsi unicamente sul tronco di un'indipendente esperienza umana. Se anche il poeta si fosse risparmiato di renderci esplicitamente edotti delle sue intenzioni, il significato delle stampe pisana e milanesi non sarebbe risultato per questo men chiaro. Ricordata la decisiva importanza dell'anno 1797 per la vita e l'opera del Foscolo nel quadriennio seguente, occorre anche tener presente che l'anno del Congresso di Lione, e della relativa orazione (1802), non fu meno decisivo nel processo di certificazione di quanto sino a quel tempo era rimasto allo stato fluido del sospetto. La rapida conclusione della stagione poetica apertasi con la pubblicazione degli otto sonetti e dell'ode alla Pallavicini, nelle edizioni milanesi del 1803 non è infatti imputabile alla sola presenza in esse della dedica al Niccolini, contenente l'esplicita ammissione sopra riferita, e dei quattro nuovi sonetti, e tra essi del cosiddetto Alla Musa, ma all'organizzazione di un succinto canzoniere suggellante un'esperienza politica e affettiva praticamente conclusa, e poeticamente ancora e solo significativa in quanto fondata sulla predicazione dell'impossibilità di andar oltre sé stessa. Con ciò non si vuol negare alla raccolta pisana la benché minima traccia di organicità nella seriazione dei pezzi. Ma non va sottaciuto come dopo le radicali apostrofi Non son chi fui; perì di noi gran parte e Che stai? già il secol l'orma ultima lascia, e l'amara perorazione contro l'imbarbarimento linguistico di Te nudrice alle muse, ospite e Dea, sulla scorta dell'ultima terzina del sonetto dedicato a Firenze, nostalgico in ordine a ragioni storiche e biografiche, il ten1a erotico, pur interamente compreso nel registro di una fondamentale disillusione, finisse con l'avere provvisoriamente il sopravvento, per essere improvvisamente interrotto dall'esclamativo autoritratto. L'omogeneità della raccolta pisana pare dunque affidarsi a interni allacci che, di sonetto in sonetto, garantiscono sul filo della varietà tematica l'unità d'esperienza che tradizionalmente compete ad ogni canzoniere, per ridotta che ne sia l'estensione. Si noti infatti come nella deduzione immediatamente tratta da Non son chi fui,· perì di noi gran parte di Che stai? già il secol l'orma ultima lascia, ai vv. 7-8, il motivo della fiducia nella posterità della fama lette- POESIE raria, poi corretto e rivolto nel senso di una piena fedeltà alla lettera alfieriana nell'ultima terzina del medesimo sonetto secondo la lezione delle stampe milanesi, brilli di luce solitaria sul fondo del seguente, deprecatorio, intorno alla sentenza capitale contro la lingua latina, dove il trapasso dal latino al toscano delle terzine induce l'apologia di Firenze del seguente E tu ne' carmi avrai perenne vita, a far da quinta all'apparizione petrarchesca della donna amata, verosimilmente la Roncioni, cui si riferisce il gruppo dei seguenti Perché taccia il n,mor di mi'a catena, Così gl'interi giorni in lungo incerto, Meritamente, però ch'io potei. E nel sonetto autobiografico, dove una rapidità lontana dalla sommarietà par risentire dell'epica grandeur della ritrattistica napoleonica, così incalzante nella composizione delle parti, la riassunzione di tutte le antinomie passate in rassegna sotto il paradigma dell'interesse individuale istituisce una coscienza del soggetto agente, maturata grazie alla sua puntualizzazione nel tempo, dal suo dettagliato inveramento tematico, sino al suo naturale centro d'informazione, di cui il poeta solo a quel punto, e con decisione improvvisa, sembra prendere intera consapevolezza. Venendo alle stampe milanesi notiamo innanzitutto come l'ordine di quella del Destefanis sia rispettato nella seguente dd Nobile, con l'eccezione del sonetto in morte del fratello Giovanni, introdotto in terz'ultima sede (anziché in penultima, come il Foscolo aveva indicato al Bodoni nella citata lettera del luglio 1803), tra i cosiddetti A Zacinto e Alla Musa. Dopo che il proemiale Alla Sera àncora solidamente la prospettiva foscoliana ad un fondo di metafisico solipsismo, i sonetti Non son chi fui,· perì di noi gran parte e Che stai? già il secol torma ultima lascia sono distanziati, rispettivamente all'inizio, in seconda sede, e alla fine della raccolta, onde non precipitare, dalla premessa alla deduzione, l'articolarsi di un'esperienza complessiva (diversamente da quanto risultava nella stampa pisana, ancora aperta alla possibilità di una ripresa futura). Ciò viene invece scongiurato dalla collocazione in ultima sede del sonetto Che stai? già il secol l'orma ultima lascia, nel quale il dato di maggior rilievo è costituito dalla definizione di un preciso ambito cronologico, racchiudente nel limite dell'anno 1800 un'esperienza, tanto più organicamente amalgamabile, in quanto costantemente passata al vaglio di un'ottica personale, nella forma di un giudizio legato alle circostanze storiche. Fatto in sé di primaria importanza, e perché torna a conferma di quanto nella dedica al Niccolini era stato speso a favore del carattere non programmatico e continuativo dell'esercizio poetico, e perché su tale principio si fondava la possibilità stessa di far poesia, e perché infine tale dato (l'anno 1800) ci fornisce la prova inequivocabile della volontà del poeta di conferire alla serie dei sonetti una determinata POESIE (1803) • NOTA INTRODUTTIVA 165 struttura, considerato che quattro d'essi risultano composti dopo l'agosto del 1802. Quanto di indefinito a carico della rinuncia a valersi della poesia quale mezzo di istruzione del proprio giudizio è reperibile nella raccolta pisana, non potrebbe ripetersi un anno appresso, nella misura in cui le 1 a <1 dalla bocca» di G PD, dettata dall'esigenza di distinguere semanticamente la facies della Paltavicini da quella equina dei vv. 49-50 [43-4]: «fuma/ la bocca•. Al registro di una sempre più esatta pertinenza classicistica (s'intenda all'interno della cultura foscoliana, e vedi la nota al v. 8) sarà inoltre da ascriversi l'evoluzione della lezione dei vv. 7-8, dalla zeppa: 11 quel dì, che i monti empica / di forsennati gemiti» di G, all'ancora generico: «il dì che insana empiea / gl'ldei monti di gemiti» di P, al definitivo: «quel dì che insana empiea / il sacro Ida di gemiti II di D N, o il trapasso dal frusto ricorso ad Esculapio dei vv. 15-8 di G: « [ •••] fiori / su l'ara d'Esculapio / e sacrificio [P sacrifizii], e voti / offron mesti e devoti», alla mitologicamente più rara autorità apollinea di D N: « [ •••] fiori / votivi all'ara portano / d'onde il grand'arco suona / del figlio di Latona ». Come già segnalò il FERRARI, Apollo, oltre a fruire dell'appellativo omerico di «Dall'arco d'argento•, nelle arti plastiche è rappresentato impugnante l'arco, e calpestante un pitone; arco e frecce, secondo alcuni mitologi, <1 indicherebbero la forza del sole purificante la terra piena di cattivi umori simboleggiati nel serpente pitone». Ciò che, stante l'implicito rivolgimento stagionale cui il mito di Apollo in tale accezione pare rife.. rirsi, si attaglierebbe, assai più propriamente che non la consueta evocazione di Esculapio, al tempo di composizione dell'ode (anche se l'innovazione riguarda le stampe del 1803), ove lo stesso, come sembra probabile, coincidesse con la primavera del 1800. D'estrazione ancora classicistica è poi la tendenza, accentuatasi da G a P (fondamentalmente rispecchiante G, ma già caratterizzata da significativi ritocchi nella direzione di DN), a DN, a evitare la liquidità del verso, ora sopprimendo la ripetizione di strutture similari, come ai vv. 1-3, dove la lezione: «I balsami odorati/ per te le grazie apprestino, / per te i lini beati» di G, viene rimossa a vantaggio di: «I balsami beati/ per te le Grazie apprestino,/ per te i lini odorati» di PD N, che oltre a razionalizzare i rapporti tra i« balsami• e i« lini», dissipa anche l'effetto di meccanica corrività, conseguente all'immediata successione di due sinalefe; ora abolendo la fonna apostrofata, come al v. 23, dove il passaggio da• d'Ascra »di G n• di Ascra • di P è da attribuirsi alla volontà di non incorrere, in clausola di strofe, nell'automatica ripetizio~e del modulo apostrofosinalefe (vv. 23-4: G •se Palla d'Ascra al fonte/ toglie l'elmo alla fronte»), mai altrove attestato nelle due odi (e del resto presente una sola volta, e in forma non esattamente corrispondente, nella precedente produzione foscoliana, nell'ode A Dante [1795-1796], 5-6, a p. 25: •che additano agl'ingegni / d'eterna gloria i segni»), o al v. 58 [52], dove l'eccezionale opposi- 174 POESIE zione vocalica: «allo incalzato scalpito» di D N, contro ]a forma apostrofata di G P, realizza una piu evidente mimesi fonico-cinematica del particolare della zampa del cavallo, dando inoltre corpo al precedente, ma nel tempo istantaneo, risonare degli cc antri marini» (anche si noti la posizione rilevata, a inizio di verso, 59 [53], dell'oggetto di interesse principale, la forte pausa segnata dalla virgola, l'iterazione del suono gutturale di «incalzato» e •scalpito•, doppiamente ribadito dal ache» relativo e dal verbo acaccia »), e marcando con maggiore decisione l'improvviso schizzare di polvere e sassi, relativo alla violenza dello scalpito, e però ancora afferente all'iniziale risonare, grazie all'attenuazione della gutturale nella palatale delle rime baciate («caccia-traccia»). Altrove il ritmo del verso è frenato ricorrendo all'accentuazione dell'iperbato, come ai vv. 40-1 [34-5], dove: «Perché emulasti, incauta, [P incauta!] / non dell'Aonie Parte» di G P, diventa in DN: «Perché non dell'Aonie / seguivi, incauta, l'arte», o all'introduzione della congiunzione coordinante, come al v. 58 [52], dove: u piove il sudore, i crini» di G, diventa: «e il sudor piove, e i .crini» di PD N, oppure devolvendo una determinata figura retorica da funzioni impressionistiche a compiti descrittivi. È il caso dell'aposiopesi del v. 64 [58]: G a nuota, e ingorde ... si gonfiano »; P D N cc nuota ... e ingorde si gonfiano 11, o ancora valendosi dell'artificio della dieresi, come al v. 100 [94], dove: «mesto, oltraggiato, e pallido II di G P diventa: asilenzi"oso, e pallido II di D N. Tutto ciò inerisce a un diagramma espressivo che da G a P a D N tende a risolvere il primitivo impressionismo, vale a dire l'adesione a forme di chiara derivazione melodrammatica, tipiche della tradizione settecentesca dell'ode, in una cifra stilistica classicamente descrittiva, di ascendenza pariniana. Tale il senso, oltre che della puntuale rimozione della liquidità del verso, delle più cospicue varianti di D N, sopra segnalate (vv. 19-30 [19-24], e 49-54 [43-8]), così come della lezione ae respinse• di PD N in luogo di • ed atterrì» di G al v. 71 [65], causativo e fisicamente inerente al acenno onnipotente» del v. 72 [66], o della significativa caduta di segni diacritici propri alla prassi melodrammatica del« fra sé>• (v. 74 [68]: G • e (orribile I),., PD N «e, orribile! n), o, finalmente, della fusione in un unico periodo di proposizioni in origine giustapposte, come ai vv. 76-8 [70-2]: G acade l'arcion; tu [...] misera / su la petrosa riva / rotolavi mal viva ... »; P •scosse l'arcion; te misera / per la petrosa riva / strascinava mal viva 11; D N «scuote l'arcion, te misera/ su la petrosa riva / strascinando mal viva». METRO: ode: absdr.8C1dr.dd. POESIE (1803) A LUIGIA PALLAVICINI CADUTA DA CAVALLO I balsami beati per te le Grazie apprestino, per te i lini odorati che a Citerea porgeano quando profano spino le punse il piè divino, 175 6 1-15. I balsami ... diva!: nota il F'ERRARI: • Questi versi, sino al punto esclamativo, nei quali il poeta chiede che le Grazie apprestino per la donna ammalata i balsami e i lini che porsero già a Citerea il giorno che si ferì mentre piangeva forsennata il morto Adone, e nei quali mostra gli Amori piangenti intorno al letto dall'ammalata, sono una derivazione, modificata dal Foscolo per la circostanza, dall'Idillio di Bione °Canto/rmebred'Adone". La favola è nota: Venere innamoratasi di Adone, e temendo per il suo caro la gelosia di altri dèi, lo prega di non andare a caccia che in sua compagnia; egli disubbidisce ed è ucciso da un cinghiale, che, per alcuni, non era che Marte così trasformatosi per punire i torti fattigli dalla dea: arrivata Venere sul morente giovinetto piange e si dispera; poi morto, fa dal suo sangue crescere il fiore Anemone ». I. J balsami beati: i medicamenti beatificanti, che rendono la salute. Nota il FERRARI: «Il Foscolo comincia sùbito, volendo raffrontare la sua donna ammalata ad una dea, col ricordo di Venere ferita. Non per la comparazione, che è sua, ma per la descrizione della ferita di Venere, egli attinge, come si è detto, particolari e si serve dei colori dell'idillio di Bione, modificato al suo bisogno; poiché la ferita di Venere che nel poeta greco non è che accessoria, qui diventa il punto principale; ed il poeta italiano ponendo che ella fosse poi curata dalle Grazie, aggiunge una circostanza che si può bene sottintendere in Bione, ma che per altro non è espressa, dacché là non importava. Così i balsami, e i lini profumati (e le vesti anc6ra) là sono offerti per ungere e comporre il morto Adone, e sono porti alla dea dagli Amori; qui invece per curare Venere stessa, e dalle Grazie•; e vedi Le Rimembranze, 7-8, a p. 115: • Quest'è la pianta che le diè i beati / fior ch'ella colse [...] •· 2. le Grazie: Aglaia, Eufrosine, Talia, con gli Amori parte del corteggio di Venere. 3. i lini odorati: le bende profumate (dai balsami). Il latinismo è anche nei Sepolcn·, 39, a p. 298: e e di fiori odorata arbore ·amica». 4. Citerea: Venere, cosi detta per essere da prima approdata, dopo la nascita dalla spuma marina, nell'isola di Citèra (l'attuale Cerigo, situata sotto il Peloponneso). Vedi Le Grazie, 1, 36-7, alle pp. 411-2: «(•••] e più le giova / l'inno che bella Citerea la invoca•; porgeano: le Grazie. 5. profano spino: empio, in quanto aveva ferito una dea. POESIE quel dì che insana empiea il sacro Ida di gemiti, 7-12. quel dì ... giovi11etto: nota il FERRARI: «Bione (traduz. Pagnini): "Vener sparsa le chiome, afflitta, incolta / e scalza va per le foreste errando. / I rovi le tormentano le piante / e predan l'almo sangue. Ella mettendo / acute stride va per lunghe valli, / e l'assirio suo sposo e garzon chiama,, [...]. Per commuovere maggiormente il cuore, commozione che poi di conseguenza si trasporta ancora alla donna ammalata, il Foscolo si ferma sulle dimostrazioni più affettuose del dolore di Venere. Bione: " ... Adone intanto / non sente più com'ella morto il bacia,,. Il Parini nel Dono, ma riferendosi ad una pittura (e la pittura non può fermare che un momento), descrive l'atteggiamento di Venere sopra Adone: "Ma sovra lui se pendere / la madre de gli Amori / cingendol con le rosee / braccia si vede ... [vv. 43-6] 11. Venere piangente Adone è descritta da Ovm10, Metam., x, 720-7: « [ •••] Utque aethere vidit ab alto/ exanimem inque suo iactantem sanguine corpus, / desiluit pariterque sinum pariterque capillos / rupit et indignis percussit pectora palmis. / Questaque cum fatis: "Et non tamen omnia vestri / iuris erunt" dixit 11 luctus monimenta manebunt / semper, Adoni, mci repetitaque mortis imago / annua plangoris peraget simulanima nostri"», e PROPERZIO, 11, 13, 53-6: 11 Testis, cui niveum quondam percussit Adonem / venantem Idalio vertice durus aper; / illis formosum iacuisse paludibus, illuc / diceris effusa tu, Venus, isse coma». 7. insana: fuori di sé, forsennata. «Cfr. Dante, cit. da G P [Guglielmo Padovan] bif. xxx 4; e il Petrarca son. IL figliuol di Lalona ecc. [xun] Mostrossi a noi qual uom per doglia insano, / che molto amata cosa non ritrove li (FERRARI). E vedi anche VIRGILIO, Aen., IV, 8: «cum sic unanimam adloquitur male sana [Didone] sororem li (ANTOGNONI). 8. il sacro Ida: monte nell'isola di Creta (l'attuale Psiloriti), sacro perché vi nacque Giove. E vedi PROPERZIO, citato in nota ai vv. 7-12; e Le Grazie, I, 245, a p. 426: «dell,lda irriguo di sorgenti [...]li. Giorgio Pasquali ha però giustamente obiettato che «[•••] l'Ida non è né il Parnaso né l,Elicona, e con le Muse ha tanto poco che fare quanto col sole. Da Ida si formerebbe un aggettivo etnico Ideo e non Idalio. Idalio è una città di Cipro famosa per un santuario di Venere. La prima menzione è nelle Siracusane di Teocrito. Ma da Catullo in giù essa è nominata, sempre in connessione con Venere, in moltissimi luoghi dei poeti classici latini: Virgilio, Properzio, Ovidio, Lucano, Valerio Fiacco, Stazio ecc. ecc. [...] Questi [Foscolo], che nella giovanile poesia A Venere del 1794 aveva derivato pari pari dai poeti latini Diva !dalia (v. 37 sgg.: "Ah no! tu Diva !dalia / che in ogni dove imperi •.."), sei anni più tardi, nella bellissima ode A Luigia Pallavicini mostra, nonostante il sostantivo vergiliano Idalio, che pure conosceva di sicuro, di fraintendere l'aggettivo Idalio, riferendolo all'Ida. Che l'Ida non sia una semplice distrazione mostro chiaro una variante "gl'ldei monti di gemiti". Come l'equivoco potesse avvenire, si spiega facilmente se si confronta il suo modello, Properzio 11, 13, 53-54. Testis qui niveum quondam percussit Adonem / venantem Idalio vertice durus aper. Il verlex lo ha fatto pensare a un monte, e il resto vien da sé. Convien dire che nessun'altra fonte parla di Idalio quale città montuosa, seppure la carta (in Pauly-Wissowa, Real-E11cyklopedie IX, 869-70) mostri che il santuario celebre sorgeva su una delle due acropoli della città, e seppure sia facile congetturare che Properzio, avesse o POESIE (1803) e col crine tergea e bagnava di lagrime il sanguinoso petto al ciprio giovinetto. Or te piangon gli amori, te fra le dive Liguri regina e diva! e fiori votivi all'ara portano d'onde il grand'arco suona del figlio di Latona. 177 12 18 no chiara cognizione della topografia di Idalio, dovesse quasi inevitabilmente, guidato dalle mille analogie, collocare in alto il tempio, l'errore è a ogni modo indubbio. Adone non ha nulla da spartire né coll'Ida cretese, né con quello frigio: egli è invece secondo la tradizione prevalente ciprioto, figlio del re Cinira. Strano che il Foscolo non si sia ricordato di un altro passo di Properzio (1v, 6, 59) dove la Stella ldalia è l'astro di Cesare, è chiaramente Venere: At pater Idalio miratur Caesar ab astro• (G. PASQUALI, Stella idalia e stella d'Italia, in« Lingua Nostra 11, III, 1941, fase. 3, p. 55). E vedi anche MARINO, Adone, III, 69, 3-4: «stanco di saettar [Adone] posa talvolta / su l'Idalio frondoso, o in val di Gnido »; IV, 20, 1-2: «Lassa, son pur colei, che ottenni in Ida / titolo di beltà sovra le belle». 1 I. sanguinoso petto: nota il FERRARI: a rende con brevissima locuzione questi passi di Bione: ''Su i monti giace il vago Adon da un dente, / candido dente, il suo candido fianco / trafitto, e un respir languido movendo / ange Ciprigna. Un nero sangue irriga / le sue carni di neve ..." e più sotto: "Ma l'atro sangue intorno all'umbilico/ d'Adone alto s'ammassa, e giù da' fianchi / sul petto porporeggia, e son le coste, I che parean dianzi neve, a rosso tinte"». I 2. ciprio giovinetto: Adone, figlio di ì\1irra e di suo padre Cinira, re di Cipro («secondo alcuni, seguìti dal Foscolo, Cinira era re di Cipro e d1Arabia; secondo altri, seguìti da Bione, di Assiria o, FERRARI). 13. Or . .. amori: nota il FERRARI: «in Bione: "Sieguon gli amori a lngrimar Ciprigna11 • Il Foscolo vuol suggerire che come gli Amori piansero Venere il giorno che si ferì, così oggi piangono la Pallavicini, nuova dea, che è ammalata»; amori: «gli spiriti amanti e gentili >1 (DE RoBERTIS), i quali «piangono la malattia della donna, e innalzano preci perché l'arte medica valga a guarirla» (FERRARI). 14-5. te .•. diva: vedi nell'Omaggio, CERONI, Sciolti, 9-10: «Più leggiadra di Venere ti mostra / in tua diva beltà [...] »; GASPARINE1TI, Ode, 99-100: « Si paghe siete, o Liguri/ dive[...] •;fra le dive è poi l'omerico 8i'cx -8-Eciwv, Il., VI, 305 (GRANCELLI). 15-8. e . .• Lato11a: e recano fiori (da intendersi, probabilmente, in senso metaforico, per poesie augurali), onde ottenere la tua salute (votivi), all'altare da cui (d'onde) si ode il suono del grande arco (nell'attimo in cui è liberata la freccia) di Apollo (figlio di Giove e di Latona). Come tale, Apollo è già designato in PETRARCA, Rime, XLIII, 1: «Il figliuol di Latona [...] »; suona: in rima con Lato11a è in CERRETTI, 1, Per le noz.:re della Buonvisi, lucchese, 5-6. 12 POESIE E te chiama la danza ove l'aure portavano insolita fragranza, allor che a' nodi indocile 19-30. E te .•. dell'onda: nota il FERRARI: "Descrive la bella donna mentre ballando riceveva gentile impedimento dalle chiome, le quali non essendo raccolte nel capo, ma sciolte, venivano, essendo lunghe, a ricascare sul braccio; ed il braccio allargandosi nel gesto per l'atteggiamento della danza, le sosteneva. L'imagine principale su cui il poeta si vuol fermare è appunto questa del braccio che allargato in giro alzava le chiome, e questa gli suggerisce la comparazione con Pallade che tien fuori dall'onde i capelli: l'altra idea che le chiome erano sciolte (necessità perché potesse aver luogo l'imagine principale) è data come secondaria, poiché essa presuppone la prima, e trova pure il suo corrispondente nella comparazione. L'imagine principale è certamente del Foscolo, ma il raffrontare donna colle chiome sciolte a Pallade, è, come il Carrer (op. cit. p. LIX) osservò giustamente, prima nel Parini Per Cecilia Tron, 41 : 41 Parve a mirar nel volto / e ne le membra Pallade, / quando l'elmo a sé tolto, / fin sopra il fianco scorrere si lascia il lungo crin". Dire come fa G M [Giovanni Mestica], che il Foscolo non imitasse il Parini, ma che questi gli servisse solo di strada per ritornare alla fonte greca (ciò è a Callimaco l'inno A Pallade) alla quale pure aveva attinto il poeta lombardo, a me non par giusto. Perché la trovata· del Parini, sta nella comparazione, e nella comparazione l'imitazione del Foscolo; il che è confermato a mio credere dalla lez. var. Ecco i versi di Callimaco (traduz. Pagnini): " ... Argo oggi a' fonti bea / e non a' fiumi. / ... / ... Misto di fiori e d'oro / Inaco giù verrà da' poggi erbosi / menando d'acque un bel lavacro a Palla'": e più sotto è descritta la dea che si bagna nel fonte Eliconio. Come si vede, al Parini il poeta greco non servi che di notizia per i lavacri di Palla. È vero per altro che pure il Foscolo si servì del poeta greco, ma solo in un accessorio, nella descrizione ciò è del luogo che serviva di lavacro; e tanto è ancora confermato dalla varietà della lezione al v. 26 ». Che in G e in P i vv. 19-24 si rifacciano ai vv. 41-5 del Pericolo non par dubbio, tanto quanto il fatto che in D e in N i vv. 25-30 tengano direttamente conto anche della fonte callimachea, di cui è del resto traccia nei versi del frammento delle Gra::ie, contenuto nella Considerazione XII, Chiome bionde, della Chioma di Berenice, cit., pp. 209-10. Su tutto ciò vedi la nota introduttiva aWode, qui alle pp. 172-3. Si segnala inoltre che l'ode pariniana, primamente pubblicata nel u Giornale poetico» di Andrea Rubbi, Venezia, Marcuzzi, primo semestre 1789, vedeva nuovamente la luce nell'«Anno poetico, ossia Raccolta annuale di poesie inedite di autori viventi», 11, Venezia, Dalla Tipografia Pepoliana, I 794, di Angelo Dalmistro. 19. E te: "Risponde a Or te del v. 13. E anche le due strofe si corrispondono: nell'una i pianti e i voti di tutti gli spiriti innamorati, nell'altra il pungente desiderio della !donna di tornare alle feste di una volta» (DE RooERTIS). 20-1. ove ['aure ..• fragranza: vedi a p. 233 il sonetto E tu ne' carmi avrai perenne vita, 13-4, e la nota al v. 14. 22. a' nodi indocile: ribelle all'acconciatura, cioè sciol- POESIE (1803) la chioma al roseo braccio ti fu gentile impaccio. Tal nel lavacro immersa che fiori, dall'inachio clivo cadendo, versa, Palla i dall'elmo liberi crin su la man che gronda contien fuori dell'onda. Armoniosi accenti dal tuo labbro volavano, 179 30 ta; nota il DE RoBERTIS: «Nell'ode All'amica risanata, v. 46 [qui a p. 193], dirà mal fide, che vuol dire dunque non malamente affidate, ma infide o, come qui, ribelli». 25-30. Tal . .. dell'onda: così (tal), immersa nell'acqua (lavacro), che cadendo dal colle (clivo) inachio (da cui, nella direzione della città di Argo, scende il fiume Inaco), porta seco i fiori che raccoglie lungo il suo corso, Pallade regge (contien) fuori dell'onda le chiome libere dall'elmo. Il passo ha relazione con i versi dell'inno A Pallade di Callimaco, citato in nota ai vv. 19-30, e con il frammento delle Grazie, contenuto nella Chioma di Berenice, per il quale vedi la nota ai vv. 19-30. E vedi Le Grazie, 111, 55-6, a p. 466: «[•••] i fulvi / capei di Palla, liberi del11 elmo ». Per lavacro vedi Sepolcri, 166-7, alle pp. 313- 4: a[...] e pe' lavacri / che da' suoi gioghi a te versa Apennino! •; per Palla vedi Bonaparte liberatore, 31, a p. 145. 31-6. Armoniosi ... baci: «Vuol dire che dagli occhi della Pallavicini tralucevano, apparivano, espressioni di sdegno o di pace, cioè atteggiamenti e moti sdegnosi o tranquilli: e espressioni, moti, atteggiamenti che o inducevano a sperare, o erano causa di pianto, o svegliavano desideri di baci• (DE RoBERTIS). Nota il FERRARI: « Mostra che dagli occhi della Pallavicini apparivano tutti i fascini e le arti con che Venere soleva allettare gli uomini. Esiodo nella Teogonia (traduz. G. R. Carli): "Ella ha d1intomo / verginee parolette, e risi e inganni, / e lusinghe soavi e amori e vezzi". E confronta anc6ra il cinto di Venere in Omero, Iliade XIV 259 (trad. Monti), dove Venere dà il cinto a Giunone per stringere fra i suoi vezzi Giove, imitato poi dal Tasso, - da cui qui il Foscolo ha tolto qualche tocco - nel cinto d'Armida, Liberata, xvi 25: "'Teneri sdegni e placide e tranquille / repulse, e cari sdegni, e liete paci, / sorrise parolette, e dolci stille / di pianto, e sospir tronchi e molli baci ...". E secondo le teorie del Foscolo, si può credere, che il ricordo che i pregi della donna erano simili a quelli di una dea, rendesse detti pregi più cari e più preziosi, e più venerati quasi, agli uomini, o, se non ad altri, a lui. (Cfr. Chioma di Bere,1ice, Disc. 4, ove a proposito dello descrizione della sera fatta da Stesicoro, avverte uLn qual dipintura più agevolmente le virtù domestiche persuadeva, che ei le vedevano si care al ministro maggior della natura")•· Nell'Omaggio cosi si esprimeva il CERONI, Inno, 52-7: • Colei che cinta di candor celeste / emulava in beltà la Cipria Dea; / che serenar i nembi, e le tempeste / del ciglio colle folgori potea, / anzi stagione or 180 POESIE e dagli occhi ridenti traluceano di Venere i disdegni e le paci, la speme, il pianto, e i baci. Deh! perché hai le gentili forme e l'ingegno docile vòlto a studii virili ? Perché non dell'Aonie seguivi, incauta, l'arte, ma i ludi aspri di Marte? Invan presaghi i venti il polveroso agghiacciano 42 varcherà le meste / nebbie della palude Acherontea?>,. 39. studii: vedi PARINI, Il messaggio, 69: ne i geniali studiin;A Silvia, 53-5: 11poi che la spola e il Frigio/ ago e gli studii cari/ mal si recaro a tedio» (entrambe le odi furono probabilmente note al Foscolo attraverso la stampa dell'11Anno poetico» ecc. del 1795). E vedi anche Il Mattino, 24: a Né i mesti de la dea Pallade studii». 40-r. dell'Aonie ... l'arte: le varie discipline delle Muse, deità preposte alle belle arti e alle scienze (Ao11ie, secondo consueta locuzione poetica, dai monti Aonii della Beozia); e vedi il sonetto Pur tu copia versavi alma di canto, 2, a p. 244. 42. i ludi . .. Marte: «ludi è voce lat. che vale giuochi; qui esercizi. Il Poliziano Sta11ze I 1 : "Le magnanime pompe e i fieri ludi,,; ove è pure aggiunto l'epiteto fieri a ludi volendo che determinassero esercizi di guerra (per lui erano )e giostre); ma il Foscolo l'adoperò poi senza aggettivo nella traduz. dell'Iliade "Ma dai ludi di Marte ccc.". In fine, la locuzione foscoliana risponde al Jormidabil gioco di Marte del Lamberti [...] », per il quale vedi la nota ai vv. 43-78 (FERRAR!). 43-78. lnvan . .. mal viva: come già segnalò G. CARDUCCI, in Lirici del secolo XVIII, cit., p. LXXXIX, l'ode foscoliana, relativamente all'invenzione, deriva da / cocchi di Luigi Lamberti. Il modello Jambertiano sembra tuttavia circoscrivibile ai vv. 33-72: 11 Sventurato fanciulloI / A lui che valse il fonnidabil gioco/ fuggir di Marte, e nullo/ pagar tributo di Ciprigna al foco; / se poscia in onta de l'Ortigia Diva, / su la Trezenia riva, / l'estinse, ammenda ai non commessi falli, / l'ira dc' suoi cavalli. / Sedea su altero cocchio / in atti il giovin, dolcemente acerbi, / e con le mani, e l'occhio / vegliava al fren dei corridor superbi; / quando dal grembo dei mugghianti flutti, / ceco su i lidi asciutti, / di ver la raceunifcra Epidauro / balzar mostroso tauro; / a lo spettacol diro, / rincularo i comipedi feroci, / né più il flagel sentiro, / o il noto suon de le animose voci; / quindi sbattendo i rabbuffati colli, / per la gran tema folH, / si disserrar, forzando e briglie e morso, / precipitosi al corso. / Come fischiando scoppia, / e fugge pietra da aggirata fionda, / corse l'equina coppia / a dritta e a manca per la curva sponda, / insin che n l'urto dc gli acuti sassi, / rote, timone, ed assi, / si scommesscr crocchiondo, e in cento parti, / volar troncati, e sparti. / Te fra le briglie avvolto, / Ippolito traean POESIE (1803) 181 pei scabri liti, / indarno a pregar volto, / i rei destrieri di tua man nutriti; / così, qual giglio in su 'l fiorir reciso, / isti acerbo a l'Eliso, / cd ci, che mal sul Pegaso si tenne, / ad incontrar ti venne 11. La "caduta" è così deprecata e descritta nell'Omaggio: CERONI, Sciolti, 37-53: cc Oh fatale destrier, dal sen di Averno / chi ti spinse alla luce? i molli vezzi, / per te, a lutto vestir, per te, gli Amori / l'arco gittaro, e PAcidalio mirto / di pallido color tinse le fronde. / Tu al dì scoppiasti tra le ircane belve, / o dai cavalli barbari scendesti, / che d'uman sangue abbeverava il truce / lestrigonio monarca; oh! almen la sorte/ avessi tu de' Fctontei corsieri! / O in te la lancia tridentata, il fero / Dio dell'ondc scagliasse, o fra le balze / piombassi infranto e lacero, onde invidia / alla coppia d'Ippolito infelice / nella morte portassi, empio, che tanto / osasti contro le divine forme / della Ligure bella [...] 11; 111110, 22-5 I : o: Oimè, che scalpita / con ugna ardente, / oimè, che palpita / impaziente / il crine ondivago / quassando altier / del freno indocile / il superbo indomabile corsier. / Col lieve incarco nitrisce, avvampa, / sbrigliato stampa - l'orme fugaci, / l'aure seguaci - vince nel corso / infranto il morso - sbuffa, cd infuria: / ché iniqua furia- l'urta, e flagella:/ pavc la bella,-né la sua voce/ frena il feroce;- tale il baleno / dei nembi in seno, - o tuon che mugge / rapido fugge - Ahi! tra gli alpestri / scogli di Sestri - su dura cote / strazia, e percotc - il bel sembiante, / che amore amante - facea; già esangue / tra un rio di sangue - pallida cade, / e gel di morte i vaghi membri invade. / Trema il corpo rinverso in sulla sabbia; / sul seno il capo languido s'inchina; / sono sangue i capei, sangue le labbia; / sangue la tonda guancia alabastrina. / Geme querulo il zefiro, e par n'abbia / dolor, la impietosita onda marina, / le grazie desolate al piè le stanno, / mostrando agli atti angoscioso affanno»; GASPARINETTI, Ode, 29-84: «Miri novella Amazzone, / con la temuta voce, / LUIGIA il freno reggere / a corridor veloce, / e con nobil fierezza / sfidar l'aure, e i pericoli, / alle vittorie avvezza. / Adatta il molle, ed agile / fianco ad anglica sella, / il manco piede argentea / staffa accoglie, e appuntella, / l'altro in guisa si stende,/ che, al dcsir involandosi, / mille dcsiri accende. / La chioma leggiadrissima, / che in lievi guizzi ondeggia, / il liscio collo e l'omero/ dolce lambc, e vezzeggia; / e il vento, che la tocca, / gemendo il voi sollecita, / per baciar quella bocca. / Bella bocca nettarea, / che in larga copia tersa / gentil favella amabile / soavemente versa, / che impietosir i venti / puote non sol, ma sudditi / farsi in terra viventi. / Candido lino indocile / spietatamente casto, / fa del suo petto ai palpiti / baldanzosi contrasto; / ma invan, che il lusinghiero / candor negato, penetra / temerario il pensiero. / l\lla, qual balen, che celere / fa in aria un solco, e fugge, / tal ella passa, e involasi / a chi in fiamme si strugge; / e con mal certo sguardo / misura l'orme rapide / del destriero gagliardo. / Ah! veglia, Amor, tu tenero / custode delle Belle, / veglia al suo fianco, e l'abbiano / teco in cura le stelle, / potria, del male figlio, / segreto invido Genio, / nuovo aprirle periglio. / Al suo cader precipite / potria LUIGIA, e foro / miserando spcttacol / offrir al passeggero, / che, qual giglio reciso, / scorgerebbe fra spasimi/ scolorarsi il bel viso». La descrizione del cavallo imbizzarrito ha poi attinenza con VIRGILIO, Ae,r., XI, 492-7: o: Qualis, uhi abruptis fugit praesepia vinclis / tandem liber ecus campoque potitus aperto / aut illc in pastus annentaque tendit equarum / aut adsuetus aquae perfundi flumine noto / emicat arrectisque fremit cervicibus alte / luxurians luduntque iubae per colla, per nnnos ». 43. presaghi: della sventura. 1t 1l F. poteva aver presenti i virgiliani esempi di praesiigi fulm'in'is ig11is, praesaga n,àli mens » (ANTOGNONI). 182 POESIE petto e le reni ardenti dell'inquieto alipede, ed irritante il morso accresce impeto al corso. 48 Ardon gli sguardi, fuma la bocca, agita l'ardua testa, vola la spuma, ed i manti volubili lorda e l'incerto freno, ed il candido seno; 54 e il sudor piove, e i crini sul collo irti svolazzano, suonan gli antri marini allo incalzato scalpito della zampa che caccia polve e sassi in sua traccia. 6o 46. alipede: «sta per cavallo che corre velocissimo, quasi abbia le ali ai piedi [...]. Monti Pel Signor di Montgolfier, 15: "Nettuno ai verdi alipedi / lasciò cader la briglia"» (FERRARI). E vedi anche VIRGILIO, Aen., VII, 277; Xli, 484. 47. ed i"itante il morso: ed anzi il morso irritante. 50-1. l'ardua / testa: la testa sollevata in alto. Si attaglia meglio della lezione di G P (« il capo s'agita») all'originale virgiliano (Aen., x1, 496-7): • [.•.] arrectisque fremit cervicibus alte / luxurians luduntque iubae per colla, per annos ». 52. ed i manti volubili: i manti (della donna) svolazzanti. 53. l'incerto freno: il freno, il morso (cioè la guida), retto da mano incerta. 55. e il sudar piove: vedi MONTI, A Sigismondo Chigi, 177-8: «[•••] e piove a rivi / il sudor [...] •· 57. suonan • •• marini: risuonano le profondità del mare. FERRARI: • le cavità del mare»; CASINI: a dice antri marini, non già per le vicine montagne dell'Apennino, ma per significare che il fragore della corsa sfrenata si ripercoteva sul mare: cfr. la stessa espressione nell'ode II 1 ( Qual dagli antri marini)». • Il F. usa 11antron in una significazione un po' vaga e indeterminata non accolta nei vocabolari; talora come linea sinuosa del mare (cfr. Ode 11, 1) o dei fiumi (Sepolcri, 60; nel v. 283 dello stesso canne è per ccluogo sotterraneo, tomba"). Anche nelle U. L. di Jacopo Ortis (ediz. Cian 11, 7, 16): "Non v'è gleba, non antro, non albero che non mi riviva nel cuore". Lo Zanella, ricordando il F., nella Conchiglia fossile (vv. 8-9): "Occulta nel fondo D'un antro marino"; nel comune senso della parola, come nel F. stesso (Le Grazie 1, 171 di questa ediz.): "Armoniosi antri (in senso affine a ''grotta, spelonca", cfr. Grazie Il 24 e 96 pur di questa ediz.) 11 (ANT0GN0NI). 58. incalzato: affrettato. 60. traccia: nel senso di ..cammino", come in DANTE, Par., v111, 148: •onde la traccia vostra è fuor di strada•· POESIE (1803) Già dal lito si slancia sordo ai clamori e al fremito, già già fino alla pancia nuota ... e ingorde si gonfiano non più memori l'acque che una Dea da lor nacque. Se non che il re dell'onde dolente ancor d'Ippolito surse per le profonde vie dal Tirreno talamo, e respinse il furente col cenno onnipotente. Quei dal flutto arretrosse ricalcitrando e, orribile! 183 66 72 62. sordo ... fremito: asenza badare alle grida e al fremito dei compagni della donna, che cercavano di frenare l'ardito animale• (CASINI), oppure: aSempre del mare; non, come altri crede, ai clamori della donna e al fremito del mare» (DE RonERTIS). E vedi VIRGILIO, Aen., III, 555-7: aet gemitum ingcntem pelagi pulsataque saxa / audimus longe fractasque ad litora voces, / exultantque vada atque aestu miscentur harenae »; 111, 566: «Ter scopuli clamorem inter cava saxa dedere» (Russo). 63. già già: «forma usata largamente dall'Alfieri nelle tragedie; p. es. in Saul A. IV Se. Iv: "Già già crolla"; Don Garzia A. 1v Se. I: "Già già la notte tacita s'inoltra"; Se. 111: "Già già le negre ombre tutto velano"; Se. VI: "Già già ritorco il piè" 11 (ANTOGNONI). 65-6. Per acque in rima con nacque vedi a p. 235 la nota al v. 4 del sonetto Népiù mai toccherò le sacre sponde. 66. che una Dea: Venere. Nota il FERRARI: «Si ripensa a ciò, che non è giusto che quelle acque le quali dettero la vita a Venere si mostrino bramose della morte di questa donna che è nuova dea». 67-8. Se non ..• Ippolito: Nettuno, ancora dolente per la sorte di Ippolito, in quanto, propostosi di vendicare Teseo (ingannato dalle insinuazioni di Fedra a carico del figliastro Ippolito), slanciò contro quello, che guidava un cocchio lungo la riva del mare, un toro, così che i cavalli, imbizzarriti, trascinarono il giovane tra le onde. Oltre che in EuRIPIDB (Medea), l'episodio si ritrova in Ov1010, Metarn., xv. 500. 69-70. surse .•. talamo:« Fantoni, ode Il saggio amico ecc. 39 ccsurse dalle profonde Voragini dcll'onde" » (F'mmARI). E vedi J novelli repubblicani, 581 a p. 136: e surse del Tcbro da l'incognit'urna ». 73-5. arf'etrosse; f'i::zosse: aForme per noi invecchiate, che il F. sceglieva per dar idea della terribilità del momento. L'Ariosto (O. F. 11 29) a rappresentar l'orrore dell'apparizione d'un morto: " ..• ogni pelo arricciasse E scolorasse al Saracino il viso; La voce ch'era per uscirfennosse •• _,,_ E certo era nell'orecchio del F. il famoso sonetto di Onofrio Minzoni, ch'egli poi riferl e commentò con i migliori sonetti della nostra lirica: "Quando Gesù con Pultimo lamento Schiuse le tombe e la montagna scosse, Adamo rabbuffato e son- POESIE sovra l'anche rizzosse; scuote l'arcion, te misera su la petrosa riva strascinando mal viva. Pera chi osò primiero discortese commettere a infedele corsiero l'agii fianco femineo 78 nolento Levò la testa e sovra i piè rizzosse". La variante "Scosse l'arcion" conferma che questi versi il F. sentiva atti a dargli suoni rappresentativi efficaci, sì che tentò di accumular quei perfetti in -osse anche entro il verso, come nell'esempio qui su citato dell'Orlando Ftlrioso. Poi, temendo forse d'esagerare quanto ai suoni o di usar voci più narrative che liriche, con movimento ardito abbandonò la forma del perfetto storico per quella del presente (Scuote) più viva» (ANTOGNONI). E vedi Al Sole, 22, a p. 121: «la bufera lanciosse, e ri'otoso ». 78. nial viva: semiviva, Il calco classicistico dell'aggettivo in forma di litote è altrove attestato in FoscoLo: vedi In morte del padre, 10, a p. 125: «deh basti! disse; e a la mal ferma palma»; Alla amica risanata, 46, a p. 193; Sepolcri, 182, a p. 316: «da che le mal vietate Alpi [...] ,,. E vedi anche TASSO, Ger. Lib., VII, 119, s: «qui tra 'I vulgo de' morti e de' mal vivi» (Russo); PARINI, Il dono, 35: 11 mal cauto da le insidie»; Il Mattino, 322: 11 [ •••] la prole mal secura [...] »; LAMBERTI, J cocchi, z: 11 fidato a briglie, e a mal securo ingegno»; e nell'Omaggio, GASPARINE'ITI, Ode, 68: «e con mal certo sguardo 11; MONTI, Alla Maestà di Napoleone I Imperatore de' Fra,icesi ecc., Milano, Veladini, 18051 p. 8, v. 81: cc e la patria piangean spenta, o mal viva». 79. Pera chi osò: il passo foscoliano procede da LAMBERTI, J cocchi, 1-4: «Pera chi osò primiero,/ fidato a briglie, e a mal securo ingegno, / dc l'indocil destriero / aggiogar la cervice a debil legno» (a sua volta derivato da VIRGILIO, Aen., VI, 580-91). Oltre che in quella classica, la formula deprecatoria è largamente attestata nella tradizione lirica nostrana. Vedi oltre a FOSCOLO, La Giustizia e la Pietà, 100, a p. 1 I 3: a Pera colui, che il popolar diritto», A Dante, 25, a p. 26: •Pera! la lingua succida [•••] », ad esempio, MARINO, Adone, III, 45, 1•2: a Pera quell'arco tuo d'inganni pieno, / pera, iniquo fanciul, quel crudo dardo»; ROLLI, La Poesia, 103-5: a Pera sì quell'alma truce / che vorria tarpare i vanni / al bel genio che n'è duce»; Elegia 111, 25-7: nPera chiunque furibondo e stolto / cerca alla propria ambizione riposo / sparso di sangue e da ruinc involto>,; Le Odi d'Anacreonte, Oda XLVI, 9-10: «Pera chi tanto in pria / diede pregio a ricchezza»; PARINI, son. XXXIII, 9-10: «Pera chi 'l crudcl astro unqua ha predetto, / pera chi l'aspettò [...] •; son. LXXXVII, 1-2: «Pera colui che dall'estremo lito / portò 'I verme infelice ond'uom si veste»; La salubrità dell'aria, 25: «Pera colui che primo [...] »; La musica, 7: «Ah pera lo spietato [.•.] »; Il Mattino, 308: u Pera dunque chi a te nozze consiglia>>; PINDEM0NTn•, Ode per madamigella Batlmrst cl,e mori annegata nel Tevere, 1-3: et Pera chi donna il primo / porre n seder sul tergo / del nettunio cavallo ebbe ardimento»; II, Cascata tra Maglan POESIE (1803) e aprl con rio consiglio nuovo a beltà perigliol Ché or non vedrei la rose del tuo volto si languide, non le luci amorose spiar ne' guardi medici speranza lusinghiera della beltà primiera. Di Cintia il cocchio aurato le cerve un dì traeano, 90 e Sellenche nel Faucigny detta Il Nant d•Argenaz, 28-31: aPera colui, che lassa / scorrere innanzi il cocchio, / da cui non scende, e Pocchio / solo rivolge, e passa». 84. nuovo . .. peri'glio: vedi nell'Omaggio, GASPARINETTI, Ode, 75-7: «potria, del male figlio, / segreto invido Genio, / nuovo aprirle periglio ». l\1a vedi anche PARINI, La caduta, 42 e 44: «prendi novo consiglio / [...] / capo sottrarre a più fatai periglio »; Il pericolo, 1 s: «e per novo periglio ». E la nota ai vv. 19-30. 85-6. Ché . .. languide: ora infatti non vedrei l'incarnato del tuo volto tanto pallido. Vedi PARINI, L'educazione, 1-2: «Torna a fiorir la rosa / che pur dianzi languìa » (« e Bione nell'idill. cit.: " ... dalle labbra fugge / la rosa"», FERRARI). E anche l'ode Alla amica risanata, 13-4, a p. 190. 87. luci amorose: gli occhi (suscitatori d'amore) della Pallavicini. 88. guardi medici: nello sguardo dei medici: «l'uso di questo aggett. latino è già nel Tasso, Liberata XII 74: "E le mediche mani e i detti ei sente,,» (F'ERRARI). 89. spera11za lusinghiera: speranza che lusinghi, faccia ben presumere del recupero della primitiva bellezza. Vedi l\1ETASTASIO, Demetrio, atto I, scena xv, 663-8: • Vorrei da' lacci sciogliere/ quest'alma prigioniera:/ tu non mi fai risolvere, / speranza lusinghiera: / fosti la prima a nascere, / sei l'ultima a morir• (ANTOGNONI). 91-108. Di ... sorella: il motivo augurale della chiusa, unitamente a quello della trionfata malignità delle rivali, cosi nel mito come nella realtà, oltre che nel CERONI, Il papagalletto, XXXI, 245-8: «Come tanta beltà scontri la tomba, / si dolgono le Grazie desolate: / gioia delle rivali è in fronte sculta, / ma non men vaga sorge, e all'altra insulta• (come già segnalarono MESTICA, CASINI, FERRARI), è anche largamente svolto nei testi dell'Omaggio: vedi CERONI, Sciolti, 1-19: aDeh sorgi, o Elisa, dalle ingrate piume, / sorgi, e le Grazie, dall'idalia chiostra, / accorron liete su' tuoi vaghi membri, / tutta la schiera ad atteggiar de' vezzi. / Ciprigna, in forse del primiero vanto, / stiasi muta, dolente; al suol declini / le vinte luci, e dell'inutil Cinto / mesta discinga il baldanzoso fianco. / Più leggiadra di Venere ti mostra / in tua diva beltà; ti guardi, e frcmn / la mal repressa femminile invidia; / né sulla guancia dall'amor tornita, / né sulle !abbia voluttà spiranti, / trovi la sanguinosa orma crudele. / Così, tra l'ombre dell'opaca notte, / crescente luna, scintillando, incalza / la metà tenebrosa, e vincitrice, / dopo il giro volubile, dispiega / la intera pompa dell'argenteo disco»; 53-64: « [•••] Ma, il temuto / nembo sparì: tu dal sanguigno letto / alzati, Elisa, d'amo- 186 POESIE ma al ferino ululato per terrore insanirono, e dalla rupe etnea precipitar la Dea. Gioian d'invido riso le abitatrici olimpie perché l'eterno viso silenzioso, e pallido cinto apparia d'un velo ai conviti del cielo: ma ben piansero il giorno che dalle danze efesie lieta facea ritorno 96 102 rosi rai / tutta cospersa, e di candor celeste / isfavillando, a rallegrar lo spirto / de' solleciti amici; Egizia palma / cosi, se al suolo gli orgogliosi rami / pesta curvò da grandine nemica, / nel novo Aprile, al lusingar dell'aura, / s'abella; veste le risorte chiome / di sue vivide fronde, e più superba / all'altre piante in sua vaghezza insulta,,; Jn110, 68-71: "Ma, l'inamabil orma resterà / sul viso pria sl armonico, e gentil? / E del basso trionfo riderà / la satollata invidia femminil? •; 79-87: "E sorgerà, qual dopo il nembo appare / fra stella, e stella / diradatrice della notte bruna / più candida, più bella / l'inargentata luna; / alza lo sguardo il passegger, che oltraggio / di grandine temea, / e benedice il grazioso raggio/ della risorta Dea•; GASPARINETTI, Od~, 99-119: aSì paghe siete, o Liguri / Dive, offuscato è il volto, / che in sé avea delle grazie / il paradiso accolto; / langue muta la Bella, / e accerchiato di tenebre / langue il mondo con Ella. / Ma non temete, o tenere / alme d'amor seguaci, / berrete ancor dolcissime/ da' begli occhi vivaci / le delizie, e le spemi, / i cari inviti taciti / ai piaceri supremi. / Cosl talora pallido / raggio di sol trapela / dal sen di nube insolita, / che mesta il copre, e vela; / e così più ridente / vince la nube, e fulgido / esce a bear la gente •; Jm,an d~l tuo periglio, 1-16: • Invan del tuo periglio / con tacito sogghigno / rise in suo cor maligno / l'invidia femminil. / E invan con motti acerbi / diceva or questa or quella: / sarà costei men bella, / men candida, e gentil. / Al ciglio, al labbro, al volto / fece beltà ritorno. / Esci a bear il giorno / a rallegrare il Ciel. / Amor t'è guida, Amore,/ che a questa dice, e a quella/ o inchinati alla bella, / o copriti col vel •; Cintia: Diana cacciatrice, cosl detta per essere nata, come Apollo, da Giove e Latona, sul monte Cintio nell'isola di Delo. Nel mito greco (vedi CALLIMACO, inno A Diana), era dotata di un cocchio d'oro trainato da cerve. 93. ferino: delle belve. 97. intJido: invidioso. 98. le abitatrici olimpie: le altre dee dell'Olimpo. 99. eterno: perché di una dea. 104. danze ef~sie: dai riti di Efeso (città ionica dell'Asia minore), dove Diana godeva di particolare culto. POESIE (1803) fra le devote vergini, e al ciel salia più bella di Febo la sorella. 1o8 106. le devote fJ"gini: •sono le sessanta ninfe oceanine da lei [Diana] chieste appena nata al padre: Callimaco nell'inno A Diana (trad. Pagnini): 11 Dammi sessanta ancor compagne al h:illo / oceanine, e di nov'anni tutte / e tutte giovincelle ancor non cinte,,» (FERRARI); devote perché avevano consacrato la propria verginità alla dea; e vedi a p. 194 la nota al v. 56 dell'ode Alla amica risanata. 108. di Febo la sorella: Diana, sorella di Apollo. Per bella in rima con sorella vedi MARINO, Adone, 1, I I I, 7-8: • Beroe uscirà, che più d'ogni altra bella/ fia delle Grazie l'ultima sorella•· ALLA AMICA RISANATA Pubblicata dapprima nell'edizione Destefanis delle Poesie, l'ode Alla amica risanata è da ritenersi composta tra la primavera del 1802 e quella del 1803. Il 29 aprile 1802 il Foscolo scriveva infatti a Vincenzo Monti, di stanza a Pavia: «Io vo odeggiando dopo un anno che le vergini Muse mi aveano lasciato• (Epistolario, I, p. 139), mentre i vv. 71-2 («or contro l'Anglia avara / e le cavalle ed il furor prepara [Bellona] 11), rimandano esplicitamente ai preparativi bellici conseguenti all'inasprimento dei rapporti tra Francia e Inghilterra, che, di lì a poco, nel maggio del 1803, doveva condurre alla rottura della pace di Amiens (stipulata il 25 marzo del 1802). Come è noto Antonietta Fagnani Arese, colpita da malattia durante l'inverno 1801-1802, si era ristabilita nella primavera del 1802. La fine della relazione tra il Foscolo e la gentildonna milanese, collocabile presumibilmente entro i primi mesi del 1803 (vedi Epistolario, I, pp. 410 e 414), giustifica poi che, cadute le ragioni d'ogni prudenziale riserbo, Alla amica risanata vedesse la luce nella stampa milanese sopra citata {per la quale vedi la nota introduttiva alle Poesie, a p. 159). Elaborata con tutto agio, nel giro di un anno, l'ode presenta una struttura articolata in due blocchi, comprendenti rispettivamente i vv. 1-48 e i vv. 55-84, collegati da una strofe (vv. 49-54) che, affacciando il rimprovero delle Grazie a uchi la beltà fugace / ti membra e il giorno dell'eterna pace» (vv. 53-4), induce, ex abmpto, l'esemplificazione delle deificazioni (Diana, vv. 55-66, Bellona, vv. 67-72, Venere, vv. 73-84), di cui è ragione, secondo un procedimento sperimentato già nell'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo (vedi la nota ai vv. 55-6), ai vv. 85-96. Gli stessi infatti, allacciandosi a un elemento deWipotiposi geografica del regno terreno di Venere (il «grande Ionio», v. 84), consentono che dall'immediato riscontro autobiografico («Ebbi in quel mar la culla», v. 85), e dalla sua convenienza con la leggenda di Saffo, così come dal privilegio natale derivante dal rapporto diretto con la tradizione facente capo alla poetessa di Lesbo, sulla falsariga della mediazione oraziana, le deificazioni assumano a posteriori il carattere di una dimostrazione storica del valore eternatore del mito, che, nella fattispecie, unitamente alla vigilata ornamentazione classicistica (attenta sino al dettaglio grammaticale del titolo, rinviante a un tipico uso pariniano, vedi, ad esempio, La impostura), ha il compito di sottrarre per specifica analogia di destini l'omaggio delle "divine" bellezze dell'amica risanata alla caduca rapacità del tempo, assicurando loro, per il tramite della poesia, l'omaggio futuro delle • insubre nepoti », sintomatico, tout court, del trionfo sulla « beltà fugace• e sul a giorno dell'eterna pace». Relativamente al metro, notava il FERRARI: «Non trovo esempi di questo metro prima del F; ma non è che una modificazione del metro pariniano nel Frammento di un'ode "A Delia" che rima ababcC, colla sostituzione degli sdruccioli sciolti nel 2° e 4° verso. Il metro del Parini è alla sua volta modificato da quello di Bernardo Tasso, ode Lelio qui dove il sole, ove pure mancano gli sdruccioli, e varia l'ordine delle rime abbacC •. METRO: ode: abadr.aCsdr.dD. POESIE (1803) ALLA AMICA RISANATA Qual dagli antri marini l'astro più caro a Venere co' rugiadosi crini 189 1-12. Qual . .. mortali: «La poesia incomincia con una comparazione: le divine membra della donna sorgono dal talamo che le riceveva ammalate, e si illuminano di nuova bellezza (7-9), nello stesso modo con che la stella Lucifero sorgendo dagli antri del mare appare tra le tenebre fuggenti, e si abbella nel suo cammino dei raggi del sole (1-6)» (FERRARI). La comparazione è in VIRGILIO, Aen., Vili, 586-91: «Aeneas inter primos et fidus Achates, / inde alii Troiae procercs, ipse agmine Pallas / in medio chlamyde et pictis conspectus in armis: / qualis, ubi Oceani perfusus Lucifer unda, / quem Vcnus ante alios astrorum diligit ignis, / extulit os sacrum cacio tenebrasque resolvit » (a sua volta in relazione con OMERO, Il., v, 1-8). A. BERTOLDI, Ancora di un amore e di un'ode del Foscolo, in Prose critiche di storia e d'arte, Firenze, Sansoni, 1900, p. 106, ha anche richiamato il seguente passo di Poliziano: « Aspice sidereis ut blandum arridet ocellis, / atque sub his geminam lampada quassat amor;/ aureoli ut ludunt per lactea colla capilli, / quantus in cxplicita fronte superbit honos, / pulchrior eois ut Phosphorus emicat undis, / Phosphorus idaliae fa.~ adamata deae; / sic roca, frigidulo nuper languore soluta, / purpureo Lalagc fulgurat ore magis »(Prose volgari e poesie latine e greche di A. POLIZIANO raccolte e illustrate da Isidoro del Lu11go, Firenze, Barbèra, 1867, p. 250). Nota il DE RoBERTIS: «I termini di questa comparazione, come si vede, mentre sul principio s'accordano rigorosamente, assumono poi andamenti più liberi, a tal punto che il secondo di essi finisce con lo svilupparsi indipendentemente. Se nella prima parte infotti il rapporto è chiaro ("come l'astro di Venere appare fuori delle profondità marine ec., così le tue divine membra sorgono ec."); nella seconda parte, esso ha bisogno almeno d'un po' di commento ("e come l'astro di Venere, nel suo viaggio, rifulge di più vivo splendore per la luce del sole, così per effetto della bellezza ridono le tue forme"); finché in ultimo, e propriamente nei vv. 10-2, la comparazione è dimenticata addirittura, ed èsvolto un concetto, dominante nella poesia di Ugo Foscolo, e che è l'anima segreta di quest'ode». Nella Chioma di Berenice, Considerazione x, Venere celeste, Milano, Dal Genio Tipografico, 1803, p. 200, a commento dei versi virgiliani cqualis ... resolvit », il FoscoLo nota: «divini versi de' quali fu fonte Omero (Iliad. v, vers. s) imitato da Pindaro (Istmica IV, 141 e seg.), da Dante (Purg. cant. xu, 88)11. 1. antri marini: abissi del mare. E vedi a p. 182 la nota al v. 57 dell'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. 2. l'astro .. . Venere: traduce il virgiliano • quem Venus ante alios nstrorum diligit ignis » (Ae,1., VIII, 590), e sta per Venere-Lucifero, al cui riguardo il FoscOLO nella Chioma di Bere11ice, cit., Considerazione x, Venere celeste, p. 200, scriveva: «Quindi reggeva col nome d'Espero i cavalli della Luna quando sorgeva dall'Oceano, come tuttoggi si vede in Roma nell'arco Costantiniano, e col nome di Lucifero .Ql:OPO~ era detto portatore del Sole. Due nomi ch'egli ebbe ne' tempi più illustrati dalle scienze (Cicerone de 11atura Deon,m lib. Il): Stella Veneris qr,ae pl,osphoros graece, Lucijer latine dicitur cum antegreditr,r Solnn, cum mbsequitur vero Hesperos •; vedi anche Le Grazie, I, 280-1, a p. 428: « [ •••] s'avvolgea nel puro/ lume dell'astro suo [.••] •· 3. co' rugiada- POESIE fra le fuggenti tenebre appare, e il suo viaggio orna col lume dell'eterno raggio, sorgon così tue dive membra dall'egro talamo e in te beltà rivive, l'aurea beltate ond'ebbero ristoro unico a' mali le nate a vaneggiar menti mortali. Fiorir sul caro viso veggo la rosa, tornano i grandi occhi al sorriso insidiando; e vegliano 6 12 si crini: coi raggi scintillanti come capelli imperlati dalla rugiada (in quanto sorgenti dal mare). 4. fuggenti tenebre: compendia il virgiliano u tcnebrasque resolvit » (Aen., VIII, 591). 5. appare: è il virgiliano acxtulit os sacrum » (Aen., vnr, 591). 5-6. e ... raggio: asi abbella nel suo cammino dei raggi del sole 11 (F'ERRARI), oppure: «orna nel suo corso il cielo col lume del suo eterno splendore» (CHIORBOLI). 7-8. sorgon ... talamo: vedi nel Parnasso democratico, Bologna, Bernasconi, s. a., voli. 2, I, p. 123, l'ode di LUIGI SCEVOLA, Per la solenne festa civica in memoria de' guerrieri morti per la libertà delfItalia celebrata in Brescia il I 4 luglio anniversario della Bastiglia, 1-4: u Sorgi dal freddo talamo / coll'aura ruggiadosa, / cura del biondo Cefalo / bella Titania Sposa•· 8. egro talamo: letto di malattia. a L'aggettivo che si addiceva alla donna è qui per figura [metonimia] attribuito al letto, come già il Parini nell'ode Per l'inclita Nice disse "letto infelice" (v. 4]. Nel Foscolo va bene talamo perché la Fagnani era[...] maritata• (FERRARI). 10. aurea: nel senso di "preziosa". • Virgilio disse 11aurea Venus", e cosi è detta pure Venere nell'Inno omerico Ad Apollo» (FERRARI). 12. vaneggiar: illudersi; mortali: dei mortal.i. Vedi Le Grazie, r, 261, a p. 427: a le nate a delirar vite mortali•· 13-4. Fiorir ... rosa: vedi PARINI, L'educazione, 1-2: «Torna a fiorir la rosa/ che pur dianzi languìa 11. E vedi l'ode A Lr1igia Pallavicini cadr1ta da cavallo, 85, a p. 185. Nota il FERRARI: •Chiabrera canzonett. lo pure il sento: "O se le frec;che rose in sul bel viso / fiorir non vede più / e se dai lampi si scompagna il riso": e il Frugoni [...], per donna risanata, canzonett. Patèri, io là sedea: cc Per lui Dori languente / rifiori come rosa / ... / e sotto il bruno ciglio / il dolce fuoco agli occhi suoi tornò». 14-6. tornano. .. insidiando: vedi Le Grazie, 111, 236-7, a p. 476: a[...] tornino i grandi/ occhi fatali al lor natio sorriso»; VIITORELLI, 1, Canzonetta, Sull'ara d'Esculapio, 13- 6: • Già torna in quella faccia / serena e lusinghiera / l'ilarità primiera, / e la magia d'Amor 11. 15. i grandi occhi: vedi a p. 216 la nota al v. 9 del sonetto Perché taccia il rumor di mia catena. 16. insidiando: tendendo insidie con il loro splendore (sorriso). 16-8. e vegliano . .• amanti: vedi ORAZIO, Od., 11, 8, 21-4: «Te suis matres metuunt iuvencis, / te senes porci, miseraeque nuper / virgines nuptae, tua ne retardet / aura maritos » (CARDUCCI). POESIE (1803) per te in novelli pianti trepide madri, e sospettose amanti. Le Ore che dianzi meste ministre eran de' farmachi, oggi l'indica veste, e i monili cui gemmano effigiati Dei inclito studio di scalpelli achei, e i candidi coturni e gli amuleti recano 18 17. novelli: 11 rinnovati", da porsi in relazione con tornano ecc. dei vv. 14-6. 19-26. Le Ore ... recano: nota il FERRARI: «Mostra come il tempo passasse differentemente per la donna quando era ammalata e quando sana. E personifica le Ore al modo antico, come giovinette. Ma dei diversi uffici che a loro gli antichi attribuivano, il Foscolo qui non intende ricordarsi che di quello che le faceva ancelle di una dea (Venere) che esse servivano nei bisogni donneschi, benché poi più sotto le determini come ancelle d'Amore. Così almeno a me pare, ricordandomi che nel secondo inno A Venere di Omero si canta che, arrivando la dea in Cipro (traduz. D. Strocchi): 11 lvi con feste, e con desio l'accolse / de le tre coronate Ore il drappello, / e di stellato vestimento involse: / poscia d'un serto d'artifizio bello, / verso cui fora ogni altro fulgor spento,/ a le chiome immortai fecer cappello / e d'oricalco e d'òr vago ornamento/ le appesero a l'orecchio, e al collo intorno/ intorno al petto di color d'argento,/ disposero i monil ...11 ». 19. Le Ore: oltre ai Sepolcri, 6-7, a p. 292: • e quando vaghe di lusinghe innanzi / a me non danzeran l'ore future», le ore sono personificate nell'elegia Le Rimembranze, 351 a p. 116: «s'alzan con l'Ore negre e taciturne», e negli sciolti Al Sole, 4-51 a p. 120: «[ •••] Ore e stagioni / tinte a varii color danzano belle». Vedi anche il sonetto Pur trl copia versavi alma di canto, 9, a p. 245. • Ventiquattro fanciulle erano, dodici in chiari veli e dodici in iscuri, seguaci diurne e notturne del Sole. Gli antichi le avevano fattè ancelle anche di Venere; il Foscolo, com'è chiaro appresso, le fa "ancelle d'Amore"» (CHJORDOLI). 20. ministre: "somministratrici11 (fuori di metafora, il tempo era scandito dalla "tabella" dei farmaci prescritti). 21. indica: "serica11 , provenendo dall'India (per Oriente) le qualità più pregiate di seta. 22. monili: "collane11 , o, in genere, "gioielli", o forse, sulla scorta del v. 23, e per differenziarsi dagli amuleti del v. 261 "cammei"; cui gemmano: che omano a mo' di gemma. a È adoperato nel senso e coll'uso di ingemmare: Dante Par. xv 85: ,._ •. vivo topazio / che questa gioia prez'iosa ingemmi". In uso neutro passivo il Chiabrera ha gemmarsi canz. Sopra tutti a bear ecc.: "Gemmaronsi di fior le belle rive11 • (FERRARI). 23. effigiati Dei: raffigurazioni scolpite di dèi: «i cammei, nei quali artefici greci [...] intagliarono immagini di divinità• (FERRARI). 24. inclito studio: lavoro prezioso. «E dice studio perché gli scalpelli vi si sono esercitati con assiduo desiderio di perfezione• (CHIORBOLI). 25. coturni: propriamente ucalzari", con zoccolo di sughero, degli attori tragici; qui ustivaletto11 • 26. amuleti: qui "gioielli11 • 192 POESIE onde a• cori notturni te, Dea, mirando obbliano i garzoni le danze, te principio d'affanni e di speranze. O quando l'arpa adorni e co1 novelli numeri e co1 molli contorni delle forme che facile bisso seconda, e intanto fra il basso sospirar vola il tuo canto più periglioso; o quando balli disegni, e l'agile JO 36 2,7. 011de: resa così splendida dagli ornamenti, di cm a1 vv. 21-6; cori: uballi,,; in accezione etimologica, per differenziarsi dalle danze del v. 29. 28. te, Dea: vedi a p. 172 la nota introduttiva all'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo; mirando: ammirando. 29. i garzoni: i giovani. 30. d'affanni e di speranze: di amore. E vedi Le Grazie, 11, 107, a p. 437: u soave affanno al pellegrin si innoltra». 31-5. O quando ... seconda: a vuol dire che l'arpa riceve ornamento dalla donna, per il suono che questa ne trae, e per il canto con che t>accompagna, e per la bellezza del corpo e la grazia delle pose» (FERRARI). E vedi PARINI, Il dono, 25-36: « O sia, che a mc la fervida / mente ti mostri, quando / in divin modi, e in vario / sennon, dissimulando,/ versi d'ingegno copia/ e saper che lo ingegno almo nodrl; / o sia, quando spontaneo / lepor mesci a i detti; / e di gentile aculeo / altrui pungi e diletti / mal cauto da le insidie / che de' tuoi vezzi la natura ordl ». 32. novelli numeri: originali, insueti ritmi. 33. molli co11torni: flessuosa linea (delle forme, v. 34). 34-5. facile . .. seconda: « il bisso (qui è preso in generale per Veste di pregio morbida e sottile) pieghevole Uacile) aderisce (seco11da) aUe forme del corpo (e di conseguenza le disegna)» (FERRAR!). E vedi Le Grazie, 11, 57-61, a p. 434: «[ •••] e il bisso / liberale acconsente ogni contorno / di sue forme eleganti; e fra il candore / delle dita s'avvivano le rose, / mentre accanto al suo petto agita l'arpa». 36. basso sospirar: sommessi, perché repressi, sospiri degli adoratori (i garzoni del v. 29). 37. più periglioso: ca:Più pericoloso della stessa bellezza• (DE RonERTIS). 37-42. o quando . .. petto: «Il Foscolo colla scelta delle parole (coturno, bisso ecc.) e delle frasi, ci vuol mostrare come la donna accrescesse pregio a tutte le cose che la riguardavano o sulle quali si soffermava, ecome tutte le sue azioni rivelassero la dea: perciò il disegnare balli invece del semplice Ballare (adoperato con uso nuovo dal F). Cosi pure per il Petrarca Laura, sua dea, non lasciava impressi di vestigia, ma disegnati, i luoghi su cui passava (son. Quellafinestra ecc. 7): "Con tutti i luoghi u' sua bella persona / copri mai d'ombra o disegnò col piede". Disegn. b. è poi POESIE (1803) 193 corpo all'aure fidando ignoti vezzi sfuggono dai manti, e dal negletto velo scomposto sul sommosso petto. 42 All'agitarti, lente cascan le trecce, nitide per ambrosia recente, mal fide all'aureo pettine e alla rosea ghirlanda che or con l'alma salute aprii ti manda. 4s Cosi ancelle d'Amore a te d'intorno volano invidiate !'Ore, detto in riguardo ai giri che compie l'agile donna danzando: giri che rendono l'immagine di un disegno» (FERRAR!). E vedi Le Grazie, n, 433-4, a p. 461: « e le carole che lente disegna / affretta rapidissima [...] •; e PINDEMONTE, 11, Alla bellissima e ornatissima fanciulla Agnese H•••• in Londra, 49-50: «né il piè, che disegnar balli notturni/ gode [...]•. 39. all'aure fidmido: slanciandosi nella danza. 40. ignoti vezzi: nascoste grazie, bellezze; sfuggono: vedi PARINI, Il pericolo, 56-60: •E a le nevi del petto, / chinandosi, da i morbidi / veli non ben costretto, / fiero deIl'alma incendio! / permetteva fuggir?• (FERRARI). 41. negletto: trascurato. 42. scomposto: aperto; sommosso: palpitante. 43. All'agitarti: neWardore della danza. 43-4. lente I cascan: si allentano sciogliendosi; nitide: rilucenti. 45. ambrosia: coerentemente al lessico di estrazione classicistica (indica veste, mo11ili, scalpelli, achei, coturni, con), sta per 11 unguenti profumati" (l'ambrosia era l'unguento di cui gli dèi si spalmava.no il corpo). E vedi a p. 216 oltre ai vv. 11-2 del sonetto Perché taccia il rumor di mia catena, a p. 233 la nota al v. 14 del sonetto E tu ne' carmi avrai pere11ne vita. 46. mal fide: sfuggenti. E vedi l'ode A Lm"gia Pallavicini cad,t.ta da cavallo, 22, a p. 178, e la nota relativa. 47. rosea: di rose. 48. alma: divina (perché prerogativa degli dèi); april: PArese si era rimessa dalla malattia che l'aveva colpita durante l'inverno 1801-1802. intorno alla primavera del 1802. 49. Così ... Amore: nota A. BERTOLDI, op. cit., p. 107: • Col richiamo dell'immagine delle Ore, già ministre de' farmachi, oggi ancelle d'amore, si chiude la prima parte dell'ode•; ancelle d'Amore: perché ministre dei riti di cui ai vv. 19-26. E vedi la nota al v. 19. 51. invidiate: più che: «Da chi non può godere dei doni di cui tu sola godi• (DE RoBERTIS), o secondo sostiene il CHIORBOLI: • Ben le vorrebbero per sé, invidiose, l'altre donne•· 13 194 POESIE meste le Grazie mirino chi la beltà fugace ti membra, e il giorno dell'eterna pace. 54 Mortale guidatrice d'oceanine vergini la Parrasia pendice tenea la casta Artemide e fea terror di cervi lungi fischiar d'arco cidonio i nervi. 6o 52. meste ... mirino: nota il FERRARI: e Il poeta da questa idea trae il passaggio alla seconda parte dell'ode: l'idea cioè che tutte le belle cose hanno fine, gli suggerisce, e stupendamente, per contrapposto, che ciò non avverrà per altro per la sua donna, perché sarà deificata dal suo poeta che la sottrarrà ne' suoi canti alla morte, onde eternamente vivrà giovine e bella. E che i poeti possano dare l'immortalità passa il poeta a provarlo colla digressione che segue: Diana pure era donna terrena ma la fama la disse figlia di Giove, quindi immortale; così accadde di Bellona e di Venere, e così (termina il poeta, riprendendo il concetto informatore della digressione) accadrà di te in virtù de' miei canti 11; meste: addolorate, in atto di rimprovero. a Le Grazie neghino i loro favori. Maledicano n (DE RonERTIS). 53. fugace: che si dilegua con il trascorrere del tempo. 54. membra: ricorda. 55-6. Mortale . .. vergini: un tempo donna mortale, che guidava le sessanta vergini oceanine, per le quali vedi a p. 187 la nota al v. 106 dell'ode A Luigia Pallavicini cad"ta da cavallo. Relativamente alla deificazione (circa il cui uso presso gli antichi vedi La chioma di Berenice, cit., Considerazione Ix, Deificazioni, pp. 194-5), il DE RoBERTIS nota: «Ma con un procedimento frequente nel Foscolo (confronta il principio di questa strofa coi vv. 91 e seg. dell'ode A Luigia Pallavicini), invece di dire: "io poeta ti farò immortale come già in antico i poeti fecero immortali Diana, Bellona, Venere", rovescia l'argomento e crea il meraviglioso». A. BERTOLDJ, op. cit., p. 107, osserva poi che a questo sublimare l'amata al più alto grado dell'essere, questo abbassare la dea fino alla donna per innalzare la donna sino alla dea è cosa che, benché non sia stata notata da alcuno, il Foscolo deve evidentemente a Properzio 11, XXVIII». 57. la Parrasia pendice: le pendici del monte Parrasio, nell'Arcadio. 58. tenea: abitava; casta: consueto appellativo di Diana, dea della castità; Artemide: Diana, circa la quale il Foscolo nella Chioma di Berenice, cit., Considerazione III, Diana Trivia, p. 164, scriveva: a Il nome stesso greco di Diana ''ApTE:µ.tc;, è composto delle parole ciép« -riµ.vea>, aere rompere, onde ella ha dominio anche sopra l'aria, e fu quindi consecrato da' greci un promontorio col nome d'Artemisio, perché v'era il tempio di Diana, ch'essi chiamavano Orientale». 59. f ea: faceva; terror di cervi: •Più che apposizioni di arco, può considerarsi un costrutto indipendente. Come chi dicesse: con terrore dei cervi» (DE RonERTIS). 60. lu11gi . .• nervi: da lontano faceva risuonare la corda (che constava appunto di nervi) dell'orco fabbricato a Cidone, città della costa settentrionale dell'isolo di Creta, rinomata per tale industria. Vedi ORAZIO, Od., IV, 9, 17-8: •primusve Tcucer tela cydonio / direxit arcu [...] » (GIGLI). POESIE (1803) Lei predicò la fama olimpia prole; pavido diva il mondo la chiama, e le sacrò l'Elisio soglio, ed il certo telo, 195 e i monti, e il carro della luna in cielo. 66 Are così a Bellona un ten1po invitta amazzone, die' il vocale Elicona; ella il cimiero e l'egida or contro l'Anglia avara e le cavalle ed il furor prepara. 61-6. Lei . •. cielo: la fama, tramite i poeti, la proclamò schiatta divina (olimpia prole), figlia cioè di Giove e di Latona, e il mondo per timore religioso la considerò una divinità, e le consacrò il trono dell'Elisio, adorandola come Ecate o Proserpina, moglie di Plutone; l'infallibile freccia e i monti, adorandola come Diana cacciatrice; la luna, adorandola come Selene, dea celeste. E vedi La chioma di Berenice, cit., Considerazione 111, Diana Trivia, pp. 162-71. 62. p(lf)ido: vedi PARINI, La impostura, 3I -3 : «Del Macedone a te piacque / fare un dio, dinanzi a cui / paventando rorbe tacque u (DE RoBERTIS). 65. certo telo: vedi ORAZIO, Od., 1, 121 21-4: 11 [ ••• ] neque te silebo, / Liber, et saevis inimica Virgo / beluis, nec te, metuende certa, / Phoebe, sagitta 11 (CHIORB0LI). 67. Are: altari; cosi: allo stesso modo che per Diana; Bellona: dea della guerra (vedi, ad esempio, PARADISI, Ode per rm procuratore di S. 1."\1arco della Jamiglia Pisa11i, 8-9: a 1\!Ientrc vicine fremono / le trombe di Bellona 11). 68. un ... ama:::zone: prima di essere di\·inizzata amazzone invincibile (11Ama:::zo11e dice il F., non bene, perché Bellona è dh·inità italica, mentre le Amazzoni sono un mitico popolo di donne guerriere della Cappadocia•, NATALI). 69. die' ... Elicona: i poeti. L'Elicona, monte della Beozia, era sncro alle Muse, e però risonante (vocale) del loro canto. 70. ella: Bellona; il cimiero e l'egida: le armi (propriamente cim;e,o significa fregio che sormonta l'elmo, ed egida è lo scudo di Giove, e, genericamente, vale strumento di difesa). E vedi Le Grazie, 111, 42, a p. 465: ft depose, e la fatale egida e l'elmo•. 71. l'A11glia avara: l'Inghilterra avida di ricchezze. «Per avaro, in tal senso, vedi pure il Monti, Co11gresso d'Udine: "ch'avaro piè saccrdotal calpesta"; e il Petrarca Trion. Fam., capitolo aggiunto: uE vidi Ciro più di sangue avaro / che Creso d'oro"• (FERRARI). Vedi Bonaparte liberatore, 101, a p. 149: «Liguria avara[...]». Ancora il MONTI nell'ode /11 occasione del parto della Vice-Regùra d'Italia, e del Decreto I4 marzo I807 sui Licei convitti (1807), 25-30, scrive: •Su la redenta Vistola / gli prepara Bellona / i procellosi alipedi, / e boreal Corona / tolta a due fronti, e fulgida / del sangue che l'avara Anglia comprò 11. 72. e le cavalle . •• prepara: unitamente al v. 70 è calco di OnAZIO, Od., 1, 151 n-2: «[ •••] 1am galeam Pallas et aegida / currusque et rabiem parat » (MESTICA). 196 POESIE E quella a cui di sacro mirto te veggo cingere devota il simolacro, che presiede marmoreo agli arcani tuoi lari ove a me sol sacerdotessa appari regina fu, Citera e Cipro ove perpetua odora primavera regnò beata, e l'isole che col selvoso dorso 78 rompono agli euri e al grande Ionio il corso. 84 Ebbi in quel mar la culla, ivi erra ignudo spirito di Faon la fanciulla, e se il notturno zeffiro blando sui flutti spira suonano i liti un lamentar di lira: 90 73. qrulla: Venere. 74. mirto: pianta sacra a Venere. E vedi a p. 205 la nota al v. 3 del sonetto Non 10n chi fui; perì di noi gran parte. 75. devota: devotamente; il simolacro: la statua marmorea. 76-7. che presiede ... lari: che protegge le tue stanze segrete. 78. sacerdotessa: del culto di Venere. 79. fu: prima cioè di essere divinizzata; Citera: l'odierna Cerigo, situata sotto il Peloponneso. 82. regnò: è usato transitivamente, avendo per oggetto Citera, Cipro e le isole Ionie (l'isole). 83. selvoso dorso: profilo montuoso, ricco di selve. 84. rompono ... corso: si oppongono ai venti di sud-est, come al mare Ionio. Altri intende corso per correnti aeree e marine (NATALI). 85. Ebbi • •. culla: vedi il sonetto Né più mai toccherò le sacre sponde, 2, a p. 235. 86. erra: vedi Le Grazie, 111, 5, a p. 462: • ch'io mi veggio d'intorno errar l'incenso•; ign11do: puro. 87. di Faon lafanciulla: Saffo, che, secondo la leggenda, per amore di Faone, si uccise gettandosi dalla rupe di Leucade. 88. e se: vedi l'attacco dei Sepolcri, 215-6, a p. 320: ue se il piloto ti drizzò l'antenna / oltre l'isole Egee [...] 11. 89. blando: lievemente. 90. suonano • • . lira: le sponde risuonano del lamento poetico della lira di Saffo. E vedi Sepolcri, 217-8, a p. 320: • certo udisti suonar dell'Ellesponto / i liti [...] •· POESIE (I 803) ond'io, pien del nativo aer sacro, su l'Itala grave cetra derivo per te le corde eolie, e avrai divina i voti fra gl'inni miei delle insubre nepoti. 197 96 91. ond'io: ragion per cui, per avere avuto i natali in un'isola (Zante) circondata dal mare ancora risonante della poesia di Saffo. 91-2. pien .•. sacro: 11tutto animato dal nativo aere sacro a Venere e sacro alla poesia; epperò cultore dell'antica religione e dell'antica poesia• (CHIORBOLI). E vedi PARINI, La salubrità dell'aria, 4-5: « [•••] e del nativo/ acre mi circondi•· 92-4. su l'Itala . .. eolie: trasporto i modi della poesia dei lirici eolici nella più grave lirica italiana. E vedi ORAZIO, Od., 111, 30, 10-4: • Dicar, qua violens obstrepit Aufidus / et qua pauper agnae Daunus agrestium / regnavit populorum, cx humili potens, / princeps Aeolium carmen ad Italos / deduxissc modos [.•.] » (PAD0VAN); e Le Gra::ie, III, 22-4, a p. 463: • [...] e co' toscani / modi seguaci adornerò più ardito / le note istorie [...] ». 93. derivo: vedi Le Gra::ie, 1, 3I 2-4, a p. 429: • [.•.] e novamente / deriveranno l'armonia gl'ingcgni / dell'Olimpo [.••] •, e MONTI, Prometeo, I, 6-10: «se la Diva, cui tutta a parte a parte/ la peregrina istoria è manifesta, / del suo favor m'aita, e non ricusa/ sovra italico labbro alcuna stilla/ d'antica derivar greca dolcezza•· 95-6. e avrai . •• nepoti: cosi che tu, fatta divina, avrai offerte votive (i voti spettanti a una dea, sarai cioè adorata come tale), dalle future donne lombarde (insubre nepoti), tra il canto dei miei inni. Per voti in rima con nepoti vedi FRUCONI, v, Per le noz%e in Lucca fra le nobili case Lucchesini e Guinigi, 50-2: • [...] e porgi voti, / perché sorga ognor più chiara / la tua gloria nei Nepoti •; PARADISI, Per la solenne dedicazione della statua equestre innalzata dal p11bblico di Modena a Francesco III d'Este, 13-6: •e le solenni illustri/ pompe, gli auspizii e i voti / varchino ai tardi lustri / cogli ultimi nepoti •· SONETTI * [I] Pubblicato dapprima nella stampa Destefanis delle Poesie, questo sonetto è da ritenersi composto, unitamente a Né più mai toccherò le sacre sponde e Pur tu copia versavi alma di canto, dopo l'agosto 1802 (data che, come detto nella nota introduttiva alle Poesie, a p. 159, segna la spedizione degli otto sonetti e dell'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo da Milano a Pisa perché vi fossero stampati), e prima del lasso di tempo intercorrente tra il 2 e il 9 aprile 1803 (entro il quale si colloca la pubblicazione della stampa Destefanis delle Poesie, e vedine la nota introduttiva, a p. 159). Il suggello stilistico di questa, tra le più controllate partiture foscoliane, risulta dall'accordo tonale che si realizza nell'assidua cura posta a restaurare, a livello di micro e macro strutture, l'equilibrio delle parti, di volta in volta messo in forse dalla spinta delle tesi espressive. Il sonetto consta infatti, unico di tal genere, di due periodi corrispondenti rispettivamente alla misura delle quartine e delle terzine. All'interno del primo periodo, dopo la proposta del tema (vv. 1-3: «Forse ... o Sera!»), due proposizioni di struttura sintattica analoga (vv. 3-4, 5-6), sono ugualmente rilevate dallo stesso tipo di enjambement (vv. 3-4: «liete / le nubi», vv. 5-6: a inquiete / tenebre»), mentre nella compagine dei vv. 3-6 («E quando ... meni»), il classico allineamento di due costruzioni in parallelo (vv. 3-4: «E quando• ecc., vv. 5-6: •e quando• ecc.) è chiuso, e l'equilibrio restaurato, grazie a un chiasmo sintattico di natura verbale, costituito dalla posizione di a corteggian » (v. 3) a inizio, e di «meni» (v. 6) in fine di periodo. Nei confronti dei vv. 1-2, «a me sl cara vieni »assolve poi la stessa funzione di clausola provvisoria del discorso di a sempre scendi invocata» del v. 7, relativamente ai vv. 3-6, cosi come la coordinata dei vv. 7-8 (a e le secrete / vie• ecc.) si informa al modello dei vv. 3-4 e 5-6 per l'adozione dello stesso tipo di enjambement (sirrema aggettivo-sostantivo), e ribadisce la struttura sintattica dei vv. 5-6. Più serrata la contrapposizione delle parti nelle terzine, dove, alla proposta del nuovo tema (vv. 9-1o: «Vagar ... eterno•), spezzato tra il primo e il secondo verso dall'enjambement, analogamente a quanto avveniva per il primo tema ai vv. 1-3, fanno seguito tre coordinate. All'interno delle due sezioni costituite dai vv. 9-12 e 13-4 è ancora notevole come il rigido andamento binario venga attenuato dall'ininterrotta catena di enjambements, realizzati, ad eccezione di quello ai vv. 12-3, sulla scorta del sirrema sostantivo-verbo, meno forte di quello rappresentato dal sirrema aggettivo-sostantivo, e con funzione dinamica e impulsiva, conseguente al carattere delle terzine, dove il dettato si fa deduttivo, e il processo sintattico più liquido (si noti inoltre come ai vv. 10-1: •fugge/ questo reo tempo », rappresenti in un preciso tomo di tempo, una figura che si realizza ogni qual volta ci si trovi in presenza del verbo "fuggire"; vedi Pur tu copia versavi alma di canto, 3-4: • fuggiva / la stagion prima•• POESIE (1803) 199 9-10: •E tu fuggisti[..•] / o Deal »; Un di, s'io non andrd semprefuggendo, 1-2: • fuggendo / di gente in gente•). L'alta frequenza di enjambements (che qui tocca la punta massima con nove casi), è certo in omaggio al celebre modello dellacasiano, la cui aulica solennità è riassunta in chiave di pacata riflessione. Se la funzione dell'enjambement (soprattutto nella fattispecie del sirrema aggettivo-sostantivo, e sostantivo-complemento di specificazione, qui dunque in cinque casi su nove), pare infatti quella di fermare l'attenzione, volta a volta, sopra il soggetto o l'oggetto, ovvero sopra il suo attributo, e, per quanto più propriamente pcrtiene al sirrema aggettivo-sostantivo, ove anche si abbia presente la sottile distinzione, di derobertisiana memoria, tra "legato" e "staccato", rispettivamente quando l'aggettivo sia fatto precedere al sostantivo, e viceversa, non potrà sfuggire come in Forse perché della fatal quiete la funzione classica del sirrema aggettivo-sostantivo (vv. 3-4, 5-6, 7-8), attenuando e come contraddicendo l'originario ulegato", sia quella di dar vita a un complessivo "sfumato", alla cui realizzazione anche concorre la pregnante congruenza semantica di alcune parole-rima come «quiete-liete», • inquiete-secrete », •meni-tieni», • orme-torme JI, 11 fugge-strugge•· METRO: sonetto: ABAB, ABAB, CDC, DCD. 200 POESIE [I] Forse perché della fatai quiete tu sei l'immago a me sì cara vieni o Sera! E quando ti corteggian liete le nubi estive e i zeffiri sereni, e quando dal nevoso aere inquiete tenebre e lunghe all'universo meni 1. Forse . .• quiete: l'incipit, su identica serie d'accenti, ha riscontro m DELLA CASA, son. LXII, 1 : n Forse però che respirar ne lice »; / atal: •perché a tutti assegnata dal destino» (DE RoBERTIS); quiete: antonomasticamente per "morte", «come in Properzio, 111 XXIV [ma II, 28, 25]: 0 Quod si forte tibi properarint fata quietem". Scrive Cicerone "Mors laborum ac miseriarum quies est"» (FERRARI). Oltre all'evidente influsso del sonetto del DELLA CASA, O Sonno, o della queta, umida, ombrosa (0 Sonno; O Sera), per la dieresi di quiete, vedi PARINI, Il Mattino, 422-5: "[...] Ahi quanti/ genii malvagi tra 'l notturno orrore / godono uscire, ed empier di perigli / la placida quiete de' mortali! ». z. tu sei l'immago: sei l'immagine, cioè somigli. Vedi PINDEMONTE, 1, La Sera, 1: 11 Immagine di questa umana vita». 3-6. E ... meni: vedi PINDEMONTE, 1, La Sera, 49-55: u Ma o sia che rompa d'improvviso un nembo, / che a te spruzzi il bel crin, la Primavera, / o il sen nuda, e alla veste alzando il lembo / l'Estate incontro a te mova leggiera, / o eh'Autunno di foglie il casto grembo / goda a te ricolmar, te, dolce Sera, / canterò pur [...] ». 3-4. E . .. estive: d'estate, quando la sera cala accompagnata (corteggiata) da nubi lucenti, e da venti serenatori. Vedi del FOSCOLO, In morte di Amaritte, 61-3, a p. 42: ,, Poscia su rosea nube a lor soggiorno / corteggiate dai Spiriti innocenti I balenando beltà facean ritorno»; La Giustizia e la Pietà, 105, a p. 108: "con zeffiri giocondi le rispose», cui devonsi aggiungere i vv. 54-6 degli sciolti Al Sole, a p. 122: «[ •••] non più le nubi / corteggeranno a sera i tuoi cadenti / raggi su l'Oceàno ». E vedi anche O,tis (1802), qui a p. 597: • Pur verrà dl che Dio ritirerà il suo sguardo da te, e tu pure cadrai nel vano antico del caos: né più allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti» (FERRARI); in relazione più con MARINO, Adone, 111, 157, 1-4: «Quasi in bel trono Imperatrice altera/ siedi colà sulla nativa sponda:/ turba d'aure vezzosa e lusinghiera / ti corteggia d'intorno e ti seconda» (FERRARI), che con ACHILLINI, Corteggiata da l'aure e da gli Amori, 1-3: «Corteggiata da l'aure e da gli Amori / siede sul trono de Ja siepe ombrosa / bella regina de' fioriti odori/ in colorita maestà la Rosa 11 (MESTICA). 5-6. e • •• me11i: d'inverno, quando la sera dall'atmosfera carica di neve conduce sull'universo tenebre che incutono timore (inquiete), e che durano n lungo (lunghe), in quanto nella stagione invernale il periodo di oscurità ha sempre maggiore estensione; inquiete / tenebre e lunghe è cotrutto alla latina, sul tipo, ad esempio, di BEMBO, CXXII, 7-8: • [...] il nostro / semplice stato e naturale n. E vedi anche ALFIERI, Saul, atto IV, scena IV, 167-8: • [•.•] Or via si tragga / a morte torto; a cruda morte, e lunga• (ANTOGNONI). POESIE (1803) 201 sempre scendi invocata, e le secrete vie del mio cor soavemente tieni. 8 Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme che vanno al nulla eterno; e intanto fugge questo reo tempo, e van con lui le torme r1 delle cure onde meco egli si strugge; e mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch'entro mi rugge. 1,4 8. tieni: percorri. Vedi DANTE, In/., XVII, 111 ·: • gridando il padre a lui: ..Mala via tieni!" 11 (PADOVAN). Meno probabile tieni nel senso di "occupi" attribuito dal FERRARI. Nota il DE RoBERTIS: • Ricorda che tenere le vie d'un luogo significa andare in un lr,ogo •· 9. orme: vedi PETRARCA, Rime, CCCI, 12: •quinci vedea '1 mio bene; et per queste onne• (DE RoBERTIS); • Orma qui non avrebbe, mi pare, il significato più comune di impressione che si fa col piede camminando, ma quello più raro di passo, via• (PADOVAN). 10. nulla eterno: vedi a p. 248 il sonetto Che stai?già il secol l'orma ultima lascia, 3, e la nota a a notte», e Sepolcri, 17-8, alle pp. 294-5: • [.••] e involve / tutte cose l'obblio nella sua notte• 11. reo tempo: epoca colpevole, trista. Vedi DANTE, In/., v, 64-5: a(...] reo/ tempo[.•.]•; BEMBO, CXLVI, 3: •[..•] secol reo [...] ». E il sonetto Così gl'interi giorni in lungo incerto, 7, a p. 218, e Sepolcri, 226-7, a p. 320: a E me che i tempi ed il desio d'onore/ fan per diversa gente ir fuggitivo•. 11-2. le ... cure: • Gl'innumerevoli affanni» (DE ROBERTIS). Vedi nella Chioma di Berenice, a p. 267, la nota del FoscoLo al v. 31, in relazione ad una specie di ..cura", l'amorosa. Le torme delle cure comprenderanno dunque l'intero lotto dei possibili affanni. 12. onde: ain mezzo a cui» (DE RoDERTIS), riferito a cure; n,eco egli: con me il tempo; si strugge: si consuma. Vedi DELLA CASA, canz.1v, 61: •[...] ond'ei pascendo strugge ». 14. spirto guerrier: «qui vi è l'idea di iracondo, pieno di violente passioni, oltre a quello di guerresco, battagliero: si cita un esempio in prosa del Trecento ove ha il valore di Contenzioso• (FERRARI). Meglio il DB RoBERTIS: •Non battagliero, ma inquieto, travagliato, agitato, e combattuto da furiose passioni•· Certo non esauribile nel mero tecnicismo relativo alla professione militare del Foscolo. E vedi DELLA CASA, son. XLVIII, 1: •Feroce spirto un tempo ebbi e guerrero•; TASSO, 111, [723] 224, 46-7: •né freddo e pigro dorme/ spirto d'amor guerriero•; IV, [1152] 653, 9: • Né se n'accende sol guerriero spirto »; BERTOLA, 1, Sonetti, vn, 7: • Il tuo troverai qui spirto guerriero»; ALFIERI, Saul, atto IV, scena 1v, 141-2: it[•••] Rinvigorir mi sento / da tue minacce ogni guerrier mio spirto •· • GG [Giuseppe Gigli] cita opportunamente il sonetto di Gio. Della Casa che incomincia Feroce spirto un tempo ebbi eguerrero. Di espressione simile si vale in una lettera dignitosa scritta forse nel 1805 da Valenciennes (Lettere inedite di U. F., Torino, 18731 p. 269): 0 Ho troppo ruggito. E ognuno perse- 202 POESIE guiterebbe in me le proprie colpe per vendicarsi del leone"» (ANT0GNONI). Relativamente alla fonte tassiana, 111, [723] 2241 46-71 il Mengaldo osserva: • ritengo che migliori garanzie di rispondenza puntuale [rispetto alla fonte dellacasiana] offra un passo, pur diversissimo di significato e tono, della canzone tassiana Già il lieto anno novello, vv. 46-8: ccné freddo e pigro dorme/ spirto d'amor guerriero/ nel cervo ...". In meno, rispetto al verso del Della Casa, c'è l'accresciuta distanza tonale; ma in più, la contemporanea presenza di alcuni elementi formali attigui in comune: dorme, nella medesima posizione sintattica e ritmica (in rima e in forte e,rjambement), mentre una delle due parole con cui il verbo rima è, come in Foscolo, orme (quindi informe = torme). L'azione della iunctura dellacasiana come precedente immediato andrà quindi spostata dal Foscolo al Tasso I ecc. (P. V. MENGALDO, Due agnizioni di lettura, in « Strumenti critici,i, 15, giugno 1971, p. 265). 11 privilegio di fonte immediata dei vv. 46-7 della canzone tassiana Già il lieto anno novello, relativamente alle altre sopra elencate, e segnatamente a quella dellacasiana, risulterebbe cosi duplicemente confermato, ove fosse, come non è, lecito prescindere innanzitutto dal fatto che nella stanza della canzone tassiana dorme è diesi di informe (la relazione è insomma tra informe e dorme), e successivamente dalla certo non vasta frequenza di rime in -orme. Quanto poi all'enjambement: «dorme / spirto d'amor guerriero», basterà notare come nel Foscolo, tanto nella compagine dei sonetti, quanto nei Sepolcri, il segmento aggettivo dimostrativo-sostantivo, o verbo-aggettivo dimostrativo-sostantivo sia costantemente soggetto a enjambement (al riguardo vedi a p. 243, la nota introduttiva a Pur tu copia versavi alma di canto). La iunctura dei vv. 13-4 è però indotta non da dorme, bensì da quello. [II] Pubblicato dapprima nel «Nuovo Giornale dei Letterati•, in testa alla serie degli otto sonetti, Non son chi fui; perì di noi gran parte era immediatamente seguito da Che stai? già il secol l'orma ultima lascia, con il quale originalmente costituiva un dittico legato da uno stretto rapporto causale, poi differito a vantaggio di una più complessa articolazione, dettata dall'inclusione nella ristampa milanese del Destefanis di tre nuovi pezzi (su tutto ciò vedi la nota introduttiva alle Poesie, a p. 164). Relativamente all'accennata connessione tra i due sonetti, sintomatica è innanzitutto la similarità del costrutto, rispettivamente al v. 9 e al v. 51 così come l'eccezionalità del valore conferito alla congiunzio.. ne (per cui vedi la nota al v. 9), oltre all'affinità tematica dell'ultimo verso: «e so invocare e non darmi la morte 11, «[•••] E già morte t>è appresso II come si legge in P (poi, per il tramite del v. 14 di Solcata ho fronte, occhi incavati intenti: «e da morte aspettar fama, e riposo• in P, •morte sol mi darà fama e riposo II in D N, nelle stampe milanesi: • fa.. ma tentino almen libere carte 11), cui può aggiungersi la comune tendenza agli elenchi autobiografici in forma di polisindeto, caratteristica dei vv. 12-3 di Non son chi fui; peri di noi gran parte, e dei vv. 9-11 di Che stai? già il secol l'orma ultima lasda (poi, unitamente all'asindeto, esclusiva figura di Solcata ho fronte, occhi incavati intenti). Segnalata la relativa rarità di enjambements (vv. 3-4: • le foglie sparte / del lauro•, secondo sirrema sostantivo-complemento di specificazione che si ritrova anche in Perché taccia il rr,mor di mia catena, vv. 12-3: «ed il candore/ delle divine membra 11; Forse perché della fatal q11iete, vv. 11-2: • le torme / delle cure• - ma vv. 1-2: «della fatai quiete/ tu sei l'immago»-; Né più mai toccl,e,l, le sacre sponde, vv. 3-4: •nell'onde / del greco mar-), per la quale vedi la nota introduttiva a Che stai? già il secol l'orma 11/tima lascia, a p. 246, va ancora notato come la coincidenza di ogni periodo con la strofe è solo proprio a Un di, s'io non andrl, sempre f11ggendo, cui il presente sonetto si collega per la puntuale desunzione dell'incipit da una fonte classica. L'effetto di recisa determinazione conseguente alla negazione iniziale è poi essenzialmente frutto del costante andamento ritmico degli endecasillabi, ad eccezione del v. 10, tutti a minore, oltre che del procedere binario del periodare delle quartine, e, per quanto concerne i vv. 10-3, anche delle terzine, della struttura dicotomica del verso (vv. 1, 2, 3, II, 13, 14), delle serie elencative (vv. 7-8, 12), della simmetrica corrispondenza delle strofe. Se infatti la struttura dicotomica dei vv. 1-3 non è replicata nella seconda quartina, va tuttavia osservato come l'analogo andamento binario (istituzionale nel caso di rime ABAB), sia ugualmente rilevato, ai vv. 3 e 7, da enjambement, rincalzato ai vv. 4 e 8 da espressioni di valore appositivo, mentre la coordinazione di due proposizioni principali al v. 3, nella seconda quartina è ripresa e generalizzata, nella medesima sede, al v. 7. Al parallelismo strutturale delle quartine, si contrappone quindi la costruzione a chiasmo delle terzine (vv. 9, 10-1, 12-3, 14), nelle quali i termini medi, e cioè i vv. 10-1 e 12-3, non solo riproducono l'anda- POESIE mento binario del periodare caratteristico dei vv. 1-8 (e, nella fattispecie, ancora esemplato sopra uno schema di rime alterne DC, DC), ma riassumendone anche figure già sperimentate, come la demarcazione del verso nel punto d'incidenza metrica degli emistichi, ne variano finalmente la funzione, conferendo al secondo emistichio un valore, da accumulativo (come ai vv. 1, 3), sostanzialmente oppositivo (come ai vv. 11, 13, 14). METRO: sonetto: ABAB, ABAB, CDC, DCD. POESIE (1803) [II] Non son chi fui; perì di noi gran parte: questo che avvanza è sol languore e pianto. E secco è il mirto, e son le foglie sparte del lauro, speme al giovenil mio canto. 205 4 1-2. Non ... pia11to: vedi MASSIMIANO, Elegiae, 1, 1-2: «Non sum qui fueram: perit pars maxima nostri; / hoc quoque quod supcrcst languor et horror habet » (CARRER). E in lettera all'Arese, Epistolario, I, p. 318: «Mi sento mancare una parte della vita, e questo che mi avanza mi pare che sia circondato dal languore e dalla tristezza della morte• (MESTICA), e ancora nell'Ortis (1802)1 qui a p. 622: «[ •••] sai che non altro m'avanza fuorché il pianto e la morte» (MESTICA). Vedi inoltre PETRARCA, Rime, XXXVII, 52: «[...] di me la miglior parte [..•] •; BEMBO, CXLIII, 10: a. di me stesso sparir la miglior parte»; ALFIERI, Agide, atto 1, scena 1, 3: «o d'essa almen la miglior parte»; A/cesti, atto 111 scena 1v, 1-2: «Admeto/ parte miglior dell'alma mia tu vivi»; Congiura de' Pazzi, atto 111, scena 111 98-9: • [.••] dolce consorte,/ parte di me miglior-; atto v, scena v, 47-8: «o Bianca •.. o dolce sposa .•. / parte di me [...] »; Filippo, atto I, scena 111 49-50: «in me cogli anni crebbe/ parte miglior di me•; Oreste, atto 1v, scena 1v, 94: 10 voi, miglior parte di me[.•.] •; Polinice, atto III, scena 11, 19-20: 11 [ •••] quindi egli, / parte miglior di sé,,; Rime, xc, 9: «parte di me miglior, mia donna, m'odi». I. Non ... fui: vedi PETRARCA, Rime, I, 4: «quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono•; XXIII, 30: • Lasso, che son! che fui!•; GIUSTO DE' CONTI, Rosello, io fui dinanzi al bel sembiante, 13: «Non so mc stesso s'io son quel ch'io m'era»; MARULLO, xxxvu, 2: «ipse ego iam quis sim nescio aut ubi sim»; TASSO, 1111 [667] 1681 37: «qual son, qual fui[..•] 11; 111, [858] 359, s: «Qual fui penso e qual sono [...] •; METASTASIO, Attilio Regolo, atto Ili, scena 111 61: «Non son qual fui[.•.]»; MAZZA, I, Senza che appressi al so/io alto di Lui, B: «non son qual era, e non sarò qual fui». 2. questo che afJVanza: oltre al passo dell'Ortis citato nella nota ai vv. 1-2, vedi In morte del padre, sonetto, Padre, quand1 io per la tua muta tomba, 14: a non altro avvanza che miseria, e lutto D (Edizione Nazionale, n, p. 299), e il sonetto Un di, s'io non andrò sempre fuggendo, 121 a p. 242. E PETRARCA, Rime, CCLXVIII, 32: 11questo m'avanza di cotanta spene»; BEMBO, CXLII, 80: «altro che pianto e duol nulla m'avanza»; CLIII, II: «[•.•] e sol pianger m'avanza•; 11, p. 676, 24: •questo m'avanza di cotanta speme»; DELLA CASA, son XIII, 8: «che sol m'avanza ornai pianto e disdegno»; TASSO, IV, [1175] 676, 4: «[...] Questo ch'avanza [...]». 3.mirto: vedi l'ode Al/a amica risanata, 741 a p. 196; sparte: vedi DANTE, In/., XIV, 2: a[...] raunai le fronde sparte»; Purg., XXXI, 50-1: «[...] le belle membra in ch'io/ rinchiusa fui, e che so' 'n terra sparte•; Par., XXXI, 130: •e a quel mezzo, con le penne sparte»; BEMBO, XXII, 7: «[...]i miei pensieri sparti»; TASSO, 111 [ 192) 6J, 8: «gir adunando le sue fronde sparte». E per • menbra • sparte in rima con arte vedi PARINI, A Silvia, 90 e 92: «e de le membra sparte / [...] / e del morir con arte 1, 3-4. E . •. canto: e l'amore si è estinto (il mirto è pianta sacra a Venere, e simboleggia l'amore), e sono 206 POESIE Perché dal dl ch'empia licenza e Marte vestivan me del lor sanguineo manto, cieca è la mente e guasto il core, ed arte la fame d'oro, arte è in me fatta, e vanto. 8 cadute disperse le foglie del lauro (sacro ad Apollo. e simbolo della gloria poetica, e come tale ricordato nei Sepolcri, 55, a p. 301: u nel suo povero tetto educò un lauro», e neJle Grazie, I, 264-5, a p. 427: «[ •••] e sorridete/ a' vati, se cogliean puri l'alloro»), conseguenza dell'essiccarsi della vena poetica, •speranza dei miei versi giovanili» (FERRARI). Nota ancora il FERRARI: «le due metafore si trovano accoppiate pur dal Monti nel Congresso d'Udine (parla della repubblica Cisalpina) 38: 11e il ferro trae, gittando la vagina, / desiosa di lauro e non di mirto"; ma nel Monti lauro sta propriamente e solo per Gloria militare». Ma vedi piuttosto PETRARCA, Rime, vn, 9: «Qual vaghezza di lauro ?qual di mirto »(PADOVAN); GIUSTO DE' CONTI, Questa leggiadra, e pura mia Colomba, 11: «né il lauro secco già per mc s'infronde »; LORENZO DE' MEDICI, Ambra, 2, 1-2: «Fra gli arbor secchi stassi il lauro lieto/ e di Ciprigna l'odorato arbusto» (Opere, a cura di A. Simioni, Bari, Laterza, 1913, 1, p. 291); SANNAZZARO, Arcadia, A la Sampogna: •Le nostre Muse sono estinte: secchi sono i nostri lauri [...]»(Opere di J. SANNAZZARO, a cura di E. Carrara, Torino, UTET, 19521 p. 218); BEMBO, CLIII, 117-20: uO vecchiezza ostinata cd infelice,/ a che mi serbi ancor nuda radice, / se 'l tronco, in cui fioriva la mia speme, / è secco[...] ; TASSO, 11, [189] 60, 1-3: «Secco è l'arbor gentile/ che mai le frondi e 'l verde/ o per gelo o per fulmini non perde 11; 11, [419] 32, 11: «il mio già secco lauro e secco mirto»; IV, [1046] 547, 1-2: «Roche già son le cetre e muti i cigni/ al languir vostro e secco 'I lauro e 'l mirto». 5-8. Perché . .. vanto: e infatti dal giorno in cui la licenza rivoluzionaria e la guerra mi adusarono alla violenza sanguinaria, la mia mente fu accecata dalle passioni, divenendo incapace di distinguere il bene dal male, e l'animo si corruppe, cosi che il desiderio di ricchezze, di cui anche meno vanto, divenne in mc arte. L'identificazione di empia licenza con ..licenza rivol11::ioP1aria" si fonda su di un passo della dedica al fratello Gioan-Dionigi dell'ode Ai novelli repubblicani (1797), là dove il FoscoLo scrive: cc Né la mia sorte è già dubbia; io mi resi santo il proposito di morir con la libertà, e di espormi contro il furore della licenza prima motrice di tirannia• (qui a p. 132), mentre vanto viene riferito alla fame d'oro, piuttosto che ad arte sulla scorta di quanto nota il FERRAR!: • Il Pieri scrive che, lasciatolo giovinetto a Venezia, dove ostentava In sua povertà, lo trovò a Milano, qualche anno dopo che 11 vantnva i comodi della vita" JI. La variante «l'umana strage• (per la cui posizione cronologica vedi nel II tomo la relativa nota al testo), in sostituzione del volgarizzamento della virgiliana «auri sacra fames » (Ae11., 111, 57) rappresenta un netto salto di campo semantico, e lega certo meglio con quanto espresso ai vv. 5-7. Per il v. 6 vedi Bonaparte liberatore, 14, a p. 144: •tese raccolse nel sanguineo seno•. Per il v. 7 vedi Ortis (1802): •Lamia mente è cieca, le menbra oscillanti, e il cuore guasto qui nel profondo•, qui a p. 641. POESIE (1803) 207 Che se pur sorge di morir consiglio, a mia fiera ragion chiudon le porte furor di gloria, e carità di figlio. 11 Tal di me schiavo, e d'altri, e della sorte, conosco il meglio ed al peggior mi appiglio, e so invocare e non darmi la morte. 14 9. Che .•. consiglio: e se pure sorge, si fa strada, il proposito del suicidio. Che se: con valore rafforzativo, come al v. sdi Che stai?già il secol l'orma ultima lascia, piuttosto che causale come al v. s di Te 1mdrice alle muse, ospite e Dea, al v. 3 di Perché taccia il mmor di mia cate11a (nelle stampe milanesi, contrariamente alla forma con valore rafforzativo, le forme con valore causale sono accentate), e al v. 186 dei Sepolcri (alle pp. 248, 211, 215, 3I 7). 10. a •.. ragion: «fiera II nel senso di terribile al limite di una istintiva irrazionalità è preposto antifrasticamente a ragion, determinazione maturata tramite ragionamento. Ma si tenga anche presente la possibile, se non probabile, alternativa costituita da fiera nel senso di trattante l'I di cose e di accidenti spaventevoli e crudeli• (TOMMASEO-BELLINI), come in BoccACCIO, Decameron, 41 2: ('(Voglio che ne' fieri ragionamenti, ed a' miei accidenti in parte simili, Pampinea ragionando seguisca »(TOMMASEO-BELLINI); chiudon le porte: vedi DANTE, Par., 111, 43: «La nostra carità non serra porte 1,; ìVIAGNO, Trovo, dovunque io giro 'I guardo i11tento, I 2-3 : a E s'al mesto pensier chiuder le porte / col chiuder gli occhi io cerco [...] •· I 1. furor di gloria: vedi FoscoLo, Framme11ti di un romanzo autobiografico: «Ho sentito ... lo dico arrossendo ... ho sentito e sento - lascia prima ch'io mi copra con le mani la faccia - una febbre di gloria che m'ubbriaca perpetuamente la testa», qui a p. 544; a Ma io mi sentiva rodere a un tempo dalla fame di gloria 111 a p. 545. E vedi nel Il tomo l'Orazione a Bonaparte pel Co11gresso di Lione, 1: • ma pieno dell'alto soggetto e del furore di glorian; e anche Sepolcri, 1371 n p. 310: «Ma, ove donne il furor d'inclitc gestc 11; carità di figlio: vedi DANTE, Jn/., XIV, I: «Poi che la carità del natìo loco• (FERRARI). 12-4. Tal . .. morte: e però (tal: così) condizionato da me, dal mio prossimo e dal destino, come so riconoscere il partito migliore senza con ciò evitare di attenermi al peggiore, così ho la forza di desiderare la morte senza trovare poi quella di darmela effettivamente. 13. co11osco ••• mi appiglio: vedi PETRARCA, Rime, CCL"' sempre f11ggendo, Che stai1già il secol l'orma 11ltima lascia. METRO: sonetto: ABAB, ABAB, CDC, DCD. POESIE (1803) [III] PER LA SENTENZA CAPITALE PROPOSTA NEL GRAN-CONSIGLIO CISALPINO CONTRO LA LINGUA LATINA Te nudrice alle muse, ospite e Dea le barbariche genti che ti han doma nomavan tutte; e questo a noi pur fea lieve la varia, antiqua, infame soma. Ché se i tuoi vizi, e gli anni, e sorte rea ti han morto il senno ed il valor di Roma, 211 4 1-3. Te . •• tutte: nota il TREVISAN: cr I barbari, che soggiogarono l'Italia, l'ammiravano come nudrice, ospite e Dea delle 1v.frue; cioè eran forzati ad ammirare, ne' monumenti della letteratura e dell'arte sua, lo splendore della sua civiltà. Ordina così: ospite, nudrice e Dea, perché l'Italia, prima, accolse (ospite) l'arte greca; poi, coltivandola e imitandola (11udrice), la condusse all'eccellenza e divenne così signora, regina dell'arte (Dea dell.e Muse). Per ì\lluse, parmi, qui sieno metaforicamente indicate le arti belle in genere,,. Scrive il FOSCOLO nell'Ortis (1802), qui a p. 648: «[•••] La gente civile parla elegantemente il francese, e appena intende lo schietto toscano. I pubblici atti e le leggi sono scritte in una cotal lingua bastarda che le ignude frasi suggellano In ignoranza e la servitù di chi le detta. I Demosteni Cisalpini disputarono caldamente nel loro senato per esiliare con sentenza capitale dalla repubblica la lingua greca e la latina 11 (CASINI); e nell'orazione inaugurale pavese, qui nel tomo 11, è detto: e questa patria [...] ad onta delle avverse fortune fu sempre nutrice ed ospite delle Muse» (PAD0VAN). 3-4. e questo •• . soma: e ciò solamente (pur) ne rendeva sopportabile (lieve) il peso (soma) deJla schiavitù: tJaria perché opera di diverse genti; antiqua (la voce dotta antifrasticamente in relazione con l'infame soma) perché estesa nel passato. E vedi La Giustizia e la Pietà, 48-9, a p. 106: «[...]nel lembo/ d'antiqua notte[.•.]»; infame: perché infamante, arrecante vituperio (agli Italiani). 5. sorte rea: vedi il sonetto Così gl'interi giorni i11 /rmgo i11certo, 71 a p. 218, e MAGNO, Già 110n usato ardor nel freddo petto, 13: «[•••] o rin la sorte cada 11• 5-8. Ché ••• chioma: perché se le tue colpe, il tempo intercorso, e l'avverso destino uccisero in te (han morto con valore transitivo, come nel sonetto di GALEAZZO DI TARSIA, Questa imagi,re tJÌfJa, che dal morto, 5: •[•••]e questo è che m'ha morto», e in V. l\tloNTI, Epistolario, cit., v1, 1931, p. 221: «l'apoplessia che mi ha colpito, avendomi morta la metà del corpo, mi ha morto ancor l'uso dello scrivere 11) il sapere ed il valore di Roma, in te sopravviveva tuttavia il prestigio della lingua latina (il gran dir), che rivestiva di allori ancora regali la tua chioma ormai serva. Fuori di metafora: il prestigio della tradizione culturale classica, attuale tramite il culto ancor vivo della lingua latina, attenuava il peso della servitù politica. È qui adombrato il concetto espresso dall'ALFIERI nella prima terzina del sonetto per la sop- 212 POESIE ir.. te viveva il gran dir che avvolgea regali allori alla servii tua chioma. 8 Or ardi, Italia, al tuo Genio ancor queste reliquie estreme di cotanto impero; anzi il Toscano tuo parlar celeste 11 ognor più stempra nel sermon straniero, onde, più che di tua divisa veste, sia il vincitor di tua barbarie altero. 14 pressione dell'Accademia della Crusca (1786), Rime, CLXIII, 9-11: «L'antica madre, è ver, d'inerzia ingombra, / ebbe molti anni l'arti sue neglette, / ma, per lei stava del gran nome l'ombra•; sonetto che il Foscolo probabilmente conobbe nella stampa dell'«Anno poetico ossia Raccolta annuale di poesie inedite di autori viventi», I, Venezia, Dalla Tipografia Pepoliana, 1793, di Angelo Dalmistro (ma al v. 9 «d'inezie » in luogo d'inerzia, e al v. 10 « avea gran tempo» in luogo di ebbe molti anni). Lo stesso venne poi ristampato nell'opera di S. BE'ITINELLI, Dialoghi d'Amore d'un Accademico, Rovereto, Per Luigi Marchesani, Imp. Reg. Stamp., 1796, t. II, p. 193, citata dal FoscoLO nell'Esame di Niccolo Ugo Foscolo su le accuse contro Vincenzo Monti (1798), qui nel tomo 11. Il sonetto alfieriano è a sua volta modellato sopra PETRARCA, La gola e 'l sonno et l'otiose piume (Rime, VII), e BoccAcc10, Fuggit'è ogni tJirtù, spent'è il valore, in Rime, xc111 (PADOVAN). Nota il TREVISAN: a J regali allori si contrappongono alla seroil ... chioma, cioè la gloria artistica aJla schiavitù politica». 7. avvolgea: Ritratto< Sonetto del Ritratto dirò che la prima lezione la credo buona e fatta quando il Foscolo era giovane, la seconda che conservo scritta di sua mano nel Frontespizio della prima edizione dell'Ortis è ottima perché più confacente allo stato d'allora in cui lo scrisse» (Biblio- POESIE (1803) 227 teca Nazionale Centrale di Firenze, mss. Foscoliani, fase. x. G., pp. 117-23: due apografi di lettere della Magiotti, cui è anche da ascriversi copia del sonetto nella redazione sopra citata, che si trova presso la medesima Biblioteca, alla segnatura mss. Foscoliani, fase. XI. G. fase. 111. A, e vedi Catalogo dei Manoscritti Foscoliani già proprietà Martelli della R. Biblioteca Nazionale di Firenze, Roma 1885, p. 6, n.0 15). L'autografo foscoliano si colloca, con ogni probabilità, nel torno di tempo intercorrente tra le due edizioni, zurighese (1816) e londinese (1817), delPOrti.r: alla Magiotti che aveva insistentemente richiesto il Foscolo di alcuni versi da apporre dietro la copia del ritratto del poeta dipinto nel 1813 dal Fabre, opera del pittore Tommaso Garagalli, di cui la Donna Gentile entrò in possesso il 26 marzo 1816 (vedi Epistolario, vr, p. 365), il Nostro inviò una copia privilegiata dell'edizione zurighese (vedi Epistolario, vr, p. 552), che pare non giungesse mai a recapito (vedi Eputolario, VII, pp. 49 e 81), contrariamente a quanto si verificò per la stampa di Londra (vedi Epistolario, VII, p. 420). Il vicentino Tito Perlotto, a Londra nel 1820, dipinse poi un ritratto a olio del poeta, oggi conservato al Museo Civico di Vicenza, che nel margine inferiore reca una redazione del sonetto, apografa, la quale differisce da quella della stampa Bettoni del 1808, presentando al v. 3, in luogo di a tumidi labbri ed al sorriso lenti», «labbri tumidi arguti, al riso lenti»; al v. 7 in luogo di et sobrio, ostinato, uman, prodigo, schietto 11, et prodigo, sobbrio, umano, ispido schietto•; al v. 14 in luogo di e Morte, tu mi darai fama e riposo», a forse da morte avrò fama e riposo 11 (se ne veda la riproduzione, unitamente al dipinto, in C. ANTONA-TRAVERSI e A. 0TTOLINI, Ugo Foscolo, l\·lilano, Edizioni et Corbaccio 11, 1, 1927, p. 17, e per la vicenda dei ritratti foscoliani vedi A. A. :M1cHIELI, Per l'iconografia foscolia11a, in a Emporium », xxvii, n. 157, gennaio 1908, pp. 101-21). Quale finalmente si legge (ad eccezione del v. 14 che ritorna a "Morte, tu mi darai fama e riposo 11) nell'autografo apposto nel dorso del ritratto a olio eseguito da Filippo Pistrucci per conto di Hudson Gumey, dall'originale del Fabre (di cui il Foscolo era tornato in possesso, a Londra nel 1822), ora di proprietà del professor E. R. Vincent (si veda la riproduzione in facsimile dcli' autografo nel volume primo della Commedia di DANTE ALIGHIERI illustrata da Ugo Foscolo, Londra, Pietro Rolandi, 1842-1843, dopo l'avviso AL lettore, pp. xxi-xxx). l\llETRO: sonetto: ABAB, BABA, CDE, CED. POESIE [VII] Solcata ho fronte, occhi incavati intenti, crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto, labbro tumido acceso, e tersi denti, capo chino, bel collo, e largo petto; giuste membra; vestir semplice eletto; ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti; sobrio, umano, leal, prodigo, schietto; avverso al mondo, avversi a me gli eventi: 4 8 1-8. Solcata . .. eventi: in lettera a Gaetano Fornasini, maggio 1795 (Epistolario, 11 p. 12), il FOSCOLO diciassettenne, così si descriveva: a Di volto non bello ma stravagante, e d'un'aria libera, di crini non biondi ma rossi, di naso aquilino e grosso ma non picciolo e non grande; d'occhi mediocri ma vivi, di fronte ampia, di ciglia bionde e grosse e di mento ritondo. La mia statura non è alta, ma mi si dice che deggio crescere; tutte le mie membra son ben formate dalla natura, e tutte hanno del ritondo e del grosso. Il portamento non scuopre nobiltà né letteratura, ma è agitato trascuratamente. Eccovi il mio ritratto». Le due quartine sono condotte sul modello di quelle del sonetto dell'Al.FIERI, Rime, CLXVIII, 1-8: • Sublime specchio di veraci detti, / mostrami in corpo e in anima qual sono: / capelli, or radi in fronte, e rossi pretti; / lunga statura, e capo a terra prono; / sottil persona in su due stinchi schietti ; / bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono; / giusto naso, bel labro, e denti eletti; / pallido in volto, più che un re sul trono ,a. 1. Solcata ho fronte: ho fronte incavata da rughe; occhi ... intenti: occhi infossati e intensi. 2. crin fulvo: capelli rossi; emunte guance: viso pallido. J. labbro ... acceso: labbra grosse e di colorito vivo. Nota il FERRARI: • È nelle rime del Tasso, poi nel Parini Per l'inclita Nice: Né i labbri or dolce tumidi [v. ss] »; tersi denti: denti candidi. 4. capo chino: designa l'atteggiamento abituale, e riflette quello alfieriano del v. 4 del sonetto citato in nota ai vv. 1-8: • capo a terra prono •· 5. giuste membra: membra proporzionate; vestir .•. eletto: abbigliamento semplice, ma al tempo stesso ricercato. 6. ratti ... accenti: veloce, pronto nell'andatura, nel pensiero, negli atteggiamenti e nel discorso. L'asindeto è del tipo di quello dell'ALFIERI, Timoleone, atto 1v, scena 11, 17: a lor passi, opre, pensier [...] ». 7. sobrio •.• schietto: l'asindeto è del tipo di quello dell'ALFIERI, Saul, atto 111 scena 1, 38-40: cr [ •••] fero, / impaziente, torbido, adirato / sempre [...] ». 8. avverso . .. eventi: vedi il sonetto Che stai? già il secol l'orma ultima lascia, 10, a p. 249. POESIE (1803) talor di lingua, e spesso di man prode; mesto i più giorni e solo, ognor pensoso, pronto, iracondo, inquieto, tenace: di vizi ricco e di virtù, do lode alla ragion, ma corro ove al cor piace: morte sol mi darà fama e riposo. 229 n 14, 9-14. talor . .. riposo: le due terzine sono condotte sul modello di quelle del sonetto alfieriano citato in nota ai vv. 1-8: •or duro, acerbo, ora pieghevol, mite; / irato sempre, e non maligno mai; / la mente e il cor meco in perpetua lite: / per lo più mesto, e talor lieto assai, / or stimandomi Achille, ed or Tersite: / uom, se' tu grande, o vii? Muori, e il saprai•· Ma per tutto il sonetto vedi anche ALFIERI, Rime, CLV. 10. mesto ... giorni: vedi ALFIERI, Rime, LXXXIX, 4: «(...] la mestizia è in me natura•; CXXXVIII, 1: •mesto son sempre[...]•; Mirra, atto 11, scena n, 44: •[...] ma, spesse volte / la mestizia è natura [...] •· 13. alla ragion . •. al cor: vedi Ortis (18oz): •[...] la mia ragione, ch'è in perpetua lite con questo mio cuore [...] D, qui alle pp. 587-8. 14. morte . .. riposo: vedi Sepolcri, 145-6, a p. 311: • [...] A noi / morte apparecchi riposato albergo•· [VIII] Pubblicato dapprima nel •Nuovo Giornale dei Letterati», e Il collocato in quarta sede, in testa alla serie dei sonetti d'argomento amoroso, E tu ne' carmi avrai perenne vita nella stampa Destefanis era spostato in ottava posizione, dopo Solcata ho fronte, occhi incavati intenti. Il che, se consentiva un aggancio persuasivo a Né più mai toccherò le sacre sponde (vedi a p. 166 la nota introduttiva alle Poesie), rendeva poi meno motivato, e quasi brusco, il passaggio da Te nudrice alle muse, ospite e Dea a Perché tacda il rumor di mia catena. Riferendosi all'amore del poeta per Isabella Rondoni, cui, oltre alla topografia, conviene anche l'ascrizione dei «crin d'oro» (v. 13), non sembra improprio ritenere che il sonetto, in virtù del tono rievocativo che ne informa le terzine (v. 10: cci pie' leggiadri mosse»; v. 12: «in me volgeva sue luci beate»; vv. 13-4: «mentr'io sentia [...] / spirar»), sia stato composto dopo che il Foscolo venne a conoscenza dei patti matrimoniali stipulati tra la famiglia della Rondoni e il marchese Pier Antonio Bartolommei {le nozze furono celebrate nell'agosto del 1801), ciò che intervenne sull'inizio del mese di gennaio del 1801 (vedi Epistolario, 1, pp. 94-6, 96-9, 99-100). A favore dell'anno 1801 depone inoltre l'eguaglianza dello schema delle rime con il sonetto Che stai? già il secol l'orma ultima lascia, quale si legge nella lezione definitiva della stampa Destefanis (e vedine la nota introduttiva a p. 247). Se di quello, il cui termine post quem coincide con l'ultimo dell'anno 1799, venne infatti modificata l'ultima terzina in seguito alla pubblicazione dell'edizione Molini del1e Rime dell'Alfieri del 1801 (a sua volta termine ante quem), così che le rime dei vv. 12-4 da DCD furono mutate in EDE, non pare illecito evincere che la redazione del presente testo debba collocarsi dopo che il sonetto Che stai? già il secol l'orma ultima lascia, nella sua veste originale, era già stato composto. Affine a Te nudrice alle muse, ospite e Dea, a Perché taccia il n,mor di mia catena, e Cl,e stai? già il secol l'orma ultima lascia, per Ja classica coincidenza del periodo con le singole quartine e l'insieme delle terzine, E tu ne' carmi avrai pere11ne vita, in ragione della struttura vocativa deJla proposta, anticipa soluzioni formali che saranno peculiari dei tre sonetti aggiunti all'edizione Destefanis (e vedi la nota introduttiva a Né più mai toccherò le sacre sponde, a p. 234). METRO: sonetto: ABBA, ABBA, CDC, EDE. POESIE (1803) [VII I] E tu ne' carmi avrai perenne vita sponda che Arno saluta in suo cammino partendo la città che del latino nome accogliea finor l'ombra fuggita. 231 4 1-4. E tu ... fuggita: e tu vivrai eternamente nel canto dei poeti (ne' carmi), riva che l'Amo saluta nel suo corso, dividendo (partendo) la città (Firenze) che finora conservava l'immagine della scampata rinomanza latina. 1. E tu: nota il DE RoeERTIS: « Sta per dar enfasi al discorso. Puoi trovare esempi particolarmente nei poeti del Sei e del Settecento [...] G. B. Marino: "E così, dunque, ornata"; "E tu pur lasso! incontr'a me congiuri.,; "E tu pur dunque, al dolce inganno intento". Savioli: uE tu, come soave''; "E a noi la chioma eterna"; "E qui )ontano dalla patria ingrata"; "E tu pur giaci immobile". Paradisi: "Ed io del canto amica" •· Vedi anche FRUGONI, I, son. XLI, s: •E tu ne' carmi tuoi [...] •; e a p. 245 la nota al v. 9 del sonetto Ptlr tu copia versavi alma di canto; E ... carmi: per la funzione dei carmi vedi COSTANZO, son. XXVI, 9-11: «Queste più salde che metallo, o marmi, / senza temer giammai del tempo oltraggio, / terran l'istoria de i tuoi fatti, e i carmi"· 2. sponda ... cammino: il lungarno Corsini, tra il ponte di Santa Trinita e il ponte alla Carraia, dove si trovava la casa dell'Alfieri (Casa Gianfigliazzi). In lettera di Eleonora Nencini, del 9 gennaio 1801, si legge:«[...] se Domenica volete, verrò Lw1g'Ar110 11 (Epistolario, I, p. 96); e in altra, probabilmente in risposta a quella, il FoscoLo scrive: «Domenica t'aspetto Lrmg'Arno» (Epistolario, 1, p. 98). 4. nome: "rinomanza", nel senso di prestigio culturale; e vedi Bonaparte liberatore, 198, a p. 154: •e gli annali e le leggi e i rostri e il nome! 11, e Sepolcri, 52-3, a p. 300: a[...] e il nome a' morti / contende [•••] 11; finor: «S'intenda con una certa larghezza. Cioè fino al Rinasci• mento• (DE RooERTIS). Ma il termine potrebbe interessare una più ampia porzione di tempo e di storia, riferendosi alla contemporanea depressione culturale, politica e civile cui, unitamente all'Italia, andava soggetta anche Firenze, relativamente alla quale va ricordato che a nel marzo del 1801 Carlo Ludovico di Panna diventava re di Etruria: era la sanzione d'un governo francese, minacciante l'imbastardimento della città del Fiore,, (NATALI). Vedi Ortis (1802): «In queste terre beate si ridestaro-- no dalla barbarie le sacre muse e le lettere. Dovunque io mi volga trovo le case ove nacquero, e le pie zolle dove riposano que' primi grandi Toscani: ad ogni passo pavento di calpestare le loro reliquie», qui a p. 646; Dell'origine e dell'ufficio della letteratura, Xli, nota 1: o E questo a me pare in gran parte la causa della originalità e della fecondità dell'italiana letteratura in Firenze, ove, a' tempi di Dante, lo stato popolare e la libertà eccitavano le passioni de' cittadini e l'ingegno degli scrittori; mentre le altre città d'Italia, ridotte a feudi imperiali dalle vittorie di Federigo I e di Fcderigo II contro la Chiesa, continuavano nella barbarie, e le l\tluse si stavano nelle corti tra' giocolari o nelle celle tra' monaci (qui nel tomo 11). E vedi Le Grazie, 11, 25-6, a p. 432: 11 l'elegante città, dove con Flora / le Grazie han serti e amabile idioma•; l'ombra fuggita: 232 POESIE Già dal tuo ponte all'onda impaurita il papale furore e il ghibellino mescean gran sangue, ove oggi al pellegrino del fero vate la magion si addita. s Per me cara, felice, inclita riva ove sovente i pie' leggiadri mosse colei che vera al portamento Diva 11 s'intenda scampata da Roma e dalle altre città (sulla scorta di quanto affermato nel sopra citato passo delPorazione inaugurale), e riparata a Firenze. Vedi ALFIERI, Rime, LVI, 3-4: ctche un'ombra in sé di libertà latina/ ritiene [Venezia] [...]»;CLXIII, 11: 1tMa per lei stava del gran nome l'ombra•. 5-8. Già . .. naddita: un tempo le lotte intestine tra guelfi e ghibellini (il papale furore e il ghibellino) spargevano abbondantemente (gran) sangue nell'onda fuggevole (perché impaurita: cr Inorridita per il sangue fraterno versato », DE ROBERTIS), dal ponte di Santa Trinita, o dal Ponte Vecchio, dal quale oggi si mostra al forestiero la casa di Vittorio Alfieri. Giustamente il FERRAR!: 11 E perché qui la scena è posta in Lungarno, credo sia errore manifesto intendere che col/èro vate si accenni a Dante; delrAlfieri e non di Dante si mostra la casa nel Lungarno fiorentino ». Come è noto il ponte di Santa Trinita fu teatro dello scontro del Calendimaggio del 1 300 tra le fazioni dei Bianchi e dei Neri (guelfi e ghibellini per il Foscolo); vedi DANTE, In/., VI, 64-5. E, si aggiunga, la casa alfieriana meglio si addita dal ponte di Santa Trinita che dal Ponte Vecchio. 5. tuo: per tale funzione dell'aggettivo possessivo vedi a p. 235 la nota al v. 3 del sonetto Ni più mai toccherò le sacre sponde. 8./ero vate: dal PARINI, Il dono, 1 1 l'Alighieri è già detto a fiero Allobrogo ». E vedi ALFIERI, Rime, CLXVII, 1o: • irato sempre [...] ». E ancora Ortis (1802): «L'unico mortale ch'io desiderava conoscere era Vittorio Alfieri: ma odo dire ch'ei non accoglie persone nuove: né io presumo di fargli rompere questo suo proponimento che deriva forse dai tempi, da' suoi studii, e più ancora dalle sue alte passioni e dall'esperienza della società•, qui a p. 641. La solitudine alfieriana è inoltre ribadita nei Sepolcri, 188-951 alle pp. 317-8. 9. Per . .. riva: • Cara, per il ricordo della sua donna; felice, perché toccata da' suoi piedi; inclita, cioè gloriosa, per la stessa ragione• (DE RoBERTIS). 11 polisindeto è del tipo di quello di GIUSTO DE' CONTI, Sacro, leggiadro, altero t puro fiume•; DELLA CASA, son. XXXVI, 5: •ne la tua magna, illustre, inclita gente 11; riva: •È detto per paese in genere, come tante volte in Petrarca• (DB RoBERTIS). 10. i pie' leggiadri mosse: vedi PETRARCA, Rimt, CLXV, 1-2: •Come 'l candido piè per l'erba fresca / i dolci passi onestamente move •; CXCII, 7-8: "che dolcemente i piedi e gli occhi move / per questa di bei colli ombrosa chiostra » (CHIORBOLI). 11. colei . .• Diva: vedi V1RCILI0, Aen., I, 402-5: • Dixit et avertens rosea cervice refulsit / ambrosiaeque comae divinum vertice odorem / spiravere; pedes vestis deftuxit ad imos / et vera incessu patuit dea [..•] ». POESIE (1803) in me volgeva sue luci beate, mentr'io sentia dai crin d'oro commosse spirar ambrosia l'aure innamorate. 2 33 12. beate: che rendono beati, beatrici. 13. crin d'oro: vedi FOSCOLO, La chioma di Berenice, Considerazione xn, Chiome bionde, Milano, Dal Genio Tipografico, 1803, pp. 205-13; commosse: smosse. 14. spirar . .. innamorate: oltre ad OMERO, Il., XIV, 170-2: cAµf3poaLn µh 1tpC>TOv &:1tò xpoòc; Lµep6svroc; / ì.uµ / &:µf3poa(ci> !8, 't'6 p&:. ol T&&uù>µévov ~~; Od., vn1, 360-6: -roo 8' ml be 8ecrµoto Àò&t:v, xpaTEpoù m:p MVTot;, / cxùT(x' o:v1Xtç1Xvn: oµh 0piJx7)v8e: {3e:f37JKEL, / Yl 8' liplX Ku1tpov LXIXVE cpl.Àoµµet8"1Jc; •Acppo8('t'7), / !t; Ilcxcpov, fv&IX -ré ol 't'iµevoc; f3Ci1µ6c; u .&u71e:tt;. / fv&« 8é µLv XcipLTEc; ÀOÙO'IXV xo:l xpracxv ~IX( / &µf3p6T, otcx -9-eouc; i1te:v1)vo&~ al!v f6VTIXt;, / &:µaura mia antica, e i dolci colli [cccxx] v. 7: "E voto e freddo il nido in ch'ella giacque"• (DE RonERTIS). E anche si osservi che il sonetto petrarchesco presenta, in rima, 11acque (v. 2.), e acque (v. 6). E vedi l'ode Alla amica risanata, 85, a p. 196. 3. Zacinto mia: }laggettivo possessivo enfatizza il primitivo valore semantico, topograficamente natale. Vcdi Sepolcri, 249, a p. 323: «onde d'Elettra tua resti la fama•· Per analoga funzione del possessivo vedi il sonetto E tll ne' carmi avrai pererme vita, 5, a p. 2.32. 3-4. che .•. mar: che ti rifletti nelle acque del mare Ionio. La figura (011de per "acque", "mare'') è del tipo di quella del sonetto E tu ne' carmi avrai perenne vita, 5, a p. 232.. Nota il TREVISAN: «cfr. l'Ariosto ove dice di un cespuglio "Che delle liquide onde al specchio siede" •· 4. 11acque: in rima con acqfle è nell'ode A Lfligia Pallavicìni cadllta da cavallo, 65-6, a p. 183. E vedi TASSO, IV, [1200) 701, 7-8: «[•••]e l'acque / fra cui Venere bella nacque». 5. Ve11ere Anadiomcne, nata dalla spuma del mare Ionio, e sospinta da Zefiro a Cipro. Vedi Le Grazie, I, 38 sgg., alle pp. 412~3. 5-6. e Jea ... sorriso: e rendeva le jsole dall'arcipelago greco rigogliose, fertili, al suo primo sorriso: a Quasi benedicendo» (DE RoBERTIS). 6- 11. 011de .•. Ulisse: ragion per cui il verso famoso, illustre (inclito) di Omero (colr,i che l'acqfla ecc.) celebrò il tuo limpido ciclo (Zacinto mia), e le tue frondose foreste. La litote (non tacque) sottolinea l'irresistibile evidenza della "fecondità" di Zacinto (quasi "non poté esimersi dal"). Vedi TASSO, IV, [1224] 725, 3: «onde la vaga fama allor non tacque». 236 POESIE le tue limpide nubi e le tue fronde Pinclito verso di colui che l'acque cantò fatali, ed il diverso esiglio per cui bello di fama e di sventura baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. 8 Il 7. le tue .•. fronde: in lettera al Bartholdy, Milano 29 settembre 1808, il FoscoLo scriveva: «(•••] vidi il primo raggio di sole nella chiara e selvosa Zacinto, risuonante ancora de' versi con che Omero e Teocrito la celebravano» (vedi nel II tomo la lettera 57). Nota il FERRARI: «[ •••] e in una nota a Zacinto dell'Inno I delle Grazie. "Teocrito la chiama bella Zacinto! e Omero e Virgilio la lodano per la beltà de' suoi boschi e la serenità del cielo"». Si tratta di TEOCRITO, 1v, 32; OMERO, Od., 1,246; IX, 24; XVI, 123; XIX, 131; anche VIRGILIO, Aen., Ili, 270: «nemorosa Zacynthos»; limpide, «candide» nelle Grazie, I, 61, a p. 413. E vedi La Giustizia e la Pietà, 64, a p. I I 1 : «del dolce frutto di Zacinto onore 11. 8- 9. l'inclito ... esiglio: il verso famoso («è aggettivo omerico [xÀuT6c;] e qui appropriato = inclito, sublime», TREVISAN) di colui (Omero) che nell'Odissea cantò i viaggi per mare (l'acque) di Ulisse (fatali) perché predisposti dal fato, e le sue varie peregrinazioni (il diverso esiglio). Nota il TREVISAN: «diverso (usato nel signif. lat., di diversus = cacciato or qua or là), perché Ulisse, negli errori del suo ritorno, fu dal destino spinto e risospinto sul mare. Cfr. Sep. (227): diversa gente 11. 9. diverso esiglio: vedi V1RGILIO, Aen., 111, 4: udiversa exilia11 (BorrASSO). 10-1. per ... Uli.sse: in ragione del quale (esiglio), nobilitato dalla fama della sventura (di fama e di sventura ha valore di endiadi) ecc. 10. bello difama: nota il TREVISAN: «[•••] l'aggett. col complemento di specificazione in luogo di quello di causa; bello per fama ecc.: cosi "aspra di guaiu (Ep. a V. M. [43]); ardua di sassi (ardua saxis di Virg.) (Inno alla nave delle Muse [9]); Liete d'ulivi e di vocali lauri (lb. 14); liberal ... di luce (lb. 56) e ne' Sep. (168) "lieta dell'aer tuo.,». 11. baciò: vedi OMERO, Od., x1111 353-4: Y1)&r]aév -r' cip' he:LT« m>ÀÒ7tÀCX~ &oc; ·oauacrtùc; / xcxtpwv nycx(n, XUO'E 8è ;et8wpov cipoupcxv; la sua . •. Itaca: vedi OMERO, Il., 1,247; XI, 480; xv, 510; XVI, 124; xxi, 346. L'opposizione del possessivo sua a mia del v. 3 evidenzia il parallelismo tra Zacinto e Itaca, tra Foscolo e Ulisse. E vedi La Giusti:zia e la Pietà, 46, a p. 110: «[..•]d'Itaca i solchi». POESIE (1803) 237 Tu non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra; a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura. 14 12-3. Tu ... terra: nota il FERRARI: • Non solo il poeta vuol far sentire che Zacinto non sarà celebrata colla dignità con che Omero celebrò Itaca, ma anc6ra1 e principalmente, vuol fermarsi sulla propria sventura peggiore di quella d'Ulisse, perché questi dopo l'esilio poté esser sepolto nella patria terra, e bello di fama; ed egli no. Cfr. Grazie, lmro I 46 ecc. - La chiusa adunque risponde al principio: Appunto perché il poeta non toccherà mai le sacre sponde della sua isola, essa non potrà avere che il canto del figlio. Colpa di questo il volere del/ato; mentre il/ato d'Ulisse era diverso 11. Vedi Le Grazie, 11 48-521 a p. 412: «Salve, Zacinto! all'antenoree prode, / de' santi Lari Idei ultimo albergo/ e de' miei padri, darò i carmi e l'ossa, / e a te il pensier; che piamente a queste / Dee non favella chi la patria obblia n. La costruzione riecheggia, oltre al Tieste, atto 1, scena 111, 253-4, a p. 58: • [...] ed io, madre infelice, / altro non ho che il pianto [...] »; atto 1111 scena 1111 226-7, a p. 78: 11 [ •••] A me non altro / resta, che pianto e morte», ALFIERI, Fii,"ppo, atto I, scena 11 19-20: • Misera me sollievo a me non resta/ altro che il pianto[...] ». 13. a 11oi: vedi Sepolcri, 145-6, a p. 311: «[•••] A noi/ morte apparecchi riposato albergo n; prescrisse: diede in sorte. Oltre a Le Grazie, 1111 221-41 a p. 476: «Sola vive al cor mio cura soave,/ sola e secreta spargerà le chiome/ sovra il sepolcro mio, quando lontano/ non prescrivano i fati anche il sepolcro», vedi DBLLA CASA, son. xn, 5-6: « Ben sai ch'al viver mio, cui brevi e rare / prescrisse ore serene il cielo avaro•; son. XXIV, 3-4: • i pochi dì ch1a la mia vita oscura/ puri e sereni il ciel parco prescrisse»; TASSO, 1111 [939] 4401 9-10: •l\tla se non è là suso a me prescritta / sorte [...] »; MARINO, Adone, IV, 73, 5-7: 11 Ora a quel fin sul verdeggiar degli anni / corro, che il fato al viver mio prescrisse, / abbandonando in sull'età fiorita». 14. illacrimata sepoltura: sepoltura non confortata dalle lacrime dei superstiti. Conio foscoliano sul modello di illacriniabilis (greco ci8ch•, 11 su la tua pietra 11, a o fratel mio 11, «il fior de' tuoi gentili anni 11, a la ì\1adre [...] suo dì 11, «parla di me, col tuo cenere•, • ma io•, a a voi le palme,,, n i miei tetti•, a al viver tuo•, «anch'io nel tuo porto•), e tutto incentrato sopra il triangolo degli affetti familiari (sé stesso, il fratello, la madre), il sonetto appare pensato e composto nella guisa di un impromptr1 (la proposta di un tema non originale è subito risolta nella variazione, e, del resto, la fonte tibulliana dei vv. 2-3 non gode della celebrità di quella catulliana dei vv. 1-2). Un di, s'io 11011 andrò sempre fuggendo presenta poi una struttura sintattica eccezionalmente corrispondente ai periodi metrici. Ali'interno della prima quartina lo "sfumato" di Forse perché della fatai q11iete è nuovamente ottenuto, grazie all'enjambement dei vv. 1-2: «fuggendo / di gente in gente• (figura per la quale vedi alle pp. 198-9 la nota introduttiva al sonetto sopra citato), inducente, oltre all'e11jambement dei vv. 3-4: «gemendo / il fior», la specularità dei gerundi e gerundivi, in ordinato accordo con la successione delle rime (delle quali è anche notevole la conformità di campo semantico: «fuggendogemendo », n seduto-caduto»). Ai simm~trici snodi dei vv. 1-4 si contrappone poi la rigida articolazione della seconda quartino, dove non solo il periodo coincide con la strofe, ma il verso sintatticamente non eccede mai la propria misura. Ciò che, del resto, si verifica anche nelle terzine (ad eccezione dell'enjambement dei vv. 9-10: •e le secrete/ cure», doppiamente dettato dalla suggestione dell'aggettivo, e del sostantivo, come è confermato da Forse perché dellafatal q11iete, vv. 7-8: a e le secrete / vie 11, vv. 11- 2: a le torme / delle cure»), altrettanto rigorosamente squadrate. METRO: sonetto: ABAB, ABAB, CDC, DCD. POESIE [X] Un di, s'io non andrò sempre fuggendo di gente in gente, me vedrai seduto 1-4. Un dì ... caduto: vedi CATULLO, Cann., c1: «Multas per gentes et multa per aequora vectus / advenio has miseras, frater, ad inferias, / ut te postremo donarem munere mortis / et mutam nequiquam alloquerer cinerem, / quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum, / heu miser indigne frater adempte mihi. / Nunc tamen interea haec prisco quae more parentum / tradita sunt tristi munere ad inferias, / accipe fraterno multum manantia ftetu, / atque in perpetuum, frater, ave atque vale» (così volgarizzato da PARINI, Alcune poesie di RIPANO EuPILINO, XXXVI: «Per molte genti e molti mar condotto, / o mio germano, finalmente io sono / a quest'esequie miserande addotto, / per far l'ultimo a te funebre dono. / E poiché te medesmo a me non buono / destino ahi tolse, e 'l tuo bel stame ha rotto / indegnamente, oimè, vo' dir qui prono / su la tacita polvc un vano motto. / Questi doni però tu accogli intanto, / che ne' funebri sacrificii offrio / de' maggiori il costume antico e santo. / Questi accogli pur tu; ch'assai del mio / sono grondanti ancor fraterno pianto; / e addio per sempre, o mio germano, addio»); e vedi anche MARULLO, XXII: 11 Per Scythiam Bessosque feros, per tela, per hostes / rhiphaeo venio tristis ab usque gelu, / scilicet exequias tibi producturus inanes, / fraternis unus ne careas lacrimis, / teque peregrina, frater, tellure iacentem / et tua sparsurus fletibus ossa meis, / quandoquidcm post tot casus patriaeque domusque / - tanquam hoc exempto nil nocuisset adhuc - / te quoque sors invisa mihi, dulcissime frater, / abstulit, Elysium misit et ante dicm, / ne foret aut fletos qui solaretur acerbos / iungeret aut lacrimis fratris et ipse suas. / Heu, miserande puer, quae te mihi fata tulerunt, / cui miseram linguis, frater adempte, domum? / Tu mea post patriam turbasti pectora solus, / omnia sunt tecum una tumulo conduntur in isto: / frater abcst, fratrem quaeso venire iubel / Cur sine me Elysia fclix spatiare sub umbra/ inter honoratos nobilis umbra patres? / Occurrunt Graiique atavi proavique Latini: / frater abest, fratrem quaeso venire iube! / lntcrea, quoniam sic fata inimica tulerunt, / nec mihi te licuit posse cadente mori, / accipe, quos habeo lugubria munera, ftetus, / aetemumque, mcae, frater, ave, lacrimae 11; e vedi ancora BERTOLA, 1, Mergellina, 235-40: • O mi sia dato un di dal suol remoto, / a cui guidi tu stesso oggi i miei passi, / tornar con maggior cetra, e maggior v6to / su i memorandi sepolcrali sassi, / e favellar con quante Ombre qui sono / della mia giovinezza, e del tuo dono•· 1. Un dì ..• fuggendo: vedi l'incipit su analoga serie di accenti di PARINI, Alcune poesie di RIPANO EUPILINO, xxxix: 11 Manzon, s'io vedrò mai l'aspro flagello•· 1-2. fuggendo ... gente: vedi Sepolcri, J 2, a p. 293: «unico spirto a mia vita raminga», e 226-71 a p. 3~0: •E me che i tempi ed il desio d'onore/ fan per diversa gente ir fuggitivo•· 2-3. me • .. mio: vedi TIDULLO 11, 6, 33: «illius ad tumulum fugiam supplexque sedebo • (CASINI), citato anche dal FoscoLo in nota ai vv. 126-7 dei Sepolcri, qui a p. 331. 2. seduto: POESIE (1803) su la tua pietra, o fratel mio, gemendo il fior de' tuoi gentili anni caduto. La Madre or sol suo dì tardo traendo parla di me col tuo cenere muto, vedi Sepolcri, 126-8, a p. 309: • [...] e chi sedea / a libar latte e a raccontar sue pene ai cari estinti [...] 11. 3. su ... pietra: sulla tua tomba. Vedi In morte di Amaritte, 8, a p. 39: • Vate canuto su la sorda pietra 11; VJTTORELLI, 1, Canzonetta, Se dal tuo dolce sguardo, 61: •e sulla muta pietra•; gemendo: nota il FERRARI: «in senso attivo per Lagrimando, Piangendo. Con uso un po' diverso, Dante, Jnf. xxvi 58: "E dentro dalla lor fiamma si geme/ l'agguato del cavai"; e Giusto de' Conti, Bella mano xxvi: ..A che ('antiche colpe l'uom pur geme"•. E vedi i vv. 13-4 del carme LXV di CATULLO: •qualia sub densis ramorum concinit umbris / Daulias, absumti fata gemens ltyli », secondo il testo del Foscolo nella Chioma di Bere11ice (qui a p. 258), così tradotto dallo stesso, vv. 16-7: «siccome all'ombra di frondosi rami/ geme del divorato ltilo i fati / Daulia cantando [...] » (qui a p. 259), il sonetto Così gl'interi giorni in lungo incerto, 2, a p. 218, e a p. 323 Sepolcri, 250, e la nota relativa. 4. il ... caduto: la giovinezza stroncata dalla morte. Vedi PETRARCA, Trionfi, 1v, 96: a[...] e fu 'I fior degli anni suoi•; Rime, CCLXVIII, 39: « [ •••] al fior degli anni suoi»; i sonetti Meritamente, però ch'io potei, 8, a p. 223, Pur tu copia versavi alma di canto, 3, a p. 244, e ALFIERI, Rime, CLII, 3: • quasi sul fiore ancor degli anni miei•· 5. La 1.\1/adre . .. traendo: la madre (per la quale vedi a p. 125 la nota al v. 8 del sonetto /11 morte del padre) trascinando la sua tarda età (cinquantasei anni all'altezza del 1803). Vedi FoscoLo, A Saffo, 53-6: 11 Funerei fiori e nenie/ dell'infelice madre/ me seguiran già cenere/ fra sorde pietre ed adre n (Edizione Nazionale, 11, p. 245); s110 ... traendo: oltre a FoscoLO, Tieste, atto 1, scena u, 61-2, a p. 52: •[...]onde traesse/ oscuri giorni [•••] n, vedi PETRARCA, Rime, xvi, 5: 11 Indi trahendo poi Pantiquo fianco•; l\:IARULLO, XLVII, 20: •onnis cuncta trahentibus»; ALFIERI, Filippo, atto v, scena 111, 89-90: cc[•••] io seco / trar disegnato n,·ea miei dì felici•; Sar1l, atto 11, scena 111, 70-1: • [•••]impuri/ profani dì traendo[...] »; Rime, CIV, 14: «i miei dì sconsolati io non traessi». 6. di me: nota il DE RonERTIS: a Lontano, che non posso consolarla 11; e vedi /11 morte di An,aritte, 8, citato nella noto al v. 3 ; col ... nmto: nota il DE RonERTIS: a Che non parli, e non puoi sollevare la sua pena 11. Oltre a CATULLO, Carm., Cl, 4: cc et mutam nequiquam alloqucrer cinerem », vedi TIBULLO, 11, 6, 34: •et men cum muto fata quaerar cincre •(CASINI); e COSTANZO, son. 11, 9: • E sol col ccner mio muto [...] »; :tvlARINO, Ecco il monte, ecco il sacco, ecco lo speco, 13: • e intorno al cener muto[...]• (Lirici misti del secolo .XVII, in Parnaso italiano ovvero Raccolta de' poeti classici italiani ecc., t. XLI, Venezia, Zatta, 1789); PARINI, I" morte di Antonio Saccl,ini, 90: •suono dal cener tuo per sempre muto». E il sonetto Pur tu copia versavi alma di canto, 6, a p. 245. 16 POESIE ma io deluse a voi le palme tendo e sol da lunge i miei tetti saluto. Sento gli avversi numi, e le secrete cure che al viver tuo furon tempesta, e prego anch'io nel tuo porto qui:ete. Questo di tanta speme oggi mi resta! Straniere genti, almen le ossa rendete allora al petto della madre mesta. 8 Il 7. ma . .. tendo: nota il DE RoBERTJS: «Compi. pred. dell'oggetto palme. Si potrebbe tradurre senz'altro: invano; e pare descriva il tendersi delle braccia, e il ricadere subito abbandonate. -a voi. A te e alla madre•· Vedi OMERO, Il., I, 351: 1tolli 8è µYj-rpt q>LÀTI '1)p~aci-ro X&tpCl<; òp~ (aver l'immenso oceàn tendea le palme, / te divina invocando [...] • (FoscoLo); la fonte è segnalata da G. FISCHIETTI, L'episodio di Elettra nei Sepolcri del Foscolo, in << Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXLIII, 433 (1966), p. 330; e vedi VIRGILIO, Georg., IV, 498: 11invalidasque tibi tendes, heu non tua, palmas ». Oltre all'Ortt"s (1802): « [ •••] io mi volgeva avidamente al futuro, ma io errava sempre nel vano e le mie braccia tornavano deluse senza poter mai stringere nulla,,, qui alle pp. 652-3, vedi Le Grazie, 1, 294-5, a p. 428: « [ •••] suoi i figli ancora / a voi tendon le palme[...] ». Vedi anche DELLA CASA, son. v, 9: «Così deluso il cor [...] •; PARINI, Il messaggio, 78: acon la delusa man cercando vo»; MONTI, Prometeo, III, 481: «[•••] incontro gli stese ambe le palme». 8. e . .. lrmge: e da lontano, daJl'esilio; i miei tetti: la veneziana casa di famiglia. Oltre a FoSCOLO, A Dante, 52-3, a p. 28: «fugge dall'atre bolge / di cittadino tetto», vedi PARINI, CXCIV, 11: a sopra la soglia de' paterni tetti»; La caduta, 104: • col dubitante piè torna al mio tetto». 9. Sento ... numi: avverto l'ostilità del destino. Vedi VIRGILIO, Aen., v, 466: «[ •••] convcrsaque numina scntis » (CERIELLO). 9-10. le . .. cure: « I segreti, inesplicabili, affanni» (DE RoBERTIS). Vedi il sonetto Forse perché della fatal quiete, 12, e la relativa nota, a p. 201, e per l'enjambement i vv. 7-8, a p. 201. 10.furon tempesta: travagliarono. 11. nel tuo porto: nota il DB RonERTIS: «In un porto come il tuo. Cioè nella morte. Dante, Conv., IV, 28: cc La naturale morte è quasi a noi porto di lunga navigazione e riposo"•· Vedi, ad esempio, PETRARCA, Rime, XXVIII, 9: «per gir al miglior porto[...] 11; CCCLXV, 9-10: «sì che s'io vissi in guerra, et in tempesta, / mora in pace, et in porto [...] 11; COSTANZO, Stanze lii, 6, 7-8: aFinché giunga colei che brami tanto, / porto delle miserie, e fin del pianto»; DELLA CASA, son. xvu, 11 : • questa mia vita, in porto ornai l'accolgo». 12. Questo . •. resta: vedi PETRARCA, Rime, CCLXVIII, 32: nquesto m'avanza di cotanta spene» (FERRARI); BEMBO, 11, 24 (p. 676): • questo m'avanza di cotanta fede». E il sonetto Non son chi fui; perì di noi gran parte, 2, e la relativa nota, a p. 205. 13. a/men . .. re11dete: vedi TIBULLO, I, 3, 5-6: « [ •••] non hic mihi mater / quac legat in macstos ossa perusta sinus » (CERIELLO). [Xl] Pubblicato dapprima nella stampa Destefanis delle Poesie, questo sonetto è da ritenersi composto, unitamente a Forse perché della fatai quiete e a Né più mai toccherò le sacre sponde, dopo l'agosto 18021 e prima del lasso di tempo intercorrente tra il 2 e il 9 aprile del 1803 (per il significato di tali date vedi a p. 198 la nota introduttiva a Forse perché della Jatal quiete). Di struttura tripartita, sintatticamente coincidente con la misura delle quartine e delle singole terzine (analogamente a Così gl'interi giorni in lungo i11certo), il sonetto, per la contiguità temporale che lo collega a Forse perché della fatai quiete, ne riproduce soluzioni formali affatto peculiari. Ciò vale innanzitutto per l'organizzazione delle quartine, dove alla proposta del tema abbracciante i vv. 1-2, egualmente conclusa, così come nel sonetto Alla Sera, dal vocativo ("Aonia Diva•; •o Sera•), fanno seguito due proposizioni (vv. 3-6)1 la prima delle quali introdotta dalla stessa congiunzione temporale («quando»), caratterizzante, alla maniera del sonetto proemiale, da e,zjambements nelle medesime sedi, sia pure sulla scorta di un diverso sirrema. Ancora si noti come i tipi di inarcature, a fuggiva / la stagion prima 11 (vv. 3--4-), e a dietro erale intanto / questa» (vv. 4-5), non siano estranei al sonetto Alla Sera (vv. 10-1: a fugge/ questo reo tempo 11; e, relativamente all'aggettivo dimostrativo, oltre al caso testé citato, vedi ai vv. 13-4: •dorme / quello spirto guerrier 11; e del resto, nella compagine dei sonetti, come anche nei Sepolcri, il segmento aggettivo dimostrativo-sostantivo, o verboaggetth·o dimostrativo-sostantivo, è sempre soggetto a enjambement; è il caso di Te nudrice alle muse, ospite e Dea, vv. 9-10: a queste / reliquie», e di Meritamente, però ch'io potei, vv. 9-10: «queste/ rupi,,). Per quanto poi concerne i vv. 7-8, Pur tu copia versavi alma di ca11to si accosta ancora a Fors~ perché della fatai q11iete, oltre che per la funzione provvisoriamente consuntiva, a supporto della campata delle quartine, che sembra loro competere, per l'analogo ricorso all'e,ijambement, che ne rivela la singolarità di struttura sintattica. Mentre la costruzione dei vv. 9-10 (« E tu fuggisti in compagnia dcll'ore, / o Dea!») riprendendo il modulo d'esordio di Forse perché dellafatal q11iele, vv. 2-3 (11 tu sei l'immago a me sì cara vieni/ o Sera! 11), ne conserva anche il successivo enjambement (vv. 10-1: «alle pensose/ membranzen; vv. 3-4: «liete/ le nubi"). Nei confronti dei vv. 1-8, i vv. 9-11 stanno nello stesso rapporto in cui si trovano nel sonetto Alla Sera i vv. 9-12 rispetto ai \'V, 1-8. Non diversamente da quelli essi propongono un tema che, per il fatto di legarsi più consequenzialmente al primo, declinato e svolto nelle quartine, non dà luogo a strutture sintattiche, contrariamente a quanto si verifica in Forse perché dellafatal q11iete, debordanti la misura delle terzine (anche se all'interno delle stesse le irmcturae si collocano nelle medesime sedi di• fugge / questo reo tempo•, e di •donne/ quello spirto guerrier » del sonetto Alla Sera). L'esaurimento del secondo tema nell'ambito della prima terzina, comporta finalmente che alla seconda spetti di assolvere la tradizionale funzione di razionalizzare in forma deduttiva quanto esposto ai vv. 1-11, come solo ancora si riscontra in Non son chi fui; perì di noi gran parte. METRO: sonetto: ABBA, ABAB, CDE, CDE. POESIE [Xl] Pur tu copia versavi alma di canto su le mie labbra un tempo, Aonia Diva, quando de' miei fiorenti anni fuggiva la stagion prima, e dietro erale intanto 4 1-6. Pur . .. riva: eppure, o Musa (Aonia Diva), tu un tempo eri solita versare sulle mie labbra un'abbondanza (copia) alimentatrice (alma, etimologicamente da alo, più che "cara", "soave'\ in senso tradizionale) di poesia (canto), quando era per svanire la mia adolescenza (de' miei fiorenti anni . .. la stagion prima), e le teneva dietro quest'altra, presente, età (la giovinezza) che m'accompagna dolorosamente (che meco per la via del pianto J scende), verso la silente sponda del Lete (fiume infernale, passato il quale i defunti scordano la vita trascorsa; e però, sulla scorta dell'equazione oblio-silenzio, muta riva. Nota il TREVISAN: «Nella vita poetica del Foscolo il Carducci distingue due età, quella dell'adolescenza, che va dal 1794 al 1797, in cui le produzioni poetiche di Niccolò Ugo furono numerosissime, ma, viceversa, mediocrissime; l'altra della gioventù, che va dal J 798 al 1803, in cui Ugo toccò la perfezione. Qui il p. allude al primo periodo, cioè, a quello dell'adolescenza, il che appare, chiaramente, dalla lettera del F. al tip. Bodoni (13 Aprile 1803), nella quale mandandogli l'edizionetta (1803), delle poche poesie, ivi comprese, dice di queste: "le sole trascelte dalle infinite ch'io scrissi Quando de' miei fiorenti anni fuggiva la stagion prima"». J. copia ... canto: vedi PARINI, li dono, 25-30: «O sia, che a me le fervida / mente ti mostri, quando / in divin modi, e in vario / sermon, dissimulando, / versi d'ingegno copia / e saper che lo ingegno almo nodrì », e MAZZA, 111, All'Armonia, 297-8: a[...] e dolce allora / tu [Armonia] gli versavi su le labbra il canto». 2. Aonia Diva: vedi l'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, 40, a p. 180. 3. fiore11ti anni: oltre al sonetto Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo, 4, e la nota relativa, a p. 241, vedi CATULLO, Carm., LXVIII, 16: «iucundum quum aetas Rorida ver ageret 11; PETRARCA, Rime, CCLXXVIII, I: « Ne l'età sua più bella et più fiorita11; cccxxxvi, 3: •qual io la vidi in su l'età fiorita»; cccxv, 1: •Tutta la mia fiorita et verde etade •· 4. la . .. prima: nota il FERRARI: • I'adolescenza - intende G M [Giovanni Mestica], - la quale per il Foscolo può dirsi chiusa all'anno diciannovesimo: la quartina adunque alluderebbe ai versi fatti dal Foscolo fino al 1797 circa. Io non so interamente risolvermi ad accettare detta interpretazione, giacché per essa il Foscolo (se il presente sonetto è fatto nel 1802. o l'anno dopo) verrebbe ad escludere dal periodo in che la Musa era a lui più propizia gli anni migliori della sua giovinezza, i quali furono per l'appunto quelli che corsero dal I 798 al 1803: e inclinerei ad interpretare che la stagion prima fosse la giovinezza (In puerizia per Dante) fino al venticinquesimo anno». A prescindere dalla reale dota di composizione, il discrimine temporale tra le due stagioni va posto in relazione al termine fissato nel sonetto conclusivo Clie stai? già il secol l'orma ultima lascia, e cioè alla scadenza secolare. E vedi DELLA CASA, canz. J, 1-2: •Arsi; e non pur la verde stagion fresca / di quest'anno mio POESIE (1803) questa, che meco per la via del pianto scende di Lete ver la muta riva: non udito or t'invoco; ohimè! soltanto una favilla del tuo spirto è viva. E tu fuggisti in compagnia dell'ore, o DeaI tu pur mi lasci alle pensose membranze, e del futuro al timor cieco. Però mi accorgo, e mel ridice amore, che mal ponno sfogar rade, operose rime il dolor che deve albergar meco. 245 8 Il breve, Amor, ti diedi»; MINZONI, O Fanciulletto, che d'un colle all'ombra, 173: 11 Tanto solea nella stagion sua prima» (Rime e prose di ONOFRIO M1NZ0NI ferrarese, Venezia, Dalla Tipografia Pepoliana, 1794). 5-6. questa ... riva: nota il CERIELLO: « Il poeta vuol dire che la giovinezza, ormai priva di poesia, si avvia alle aridità del pensiero e delle opere ingloriose, e perciò preda dell'oblio, poiché non lascerà, come un tempo, segni del suo valore». 6. muta riva: vedi il sonetto Un dì, s'io non andrò semprefuggendo, 6, a p. 241. 7-8. non ... viva: ora che la mia anima è inaridita ti invoco, o Musa, inascoltato (invano) dal momento che della tua antica ispirazione (spirto), solo una favilla è in me accesa. 8. spirto: vedi Sepolcri, 10-1, a p. 292: • né più nel cor mi parlerà lo spirto / delle vergini Muse e deU-amore •. Nota il TREVISAN, Sepolcri, 10: 11 È lo spiritw d'Orazio (Iv, C. 29) e lo spirto del Petrarca nella Canzone XVI (St. 5, P, 1). Nel senso di estro, i.spirazione, il Foscolo stesso usa questa nelle Grazie (111 464): "Cantando Febo pieno d'inni un carme/ vaticinò, ch'egli lo spirto, e varia/ daranno a' Vati l'armonia del plettro/ le sue caste sorelle"•· 9. E tu fuggisti: vedi il sonetto E tu ne' carmi avrai perenne vita, 11 a p. 23 11 e la nota relativa. Sta in parallelo alf11ggiva della sl.agion prima dei vv. 3-4, e però sembra conferire ad E il valore di "anche", ribadito in forma grammaticalmente variata dal pur del verso successivo; in ... dell'ore: te ne andasti con il trascorrere del tempo. Vedi l'ode Alla amica risanata, 19, a p. 191, e 49-51, a p. 193. 10-1. tu ... cieco: anche tu mi abbandoni ai ricordi suscitatori di meditazione, e alla paura oscura del futuro. 12-4. Però . .. meco: perciò mi rendo conto, e amore me ne dà conferma che: nAvendomi la Musa abbandonato, e dovendomi aiutare colle sole mie forze, non potrò scrivere che poche (rade) rime elaborate con grande studio e fatica (operose), le quali non basteranno a sfogare le mie pene amorose• (FORNACIARI). La litote malponno vale ccnon possono". Vedi ORAZIO, Od., IV, 2 1 31-2: • [•••] operosa, parvus / carmina fingo•; TASSO, 111, [764] 265, 9-10: • [•..] ove più rare / tenti le rime far [...] •· L'inadeguatezza della poesia, nella fattispecie, è ribadita anche da ALFIERI, Rime, cxxxix, 1-4: •Chi 'l disse mai, che nell'assenza ria/ dal caldamente amato unico oggetto, / (cosa, cui spesso è l'amatore astretto) / alle Muse il servir sollievo sia ?•· [XII] Pubblicato dapprima nel «Nuovo Giornale dei Letterati» e Il collocato in seconda sede, dopo Non so,i chi fr1i; perì di 11oi gra11 parte, e prima di Te n11drice alle mllse, ospite e Dea, Che stai? già il secol l'orma ultima lascia nella stampa milanese del Destefanis delle Poesie venne dislocato in ultima sede, per imporre alla materia biografica della collana dei precedenti sonetti il suggello della scadenza secolare. L'inclusione nella successiva ristampa del Nobile di U11 dì, s'io 110n a11drò sempre fuggendo, contemplando la data di morte del frate1lo Giovanni (8 dicembre 1801), alterò l'organicità del primitivo disegno, contemporaneamente introducendo un elemento di contraddizione tra i vv. 13-4 e i corrispondenti di Né piri. mai toccherò le sacre sponde (su tutto ciò vedi alle pp. 166-7 la nota introduttiva alle Poesie). Il termine post quem di composizione del sonetto coincide dunque con l'ultimo dell'anno 1799, mentre il termine ante quem è costituito dalla data 11 agosto, 1802 » apposta in calce alla dichiarazione foscoliana stampata nel verso del frontispizio dell'edizione pisana del 1803 (per la quale vedi a p. 159 la nota introduttiva alle Pnesie). Ma il termine a11te quem potrebbe venire ulteriormente rialzato, sulla scorta della lezione definitiva dell'ultima terzina. Ne11a forma in cui si legge nella stampa Destcfanis del 1803, essa presuppone infatti la mediazione del sonetto alfieriano Lunga è l'arte e sublime, il viver breve, di cui il Foscolo poteva avere notizia solo dopo la pubblicazione delle Rime dell'astigiano nel terzo volume delle Opere varie filosofico-politiche, in prosa e i11 versi di VITTORIO ALFIERI da Asti, Parigi, Presso Gio. Claudio Molini, 1800-1801, voli. 4 (voll. 1-2, 1800; voli. 3-4, 1801). Ciò che ancora torna a vantaggio della credibilità dell'indicazione cronologica offerta dal contesto. Strutturalmente affine a Te nudrice alle muse, ospite e Dea, Perché taccia il rumor di mia catet1a, E tu ne' carmi avrai perenne vita (con il quale nella lezione delle stampe milanesi ha anche in comune lo schema metrico), Che stai? già il secol l'orma ultima lascia è però tematicamente e formalmente prossimo a Non son chi fui; peri di 11oi gran parte, e, conseguentemente, a Solcata ho fronte, occhi incavati i11te11ti, con i quali, all'interno delle Poesie, si trova a rappresentare la fase più strettamente imparentata con l'impresa stilistica dcli'Alfieri tragico e, successivamente all'edizione Molini delle Rime, lirico, al cui ambito, e in omaggio ad un criterio di omogeneità stilistica si deve se l'originale, vistosa ascendenza dcllacasiana dell'ultima terzina viene sostituita, nella stampa Destefanis, dal sicuro modulo alfieriano, in accordo con l'inequivocabile accento della strofe precedente, chiaramente indiziabile, sulla scorta del v. 10, di una precisa paternità. Ciò che poteva darsi grazie alla mescidazione di registri stilistici che l'Alfieri aveva operato nel linguaggio delle tragedie attingendo all'archetipo della tradizione lirica nazionale, cui anche pare imputabile se il presente sonetto, in virtù della mediazione di cui sopra, si distingue finalmente per l'assenza di e11jambeme11ts, e se gli altri che gli si avvicinano, segnano le più basse frequenze riscontrabili nella compagine dei componimenti di tal metro (ai due casi di No11 son clii fui; perì di noi gran POESIE (1803) 247 parte, vv. 3-4 e vv. 7-8, e all'unico di Solcata ho fronte, occhi incavati i11tenti, vv. 12-3, va aggiunto quello dei vv. 13-4 di Che stai? già il secol l'orma ultima lascia: «questa [...] / larva•, così come risulta nella stampa pisana, e nel quale sarà da riconoscersi, in un contesto, tra l'altro, fondamentalmente dominato dall'influenza del Della Casa, l'abitudine foscoliana di sottoporre a enjambement il nesso aggettivo dimostrativo-sostantivo; e vedi a p. 243 la nota introduttiva a Pu, tu copia versavi alma di canto). METRo: sonetto: ABBA, ABBA, CDC, EDE. POESIE [XII] Che stai? già il secol l'orma ultima lascia; dove del tempo son le leggi rotte precipita, portando entro la notte quattro tuoi lustri, e obblio freddo li fascia. Che se vita è l'error, l'ira, e l'ambascia, troppo hai del viver l'ore prodotte; 4 1-4. Che . .. fasci.a: perché indugi? il secolo decimottavo, personificato, or ora (già), ha mosso l'ultimo passo, lasciando l'ultima traccia di sé, precipitando quindi nell'abisso deWetemità. Nota il FERRARI: 11 Il concetto, credo, è rappresentato al modo che già nel Parini, personificando il secolo e ponendolo a guida di un cocchio: Per l'inclita Nice 97: " ... il secolo / ... / arde già gli assi, l'ultimo / lustro già tocca, e scende / ad incontrar le tenebre / onde una volta pargoletto uscì": ove è pure da osservare che il pariniano scende Ad incontrar le tenebre può aver suggerito il foscoliano portando entro la notte, v. 3 11. Si segnala che l'ode pariniana fu parimente pubblicata da Angelo Dalmistro nell'cr Anno poetico ossia Raccolta annuale di poesie inedite di autori viventi», 111, Venezia, Dalla Tipografia Pepoliana, I 795. I. Che stai?: oltre a Tieste, atto I, scena 11, 150, a p. 55: •[...]A che ti stai?11, atto III, scena 111 1461 a p. 75: 11che più si sta?[...]»; atto 1111 scena 11, 2181 a p. 77: 11(••• ] Che stai?11; atto IV, scena 111 91, a p. 83: cc A che ti stai [...] ,,, vedi Ai novelli repubblicani, 60-1 1 a p. I 37: • voce da l'imo seno / trasse e gridò: Che stai?,,, e CERRETTI, I, Per nozze della Buonvz"si, lucchese, 67: n Sorgi dunque; a che stai? [ ••• ] 11, 2. dove . .. rotte: nota il CASINI: e In grembo all'eternità, che sfugge alle leggi e determinazioni del tempo 11; le leggi rotte: vedi DANTE, Purg., 11 46: a Son le leggi d'abisso così rotte?"· E anche i vv. 313-22 della Bellezza dell'Universo del MONTI, citati in nota ai vv. 17-22 dei Sepolcri, a p. 295. 3. precipita: vedi PARINI, Il brindisi, 1-4: 11Volano i giorni rapidi / del caro viver mio: / e giunta in sul pendio / precipita 1•età •; FANTONI, 1111 Per le nozze di Lorenzo Sangiantoffetti e Lllcrezia Nani, 99- 100: •Ma già fra gli astri l'umida/ notte precipita•; notte: vedi Sepolcri, 17-81 alle pp. 294-5: «[ •••] e involve / tutte cose l'obblio nella sua notte"· Nota il TREVISAN: • Il concetto è simile a quello dell'Ossian (La notte): "Sì passerem pur noi: profondo oblio / C'involgerà [...]" ». 4. qllattro ... lustri: essendo il Foscolo nato nel 1778, l'espressione ha valore approssimativo. Vedi PARINI, Il pericolo, 21-3: e Ecco me di repente, / me stesso, perl•undecimo / lustro di già scendente•; obblio ... fascia: la giovinezza è svanita nell'abisso dell'eternità (vedi il v. 2), e su di essa è steso il velo gelido della dimenticanza. E vedi la nota al v. 3, la nota al v. 18 dei Sepolcri, a p. 295, e il v. 231, a p. 321: •il tempo con sue fredde aie vi spazza». 5-8. Che ..• lascia: a Se l'errore, l'ira e il travagliarsi infruttuoso dell'animo frn vane passioni è vita, egli esagitato da tante ire e da tanti affetti non sempre degni, ha vissuto anche troppo: ma se vita è l'amore del prossimo e la serena operosità, ~on ha ancora fatta cosa veruna che valga• (FALORSI). Per Che se vedi a p. 207 la nota al v. 5 del sonetto Non son chi fui; perì di noi gran parte. 6. l'ore prodotte: nota il FERRARI: a.Produrre è adopera- POESIE (1803) or meglio vivi, e con fatiche dotte a chi diratti antico esempi lascia. Figlio infelice, e disperato amante, e senza patria, a tutti aspro e a te stesso, giovine d'anni e rugoso in sembiante, 8 u to nel senso latino di Protrarre, e in questo senso si citano esempi in prosa nel Trecento; in poesia si cita un esempio dell'Ariosto (Fur. XXIX 20-1): "e a tutta l'opra e n tutti quei misteri/ si trova ogn'or presente il Re d'Algieri, / che producendo quella notte in giuoco ...,,. Meglio ricordare il Parini Giorno, Mattino [v. 67]: " ... oltre più assai / Producesti la notte"•· 7. fatiche dotte: opere di carattere storico ed erudito, come La chioma di Berenice (1803) starà di lì a poco a confermare. 8. a ... antico: vedi DANTE, Par., XVII, 119-20: •temo di perder viver tra coloro/ che questo tempo chiameranno antico•· 9. Figlio infelice: in quanto orfano di padre, e separato dall'esilio dalla madre; disperato amante: l'allusione interessa probabilmente Isabella Rondoni, che stava per andare sposa al Bartolommei. 10. e ... patria: Venezia, ceduta ali'Austria con il trattato di Campoformio (1797); a te stesso: vedi il sonetto Solcata ho fronte, occhi incavati intenti, 8, a p. 228. Il modello è PETRARCA, Rime, LIII, 101: • pensoso più d'altrui che di se stesso»; LXXII, 27: 11a me noioso et grave•; CXXXI, 13: 11non rincresco a me stesso [•••] 11; da cui GIUSTO DE' CONTI, Arder la notte, ed agghiacciare al Sole, 7: •aver me stesso più ch'nltri a dispetto»; BEMBO, CXLII, 133: «tal ch'a noia e disdegno ebbi me stesso•; CLIII, 10-1: aor ho tutt'altro e più me stesso a noia, / anzi a disdegno[...] •; DBLLA CASA, son. VIII, 8: • [...] ivi a te stessa [cura] incresci•; canz. IV, 7: • tal che 'n odio e 'n dispregio ebbi me stesso 11; FRUG0NI, I, son. LIV, 8: •[...] ove a te stesso incresci »; ALFIERI, Sa11l, atto 11, scena I, 40: • [...] a me stesso incresco ognora, e altrui•; Congiura de' Pazzi, atto v, scena I, 22-3: • [...] Ogni uomo io sfuggo, il vedi;/ ed a me stesso incresco»; Man·a Stuarda, atto v, scena I, 94: •funesta altrui, come a te stessa•; Timoleone, atto 111, scena IV, 76-7: • [...] altrui noioso, / insoffribil a te [...] •· 11. rugoso in sembiante: nel senso di "vecchio d'aspetto" come in FoscoLo, Odi, I, 23-4: • [...] domani dietro / vedrem sorgiungerci del tempo tetro / i di rugosi• (Edizione Nazionale, 11, p. 263). E variante di Solcata ho fronte del sonetto autobiografico. POESIE che stai? breve è la vita, e lunga è l'arte; a chi altamente oprar non è concesso fama tentino almen libere carte. 12. breve . .. z,a,te: vedi ALFIERI, Rime, cucxxv11, 1: «Lunga è l'arte e sublime, il viver breve», a sua volta derivante dal primo aforisma di Ippocrate: 'O (3(oc; (3p~xuc;, Y) 8è TÉX.VlJ µ~xp1) (vita brevis, ars lo11ga). I vv. 12-4 in P suonavano: 11 Che stai? né sicgui ornai che t'è concesso / questa che è duce alle incerte tue piante / larva di gloria? E già morte t'è appresso», con esplicito rimando, poi soppresso, a DELLA CASA, son. XIII, 10: a[...] e morte ebbi dappresso,,. 13-4. a chi . .. carte: alfierianamente, scritti affrancati da soggezioni tiranniche. Nota il TREVISAN: «pensiero che riapparirà ne' Sepolcri (49) con questa espressione: 'di liberal carme l'esempio (Sepolc. v. 49)' ». E vedi ALFIERI, Del Pri,icipe e delle Lettere, II, s: 11 Il dire altamente alte cose è un farle in gran parte» (NATALI). LA CHIOMA DI BERENICE (1803) NOTA INTRODUTTIVA Abbandonato il progetto di traduzione del De rerum natura (e vedi nel tomo II la nota introduttiva ai Frammenti su Lucrezio), cui pare il poeta avesse messo mano nel gennaio del 1803 (vedi Epistolario, 1, p. 170), l'interesse per il volgarizzamento e il commento del poemetto callimaco-catulliano era così motivato dal Foscolo nella dedica deWopera a Gio. Battista Niccolini (30 luglio 1803): •Né mi sarei accinto a farla da commentatore se in questa infelice stagione non avessi bisogno di distrarre come per medicina la mente ed il cuore dagli argomenti pericolosi a' quali attendo per istituto. Così Catullo sebbene per la tristezza allontanato dalle vergini Muse, tentava nondimeno l'obblio della sua sciagura, traducendo per Ortalo questo medesimo poemetto. E me pure confortò la brevità di questi versi; e mi strinse la loro meravigliosa bellezza. Non credo che l'antichità ci abbia mandata poesia lirica che li sorpassi, e niuna abbiano le età nostre che li pareggi. Però dopo averli illustrati, come io so, mandandoli a te, intendo di mandarli, senza lusinga di gloria, a tutti i giovinetti tuoi pari, come tentativo del metodo di studiare i classici, sole fonti di scritti immortali» (La chioma di Berenice, Milano, Dal Genio Tipografico, 1803, pp. 4-5). L'infelicità della stagione, da cui poi discendeva la necessità di distogliere «come per medicina la mente ed il cuore dagli argomenti pericolosi» ai quali il poeta doveva, « per istituto», attendere, veniva poi chiarita dal rinvio in nota al v. 42 del libro primo del De renl1n natura. Rivolgendosi a Venere, potenziale mediatrice di pace per i Romani presso Marte, Lucrezio infatti confessa: «Nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo / possumus aequo animo [...] >> (vv. 41-2). È probabile che oltre al travaglio della patria denunciato dal Foscolo l'anno avanti nell'Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione (composta ad istanza del ministro della Guerra tra il dicembre del 1801 e il gennaio del 1802, una volta soppressa nell'agosto del 1801 la Commissione per la compilazione del Codice militare italiano), e nell'Ortis (pubblicato nell'ottobre del 1802), la citazione del passo lucreziano alludesse soprattutto ai preparativi militari di invasione dell'Inghilterra, intensificatisi dopo la rottura della pace di Amiens, nel maggio del 1803, e dei quali era anche cenno ai vv. 71-2 dell'ode Alla amica risanata (e vedine la nota introduttiva, a p. 188). Del resto, se riesce difficile determinare con esattezza la natura degli cc argomenti pericolosi » cui, «per istituto », il poeta attendeva nel tomo di tempo nel quale lavorava al volgarizzamento e al commento della Chioma, non va trascurato che, 254 POESIE prima di ottenere la nomina di capitano di fanteria, destinato cc a essere jmpiegato in qualità di ufficiale di corrispondenza presso lo Stato maggiore della Divisione italiana in Francia» (Epistolario, I, p. 430), di stanza a Valenciennes, con decreto del 22 aprile 1804, il Foscolo, degradato da capitano aggiunto, per e, illegalità di titolo l1, da un giurì che aveva il compito di verificare la validità dei titoli, nonostante le pressanti richieste, l'appoggio influente di personalità quali Pietro Teulié, e la benevolenza di Francesco Melzi d'Eril, non riuscì a far valere le proprie ragioni, affinché cessasse la sua posizione di "indeciso", anche se, proprio grazie al Melzi, gli fu possibile ottenere la «continuazione del soldo nella qualità di capitano aggiunto,, (su tutto ciò vedi Edizione Nazionale, VI, pp. LXXIV-LXXV). Conclusa nei primi mesi del 1803 la relazione con Antonietta Fagnani Arese (e vedi a p. 188 la nota introduttiva all'ode Alla amica risa11ata), fallito il tentativo di far parte delle legazioni italiane di Parigi e di Toscana, nelPincertezza della propria qualifica, non è dubbio che il Foscolo, grazie a un'opera che si presentava con i caratteri esterni del contributo erudito, intendesse procurarsi i titoli necessari per aspirare con qualche concreta possibilità di successo al conseguimento di una cattedra. Ciò che anche sospettava Melchiorre Cesarotti, il quale, in lettera a Giustina Renier Michiel, del 12 dicembre 1803, scriveva: «Chi dubitasse ancora se Foscolo fosse pazzo, Callimaco potrebbe convincerlo. Non è questo un bel pendant al suo Ortis. Dopo aver assaporato tutta la dolcezza del suicidio, eccolo risuscitato pedante. Dico ciò senza averlo letto, giacché non si fa un tomo sopra Callimaco senza pedanteria poca o molta, e questa era l'ultima delle stravaganze. Ma forse egli mira a qualche cattedra, e dopo essersi ammazzato in stampa, ha voglia di vivere meglio che può n (vedi F. G. DE W1NClv omne genus pereat! 48 Et qui principio sub terra quaerere venas institit, ac ferri fingere duritiem. 50 Abiunctae paullo ante comae mea fata sorores lugebant, quum se Memnonis Aethiopis 52 unigena, impellens nutantibus aera pennis, obtulit Arsinoes Locridos ales equus. 54 Isque per aetherias, me tollens, advolat umbras, et Veneris casto conlocat in gremio. 56 Ipsa suum Zephyritis eo famulum legarat, grata Canopiis incola litoribus, 58 scilicet in vario ne solum limite caeli ex Ariadneis aurea temporibus 6o LA CHIOMA DI BERENICE (1803) 271 e con le navi per lo mezzo Athos nuotò la gioventù barbara. Tanto al ferro cede! or che poriano i crini ? Tutta, per Dio! de' Calibi la razza 6o pera, e le vene a sviscerar sotterra e chi a foggiar del ferro la durezza a principio studiò. - Piangean le chiome sorelle mie da me dianzi disgiunte i nostri fati, allor che appresentosse 65 rompendo l'aer con l'ondeggiar de' vanni dell'Etiope Mennone il gemello destrier d'Arsinoe Locriense alivolo: ei me per l'ombre eteree alto levando vola, e sul grembo di Venere casto 70 mi posa: ch'ella il suo ministro (grata abitatrice del Canopio lito) Zefiritide stessa avea mandato perché fissa fra' cerchii ampli del cielo la del capo d'Arianna aurea corona 75 57. Athos: il monte più alto a ponente dell'isola di Lemno («Trascorre in mare tra il seno Strìmonio e Singitico », A. CONTI, op. cit., p. CCCLIV). 60. Calibi: « I Dattili Idei, ed i Coribanti furono i primi che in Europa estraessero dalle miniere il ferro, e lo lavorassero; il calibe è l'acciaio. CONTI» (FoscoLo, op. cit., p. 103)., 67. dell'Etiope .•. gemello: Zefiro fratellastro di Memnonc, in quanto l'Aurora da Astreo generò i venti e da Titone Mcmnone ed Emazione. Osserva A. CONTI, op. cit., p. CCCLV, che Zefiro è detto figlio dell'Aurora «perché questa nascendo comincia ad increspare leggermente le onde 11. 68. destrier ... alivolo: «Berenice moglie di Tolomeo Lago, ed Arsinoe sorella e moglie di Filadelfo furono indiate, ed associate a Venere [...]. Zefiritide dunque Arsinoe, e Venere sono una stessa persona la quale ha Zefiro, idoleggiato cavallo alato, per ministro, e chiamasi Locride, perché il tempio di lei era nel mare posseduto un tempo da' Locri,, (FOSCOLO, op. cit., p.113). 69. ombre eteree: «Per i>aere ombroso dalle tenebre notturne. La chioma essendo stata rapita di notte» ecc. (FoscoLO, op. cit., p. 114). 70-1. e sul grembo ... posa: «Perché tutto ciò ch'era tocco e palpato da Venere acquistava l'immortalità 11 (FoscoLo, op. cit., p. 114). E vedi Sepolcri, 179, a p. 315: « rendea nel grembo a Venere Celeste 11, 71-2. grata ..• lito: rettificando quanto affermato in precedenza ne1PArgome11to, il FoscoLo, op. cit., p. 1161 scrive: « Ho sbagliato io scrivendo nelrargomento che la chioma fu appesa al tempio di ·venere Zefìritide. Quel tempio era nel promontorio; e qui si parla d'Alessandria dove fu appesa la chioma, come quella che era stata abitatrice e regina del lito d'Alessandria, e grata al culto degli Egi:rii ». 72. Canopio lito: «Canopo era luogo di delizie per gli Egizii [...]. Dov'era Canopo è n' nostri tempi Abouckir nobilitato dalle ultime guerre nell'Egitto» (FoscoLo, op. cit., p. 117). 75. la del ca- POESIE fixa corona foret; sed nos quoque fulgeremus devotae flavi verticis exuviae. 62. Uvidulam a fluctu, cedentem ad tempia Deum, me sidus in antiquis Diva novum posuit. 64 Virginis et saevi contingens namque Leonis LA CHIOMA DI BERENICE (1803) sola non fosse. E noi risplenderemo spoglie devote della bionda testa. Onde salita a' templi de' Celesti ruggiadosa per l'onde, io dalla Diva fui posto fra gli antichi astro novello. Però che della Vergine, e del fero 273 8o po .•. corona: Arianna figlia di Minosse, dopo essere stata abbandonata da Perseo, divenne sposa di Bacco, il quale trasferì la corona impostale tra le stelle. Alla corona di Arianna il FoscoLo, op. cit., pp. 204-5, dedicò la Considerazione Xl, Corona d'Arianna. 78. templi de' Celesti: il FoscoLo, op. cit., p. 121, nota: «I cieli. = Il cielo si chiama tempio perché secondo gli antichi le stelle erano Dei, anzi queste al dir di Platone furono i primi Dei che si adoravano da' primi popoli. CONTI 11. E vedi Sepolcri, 44, a p. 298: «fra 'l compianto de' templi Acherontei 11. 79. ruggiadosa per l'onde: abbandonando la lezione della volgata «uvidulam a fletu 11 ( a umidiccia di pianto»), a quella sostenuta dallo Scaligero • a flatu », «dal fiato soai•e e r11giadoso di Zefiro» (op. cit., p. 120), il FoSCOLO (ivi) antepone l'altra, difesa dal Vossio, a fiuctu, producendo le ragioni da quello avanzate a suo supporto: « Ut animae defunctorum antequam ad campos elysios, aut sedes superas penetrarent, oceanum transire credebantur, ita quoque Callimachus fingit comam roscido oceani aere madentem in coelum esse delatam » ecc. Ruggiadosa, come forma caratteristicamente foscoliana, ritorna anche nei Frammenti di rm romanzo autobiografico, v, qui a p. 550, e nell'Ortis (1802), qui a p. 586. Relativamente all'artificio del poema dal v. 63 al v. So il FoscoLo, op. cit., pp. 121-2, nota: «L'autorità d'un astronomo, i meriti e la passione di Berenice, le vittorie di Tolomeo fanno credibile la apoteosi della chioma sacrificata. Dopo le ragioni il poeta dipinge i mezzi. Si giova quindi come tutti i poeti della possanza de' Numi che accrescono il meraviglioso e lo fanno più.verisimile. Ma fra gli Dei egli sceglie quello che esce per così dire dalle viscere dell'argomento. Arsinoe che precedé Berenice sul trono è la Venere che fa trasportare la chioma in cielo. S'apre quindi una strada per condurre la fantasia del lettore fra gli idoli con cui si rappresentano i venti e Zefiro principalmente, richiama alla mente il tempio del promontorio Zefirio, la ricordanza d'Arsinoe per le delizie d'Alessandria, e la riconoscenza del culto degli Egizii, i quali potessero quindi desumere che se una delle regine era Dea, poten la chioma dell'altra, pietosamente sacrificata, essere annoverata fra gli astri. La corona d'Arianna tende con l'antico esempio a fare più credibile la nuova metamorfosi •· 81-5. Però che ... lava: pertanto toccando la costellazione della Vergine e del feroce Leone, presso alla Licaonia Callisto, volgo al tramonto e sono di guida al lento Boote che a stento, tardi giunge a tuffarsi nel profondo Oceano. 81. Vergine: secondo i Greci, Erigone figlia di Icaro, trasferita da Giove in ciclo (nota A. CONTI, op. cit., p. CCCLVI: a ma questa costellazione nella sua origine era Egizia, e la spica dimostra che ella era l'immagine di Cercre, o d'Iside»). 81-2.Jero/Leon: nel Discorso Terzo, Di Conone, e della Costellazione Bere11icea, il FoscoLo, op. cit.1 p. 47, qui nel tomo 11, osserva che la costellazione berenicea «Ha la Vergine a mezzogiorno,· all'oriente Boote, tocca all'occidente la coda del Leone. Nella fascia del zodiaco che cinge il globo mondano preposta dal 2 74 POESIE lumina, Callisto iusta Lycaonidi, 66 vertor in occasum tardum dux ante Booten qui vix sero alto mergitur Oceano. 68 Sed quamquam me nocte premunt vestigia Divum, luce autem canae Tethyi restituor: 70 LA CHIOMA DI BERENICE (1803) Leon toccando i rai, presso Callisto Licaonide, piego all'occidente duce del tardo Boote cui l'alta fonte dell'Oceàno a pena lava. Ma la notte perché degli Immortali mi premano i vestigii, e l'aurea luce indi a Thety canuta mi rimeni, 275 85 Vico alla scienza nuova compariscono in maestà i soli due segni del Lione simbolo de' tempi erculei nell'età del mondo eroico, e della Vergine simbolo dell'aurea età di Saturno, la prima celebrata nelle storie poetiche». 82. presso: dalla più tecnica lezione della volgata: «iuncta li («compiuta») il Foscolo torna alla lezione già sostenuta dal Vossio e dal Volpi: iusta. 82-3. Callisto/Licao11ide: «La chioma di Berenice è poco lontana dall'Orsa maggiore; la favola di questa costellazione è una delle più passionatamente descritte da Ovidio nel II delle metamorfosi. Era figliuola di Licaone re d'Arcadia, e seguace di Diana; fu violata scaltramente da Giove, cacciata da Diana, e convertita in orsa da Giunone gelosa. Errando per le foreste, Arcade figliuolo di lei avuto da Giove, volle, non conoscendola, ucciderla. Per pietà fu convertita in costellazione 11 (FOSCOLO, op. cit., p. 123). 84. tardo Boote: figlio di Callisto. Osserva il FoscoLo, op. cit., p. 124: •Tutti i poeti dopo Omero [...] concorrono nel nome di tardo [..•]. Diffatti è uno degli ultimi che si veda a tramontare». Relativamente all'artificio del poema dal v. 81 al v. 85 il Nostro nota: a Descrive con esattezza astronomica e secondo le più antiche tradizioni gli asterismi che circondano la chioma: onde s'accresce la verità della traslazione. La mente del lettore è piena delle storie di tante stelle ch'erano prima persone mortali, e diviene meno ritrosa a concedere lo stesso onore a Berenice; tanto più che il poeta descrive già le sue fasi. Ei wole stringere i lettori a dubitare quale si fosse più onore per la chioma, se il risplendere sul capo della regina o fra le stelle; onde così si tempri lo stupore che potrebbe far sospettare di finzione e l'astronomo ed il poeta. Perciò la chioma raccontando l'onore a cui viene ascritta, si cruccia della lontananza dal capo della regina. Il che si vedrà ne' versi seguenti» (op. cit., p. 127). 86-8. 1l1a la notte •.. rimeni: ma sebbene mi premano di notte le orme degli dèi, e la luce mi restituisca alla canuta Teti. Relativamente ai vv. 69-70 del testo latino, il FoscoLo, op. cit., p. 128, nota: «Questo distico a me pare assai bello: l'esametro è tutto omerico fino nella giacitura delle parole e nel suono. L'immagine riesce più sublime appunto perché è men adorna di parole. È più elegante in Virgilio ma non grande egualmente. Ca11didru i,isuetmn miratur lime11 olympi, Sub pedib1u videt nubes et sidera Daplmis. Di questa differenza dal bello al grande vedi nella sezione xxxv di Dionisio Longino unico autore da leggersi fra tutti gli istitutori di eloquenza». 88. T/rety canuta:• Non è questa la Theti madre di Achille, come tale interprete scrive, che male le starebbe l'epiteto di cn,mta. [..•] Né Callimaco ed il suo traduttore Latino la chiamano ca,mta per la ragione che la spuma del mare è detta canuta. Invenzione è questa de' poeti raffinati; non mai de' Greci che danno bensl attributi agli Dei personificati tratti dalle cose naturali; ma non danno mai al mare ed agli effetti naturali non personificati, metafore traslate dalle persone• (FoscoLo, op. cit., pp. 129-30). E ancora, POESIE (pace tua fari hic liceat, Rhamnusia Virgo, namque ego non ullo vera timore tegam; 72 non si me infestis discerpant sidera dictis condita quin veri pectoris evoluam) 74 non his tam laetor rebus, quam me abfore semper, abfore me a dominae vertice discrucior; 76 quicum ego, dum virgo quondam fuit, omnibus expers unguentis, myrrhae millia multa bibi. 78 Nunc vos, optato quas junxit lumine taeda, non prius unanimis corpora coniugibus 80 tradite, nudantes, reiecta veste, papillas, quam iucunda mihi munera libet onyx. 82 LA CHIOMA DI BERENICE (1803) 277 (e con tua pace, o Vergine Rannusia, il pur dirò: non per temenza fia che il ver mi taccia, e non dispieghi intero lo secreto del cor; né se le stelle mi strazin tutte con amari motti) non di tanto vo lieta ch'io non gema d'esser lontana dalla donna mia 95 lontana sempre( Allor quando con ella vergini fummo, io d'ogni unguento intatta, assai tesoro mi bevea di mirra. O voi, cui teda nuzial congiunge nel sospirato dì, né la discinta 100 relativamente alla grafia, nota: «Frattanto quei che leggono i greci tradotti, denno a forza confondere Tethy e Theti; [.•.] Or a me pare che s'abbia ad ubbidire più a' primi padri ed alla ragione, che a gramatici e all'uso. Quella è più bella lingua che è più evidente e più armoniosa; ed è più evidente quanti ha meno equivoci, e più armoniosa quanto ha più suoni. Onde scrivo Athos, Tethy, e pronunzio Chalcidico » (op. cit., pp. 130-1). 89-96. e con tua pace . .. sempre: «Tutto il lamento della chioma per l'abbandono del regio capo mira a far sentire maggiore il sacrificio, e quindi più meritevole la regina dell'onore concesso a lei da' Numi. Il lamento incalza sino ad anteporre il primo stato all'apoteosi; e per fare più verisimile questo desiderio la chioma affronta sino l'ira di Nemesi Dea punitrice degli arroganti» (FOSCOLO, op. cit., p. 133). 89. Vergine Ra,znusia: Nemesi. Nota il FOSCOLO, op. cit., p. 133: • Nemesi fu regina di Rannute terra dell'Attica così chiamata da' boschetti di Ranno [...J. I poeti poi favoleggiarono che Giove amò Nemesi. Altri la chiamarono figlia di Giove e della dea N ccessità; e fu il simbolo delle umane vicissitudini. Erano quindi notati gli iniqui detti de' potenti da Nemesi che si vendicava umiliandoli». 96-8. Allor •.. mi"a: preferendo alla lezione della volgata • una millia multa bibi 11 (« insieme bevetti molte migliaia 11), myrrhae millia multa bibi, sostenuta dal Voss, dal Volpi e dal Walckenaer, il FoscoL0, op. cit., p. 1381 conseguentemente parafrasa: «Con la quale mia donna quand'ella era vergine, io priva di tutti unguenti, ho bevuto assai tesoro di mi"a ». 99-104. O voi . .. libamenti: «Assicurata l'apoteosi della chioma fonda il poeta un culto a lei celebrato dalle spose pudiche; il che sì ritorce in lode di Berenice. [...] Le vergini dunque prima di abbandonarsi agli abbracciamenti dello sposo doveano sacrificare unguenti alla chioma. Così comincia il poeta ad istituire obbliquamente un culto a Berenice [...]. Or poiché la chioma fu recisa per l'amore coniugale di Berenice, Callimaco vorrebbe che le nove spose le sacrificassero unguenti e profumi come a Nume tutelare de' talami delle mogli pudiche u (FoscoLO, op. cit., pp. 140-1). 100-1. né la discinta ... mamme: «Cenno gentile e pieno di voluttà sopra le vergini quando per la prima volta concedono se stesse allo sposo. Niuno pudore è più amabile di quel di una vergine che si spoglia. Né veruna pittura può essere più amorosa di una bella donna mezzo ignuda 11 (FoscoLo, op. cit., p. 142). POESIE Vester onyx, casto petitis quae iura cubili. Sed quae se impuro dedit adulterio, 84 illius ah! mala dona levis bibat irrita pulvis; namque ego ab indignis praemia nulla peto. 86 Sic magis, o nuptae, semper concordia vestras semper amor sedes incolat assiduus. 88 Tu vero, regina, tuens quum sidera, divam placabis festis luminibus Venerem, 90 unguinis expertem non siveris esse; tuam me sed potius largis effice muneribus. 92 Sidera cur iterent? utinam coma regia fiaml Proximus Hydrochoi fulgeret Oarion. 94 LA CHIOMA DI BERENICE (1803) 279 veste conceda mai nude le mamme, né agli unanimi sposi il caro corpo abbandonate, se non versa prima l'onice a me giocondi libamenti; l'onice vostro, voi che desfate 105 di casto letto i dritti: ah di colei che sé alPimpuro adultero commette beva le male offerte irrita polve! Ché nullo dono dagli indegni io merco sia così la concordia, e sia ramore no ospite assiduo delle vostre sedi. Tu volgendo, regina, al cielo i lumi allor che placherai ne' dì solenni Venere diva, d'odorati unguenti lei non lasciar digiuna, e tua mi torna 115 con liberali doni. A che le stelle me riterranno ? O! regia chioma io sia e ad Idrocoo vicin arda Orfone. · 106-8. ah di colei ... polve: «La chioma per avere il sacrificio di tutte quante le nuove spose ricusa quello delle adultere. [...] È inutile il ripetere qui la infamia e le pene delle adultere e delle vergini viziate presso gli antichi. Licurgo solo non puniva l'adulterio. Ma Callimaco sapea che tutte non erano Veste, e Penelopi le Egiziane; ma tutte bensì affettavano castità. Si giovò della loro ipocrisia per adulare più finamente la regina, e per attirarle il culto di tutte le nuove spose 11 {FoscoLo, op. cit., pp. 143-4). J 12-6. Tu volge11do . .. do11i: «La chioma domanda di ritornare al capo della regina. Venere operò perch'clla fosse trasferita al cielo; Venere può operare che rieda all'amato capo. Qrlando tu o regina placherai Ve11ere ne' dì festivi non lasciarla priva d'wrguenti,· Ma pi11ttosto fammi tua nuovamente, per mezzo di do11i liberali 11 {FoscoLo, op. cit., p. 145). DEI SEPOLCRI (1807) NOTA INTRODUTTIVA In lettera ad Isabella Teotochi Albrizzi, da Milano 6 settembre 1806, il Foscolo scriveva: cc ritornato [dall'escursione in Valtellina e nel Bergamasco], stava sulle mosse per il Terraglio; io aveva già una Epistola sui sepolcri da stamparsi lindamente - non bella forse; non elegante, ma ch'io vi avrei certamente recitata con tutto rardore dell'anima mia, e che voi, donna gentile, avreste ascoltata forse lagrimando. Io la intitolo al Cavaliere [il Pindemonte] ricordandomi de' suoi lamenti e de' vostri; e per fare ammenda del mio sdegno un po' troppo politico)> (Epistolario, 11, pp. 142-3). Al Pindemonte tuttavia la notizia dell'impresa foscoliana riusciva nuova ancora alttaltezza del 6 novembre 1806, se poteva rispondere all'Albrizzi: cc Ciò che mi dite di un'Epistola di Foscolo a me diretta, e intitolata i Sepolcri, m'è affatto nuovo» (vedi C. ANTONA TRAVERSI, Studi e documenti sopra Ugo Foscolo, Bologna, Zanichelli, 1930, p. 210, dove è riprodotta la lettera del Pindemonte). Il 19 novembre 1806 era poi lo stesso poeta che pregava Mario Pieri: «Se scrivete al Cavaliere salutatelo in mio nome, e ditegli ch'io gli ho bella e preparata una Epistola sui Sepolcri lindamente stampata in carta velina, e con tutte le munditiae bodoniane» (Epistolario, 11, p. 146). Così che il Pindemonte, rispondendo al Pieri, il 9 dicembre 1806, lo invitava a significare al Foscolo la sua impazienza di ricevere l'Epistola (vedi C. ANTONA TRAVERSI, op. cit., pp. 189-90, dove è riprodotta la lettera del Pindemonte), dando però a vedere un interesse, oltre che inconsueto nel pacato Cavaliere, affatto comprensibile, ove si ricordi che lo stesso, sull'identico tema del carme foscoliano, tra la fine maggio e l'inizio del luglio 1806, aveva quasi condotto a termine un canto in ottave, primo di quattro di cui doveva constare il poema J Cimiteri (su tutto ciò vedi la Prefazione di C. ANTONA TRAVERSI, pp. XVIII-IX, in Dei. Sepolcri di Uoo FoscoLo, con note di C. Antona Traversi e G. A. Martinetti, Torino, Paravia, 1884). Come è noto il Foscolo, di ritorno da Venezia, fece visita al Pindemonte nei giorni 16-17 giugno 1806 (vedi la lettera ad Isabella Teotochi Albrizzi, Verona 16-17 giugno 1806, in Epistolario, n, p. 112), quando ancora quello non era in possesso della lettera nella quale Melchiorre Cesarotti, richiesto come d'abitudine da Ippolito di un giudizio circa il primo canto dei Cimiteri, e la tela del poema, oltre a consigliare di ridurlo prima a tre, e successivamente addirittura a due canti (a Il primo è toccante, ma quelle ombre parlanti a voi svegliate, e non ancora penetrate abbastanza del vostro soggetto, hanno troppo dell'inverisimile. Se vi parlassero in sogno non ci sarebbe che dire. Ciò mi fa pensare che i tre canti POESIE potrebbero ridursi a due: giacché non sarebbe punto strano che voi sempre sognando passaste dai lamenti dell'ombre ai Mausolei d'Egitto e ai funerali di Grecia >1)1 anche obiettava: aNon so poi se l'ottava rima sia il metro meglio scelto per un tal argomento» (la lettera del Cesarotti, riprodotta da C. ANTONA TRAVERSI, Prefazione, cit., p. XXI, pervenne al Pindemonte dopo il 7 luglio 1806, e prima del 14 dello stesso mese; su tutto ciò vedi i passi delle lettere del Pindemonte al Pieri, riprodotti in C. ANT0NA TRAVERSI, Prefazione, cit., p. XVIII). Stante l'assenza di precise notizie, non è forse azzardato supporre che all'altezza del 16-17 giugno 1806 'il Pindemonte avesse già inviato il manoscritto del primo canto dei Cimiteri al Cesarotti, e che questi glielo restituisse, unitamente al parere epistolare, dopo il 7 e prima del 14 luglio 1806, così che il debito del Nostro nei confronti del Pindemonte verrebbe ulteriormente a ridursi, riguardando al limite il soggetto, e la tela dello stesso, dei quali il Cavaliere avrebbe verbalmente messo a parte il Foscolo, come del resto esplicitamente risulta dalla lettera sopra citata del 6 settembre 1806 (quando i« lamenti>> di Ippolito non avessero investito semplicemente l'argomento, astenendosi cioè dall'entrare nel merito del progettato e parzialmente eseguito poema). Se, come non pare dubbio, la prima delle due redazioni dei Sepolcri pindemontiani in isciolti (le si veda in G. BIADEGO, L'origine dei Sepolcri di Ugo Foscolo, in Da libri e manoscritti, Verona, Milnster, 1883, pp. 240-61, unitamente ai Cimiteri, pp. 222-38), con la quale i Sepolcri foscoliani intrattengono rapporti oltre che di contenuto anche, e vistosamente, di forma (secondo illustrò C. ANT0NA TRAVERSI, Prefazione, cit., pp. XLIV-IX), si colloca posteriormente alla risposta sopra citata del Cesarotti, e prescindendo qui dal considerare se tali stesure non facciano addirittura parte dei versi indirizzati da Ippolito ad Ugo successivamente alla pubblicazione dei Sepolcri, altrettanto certo è che il Nostro, dopo il 16-17 giugno 1806, non ebbe più modo di incontrare il Pindemonte (vedi la lettera ad Isabella Teotochi Albrizzi, Mantova 22 luglio 1806, in Epistolario, II, p. 130, la lettera al Pindemonte, Milano 26 luglio 1806, in Epistolan'o, II, p. 137, e quella alla sorella Rubina, Milano 2 agosto 1806, in Epistolario, II, pp. 140-1, e la nota 1). Però non sembra lecito dubitare di quanto il Pindemonte stesso si premurò di affermare nell'avvertimento Al cortese lettore, preposto all'edizione dei suoi versi in risposta all'epistola foscoliana (Verona, Gambaretti, 1807): «Compiuto quasi io avea il primo canto dei Cimiteri, quando seppi che uno scrittore d'ingegno non ordinario, Ugo Foscolo, stava per pubblicare alcuni suoi versi a me indirizzati sopra i Sepolcri. L'argomento mio, che nuovo più non pareami, cominciò allora a spiacermi; ed io abbandonai il mio DEI SEPOLCRI (1807) • NOTA INTRODUTTIVA 285 lavoro. Ma leggendo la poesia a me indirizzata, sentii ridestarsi in me l'antico affetto per quell'argomento; e stesi alcuni versi in forma di risposta all'autor de' Sepolcri, benché pochissimo abbia io potuto giovarmi di quanto avea prima concepito e messo in carta su i Cimiteri». Del resto il Foscolo, di ritorno a Milano, dopo la visita al marchese, non attese immediatamente al carme, se il 27 giugno poteva scrivergli: cc Beato voi, amico mio! e me pure gradivano le vergini Muse, e anch'io sospiro la sacra solitudine; ma l'animo va invecchiando per le sciagure; e l'ingegno irrigidito, e le Grazie mute per me» (Epistolario, II, p. 119), e ancora al medesimo corrispondente, da Milano il 13 luglio 1806, confessare: «Il povero Ugo scrive non iniussa: carte topografiche, evoluzioni di battaglie antiche e moderne>> ecc. (Epistolario, 11, p. 125). Terminato il Comentario della battaglia di Marengo, cui sopra si allude (e vedi la lettera ad Isabella Teotochi Albrizzi, Milano 13 luglio 1806, in Epistolario, II, p. 127), ad una lettera del Pindemonte del 20 luglio 1806 (la si veda in Epistolario, 11, pp. 129-30), in cui è menzione del poema del Foscolo sui cavalli, e di cui sarà stata fatta parola nell'incontro veronese del 16-17 giugno, il Nostro replicava il 26 luglio, da Milano: «E qui mi trovai la lettera vostra, di cui vi ringrazio caldamente, perché vi piace di pensare a' miei cavalli. E quello stesso verso mi era assai volte venuto in mente [vedi Epistolario, II, p. 129]; e più a Venezia, ove vidi un quadro di Tiziano che simboleggia la contesa fra il Cavallo e l'Ulivo. Tanta è la materia poetica antica e moderna di questo argomento, ch'e' sarà più difficile di spenderla che di procacciarsela. Ora io comincio a pensarci davvero, ma mi bisognerebbero quattr'anni almeno di sacro ozio; perché ci vuole molto e molto studio per la scienza fisica del cavallo, e molte osservazioni sulle loro forme; e non è cosa da pigliare a gabbo. Pure se voi promettete di non attendere che all'Odissea, io farò sacramento di non leggere libro, né scrivere verso che non sia sacro al Dio l1t1tov&o>..l1to8cz Hipponaeque olida ad praesepia pictae» (Epistolario, II, p. 139). La stesura dei Sepolcri andrà dunque complessivamente ascritta al me.. se di agosto del 1806, se il 6 settembre il poeta poteva annunciare all'Albrizzi, come già riferito, di avere «una Epistola sui sepolcri da stamparsi lindamente ». Alla stessa il Foscolo lavorava però ancora intorno al gennaio del 1807, dimesso il progetto di stamparla non appena ultimata, dopo che il Bettoni gli aveva proposto di pubblicare i Sepolcri in un unico volume, unita~ente alla versione del primo canto dell'Iliade, e alle Poesie del 1803 (vedi la lettera ad Isabella Teotochi Albrizzi, Milano 27 dicembre 1806, in Epistolario, II, p. 159). Scriveva infatti il Monti in lettera del gennaio 1807: a Sotto l'occhio mi sono scappate fuori nella tua Epistola molte co- 286 POESIE sette, che stimo doversi migliorare. È un capo d'opera, il quale non deve lasciare alcun morso alla critica. T,aspetto adunque » ecc. (Epistolario di VINCENZO MONTI raccolto ordinato e annotato da Alfonso Berto/di, Firenze, Le Monnier, 111, 1929 p. 84). E che le proposte montiane fossero accolte nel testo ci è testimoniato dalla celebre lettera foscoliana del 13 giugno 1810, dove, tra l'altro, si legge: «Mi fu detto e ridetto che voi minacciavate di seppellire i n1iei Sepolcri; ma io ricordandomi, che non solo li avete lodati, ma mi avete esortato a stamparli, e persuaso a correzioni che ho fatte, non ho creduto>> (vedi nel tomo II la lettera 72, Lezione n 11). Il carme vide finalmente la luce a Brescia, per i tipi di Niccolò Bettoni, prima del 7 aprile 1807 (vedi la lettera a Isabella Teotochi Albrizzi [Brescia] 7 aprile 1807, in Epistolario, n, p. 189). Concepiti e realizzati nel giro cli poco più di un mese, i Sepolcri devono l'unicità stilistica che immediatamente provocò la scissione del campo. di apprezzamento in due settori distinti, e fortemente contrapposti, al partito retorico abbracciato dal Foscolo, e dallo stesso quasi sempre rigorosamente attuato, e così illustrato nell'avvertimento preposto alle Note ai Sepolcri: ,, Ho desunto questo modo di poesia da' Greci i quali dalle antiche tradizioni traevano sentenze morali e politiche presentandole non al sillogismo de' lettori, ma alla fantasia ed al cuore>> (qui a p. 328). Donde l'accusa di oscu.. rità, generalmente avanzata a carico del carme, ad opera di uomini di pur differente estrazione culturale, quali Bettinelli, Giordani, Monti, Pindemonte, Tommaseo, Torti, e concernente il legame della singola locuzione con l,articolazione logica del componimento. Nella Lettera a Monsieur Guill ... su la sua incompetenza a giudicare i poeti italiani (1807), in risposta alle censure di Aimé Guillon, pubblicate nel numero 173 del 22 giugno 1807 del «Giornale Italiano», il poeta infatti avvertiva: «Ella vede dalle mie note quanto ha sbagliato su' passi da lei citati; molto più dunque Sll la tessitura la quale dipende dalle transizioni. E le transizioni sono ardue sempre a chi scrive, e sovente a chi legge,· specialmente in ,ma poesia lirica, e d'un autore che, non so se per virtù o per vizio, transvolat in medio posita, ed afferrando le idee cardinali, lascia a' lettori la compiacenza e la noia di desumere le intermedie. Ma chi traintende le parole che hanno significato certo in se stesse, come mai potrà cogliere le transizioni formate da tenuissi.me modificazioni di lingua e da particelle che acquistano senso e vita diversa secondo gli acddenti, il tempo e il luogo in cui son colloca.. te? [...] Però l'estratto ch'ella ne fa non è, né poteva essere esatto. Piaccia/e dunque di leggerlo com'io lo darò [...]. L'estratto mostrerà come questo componimento, spogliato che si.a delle immagini dello stile e degli affetti, rimanga senza un'unica idea nuova. Ma il numero delle DEI SEPOLCRI (1807) • NOTA INTRODUTTIVA 287 idee è detenninato; la loro combinazione è infinita: e chi meglio combina meglio scrive» (Edizione Nazionale, VI, pp. 508-9; l'estratto foscoliano alle pp. 510-1, e per le polemiche suscitate dai Sepolcri, vedi le pp. 521-83). Che l'assenza di originalità delle idee costituenti la trama del carme, riscattata dalla novità della loro orditura, postulando l'adozione di un registro stilistico in cui la più ampia libertà di impiego delle «transizioni», veniva a coincidere con l'attuazione della competente norma istituzionale, passasse in seguito inosservata, comportò che il problema critico dei Sepolcri finisse fatalmente per vertere sulla loro disorganicità o, per converso, sulla loro unità. Così che al contrasto tra il professato materialismo e l'aspirazione idealistica, tra un linguaggio raziocinante e settecentesco ed un altro più tipicamente foscoliano, o più genericamente tra ragione e sentimento, furono volta a volta opposti, come motivi unitari, il sentimento relativo alla certezza, dolorosa, dell'immortalità terrena, l'unità tematica all'interno del discorso, l'organicità dell'esordio e della conclusione, la rispondenza dei temi in rapporto alla loro collocazione (all'immagine del tempo che tutto travolge si contrappone quella della poesia che ne vince l'azione, tramandando la memoria gloriosa dei grandi uomini) ecc. Ragioni tutte che, come esaurientemente osservò A. PAGLIARO, L'imità dei Sepolcri, in Nuovi saggi di critica semantica, Messina-Firenze, D'Anna, 1956, pp. 311-9, hanno il torto di ricercare aprioristicamente l'unità del componimento sul piano filosofico e linguistico, al di fuori dello stesso, trascurando cioè di verificare il rapporto semantico e stilistico intercorrente tra il registro prescelto dall'autore e lo svolgimento logico dell'assunto, così riassumibile: dal punto di vista oggettivo le tombe non valgono a scongiurare le vicende della materia, né a ciò pone rimedio la fede cristiana nella resurrezione dei corpi, poiché quanto esiste viene distrutto dal moto del tempo (vv. 1-22), mentre dal punto di vista soggettivo conta invece il fatto che, mediante la tomba, ciascuno è autorizzato ad illudersi di sopravvivere nell'affetto dei propri cari, partecipi di analoga illusione, cosi che solo chi è conscio di non lasciare dietro di sé alcun tributo di affetto, non desidera una sepoltura (vv. 23-50). La nuova legge, accomunando le tombe, ne viola il significato precipuo nella coscienza collettiva (vv. s1-90). Considerato infatti storicamente, il costume delle tombe non è altro che la resa istituzionale di tale dato di coscienza, caratteristico d'ogni società umana al suo uscire dallo stato ferino, comune a tutti i popoli civili, se pure diversamente configurato (vv. 91-103). Deprecabile è, per esempio, la consuetùdine di seppellire i morti nelle chiese; auspicabile quella che fa del cimitero un luogo d'incontro tra i vivi e i defunti (vv. POESIE 104-36). Dove tuttavia vi sia carenza di coscienza civile, e sole siano apprezzate le forme del vivere materiale, le tombe non hanno alcun senso, vv. 137-45 (alla propria è augurata una sorte differente, vv. 145-50). Ai sepolcri dei grandi, sulla scorta del valore oggettivo di cui sono storicamente investiti, compete di fungere da presidio del.. la tradizione che alimenta la nazione (Santa Croce, vv. 151-85). Ove debba individuarsi un luogo da cui trarre gli auspici in caso di riscatto nazionale, questo è Santa Croce. Li si recava Vittorio Alfieri, e la sua tomba suscita amore patrio. Sentimento che ai Greci era proposto dalle tombe dei caduti di Maratona (visione notturna della battaglia, vv. 186-212). Oltre che quale incentivo a che sia resa postuma giustizia dei torti ricevuti in vita (leggenda di Aiace, vv. 213- 25), la tomba vale soprattutto, e finalmente, a conservare le memorie cui s'ispirano i poeti per vincere l'azione del tempo (poesia etematrice, tomba di Ilo, eroismo di Ettore, vv. 226-95). Il carattere colloquiale dei Sepolcri, proprio al genere, e specifico dell'occasione particolare, così come il presupposto fine parenetico dell'interlocutore veronese, importano innanzitutto che il problema della validità delle sepolture venga esemplificato sul piano dialettico, piuttosto che su quello apodittico, e che la valutazione soggettiva dell'autore si ponga a concreto riscontro delle successive asserzioni e conclusioni da cui il processo logico si diparte, e a cui approda. Donde la struttura della compagine dei vv. 1-15, articolata in una doppia interrogazione, graduata in due momenti (vv. 1-3 e 3-15), secondo un calcolo di immediata accelerazione dell'effetto, conve.. niente al passaggio da una considerazione dubitativa, alla piena manifestazione del suo carattere pleonastico nei confronti di quanto di più estremo le si possa contrapporre, e cioè la vita, definita perifrasticamente attraverso il complesso degli allettamenti, con i quali essa si presenta al poeta. Il discorso viene quindi ricollocato sul piano oggettivo dalla constatazione dei vv. 16-22, in risposta a quanto avanzato ai vv. 1-3, dove l'intento apodittico implica che alla determinazione della proposta (vv. 16-7), faccia seguito l'attenuazione del nesso grammaticale, coordinante e dichiarativo, affidata alla congiunzione «e» del v. 17. Analoga struttura presentano i vv. 23-90; dove i vv. 23-5 corrispondono ai vv. 1-3, i vv. 26-9 ai vv. 3-15, e i vv. 29-40 ai vv. 16-22. Quanto asserito ai vv. 29-40, viene ulteriormente dettagliato (vv. 41-50), per porre in maggior risalto l'empietà della cc nuova legge" (vv. 51-3), resa immediatamente evidente alla «fantasia del lettore», che così: «vede la verità che non parla ma opera» (Lettera a Monsieur Guill . .. ecc., cit., p. 510), dalla raffigurazione del Parini insepolto (vv. 53-86), e conclusa da una sentenza (vv. 88-90), dalla quale trae spunto l'excursus storico delle forme della DEI SEPOLCRI (1807) • NOTA INTRODUTTIVA 289 pietà (vv. 91-150), cui compete di saldare la prima parte del carme, dedicata alla validità soggettiva del culto dei defunti, con la seconda, rivolta ad esaltare la portata storica e umana delle manifestazioni in cui tale pratica si traduce (vv. 1s1-295). Scriveva infatti il Foscolo: ,, Young ed Hervey meditarono sui sepolcri da cristiani: i loro libri hanno per iscopo la rassegnazione alla morte e il con/orto d'un'altra vita; ed a' predicatori protestanti bastavano le tombe de' protestanti. Gray scrisse da filoso/o,· la sua elegia ha per iscopo di persuadere l'oscurità della vita e la tranquillità della morte; quindi gli basta un cimitero campestre. L'autore considera i sepolcri politicamente; ed ha per iscopo di animare l'emulazione politica degli italiani con gli esempi delle nazioni che onorano la memoria e i sepolcri degli uomini grandi: però dovea viaggiare più di Young, d'Hervey e di Gray, e predicare non la resu"ezione de' corpi, ma delle virtù» (Lettera a Monsieur • Guill . .. ecc., cit., p. 518). METRO: endecasillabi sciolti. 19 DEI SEPOLCRI DEORUM • MANIUM IURA ·SANCTA• SUNTO• A IPPOLITO PINDEMONTE AIPombra de' cipressi e dentro l'urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro? Ove più il Sole • a Siano rispettati i diritti dei defunti» (gli dèi Mani, cioè le anime dei defunti, venerate come divinità inferiori). Vedi CICERONE, De leg., II, 9, 22. 1-3. All'ombra . .• d"ro?: il sonno della morte è forse meno duro, infrangibile, e cioè più sopportabile all'ombra dei cipressi, che solitamente adornano i camposanti, e dentro tombe consolate dal pianto dei superstiti? Il concetto si ritrova in germe in Thomas Gray: vedi Elegia inglese del signor TOMMASO GRAY sopra un cimitero di campagna trasportata in verso italiano dall'A[bate] M[ELCHIORRE] C[ESAROTII], Padova, Comino, I 772, vv. 65-70: 11 [ •••] Ah l'animato busto / o l'urna effigiata al primo albergo / può richinmar lo spirito fugace? / Può risvegliar la taciturna polve / voce d'onore? o adulatrice lode / il freddo orecchio lusingar di Morte?,, (GRAY, Elegy writte,i in a Country Church-Yard, 41-4: «Can storied um, or animated bust / back to its mansion cali the fteeting breath? / Can Honour's voice provoke the silent dust? / or Flatt'ry sooth the dull cold ear of Death?»; si cita dall'originale posto a fronte della traduzione del Cesarotti). G. ZANELLA, Gray e Foscolo, in« Nuova Antologia,,, xxv, 1febbraio 1881, p. 386, ritenne che l'esordio del carme derivasse dal Canto notturno di Thomas Pamell: 11 Dunque a che pro l'inanimata salma / vestir di bruno ammanto, e al non suo tetto / ombrar la porta di fcral cipresso». I. cipressi: sacri a Plutone, ornano le case dei morti, e vedi i vv. 114-7; urne: tombe. Presso gli antichi, vaso di terra cotta, o d'altro materiale, contenente le ceneri del rogo funebre (urna cineraria), da collocarsi nella camera sepolcrale; il termine, per estensione, ebbe quindi corrente applicazione per designare i sepolcri in generale. Vedi bz morte di Amaritte, I, a p. 39: aQui sorge un'urna, e qui in funereo manto». 2. confortate di pianto: consolate dal pianto dei superstiti. La metonimia riguarda urne per "tombe' ►, in quanto contenenti le ceneri dei defunti, alle quali è indirizzato il compianto. Il MARTINETTI osserva che «Il Foscolo, senza dubbio, pigliò tale immagine da Catullo: Si quidq"am nmtis gratu,n accept"mque sepulcris / accidere a nostro, Calve, dolore potest ecc., dove però avvertono i comentatori che sepulcris è per sepultis; ma anche Properzio: Desine, Paule, meum lacry111is tlTgere sepulcn,m, sebbene né sepolcri né sepolti lacrymis urgentur ». 3. duro: nel senso sopra indicato in nota ai vv. 1-3, sulla scorta dell'ascendenza virgiliana (Aen., x, 745-6: «olli dura quies oculos et ferreus urget / somnus [...] •) segnalata dal FERRARI («Come dicesse: Possono i sensi tornar vigili? destarsi?»); e vedi In morte di Amaritte, 24, a p. 40: «dal ferreo sonno di lor ampie grotte». 3-5. Ove . •. animali: quando il sole avrà cessato di splendere e di fecondare il creato, agli occhi miei (per me; POESIE per me alla terra non fecondi questa bella d'erbe famiglia e d'animali, e quando vaghe di lusinghe innanzi a me non danzeran l'ore future, né da te, dolce amico, udrò più il verso e la mesta armonia che lo governa, né più nel cor mi parlerà lo spirto delle vergini Muse e dell'amore, s IO così come ai vv. 6-7 le ore innanzi / a me non danzeran). E vedi Ortis (1802): a lo salutava a ogni passo la famiglia de' fiori e dell'erbe », qui a p. 576. L'immagine è autorizzata da PETRARCA, Rime, cccx, 1-2: «Zephiro torna, e 'I bel tempo rimena, / e i fiori et l'erbe, sua dolce famiglia• (TREVISAN), e da MONTI, La bellezza dell'Universo, 84: «la vaga delle belve ampia famiglia 11 (TREVISAN). 4. alla te"a: sulla terra; fecondi: faccia nascere. Vedi MONTI, Il Bardo della Selva Nera, v1, 213-5: a Per lui [sole] natura si feconda e ride, / per lui la danza armonica s'alterna / delle stagion [...] n (MARTINETTI). 6-7. e . . . future: e quando il futuro non avrà modo di presentarmisi ricco di allettatrici, se pur illusorie, speranze. Per la personificazione delle ore vedi a p. 191 la nota al v. 19 dell'ode Alla amica risanata, e i vv. 19-26 e 49-51 (a Le Ore che dianzi meste / ministre eran de' farmachi, / oggi l'indica veste, / e i monili cui gemmano / effigiati Dei / inclito studio di scalpelli achei, / e i candidi coturni / e gli amuleti recano », a p. 191 ; «Così ancelle d'Amore / a te d'intorno volano/ invidi'ate )'Ore», a p. 193); innanzi ... future: Antonio Bianchi, difendendo i Sepolcri dalle censure dell'abate Aimé Guillon, relativamente alle ore danzanti, nell'Uno dei più contro l'uno ossia Risposta dell'abate ANTONIO BIANCHI alle critiche del signor Guill ... fatte al carme sui Sepolcri del signor Ugo Foscolo, Brescia, Spinelli e Valotti, 1808, scrive: 11 Egli [Foscolo] ha con Pindaro, Euripide, Teocrito ed altri celebri poeti detto le ore invece di tempo; indi le ha personificate come han fatto tanti classici greci, latini, italiani, inglesi ec., e com'è dell'indole della poesia: le ha immaginate danzanti con mille lusinghe agli occhi suoi, perché appunto il tempo avvenire ci si mostra alla fantasia coi dolci allettamenti di belle speranze» (Edizione Nazionale, VI, p. 560). Il MARTINE1TI osserva poi che nella versione di Carlo Belli del Mattino di Friedrich Wilhelm Zaccaria, si legge: «L'ore in alterne file a te d'intorno / danzano [...] » (Il Mattino, il Mezzodi, la Sera, e la Notte dall'originale tedesco di FEDERICO GUGLIELMO ZACCARIA trasportati in verso italiano dall'ab. CARLO BELLI, Bassano 1778, p. 9). 9. e ..• governa: vedi la noto del FoscoLO, a p. 328; e anche MONTI, Prometeo, II, 246-7: ere dolce a lei persuadete il sonno / colla dolce armonia che vi governa» (CARRER). 10-1. lo • •• Muse: il conforto, proveniente dall'ispirazione poetica; e vedi a p. 245 la nota al v. 8 del sonetto Pur tu copia versavi alma di canto. 11. vergini . .• amore: nota il NATALI: «Su questa associazione delle Muse e dell'Amore si potrebbero citare numerosi luoghi delle opere di lui: si vedo, per esempio la lettera dell'Ortis del 15 maggio 1798: 11 0 amore! le arti belle sono tue figlie" con quel che segue, e la lettera a G. Grassi del 4 dic. 1809 (Opere, VI, 335). E il suo Alfieri (son. Chi 'l disse mai) aveva detto: 11 Ogni DEI SEPOLCRI (1807) 293 unico spirto a mia vita raminga, qual fia ristoro a' dì perduti un sasso che distingua le mie dalle infinite ossa che in terra e in mar semina morte? rs Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, raggio d'Apollo è d'Amor raggio". - Chiama vergini le Muse come le chiamarono poeti antichi e moderni (cfr. Parini, Alla Musa, v. 13): ma forse vuol significare che la sua poesia è, per dirla manzonianamente, "vergin di servo encomio,, li. E vedi anche il sonetto Pur tu copia versavi alma di pianto, 12, a p. 245 (11 Però mi accorgo, e mel ridice amore») dove amore ribadisce quanto in prima istanza è stato attestato dall'cr Aonia Diva». I 2. u11ico spirto: nota il TREVISAN: • Il Pindemonte avea cantato (Ep. a P. Grismondi): "[...] i carmi, che pur sono / di mia vita solinga il sol co11forto" [vv. 13-4] ». E vedi Ortis (1802): «Ah sìl io vivo ancora, e l'unico spirito de' miei giorni è una sorda speranza li ecc., qui a p. 668; a ... ramùrga: sulla scorta della complessiva congruenza di significato con il passo sopra riferito del Pindemonte, è pensabile che il Foscolo, tramite la rispondenza della rima (solinga-raminga), intenda privatamente e polemicamente far risultare i casi della propria accidentata biografia, a contrasto con quelli, affatto dissimili, dell'amico Ippolito. E vedi il sonetto Un di, s'io non andrò sempre fuggendo, 1-2, a p. 240. 13. ristoro: compenso; di perduti: vedi PETRARCA, Rime, LXII, 1 : «Padre del ciel, dopo i perduti giorni 11; sasso: "lapide, pietra sepolcrale", come, ad esempio, in PETRARCA, Rime, LIII, 32-3: ue i sassi ove fur chiuse le membra / di ta' che non saranno senza fama»; cccxxI11, 9-11: «che 'n poco tempo la menaro al passo / ove, chiusa in un sasso, / vinse molta bellezza acerba morte»; cccxxx.I11, 1-2: «Ite, rime dolenti, al duro sasso / che 'l mio caro thesoro in terra asconde »; e vedi anche TASSO, Ger. lib., XII, 96, 7: u O sasso amato ed onorato tanto•; BERTOLA, 11 Mergelli11a, 235-40: «O mi sia dato un dì dal suol remoto, / a cui guidi tu stesso oggi i miei passi, / tornar con maggior cetra, e maggior voto / su i memorandi sepolcrali sassi, / e favellar con quante Ombre qui sono / della mia giovanezza, e del tuo dono!•; FANTONI, 111 La solitudine, 61-4: «I dolenti pastor di poca terra/ il cenere copriro, il caso acerbo/ inciscr sulla rupe, e ancor l'addita / l'annoso sasso al passeggier [...] ». Il MARTINETrl cita inoltre l'epistola del PINDEM0NTE, A Scipione Maffei, 187-95: «[ •••] rotti sepolcri, ed urne, / anfiteatri ruinosi, templi / semisepolti, archi, e colonne infrante; / fatali avanzi, a cui lo sguardo mai / non volge ambizion senza un sospiro, / veggendo ohimè! che l'altc sue speranze / mal si metton da lei nel marmo infido. / Come il fral corpo, che rinchiude, in polve / cade alfin la più eccelsa e ricca tomba"· 16-7. Vero • •. sepolcri: A. PAGLIARO, op. cit., p. 325, nota 181 osserva: «L'immagine nel suo significato si chiarisce a pieno, in opposizione a quella del Campbell nei Piaceri della speranza, come il Foscolo la intende nel Parallelo fra Dante e il Petrarca: "E che potrebbe dirsi del nostro aspettare l'immortalità, che tutto non sia compreso e spiegato in questa invocazione 2 94 POESIE ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve alla Speranza? •Assisa, o Dea, sorriderai secura / su le rovine, e allumerai tua face / e la funerea pira di Natura' 11 (Opere x, p. 1II). Proprio a tale speranza di immortalità si oppone il diniego del poeta». Ne consegue che: a Di fronte alla tomba in sé considerata, cioè come difesa del corpo senza vita dalla dispersione totale e dalla distruzione, nessuna altra speranza può affacciarsi a darle un valore nello ambito del destino personale, se non quella cristiana nella resurrezione. D:fatti, l'argomentare che segue introdotto da un e, che è coordinante e dichiarativo al tempo stesso, adduce le ragioni per le quali, sul piano delle verità naturali, la tomba non può assumere un tale valore: non solo il corpo, ma anche la tomba che dovrebbe difenderlo, sono distrutti, come forma a sé, dal moto di tutte le cose» (A. PAGLIARO, op. cit., pp. 326-7). La resurrezione dei corpi implica infatti la loro conservazione, e ciò è contraddetto dal ciclo naturale, la cui opera è descritta ai vv. 17-22. La speranza nella vita futura, cronologicamente ultima Dea, non è insomma giustificata dai sepolcri, poiché gli stessi sono sottoposti alla dimensione della vita della terra, all'usura del tempo. Quanto a TEOGNIDE, 1135 D, comunemente ritenuto fonte dell'immagine foscoliana, dal poeta parafrasato nella Chioma di Berenice, Discorso terzo, Di Conone, e della Costellazione Berenicea, Milano, Dal Genio Tipografico, 1803, p. 48, qui nel tomo II («Così è allegoria della violazione d1ogni religione nella comune calamità degli stati questa appassionata sentenza di Teognide: Tutti i Numi salendo all'olimpo gli infelici mortali abbandona110: la Speranza sola rimane buona Dea li), e riproposto nelle Grazie, II, 234-8, alle pp. 447-8 (u [ •••] Essa agli Dei/ non tornò mai, da che scendea ne1 primi / dì noiosi all'uomo; e il riconforta / ma le presenti ore gl'invola; ha nome / Speranza e men infida ama i coloni»:,, ancora A. PAGLIARO, op. cit., p. 329, nota 19, osserva giustamente: «La Speranza teognidea è speranza di carattere politico, quella che sostiene gli oppressi politicamente e i banditi dalla patria, quasi come una particolare specializzazione della funzione della Elpìs nel mito esiodeo di Pandora, Es1000, Opere e giorni, 96 sgg. Cf. ESCHILO, Agam. 1668, SOFOCLE, Ant. 1246, EURIPIDE, Fen. 396 ». 17. irzvolve: vedi PETRARCA, Rime, LIII, 35: cc e tutto quel ch'una ruina involve 11 (FERRARI). Il ThEvISAN nota: « Il concetto è simile a quello dell'Ossian (La Notte): Si passerem pur noi: profondo obblio / c'involverà [...] ». 17-22. e • •• tempo: e l'oblio trascina ogni cosa ncll1oscurità della dimenticanza, e l1instancabile forza della natura ogni cosa travaglia senza sosta (cioè, secondo intende il TREVISAN, «tramuta le cose da una ad un'altra vita II poiché, secondo il MARTINETTI, cc ove cessasse, succederebbe la distruzione universale 11), Per analoghi concetti vedi PETRARCA, Trionfi, v, 114-20: «ogni cosa mortai Tempo interrompe, / e ritolta a' men buon, non dà a' più degni; / e non pur quel di fuori il Tempo solve, / ma le vostre eloquenzie e' vostri ingegni. / Cosi fuggendo il mondo seco volvc, / né mai si posa né s'arresta o torna, / fin che v'à ricondotti in poca polve 11; l'Elegy ecc. di GRAY, vv. 33-6: uThe boast of heraldry, thc pomp of pow1r, / nnd nll thot beauty, ali that wealth c'cr gave, / await alike th1 inevitable hour. / The paths of glory lead but to the grave»; si cita dall'originale posto a fronte della traduzione del CESAROTTI, vv. 55-60, la quale suona così: 11 Pari è di tutti il fato: avito ceppo / nella notte de1 secoli nascoso, / pompa di gloria o di possanza, e quanto / può ricchezza ottener, donar beltnde, / tutto sorprende inevitabil punto, / e ogni via del11 onor guida alla tomba»; DEI SEPOLCRI 0807) 295 tutte cose l'obblio nella sua notte; e una forza operosa le affatica di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe 20 e l'estreme sembianze e le reliquie della terra e del ciel traveste il tempo. Ma perché pria del tempo a sé il mortale e vedi MONTI, La bellezza dell'Universo, 304-9: u [ •••] Il Tempo edace, / fatai nemico, colla man rugosa / ti combatte, ti vince, e ti disface. / Egli il color del giglio e della rosa / toglie alle gote più ridenti, e stende / dappertutto la falce ruinosa»; e 313-22: 11e solo, allorché fia che di Natura/ ei franga la catena, e urtate e rotte/ dell'Universo cadano le mura,/ e spalancando le voraci grotte / l'assorba il Nulla, e tutto lo sommerga / nel muto orror della seconda notte, / al fracassato Mondo allor le terga / darai fuggendo, e su l'eterea sede, / ove non fia che Tempo si dispcrga, / stabile fermerai l'eburneo piede». Per il concetto fisico-epicureo vedi LUCREZIO, De rer. nat., I, 262-6: «Haud igitur penitus pereunt quaecumque videntur, / quando alid ex alio reficit natura nec ullam / rem gigni patitur nisi morte adiuta aliena. / Nunc age, res quoniam docui non posse creari / de nilo neque item genitas ad nil revocari »ecc.; e v, 257-60: «Praeterea pro parte sua, quodcumque alit augct, / redditur; et quoniam dubio procul esse videtur / onniparens eadem rerum commune sepulcrum, / ergo terra tibi Iibatur et aucta recrescit ». Per l'analogo concetto lucreziano vedi Ortis (1802): «(•••] la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce 11, qui a p. 616 (e vedi anche a p. 122 la nota ai vv. 49-50 degli sciolti Al Sole), e ancora FoscoLo, Lettera a l\1ons;eur Guill . .. ecc., cit.: «1'v1ilioni di esseri riprodotti dalle reliquie umane lldempiono la legge tmiversale della natura di distn,ggersi per riprodursi11 (Edizione Nazionale, VI, p. 517). 18. l'obblio .•• notte: vedi i sonetti Forse perché della fatai quiete, 10, a p. 201: «che vanno al nulla eterno [...] », e Che stai? già il secol l'orma ultima lascia, 3-4, a p. 248: «[•••] portando entro la notte / quattro tuoi lustri, e obblio freddo li fascia 11. E PARINI, La gratitudine, 245-6: «ed ei cosi la notte / ruppe dove l'oblio profondo giace 11 (DE ROBERTIS). 21. l'estreme sembianze: i resti delle spoglie mortali. 22. traveste il tempo: vedi PETRARCA, Rime, CXLII, 25-6: «Selve, sassi, campagne, fiumi et poggi, / quanto è creato, vince et cangia il tempo» (l\1ARTINETTI). 23. pria del tempo: prima dell,azione del tempo; il mortale: l'uomo, così escatologicamente designato in relazione alla corruzione terrestre descritta ai vv. 17-22. 23-4. a sé . •• illusion: "si priverà della tomba11, sul costrutto latino invidere sibi, come in ORAZIO, Od., IV, 2 1 22-4: «[ •••] et viris animumque moresque / aureos educit in astra nigroque / invidet Orco»; e vedi DANTE, Jn/., XXVI, 23-4: «sl che, se stella bona o miglior cosa / m'ha dato 'I ben ch'io stesso nol m'invidi». 23-5. Ma .. . Dite?: «Ma perché, prima che il tempo distrugga le tombe e, distruggendole, tolga come il fondamento all'illusione dei superstiti (per la quale essi credono che i morti vivano ancora e che anch'essi vivranno dopo la morte), l'uomo negherà a sé questa illusione che pare lo debba soffermare dopo morto di qua dalla soglia di Dite, e in qualche modo ancora mantenerlo in vita?» (DE RoBERTIS). Contro tale POESIE invidierà l'illusi'.on che spento pur lo sofferma al limitar di Dite? zs Non vive ei forse anche sotterra, quando tradizionale interpretazione A. PAGLIARO, op. cit., p. 333, ha però obiettato che: cc La determinazione pria del Tempo riporta alle posizioni definite nella clausola del verso che immediatamente precede: traveste il Tempo [...]. È pacifico, dice il poeta, che le tombe non possono avere per noi un valore assoluto, perché il tempo le distrugge come distrugge ogni cosa. Pur esse esistono ed hanno un valore per l'uomo; il valore che ad esse si attribuisce. C'è un motivo perché l'uomo debba rinunziare alla tomba, a questa illusione fatta concreta, la quale gli vale come un ritardo all'ingresso definitivo nell'al di là; e vi debba rinunziare da sé, prima che il tempo, com'è nella legge delle cose, la distrugga? A fraintendere il contesto, o per lo meno a una condanna di oscurità, gli interpreti sono solitamente indotti dal fatto che l'illusione, mediante cui l'estinto rimane ancora in un certo senso entro i confini della vita, è intesa nel suo valore psicologico proprio, anziché nell'assunzione traslata voluta dalla congiuntura: l'illusione che il poeta definisce non è altro se non la "tomba", la realtà in cui il sentimento umano si esprime. In altri termini ciò che ferma l'uomo alla soglia del nulla (della notte in cui l'oblio avvolge tutte le cose), e ciò che il tempo pure distruggerà, non è l'illusione come sentimento, ma la tomba in cui quell'illusione prende corpo, diventa realtà D. « Un tale tipo di metafora» osserva ancora A. PAGLIARO, op. cit., pp. 333-4, nota 21, u che esprime l'oggetto perifrasticamente, connotandolo mediante l'impressione che se ne riceve o mediante l'opinione che se ne ha, è comune alla tradizione della lingua poetica, in particolare quella greca, con cui il Foscolo ebbe particolare dimestichezza. In EscHILO, Agam., 743, Elena, non nominata, è indicata come "il culmine del desiderio che morde l'animo" e nelle Coef., 43 le offerte inviate da Clitemnestra sulla tomba di Agamennone sono chiamate "questo ingraziamento che non lo è"». 24. spento: morto. 25. pur: tuttavia; sofferma: trattiene; al ... Dite: sulla soglia del regno dei morti. E vedi LUCREZIO, De rer. nat., III, 65-7: «Turpis enim ferme contemptus et acris egestas / semota ab dulci vita stabiliquc videtur / et quasi iam leti portas cunctarier ante 11 (CANELLO); Dite: a designare il regno dei morti è in VIRGILIO, Aen., VI, 127: «noctes atque dies patet atri ianua Ditis ». 26-9. No11 ... suoi?: all'interpretazione tradizionale, e dominante, soste~uta, ad esempio da MARTINB'ITI, TREVISAN, FERRARI, NATALI, DE RonERTJS ecc., che identifica l'oggetto del pronome enclitico in destarla con l'illusion del v. 24, sembra preferibile l'altra, inizialmente proposta dal CANELLO, seguito da A. PAGLIARO, op. cit., pp. 334-5, secondo la quale il pronome è invece da riferirsi all'armo11ia del giorno, perifrasticamente designante la vita (retoricamente omogenea alrillusion, e vedi la nota ai vv. 23-5). Il CANELLO osserva: «se può parere strana la frase: destare l'armonia del giorno, strana non è la sua equivalente: destare la vita. Il poeta dice che l'estinto vive anche sotterra se mediante le soavi cure (il culto delle tombe) può destare, o ridestare questa vita, non in sé, ch'è materialmente impossibile, ma nella niente de' suoi, per i quali egli così vive ancora». DEI SEPOLCRI (1807) gli sarà muta l'armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de' suoi? Celeste è questa corrispondenza d'amorosi sensi, celeste dote è negli umani; e spesso per lei si vive con l'amico estinto e l'estinto con noi, se pia la terra che Io raccolse infante e lo nutriva, nel suo grembo materno ultimo asilo 2 97 30 JS 27. gli •.. muta: non gli parlerà. • A chi è sotterra non tocca più che il silenzio e l'ombra della notte, e perciò non fanno più per lui, non operano in lui alcuna commozione, i giocondi rumori e gli spettacoli luminosi che accompagnano il giorno concordando in una vasta armonia (ossia i rumori della vita che si armonizzano nel giorno, mentre di notte tacciono} 11 (FERRAR!}; l'armonia del giorno: R Questa espressione, che ricorda quella d'Orfeo (Inno a Pane}: cxpµovuxv xoaµoi:o, tradotta dal Monti (A S. Chigi): l'armonia del mondo, indica la vaga scena del mondo (già cantata ne' versi 3-15), che è muta a chi disparve dalla vita» (TREVISAN}. E vedi i vv. 3-5. 28-9. se . •• suoi: se può come farla rivivere (l'armonia del giorno, cioè la propria vita) nell'animo (mente} dei suoi congiunti, tramite gli uffici da loro umanamente prestati alla tomba del defunto. • La tomba, centro delle memori attenzioni dei congiunti e degli amici, aiuta a ricostruire un "campo" sentimentale in cui l'estinto vive, partecipa a quell'armonia della vita con una sua parte. Egli non ha una sua vita, ma per gli altri è come se l'avesse (per questo la tomba è una illusione, una finzione vera); non può fare risorgere per sé quei rapporti, ma in sostanza, benché estinto, li promuove, perché egli è oggetto di pensieri pietosi e moti di affetto, prendendo quindi nella coscienza degli altri figura di persona ancora sensibile e viva, alla quale è quindi possibile parlare perché ascolti» (A. PAGLIARO, op. cit., pp. 334-5). 29. Celeste: divina. 30. corrisponde11za .•• sensi: corrispondenza di sentimenti affettuosi che, come avverte il FERRARI, n però in fatto rimane tutta soggettiva in chi è vivo•· 31. celeste dote: dono divino; umani: l'aggettivo sostantivato per "uomini,,, è già in PARINI, Il Mezzogiorno, 252-5: «[•••] Al cibo, al bere, / all'accoppiarsi d'ambo i sessi, al sonno/ un istinto medesmo, un'egual forza/ sospingeva gli umani [...] ». 32. per lei: grazie ad essa (la corrispo11denza ecc. del v. 30). Nota il TREVISAN: n Il Pindemonte (Ep. ad A. Bertola) avea similmente cantato: "[.•.] Come a voi scende il nostro / fido sospiro, alme da noi divise, / risale a noi per la via stessa il fido / sospiro vostro, ed un secreto vive/ d'amor commercio tra l'un mondo, e l'altro?,, [vv. 16-20] •· 33. pia: pietosa nei confronti di chi le si riconosce figlio. Vedi PETRARCA, Rime, cxxv111, 84-6: n Non è questa la patria in ch•io mi fido, / madre benigna et pia / che copre l'un et l'altro mio parente?» (TREVISAN}. 33-4. la terra •• . nutriva: perifrasticamente la madre patria, cioè la terra che lo vide nascere, e crescere. "Raccogliere" ha qui valore tecnico di raccogliere il parto, fare l'ufficio di levatrice. E vedi TOMMASEO-BELLINI. 34. raccolse: vedi Le Grazie, 11 42-3, a p. 412: • [••.] e le raccolse / l'onda Ionia pri. [ l l . é ., " ·r. . " . ' I bmaera .•. ». 35. ne ••• materno: m s ; as,,o: r11ugao , caoe a tom a. POESIE porgendo, sacre le reliquie renda dall'insultar de' nembi e dal profano piede del vulgo, e serbi un sasso il nome, e di fiori odorata arbore amica le ceneri di molli ombre consoli. 40 Sol chi non lascia eredità d'affetti poca gioia ha dell'urna; e se pur mira dopo l'esequie, errar vede il suo spirto fra 'I compianto de' templi Acherontei, o ricovrarsi sotto le grandi aie 45 36. porgendo: offrendo; sacre ... renda: faccia inviolabili (sacre), preservi le spoglie mortali. 37. dall'insultar de' nembi: dalle devastazioni atmosferiche. 37-8. e . •. vulgo: e dall'essere calpestate (le reliquie, v. 36) dal piede del volgo, dal piede di chi ignora che cosa calpesti. 38. serbi: conservi; un sasso: vedi il v. I 3, e la nota relativa. 39. di ... odorata: odorosa di fiori; e vedi per il latinismo l'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, 3, a p. 175: «per te i lini odorati»; amica: benigna, riferita ad arbore latinamente considerato al femminile. 40. molli: dolci, carezzevoli. 41-50. Sol . .• Natura: solo colui che non lascia a chi sopravvive un retaggio di affettuosi sentimenti che rendano possibile quella corrispondenza d'amorosi sensi per cui si vive con l'amico estinto Je l'estinto con noi, «prova poca contentezza al pensiero che una tomba ne raccoglierà le ceneri e ne serberà la memoria» (FERRARI), e se anche cc considera la sua sorte nell'oltretomba, gli par di vedere la sua anima, o in eterno dannata, o perdonata dalla misericordia divina» (DE RoBERTis), abbandonando però le proprie spoglie in terra deserta, dove nessuna donna innamorata possa pregare per lui, e alcun passeggero solitario possa udire il richiamo (tenue quanto un sospiro) che, dalla tomba, sembra provenire dalla stessa natura. 41. Sol .•. affetti: il NATALI, per analogo concetto, ricorda PARINI, La vita rustica, 85-8: ccAh quella è vera fama / d'uom che )asciar può qui / lunga ancor di sé brama / dopo l'ultimo dìl ». 43. dopo l'esequie: dopo la cerimonia funebre. 44. /ra .•. Acherontei: tra il pianto dei dannati che risuona sotto le volte dell'Averno, dove scorre il fiume Acheronte. E vedi Ja nota del FoscoLo, a p. 328. E a p. 273 la nota al v. 78 della Chioma di Berenice; compianto: vedi DANTE, In/., v, 35: uquivi le strida, il compianto, il lamento». 45-6. o •.. lddio: più che riferimento al purgatorio, secondo la visione cristiana dell'oltretomba, in contrapposizione alla visione pagana espressa ai vv. 43-4, è probabile che qui il Foscolo parli, come suggerisce A. PAGLIARO, op. cit., p. 336-7, a in generale di una fede nell'al di là•• assumendo quali esponenti di tale fede «l'oltretomba pagano, espresso mediante il nesso appropriato templi achero11tei (a questo e alla sua tristezza si confà il termine compianto, non ai tormenti dell'inferno), e l'oltretomba cristiano, che viene definito come il luogo su cui si stende l'ala del perdono di Dio, perché ogni cristiano, anche peccatore, conta sulla misericordia divina». Quando le due immagini non stiano semplicemente a rappresentare il luogo di condanna e quello di salvazione secondo moduli correnti della concezione della vita ultraterrena (come ancora prospetta DEI SEPOLCRI (1807) 299 del perdono d'lddio: ma la sua polve lascia alle ortiche di deserta gleba ove né donna innamorata preghi, né passeggier solingo oda il sospiro che dal tumulo a noi manda Natura. so Pur nuova legge impone oggi i sepolcri A. PAGLIARO, op. cit., pp. 336-7, nota 23). E vedi Psalm., 16, 8: «sub umbra alarum tuarum » (CANELLO). 46. po/ve: ceneri. 47. di . •. gleba: di terra abbandonata (gleba vale "zolla", e in sineddoche "terra"). 49. soli,rgo: vedi la nota al v. 12. 49-50. oda ••• Natura: nella traduzione latina del Gray del COSTA (p. 136 dell'edizione più avanti citata) i vv. 91-2 furono posti dal FoscoLo come epigrafe dell'Ortis (1802): «Naturae clamat ab ipso/ vox tumulo», e ancora ripreso nell'Ortis: • Geme la natura perfin nella tomba, e il suo gemito vince il silenzio e l'oscurità della morte n, qui a p. 623. Il concetto si ritrova nell'Elegy ecc. del GRAY, vv. 89-92: •On some fond breast the parting soul relies, / some pious drops the closing eye requires; / ev'n from the tomb the voice of Natura cries, / ev'n in our ashes live their wonted Fires » (si cita dall'originale posto a fronte della traduzione del CESAROTTI, vv. 137-421 la quale suona cosi: • Ama posar su qualche petto amato / l'alma spirante, e i moribondi lumi. / Chieggono altrui qualche pietosa stilla: / fuor della tomba ancor grida la voce / della natura, e fin nel cener freddo / degli usati desir vivon le fiamme•· L'attenuazione foscoliana (sospiro per «cries »), non ha riscontro nella tradizione delle versioni del testo del Gray. Vedi, oltre a quella del CESAROTTI : «fuor della tomba ancor grida la voce / della natura [•..] », nell'Elegia di TOMMASO GRAY sopra un cimitero di campag11a tradotta dalla lingua inglese irz italiano, francese, tedesco, latino, ebraico e greco,· alcune delle quali versioni fi11ora inedite, con l'aggiunta di osservazioni criticl,e, Verona, Mainardi, 1817, quelle del TORELLI: «da la tomba anco alza natura il grido» (p. 39); del GENNARI: 11parla natura dalla tomba» (p. 81); del LASTRI: 11 erge natura dalla tomba il grido» (p. 88); del BARALDI: a dall'imo della tomba la natura manda un grido» (p. 100). E vedi PARINI, Il messaggio, 127-32: « Colpito allor da brivido / religioso il core, / fermerà il passo, e attonito / udrà del tuo cantore / le commosse reliquie / sotto la terra argute sibilar»; MONTI, Il Co11gresso di Udi11e, Milano, Per Carlo Civati, Stamperia Villetard, [1797], vv. 56-8: •Cadrete; ed alzerl natura alfinc / quel dolce grido che nel cuor si sente, / tutti abbracciando con amplesso eguale 11. 51. P11r: tuttavia, nonostante quanto a favor dei sepolcri è stato detto ai vv. 25-50. 51-3. nuova • •• co11tende: si tratta del decreto della legislazione francese del 12 giugno 1804, che regolava le sepolture. Esso venne esteso all'Italia con il decreto in data Saint Cloud s settembre 18061 pubblicato nello stesso anno sul «Giornale Italiano 11, il cui n° 276 (J ottobre) conteneva gli articoli 75, 76, 77 della Sezione x, riportati qui di seguito: «75. È proibito di seppellire i cadaveri umani in altri luoghi che nei cimiteri. Questi saranno necessariamente collocati fuori dell'abitato dei comuni. 76. Que' comuni_. che non hanno un cimitero collocato come sopra, lo faranno disporre al più tardi entro un biennio. La Municipalità ne destinerà il luogo coll'approvazione del Prefetto: in caso d'inadempimento per parte della Municipalità, la Commissione di- 300 POESIE fuor de' guardi pietosi, e il nome a' morti contende. E senza tomba giace il tuo sacerdote, o Talia, che a te cantando partimentale provvederà a spese del comune. 77. Un particolare regolamento stabilirà le discipline opportune per prevenire ogni inconveniente, che può nascere dal troppo sollecito e non bene eseguito seppellimento dei cadaveri» (TREVISAN, p. 47, nota 2). Se dunque l'articolo 75 del decreto motiva l'affermazione dei vv. 51-2 (oggi ... pietosi), non altrettanto esplicito risulta quanto è successivamente detto (e il nome ... contende). Il TlmvISAN, p. 48, avverte infatti che secondo il decreto sopra citato a: non parrebbe che alcun provvedimento governativo o municipale ingiungesse che le lapidi fossero tutte di un'eguale grandezza. Bensl s'obbligavano i dolenti, che volessero "far porre qualche iscrizione ne' Campi Santi, a dare ricorso alla Commissione di Sanità, presso della quale doveva ritenersi una copia dell'iscrizione medesima,, questo perché non figurassero stemmi o titoli gentilizi, aboliti dalle leggi repubblicane D. Lo stesso TREVISAN, p. 48, nota 2, cita poi una risposta dell'Ufficio di Sanità al Municipio di Milano, dove, oltre al passo sopra menzionato, era fatto divieto di inserire nelle iscrizioni sepolcrali titoli ed 11 espressioni contrarie agli ordini veglianti », e prescritto che quelle, collocate a spese dei dolenti, avrebbero dovuto essere erette a non mai sul luogo dove il defunto sia inumato, affinché il terreno resti libero per le ulteriori inumazioni». Tale disposizione è sostanzialmente affine all'Avviso del 6 novembre 1787, riferito anche dal FERRARI, secondo il quale era consentito a a chiunque di erigere nei. nuovi Cimiterj, Monumenti Sepolcrali, Epitafjj in Pietra, ed anche in marmo 11, purché addossati al muro di cinta, e però non collocati nel luogo dove era inumato il cadavere. 52-3. e . .. contende: nega la fama ai morti, oltre che destinando i cadaveri all'anonimato della fossa comune (come sarà detto relativamente al Parini, con speciosa amplificazione retorica, ai vv. 70-7), soprattutto perché, trasferendo i sepolcri fuor de' guardi pietosi, li sottrae di fatto al culto dei vivi, promotore delle egregie cose dei vv. 1 sI sgg. 52. nome: nel senso di "fama", .,rinomanza", vedi Bonaparte liberatore, 198, a p. 154: a e gli annali e le leggi e i rostri e il nome», e il sonetto E tu ne' carmi avrai perenne vita, 4, a p. 231. 53. contende: in tal senso, ad esempio, usato da PETRARCA, Rime, XXVIII, 107; XXXVII, 91; XCII, 6; CLIII, 2; CCLXXVII, 13, ecc. Ma vedi anche PARADISI, Al Conte Francesco Algarotti, 9-11: «[•••] Qual duro fato, / qual di nemica stella invida legge/ contende a' nuovi carmi il lauro antico?». 53-4. E . .. sacerdote: come è noto, Giuseppe Parini, morto il 15 agosto 1799, dopo umili e private esequie fu sepolto, secondo la legge allora vigente, senza avere tomba distinta, nel cimitero di Porta Comasina, dove, dopo alcuni anni, i suoi resti lasciarono il posto ad altri. Va tuttavia ricordato che nel suddetto cimitero l'amico Calimero Cattaneo fece apporre una iscrizione, e che nel 1801, per cura di Barnaba Oriani, sotto il portico di Brera, fu collocato un busto del poeta, scolpito da Giuseppe Franchi. 54, Talia: propriamente musa della commedia, qui per le implicazioni che la stessa intrattiene con il registro satirico, invocata come ispiratrice del poeta, quale autore del Giorno. E vedi l'epigramma dell'Antologia greca (lib. I, cap. 67) citato da E. Q. VISCONTI, Museo Pio-Clementino ecc., Roma, Mirri, 1782, I, p. 38: KCi>µLXù>V clµqné1tCi> 0cù(l) µtÀot;, lpyor. 8è cpwTWV / oùx' oa(wv &uµ.éÀnac. cptÀoxpo- DEI SEPOLCRI (1807) nel suo povero tetto educb un lauro con lungo amore, e t'appendea corone; e tu gli ornavi del tuo riso i canti che il lombardo pungean Sardanapalo cui solo è dolce il muggito de' buoi 301 55 'T«ÀOLO'LV cl&upc.> (MARTINETTI), e MONTI, Musogonia, 200: «E Talia che l'error flagella e ride» (MARTINETTI); a te: "per te", da collegarsi a educl, del verso seguente; cantando: poetando. 55. nel • .• tetto: nella sua povera dimora (emblematica della modesta esistenza pariniana). Per tale sineddoche (tetto per "casa") vedi a p. 242, il sonetto Un di, s'io non andrl, sempre f11ggendo, 8 («e sol da lunge i miei tetti saluto»), e la nota relativa; educò: coltivò, fece crescere. Oltre a CATULLO, Carm., LXII, 39-41: « Ut flos in saeptis secretus nascitur hortis, / ignotus pecori, nullo convolsus aratro, / qucm mulcent aurae, firmat sol, educat imber•, e 49-50: a Ut vidua in nudo vitis quae nascitur arvo / numquam se cxtollit, numquam mitem educat uvam ,., e TIBULLO, 1, 1, I 3: a et quodcumque mihi pomum novus educat annus », vedi FoscoLo, Le Grazie, 1, 298, a p. 429: «di quanti pomi educa l,anno 11; PARINI, La gratitudine, 117-20: «pari a nobile fior cui cittadina / mano in tiepido clivo / educa e nutre, e da più ricche foglie / cara copia d'odori aWaria scioglie »; un lauro: il lauro è simbolo della poesia; e vedi il sonetto Non son chifui,· peri di noi gran parte, 3-4, a p. 205: 1 [ •••] le foglie sparte / del lauro [...] », e Le Grazie, 1, 2651 a p. 42,7: aa, vati, se cogliean puri l'alloro». 56. con . •• amore: con diuturna, esclusiva applicazione; e .•• corone: la consuetudine pagana di appendere serti al simulacro del dio adorato, vale metaforicamente: offrire alla musa i propri componimenti poetici (corone). E vedi MONTI, In occasione della festa nazionale della Repubblica Italiana celebratasi in Milano il I6 giugno I803, 8-11: • [...] e votiva/ t'appenderò corona / di fior che l'aure di Brianza edùcano, / o del Lambro la riva». 57-8. e ••• Sardanapalo: vedi la nota del FoscoLO, a p. 329. 57. e ... canti: e tu (Talia) lo contraccambiavi, sorridendogli, e ispirandone la satira del Giorno (i canti ecc.). 58. lombardo .•. Sardanapalo: il «giovin signore,,, protagonista del poemetto pariniano. Il NATALI ricorda che «Già il Baretti nel n. XIX della Frusta letteran·a, aveva scherzato cccerti conti, che [...] non pensano mai ad altro che a farsi ben incipriare le parrucche, ad abbigliarsi, a masticarsi pranzi e cene sardanapalesche". Ma la perifrasi foscoliana, che con i-accenno alle vivande ricorda quello del Baretti ai pran::i e alle cene, spetterebbe, piuttosto che al Giovin Signore, a uno de' suoi commensali, al divoratore, felicemente descritto nel Mez::ogiomo (vv. 456-81 della mia ediz. delle Poesie del Parini, Milano, Vallardi). Sardanapalo, oltre e più che della gola, è l'immagine della lussuria [•..]. Altrove il F. più esattamente scrisse che il Parini "rise e fe' ridere su i vizii de' magnati della sua città, ed il ridicolo si ripercotea su tutti i Sardanapali e Ganimedi d'Italia[.•.]" (Opere, n, 221) •· 59-61. cui • •• tJivande: il quale si compiace solo del muggito dei buoi, che dalle rive sinuose del- 1'Adda e del Ticino, gli recano ricchezze (tali da consentirne gli ozii), e cibo. Il NATALI, contro l'interpretazione corrente sopra riferita, intende invece • che si compiace soltanto del muggito de' buoi che dalle stalle del Lodigiano e del Pavese gli recano cibo e ricchezze», osservando, sulla scorta del DONATI, che in latino il fiume è Addua, e Abdua è invece Lodi. L'esplicita menzione del Ticino, ed il valore geografico che sembra com- 302 POESIE che dagli antri abduani e dal Ticino lo fan d'ozi beato e di vivande. O bella Musa, ove sei tu? Non sento spirar l'ambrosia, indizio del tuo Nume, fra queste piante ov'io siedo e sospiro il mio tetto materno. E tu venivi e sorridevi a lui sotto quel tiglio 6o 65 petere alla perifrasi del v. 60 (come segnalò infatti il CANELLO, Adda e Ticino segnavano i confini, rispettivamente orientale e occidentale della Lombardia, comprendendo, e quindi designando, la porzione di regione tradizionalmente più fertile), e quindi il carattere di coppia dell'espressione dagli antri abduani e dal Ticino, inducono, nonostante l'evidente ma non sorprendente fallosità del calco abduani, ad attenersi all'interpretazione inizialmente proposta. Ancora si noti che il muggito de' buoi è citazione di VIRGILIO, Georg., 11, 470: umugitusque boum mollesque sub arbore somni » (TREVISAN), là dove si descrivono i piaceri della vita rustica. Sue• cessivamente (v. 475), VIRGILIO afferma: «Me vero primum dulces ante omnia Musae », associabile, per contrasto, all'ironica sottolineatura cui solo è dolce ecc. Ma vedi anche PARINI, Il Mattino, 11, 962-7: «[ •••] O più t'aggrada / sceglier quest'oggi l'Indico adamante / là dove il lusso incantator costrinse / la fatica e il sudor di cento buoi / che pria vagando per le tue campagne / faccan sotto a i lor piè nascere i beni?». 62. O ... Musa: Talia. 62-3. Non .•. Nume: vedi a p. 233 il sonetto E trt ne' carmi avrai perenne vita, 14 («spirar ambrosia l'aure innamorate 11), e la nota relativa. 64./ra ... sospiro: vedi la nota del FoscoLo, a p. 329. E si tengano anche presenti i seguenti passi dell'Ortis (1802): et Ier sera dunque io passeggiava con quel vecchio venerando nel sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli», qui a p. 651; e: «Frappoco io non vivrò più: ma se le mie ceneri serberanno alcun sentimento ... se troverai qualche sollievo querelandoti su la mia sepoltura, vieni ... », qui a p. 659. 65. il . .. materno: la casa veneziana della madre. 65-9. E . .. ombre: oltre che dalla puntuale indicazione foscoliana, e dalle citazioni ortisiane riferite in nota al v. 64, il passo trae luce anche dai vv. 121- 32 delttode pariniana Il messaggio: «Dch! alcun che te nell'aureo / cocchio trascorrer veggia, / su la via che fra gli alberi / suburbana verdeggia, / faccia a me intorno l'aerc / modulato del tuo nome volar. / Colpito allor da brivido / religioso il core, / fermerà il passo, e attonito / udrà del tuo cantore / le commosse reliquie / sotto la terra argute sibilar». Nell'editio princeps dell'ode («Anno poetico ossia Raccolta annuale di poesie inedite di autori viventi», III, Venezia, Dalla Tipografia Pepoliana, 1795, pp. 217-24), in nota al v. 124 («suburbana verdeggia»), si legge: «Gran viole in Milano fuori di Porta orientale, ove è il corso di carrozze. Là presso v'ha il campo santo della parrocchia del poeta» (cosi giustamente corregge il MAZZONI, p. 198, la stampa che presenta: ,campo santo: detta parrocchia del poeta»). Poiché il Parini fu sepolto nel cimitero di Porta Comasina (vedi la nota ai vv. 53-4), e non in quello della sua parrocchia, sito nel luogo sopra menzionato nella nota dell'«Anno poetico» ecc., la cui identità con quello cui qui si allude è dichiarata dalla nota foscoliana (vedi In nota al v. 64), ne risulta finalmente chiarito il senso dei vv. 65-9. 65. tfl: Talia. 66. so"idevi: vedi Le Grazie, I, 316, a p. 429: a sol da voi chiedercm, DEI SEPOLCRI (1807) eh'or con dimesse frondi va fremendo perché non copre, o Dea, l'urna del vecchio cui già di calma era cortese e d'ombre. 3o3 Forse tu fra plebei tumuli guardi 70 vagolando, ove dorma il sacro capo del tuo Parini ? A lui non ombre pose tra le sue mura la città, lasciva Grazie, un sorriso»; tiglio: nota il NATALI: «Il tiglio è pianta cara al F., che lo chiama nelle Grazie, II, 460-61, "amabil pianta e a' molli orezzi propizia" [...]. Ma gli eruditi guastafeste ci fanno saper che quel tiglio era un olmo, un colossale olmo, conosciuto col nome di "olmo del Parini", abbattuto nel 1782 da un ciclone (Un tiglio cl,e era un olmo, nella Scuola secondaria italiatia, Milano, 7 dic. 1899) ». E vedi il passo dell'Ortis (1802), citato in nota al v. 64. 67. dimesse frondi: con i rami abbassati verso il suolo, in segno di lutto; va fremendo: si agita, e però manifesta il proprio dispetto. 68. copre: ombreggia; Dea: Talla. 69. cui ... ombre: al quale era generoso (il tiglio) di quiete, e di ombre ristoratrici; cortese: come, ad esempio, in PETRARCA, Rime, X>..'VIII, 83; xcn, 7; CCVII, 16. E vedi Le Grazie, 111, 25, a p. 464: «siete cortesi allor [...] 11, e MONTI, Masc/zeronia11a, 1v, 205-7: 11 [ •••] Salvete, / piagge dilette al Ciel, che al nùo Parini / foste cortesi di vostr'ombre quete ,, (TREVISAN). 70. fra ••. tumuli: vedi la nota del FoscoLo, a p. 329. 71. vago/a,ido: vagando incerta. E vedi Le Grazie, I, 126-7, a p. 417: a[...] Ivi per sorte / vagolando fuggiasche eran venute 11; IvloNTI, Bassvi/liana, IV, 370-8: «vide in su per la truce aria tranquilla / correr spade infocate; ed aspri e cupi / n'intese i cozzi, cd un clangor di squilla. / Quindi gemere i boschi, urlar le rupi, / e piangere le fonti, e le notturne / strigi solinghe, e ulular cagne e lupi; / e la quiete abbandonar dell'urne / pallid'ombre fur viste, e per le vie / vagolar sospirose e taciturne 11; Prometeo, II, 579-81: «ove dell'ombre i vani simulacri, / che sembrano persona e salda cosa, / andar vedi e venire e vagolarc »; Il Bardo della Selva Nera, 1, 263-6: «Coprirà l'erba e il tribolo / le mute spoglie, ed irti / per le notturne tenebre / vagoleran gli spirti » (TREVISAN). In lettera a G. B. Niccolini, Brescia 27 settembre 1807, il FOSCOLO scriveva: «Le tre voci vagolare, ramingare, e f/)azzare le trovo usate da grandi poeti in nobili poesie: La prima nondimeno comincia ad offendermi; ma ribenedico le altre due, e più la terza dettatami dal Parini; La Notte Rimescola i color vari infiniti, E via gli spazza con l'immenso lembo Di cosa in cosa » ( vedi nel tomo II la lettera 49 ). Si tratta di PARINI, Il Mez::ogion10, 1360 e 1364-6; sacro capo: perché sacerdote di Talia (v. 54). 72-5. A ... parola: vedi la nota ai vv. 53-4, e ordina: a lui la città (Milano), allettatrice lasciva d'evirati cantori, non pose ombre (vedi i vv. 65-9), non pietra (tomba), non parola (iscrizione sepolcrale). 73. tra ... nutra: vedi i vv. s1-3, e la nota relativa. 73-4. lasciva ... alIettatrice: sfacciata adescatrice, grazie ai cospicui emolumenti, di quegli evirati ca11tori, ai quali è indirizzata l'ode pariniana La musica. Nella Lettera apologetica, il FoscoLo scriveva: «correvano medaglie battute al Marchesi cantante eunuco loro concittadino, ed io rinfacciava ad essi che lasciassero le ossa del loro concittadino Parini giacenti per avventura presso a' ladroni mandati in uno de' cimiteri plebei dal carnefice 11 (Edizione Nazionale, XIII, parte 11, p. 146). POESIE d'evirati cantori allettatrice, non pietra, non parola; e forse l'ossa col mozzo capo gl'insanguina il ladro che lasciò sul patibolo i delitti. Senti raspar fra le macerie e i bronchi la derelitta cagna ramingando su le fosse e famelica ululando; 75 So 75-7. e . .. delitti: nella Lettera a Monsie11r Guill ... ecc., cit., il FoscoLo osservava: 11 Il Parini giace in uno de' cimiteri nei quali si porta,io anche i cadaveri dei giustiziati. - Ma la morte riconcilia tutti. - No; la morte annienta ne' sepolti il senso della virtù e de' delitti. Ma i vivi che ha11110 anima e patn·a non si riconciliano mai col teschio di un malfattore che insanguina le reliquie d'un uomo di altissima mente e di santi costumi» (Edizione Nazionale, VI, p. 516). Scrive il GRAY, Elegy ecc., 57-60: ,, Some village-Hampden that with dauntless breast / the little Tyrant of his fields withstood; / some mute inglorious Milton bere may rest, / some Cromwell guiltless of his country's blood »; si cita dall'originale posto a fronte della traduzione del CESAROTTI, vv. 89-94, la quale suona così: «Questa zolla (chi sa?) forse ricopre / rustico Hamdeno che de' patrii campi / al picciolo Tiranno oppose il petto: / là forse giace inonorato ignoto / Miltone agreste, e Cromoel poc'oltre / cui non bruttò della sua patria il sangue». E vedi MONTI, Cristo raffigurato nel sasso che atte"ò il colosso veduto in sogno da Nabuccodonosor, 39-40: (( Stanno confusi fra l'immonde glebe / i teschi de' potenti e della plebe 11. 77. che ... delitti: che lasciò sul patibolo la propria vita delittuosa. 78-86. Senti ... sepolture: la descrizione della condizione del cimitero del Parini, come già segnalarono il MARTINETI'I e il FERRARI, sembra condotta sulla falsariga dei vv. 6-20 della Notte: « [•••] Il debil raggio / dc le stelle remote e dc' pianeti, / che nel silenzio camminando vanno, / rompea gli orrori tuoi sol quanto è duopo / a sentirli assai più. Tcrribil ombra / giganteggiando si vedea salire / su per le case e su per l'alte torri / di teschi antiqui seminate al piede. / E upupe e gufi e mostri avversi al sole / svolazzavan per essa; e con ferali / stridi portavan miserandi augurii. / E lievi dal terreno e smorte fiamme / sorgcano in tanto; e quelle smorte fiamme / di su di giù vagavano per l'acre / orribilmente tacito ed opaco». E vedi la nota a vago/a,ido del v. 7I. 78-80. Senti ... ululando: analogamente MONTI, Il Bardo della Selva Nera, VI, 417- 32: cc Nell'orribile dubbio odo un lamento / d'afflitta belva, un ululato acuto / che uscia di mezzo alle ruine, e il sento / in suon che sembra dimandarmi aiuto. / Salgo, cd ahi! veggo (umano sentimento, / vieni e impara pietà), veggo giaciuto / là sul rottame il mio Melampo, antico / de' nostri lari e sempre fido amico. / Mi riconobbe ci sì, ma non diè segno / dell'usata esultanza il doloroso; / e d'amor e di fede unico pegno / levò la testa e mi guardò pietoso. / Poi si diè ratto con umano ingegno / a raspar le macerie, e lamentoso / ululando e scavando tutta volta, / dir parea: La tua madre è qui sepolta». 78. raspar ... broncl,i: scavare con le unghie fra i resti delle tombe e gli sterpi. 79. derelitta: randagia; ramingando: vagando. 80. / amelica ululando: latrando per la fame. E vedi Le Grazie, 1, 232, a p. 424: • [.•.] ulular !'ombre de' lupi•· DEI. SEPOLCRI (1807) e uscir del teschio, ove fuggia la Luna, rùpupa, e svolazzar su per le croci sparse per la funerea campagna, e l'immonda accusar col luttuoso singulto i rai di che son pie le stelle alle obbl"iate sepolture. Indarno sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade dalla squallida notte. Ahi! sugli estinti 85 81-6. e ... sepolture: nota il FERRAR[: « Il Trevisan riporta la concezione dello Zaccaria (Mattino): "Il mesto gufo anch'ei dal cavo tronco, / dove s'ascose ai rai del sol, discende / presto sull'ali, o del solingo tempio / dal tetto antico tristamente intuona / la temuta canzon,.. E certo il s'ascose ai rai è il /uggia; e la temuta canzon fa pensare al luttuoso». 81. uscir: per zeugma è retto da Senti del v. 78; ove ••. Luna: dove si era nascosta per fuggir la luce della luna. 82. l'ùp11pa: deve l'antiscientifica associazione al canone dei rapaci notturni (vedi il v. 14 della Notte del PARINI citato in nota ai vv. 78-86), al mito di Tereo, che, per il dolore conseguente all'imbandigione delle carni del figlio ad opera di Progne e Filomela, si trasformò in upupa (vedi Ovm10, Metam., VI, 671-4: «Ille dolore suo poenaeque cupidine velox / vertitur in volucrem, cui stant in vertice cristae, / prominet immodicum prae longa cuspide rostrum: / nomen Epops volucri, facies armata videtufll); svolaz::ar: vedi il v. 15 della Notte del PARINI, citato in nota ai vv. 78-86. 83. funerea: lugubre. 84. l'immonda: perché si ciba di carne umana in ragione del mito di Tereo. 84-6. accusar • .. sepolture: rimproverare (in tal senso anche usato dal PETRARCA, Rime, XXIII, 112: e lvi accusando il fugitivo raggio», TREVISAN) col canto simile a un sinistro singhiozzo, le stelle per la luce di che quelle sono liberali (pie) alle sepolture dimenticate dai vivi. 87. sr,/ tuo poeta: il Parini; Dea: Talla; preghi rogiade: vedi Le Grazie, n, 320-1, a p. 453: u [ •••] e il fior delle rugiade invoca / dalle stelle tranquille [.•.] ». 88. squallida: oscura e triste. 88-90. Ahi! ... pianto: tanto che sia abbia per soggetto sottinteso "estinto" (in forza degli esti11ti, v. 88, secondo parve al MARTINETTI), come fiore, in senso proprio o metaforico, secondo l'opinione più diffusa, il passo non risulta del tutto perspicuo; quando non si accolga l'interpretazione avanzata da A. PAGLIARO, op. cit., p. 338, per il quale: «Assumendosi, come soggetto della proposizione dipendente ove non sia d'umane Lodi onorato e d'amoroso pianto, lo stesso soggetto della principale si, gli estinti Non sorge fiore, cioè fiore, si è obiettato che non è possibile presumere come onorato di lodi e di pianto un fiore che non è ancora nato [MARTINETTI]. La difficoltà non esiste [anche perché a sorge sembra doversi assegnare il significato non genetico, di "cresce,,, "si sviluppa"]; l'avverbio relativo ove non è temporale, bensì locale, ed in esso è incluso il soggetto della dipendente: non vi sono fiori per gli estinti, in luogo che non sia sacro alla memoria e al culto di essi» (successivamente ancora A. PAGLIARO, op. cit., p. 338, nota 24, propone: «Possibile, e forse più ovvia, è l'interpretazione: non sorge fiore in luogo, in cui esso non possa essere onorato ... »); per ove vedi Ai novelli repubblicani, 4, a p. 133: «ove allontani le santissim'ale ». 2.0 306 POESIE non sorge fiore ove non sia d'umane lodi onorato e d'amoroso pianto. Dal dì che nozze e tribunali ed are dier alle umane belve esser pietose di sé stesse e d'altrui, toglieano i vivi all'etere maligno ed alle fere i miserandi avanzi che Natura con veci eterne a sensi altri destina. 90 9S 91-6. Dal .•. destina: dal giorno in cui matrimoni legittimi (nozze), leggi (tribunali), e religione (are), concedettero agli uomini che vivevano allo stato ferino di essere curanti (pietosi) della dignità e dei diritti propri ed altrui, i vivi presero a sottrarre alla corruzione atmosferica e alla voracità delle belve le spoglie dei defunti che la natura, con eterne trasformazioni, destina a vite (sensi) diverse. Vi è sintetizzato quanto esposto da G. B. Vico, Scienza nuova, Libro primo, [Sezione terza], De' Principi, (333]: «Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consegrate solennità che religioni, matrimoni e sepolture» (in Opere, a cura di F. Nicolini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1953, p. 480; e anche si vedano i capoversi [11] e [12], p. 374). E ancora Scienza nuova, Libro primo, [Sezione terza], De' principi, [337]: «Finalmente, quanto gran principio dell'umanità sieno le seppolture, s'immagini uno stato ferino nel quale restino inseppolti i cadaveri umani sopra la terra ad esser ésca de' corvi e cani; ché certamente con questo bestiale costume dee andar di concerto quello d'esser incolti i campi nonché disabitate le città, e che gli uomini a guisa di porci anderebbono a mangiare le ghiande, còlte dentro il marciume de' loro morti congionti. Onde a gran ragione le seppolture con quella espressione sublime "foedera generis humani" ci furono diffinite e, con minor grandezza, "humanitatis commercia" ci furono descritte da Tacito» (op. cit., pp. 482-3). Il NATALI avanza l'ipotesi che il Foscolo aggiungesse le leggi (tribHnali) «forse memore d'Orazio (Poetica vv. 396-99): "Fuit haec sapientia quondam, / publica privatis secernere, sacra profanis, / concubitu prohibere vago, dare iura maritis, / oppida moliri, leges incidere ligno'' ». 92. umatie belve: chiosando tale espressione nella Lettera a Monsieur Guill ... ecc., cit., il FOSCOLO notava: a.prima del patto sociale,gli uomini 'Viveano nello stato ferino; espressiotie disappassiotiata di G. B. Vico e di tutti gli scrittori di jus naturale» (Edizione Nazionale, v1, p. s17). Un quadro della condizione ferina dell'uomo è inoltre nelle Grazie, I, 102- 44, alle pp. 415-8. 92-3. pietose ... stesse: vedi MONTI, Prometeo, I, 284: «dell'uom non meno che di sé pietoso» (segnalato da G. FISCHIETTI, L'episodio di Elettra nei Sepolcri del Foscolo, in c1 Giornale Storico della Letteratura Italiana», LXXXVIII, 443, 1966, p. 366). 94. maligno: corruttore. Altri intende malt"gno in quanto ammorbato dai miasmi dei cadaveri insepolti. DEI SEPOLCRI (1807) 307 Testimonianza a' fasti eran le tombe, ed are a' figli; e uscian quindi i responsi de' domestici Lari, e fu temuto su la polve degli avi il giuramento: 100 religion che con diversi riti le virtù patrie e la pietà congiunta tradussero per lungo ordine d'anni. Non sempre i sassi sepolcrali a' ten1pli fean pavimento; né agl'incensi avvolto 105 97-8. Testimonia11::a ... figli: le tombe erano documento delle glorie avite presso i posteri (i fasti altro non erano se non il calendario romano, contrassegnato dai più importanti avvenimenti dell'anno), e altari per i discendenti. 97. Testimo11ia11za • •. tombe: vedi la nota del FOSCOLO, a p. 329. 98. are a' figli: vedi la nota del FoscoLo, a p. 329. 98-9. e . .. Lari: dalle tombe (quitzdi) uscivano le risposte (respomi perché provenienti da esseri divinizzati) delle anime dei defunti che avevano stanza nella casa, al fine di proteggerla (domestici Lari, per distinguerli dai Lari cittadini che presiedevano alla sicurezza della città). E vedi la nota del FOSCOLO, a p. 330. 99-100. e .•. giuramento: in quanto, secondo lo stesso FoscoLo, La chioma di Berenice, cit., Considerazione v, Giuramento, p. 178, i giuramenti fanno a temere la vendetta celeste contro lo spergiuro». 101-3. religion ..• an11i: religione che le virtù civili e l'affetto dei congiunti tramandarono, in forme diverse (diversi riti), per lungo seguito di anni. 101. religio11: vedi Le Grazie, 1, 88, a p. 4 I s: «rclig"ione di libar col latte». A inizio di verso, e con dieresi, è di tipica marca montiana: vedi Il Bardo della Selva Nera, VII, 213: u religion che pronta in noi germoglia». 102. la ••• co11giu11ta: come, più oltre al v. 277 i co11sa11g11inei lutti. Nota il CANEI.LO: «Queste due locuzioni sono state suggerite al F. da simili locuzioni che si hanno in latino. Cosi Ovidio, Met. IX, 41 I: Cog11atumque latus Plzegeir,s hauserit e11sis, cioè il fianco di un suo congiunto o consanguineo (cog11atus); e Lucano, Phars. I, 4, dice cog11atae acies quella di Cesare e di Pompeo, genero e suocero». E del resto sono comuni locuzioni le seguenti: fratermmi nomen, f ratema mors, servilis t11mulus, servi/es nuptiae. 103. per . •• an11i: vedi P,\RINI, Il 1'1atti110, 1-2: a[...] per lungo / di magnanimi lombi ordine il sangue» (lVlARTINETTI). 104-8. No11 • •. scheletri: non sempre si usò seppellire i defunti nelle chiese, così che le stesse risultassero come pavimentate dalle lastre sepolcruli, e non sempre il fetore dei cadaveri, mescolato all'incenso, offese i fedeli, e non sempre le città furono rattristate dalle pitture di danze macabre apposte sopra i muri delle sue case. Giustamente il FERRARI osserva che a con questo il poeta previene una obbiezione che gli poteva essere mossa: Vorresti adunque che le nuove disposizioni mortuarie non ci fossero, e si seguitasse a seppellire nelle chiese con grave danno della salute pubblica, e si turbassero le menti collo spettncolo degli scheletri, e via via? - Nol egli reca ad esempio le costumanze funebri dei popoli antichi e dei moderni inglesi » ecc. POESIE de' cadaveri il lezzo i supplicanti contaminò; né le città fur meste d'effigiati scheletri: le madri balzan ne, sonni esterrefatte, e tendono nude le braccia su l'amato capo del lor caro lattante onde noi desti il gemer lungo di persona morta chiedente la venai prece agli eredi dal santuario. Ma cipressi e cedri di puri effiuvii i zefiri impregnando perenne verde protendean su l'urne per memoria perenne, e preziosi vasi accogliean le lagrime votive. 110 115 108-14. /e . .. santuario: le madri si scuotono dal sonno atterrite (esterrefatte), per la suggestione di quanto deprecato ai vv. 104-8, e alzano le nude braccia sopra l'amato capo del neonato, affinché non venga svegliato dall'insistente gemito del defunto, il quale, dal santuario, chiede agli eredi il conforto della preghiera, utile ad abbreviarne la permanenza in Purgatorio, venai perché le messe in suffragio dei defunti s'intendono a spese degli eredi. Altri (FERRARI, NATALI) invece intende: chiedente agli eredi che dalla chiesa siano recitate in suo suffragio le preghiere che gli stessi hanno acquistate. MARTINETTI, TREVISAN ecc. richiamano il passo dell'Argonautica di AroLLONIO Romo, nella traduzione del Bellotti (1v, 136-9): «[ •••] si svegliar spaurite le novelle / madri, e affannose stesero le mani / sui pargoletti, che al loro sen raccolti / dormicno, e scossi al fiero suon trabalzano 11. Ma è forse anche presente il ricordo di DANTE, lnf., XXIII, 38-42. 108-9. le . .• esterrefatte: vedi MONTI, Il Bardo della Selva Nera, III, 255-6: ,, [...] Esterrefatto / balza il misero in piedi [...] ,,_ u3. la • .. prece: nota il TREVISAN: "L'idea, onde il poeta sferza con eccesso di poetico sdegno l'abuso di taluni uomini di chiesa [ma vedi la nota ai vv. 108-14, dove a tJenal non si attribuisce senso negativo, ma solo tecnico], è tolta da Persio (Sat. 11, 3): tu prece poscis emaci? che il Monti avea appunto tradotto: prece venai ,,. 11 4-5. Ma •.• impregna,rdo: vedi Le Grazie, I, 64-5, a p. 413: «[•••] da' spontanei fiori / alimentate e da' perpetui cedri"· 114. Ma: si contrappone al Non sempre del v. 104. 115. effluvii: emanazioni di profumo; zefiri: l'atmosfera; impregnando: vedi DANTE, Purg., XXIV, 146-7: a l'aura di maggio movesi e olezza, / tutta impregnata da l'erba e da' fiori». 116. perenne tJerde: fronde sempreverdi. 117. per • .• peren11e: a perpetua memoria del defunto. 117-8. e ••. votive: vedi la nota del FoscoLo, a p. 330; tJotive: più che "sacre" (FERRARI), o "pie" (DE RoBERTIS), in rapporto ai vasi lacrimali, mi pare valgano, tecnicamente, "promesse in voto". DEI SEPOLCRI (1807) 309 Rapian gli amici una favilla al Sole a illuminar la sotterranea notte 120 perché gli occhi dell'uom cercan morendo il Sole; e tutti l'ultimo sospiro mandano i petti alla fuggente luce. Le fontane versando acque lustrali amaranti educavano e viole 12s su la funebre zolla; e chi sedea a libar latte e a raccontar sue pene ai cari estinti, una fragranza intorno sentia qual d'aura de' beati Elisi. Pietosa insania che fa cari gli orti 130 I 19-20. Rapian .•. notte: le lampade sepolcrali, citate dal FoscoLo in nota ai vv. 117-8, a p. 330. 120. la ... notte: le tenebre del sepolcro. 121-3. perclié ... luce: vedi VIRGILIO, Aen., IV, 690-2: llTer sese attollens cubitoque adnixa levavit, / ter revoluta toro est oculisquc errantibus alto / quaesivit cacio lucem ingemuitque reperta •· Nota il MARTINE'ITI che il Foscolo «Con sapienza[...] tralasciò l'errantibus Virgiliano; e in sole condensò lucem ed alto coelo; cd ingemuit con ultimo sospiro». 124. acque lustrali: acque purificatrici, di cui i pagani si aspergevano prima di entnre nei templi; educatrici, nella fattispecie, di amaranti e di viole. 125-6. amaranti ..• zolla: vedi la nota del FoscoLo, a p. 330. 125. amaranti: piante erbacce, annue o perenni, caratterizzate da piccoli fiori riuniti in gran numero alla sommità del fusto, di tinta vivace. Vedi La Croce, 53, a p. 16: •d'amaranto immortale un vago serto 11; In morte d'Aman"tte, 69, a p. 42: • [...] coronate d'amaranto»; Le Grazie, n, 122, a p. 438: «degli amannti inviolato [.•.] ». E vedi anche MONTI, La 1Vlusogonia, 38-40: «e giacinti e melisse ella cogliea, / amor d'eterce nari, e quel che verno / unqua non teme, l'amaranto eterno•; educavano: vedi la nota a educò del v. 55. 126. m ••• :olla: sineddoche del tipo della deserta gleba del v. 47. 126-7. e ••. latte: vedi la nota del FoscoLo, alle pp. 330-1; e anche il sonetto Un di, s'io non andrò semprefuggendo, 2-3, alle pp. 240-1: • [...]mi vedrai seduto/ su la tua pietra[.••]•· 127. libar latte: spargere latte sulla tomba dei defunti. E vedi Le Grazie, 1, 87-91, a p. 41 s: •[...] Fu quindi / religione di libar col latte / cinto di bianche rose e cantar gl'inni / sotto a' cipressi cd offerire all'ara / le perle e il primo fior nunzio d'aprile•; e ... pene: vedi la nota al v. 30. E In morte del padre, sonetto Fu tutto pianto: e con un grido acuto, 14: •a dir sue pene e ad invocar la morte» (Edizione Nazionale, 11, p. 301). I 28-9. una ••. Elisi: vedi la nota del FoscoLO, a p. 331. La fragranza non ~ relativa agli amaranti e alle viole (v. u,5), bensì, secondo la nota del poeta, agli unguenti che accompagnavano il defunto nel sepolcro. E vedi, oltre alla nota al v. 91 (• unguinis expertem •) della Chioma di Berenice, cit., pp. 144-5, quella del FOSCOLO, a p. 330, precedentemente citata, e Le Gra- 11ie, 111, 58, a p. 466: • sentì l'aura celeste, e mirò l'onde •· 129. Elisi: i campi dell'oltretomba riservati agli spiriti eroici. 130. Pietosa insania: illusione dettata da ~ffetto pietoso. In tal senso vedi ORAZIO, Od., 111, 4, 5-8: «Auditis an me ludit amabilis / insania? Audire et videor pios / errare 310 POESIE de' suburbani avelli alle britanne vergini dove le conduce amore della perduta madre, ove clementi pregaro i Genii del ritorno al prode che tronca fe' la trionfata nave del maggior pino, e si scavò la bara. Ma ove dorme il furor d'inclite geste e sien ministri al vivere civile l'opulenza e il tremore, inutil pompa e inaugurate im1nagini dell'Orco 135 per lucos, amoenae / quos et aquae subeunt et aurae » (solo parzialmente citato dal TREVISAN}; gli orti: i giardini (cimiteri dall'apparenza di giardini, in contrapposizione alle immagini di terrore che caratterizzano le sepolture cattoliche, ai vv. 105-8). 131-2. de' . .. vergini: vedi la nota del FoscoLo, a p. 331. 133-4. ove ... prode: si può intendere: ove pregarono (le britanne vergini) i Geni perché favorissero il ritorno del prode, riferendo il genitivo del ritorno a clementi, sulla scorta dell'analogo costrutto del v. 69 (cortese di calma), oppure: ove pregarono i Geni del ritorno (tenuto anche conto che i Romani adoravano Abeona e Adeona, rispettivamente dea della partenza e del ritorno), affinché fossero clementi al prode. Per clementi vedi Le Grazie, 1, 38, a p. 412: « Perché clemente a noi che mirò afflitti»; per pregaro vedi Le Grazie, 11,408, a p. 459: 11 pregavi lenta l'invisibil Parca»; per Genii vedi Bonaparte liberatore, 43-4, a p. 146: « de' marziali il coro / Genii [...] n, e il sonetto Te nudrice alle muse, ospite e Dea, 9, a p. 212: u Or ardi, Italia, al tuo Genio ancor queste 11. 134-6. al . .. bara: vedi la nota del FoscoLo, alle pp.331-2. 134. prode: 1-Ioratio Nelson (1758- 1805). 135. tronca fe': troncò; trionfata nave: "vinta nave0 : il vascello francese Orie11t. Il participio passato del verbo intransitivo è usato alla latina (vedi ad esempio VIRGILIO, Georg., 111, 33: «bisque triumphatas utroque ab litore gentis>•). 136. del ... pi110: dell'albero maestro. 137-41. Ma ..• monumenti: ma dove l'ardente desiderio (furor) di imprese gloriose (inclite gesta) langue (dorme), e governino invece (e sien ... civile) ricchi pavidi cli un despota straniero (NATALI}, i cippi (mezze colonne funebri}, e i marmorei 111om11nenti assumono l'aspetto (sorgo11) di vana manifestazione di magnificenza (pompa}, e di male augurate (cioè funeste} immagini della morte. Vedi il sonetto Non son chi fui; perì di noi gran parte, u, a p. 207: «furor di gloria, e carità di figlio». Vedi MONTI, Il beneficio, 182-3: ((ch'ovc concordia e amor di patria è morto, / fu de' molti il regnar sempre tiranno». 137. dorme: vedi MONTI, Il Bardo della Selva Nera, 11, 260-8, citato in nota al v. 153. 139. inutil pompa: vedi Ortis (1802): << Sepolture! bei marmi, e pomposi epitaffi, ma se tu li schiudi vi trovi vermi e fetore», qui a p. 590. 140. inaugurate: ccmale augurate, funeste", prima che dal Foscolo, secondo comunemente si ritiene, usato nell'Omaggio dal CERONI, Sciolti, 33: cc mostri le punte inaugurate, e fugga»; Orco: uno dei nomi di Plutone, dio degli Inferi (qui per gli Inferi stessi, cioè la morte). Nota l'OTTOLINI: «Perché immagini dell'Orco? Perché il primo inferno, fu, secondo il Vico, il sepolcro, ché se v'è un inferno "nel quale furono immaginati gli Elisi ... stanza beata degli Dei Magni, ossia dell'anime buone DEI SEPOLCRI (1807) JI I sorgon cippi e marmorei monumenti. Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo, decoro e mente al bello Italo regno, nelle adulate reggie ha sepoltura già vivo, e i stemmi unica laude. A noi 145 morte apparecchi riposato albergo ove una volta la fortuna cessi dalle vendette, e l'amistà raccolga non di tesori eredità, ma caldi sensi e di liberal carme l'esempio. 150 A egregie cose il forte animo accendono l'urne de' forti, o Pindemonte; e bella e santa fanno al peregrin la terra che le ricetta. Io quando il monumento de' morti", ve n'ha pure un altro, "L'Orco dei poeti, che divora gli uomini deHa vita bestiale, che non lasciano memoria di sé, e di cui è Dio Erebo, padre della 1Votte civile della notte de' nomi" (Vico, Scienza Nuova, 1, L. 111, cap. xxx, e Scienza Nuova, 11, L. n) ». 142. Già . •. vulgo: si allude ai tre collegi elettorali, il dotto (duecento letterati cd ecclesiastici, a Bologna), il ricco (duecento negozianti, a Brescia), il patrizio (trecento possidenti, a Milano), designanti nell'ambito del Regno d'Italia i ceti politicamente influenti. In altro contesto, l'opposizione antifrastica è già in PARINI, Il lv/attino, 955: «Tu il ricco e il grande sopra il vulgo innalzi»; vulgo: vedi Ortis ( 1 802): «[•••] dappertutto ho trovato volgo di nobili, volgo di letterati, volgo di belle», qui a p. 592. 143. decoro e mente: ornamento e guida. 144. adulate reggie: dimore (splendide come reggie) in cui risuona l'adulazione dei potenti; sulla scorta di analoghi costrutti quali 11rne / co,,jortate di pianto (vv. 1-2), triot,jata nave (v. 135). 145. già vivo: non ancora morto; lallde: vanto. 145-6. A noi ... albergo: vedi il sonetto Solcata /io fronte, occhi incavati intenti, 14, a p. 229: «morte sol mi darà fama e riposo». 145. A noi: vedi il sonetto Né più mai toccherò le sacre sponde, 13-4, n p. 237: a:[...] a noi prescrisse / il fato illacrimata sepoltura». 146. riposato: tranquHlo. 147. ove ima volta: dove finalmente. 147-8. la ••• ve11dette: la sorte smetta di perseguitarmi. 148. l'amistà: gli amici. 149-50. ma .•. esempio: ma sentimenti convenienti al furor d'inclite geste (v. 137), e l'esempio d'una poesia non servile. 15 1. egregie cose: eccellenti imprese; forte animo: vedi noi tomo II la lettera dedicatoria dell'Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione: a:ma è certo esempio di forte animo». 153. santa: degna di venerazione. Anche MONTI, Il Bardo della Selva Nera, 11, 260-8, aveva scritto: «[•••] Calcando / l'Itala polve, ti rammenta adunque / che tutta è sacra; che il tuo piè calpesta / la tomba degli eroi; ch'ivi han riposo / l'ombre de' forti, e che de' forti i figli / hanno al piè la catena, e non al core; / che in que' cor non morì, ma dorme il foco / dell'antica virtù; dorme il coraggio; / dormon le grandi passioni»; peregri11: forestiero. 154. le: l'urne (v. 152). 154-64.lo ••. firmamento: nell'Ortis (1802): «Dianzi io odorava le sepolture del Galileo, del Machiavelli, e di Michelangelo; 312 POESIE vidi ove posa il corpo di quel grande che temprando lo scettro a' regnatori gli allor ne sfronda, ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue; e l'arca di colui che nuovo Olimpo ISS contemplandole io tremava preso da un brivido sacro. [...] Presso a que' marmi mi parca di rivivere in quegli anni miei fervidi, quand'io vegliando su le opere de' grandi trapassati mi gittava con la immaginazione fra i plausi delle generazioni future», qui a p. 641. Il canone dei toscani illustre (Machiavelli, Michelangelo, Galileo, Dante, Petrarca) si ritrova anche nel sonetto Qui Michelangelo nacque? e qui il sublime dell'ALFIERI, Rime, XL, secondo ordine differente (Michelangelo, Petrarca, Dante, Galileo, Machiavelli). Si segnala inoltre che un'apologia dell'Italia e dei suoi maggiori artisti, in chiave patriottico-culturale, è anche in MONTI, La bellezza del/'Universo, 256-73. 155. quel grande: Niccolò Machiavelli. Vedi ALFIERI, Rime, XCI, I: 11 Quel grande, che fatale a Roma nacque»; MONTI, Mascheroniana, I, 65: 11 Qui riposa quel grande che su l'Arno»; v, 33: «quel grande che cantò l'armi e gli amori•· 1 56-8. che .•. sangue: che temperando, cioè apprestando il bastone del comando (vale a dire teorizzando la tecnica del potere) ai governanti, lo spoglia contemporaneamente d'ogni gloria, rivelando al "popolo" quanto gli costi di lacrime e di sangue. Come è noto tale interpretazione del Principe risale ad Alberigo Gentile (1585), e al Foscolo, come all'ALFIERI, Del Principe e delle lettere, II, 9, e Rime, XL, e ad altri (Galanti, Galdi, Lomonaco), pervenne tramite Rousseau, che nel Contrat socia[, lib. III, cap. VI, scriveva: >, cioè che mai tramonta. 168. Lieta . •• Lima: godendo della purezza della tua atmosfera (cioè risplendendo con maggiore intensità) la Luna ecc.; veste: oltre a VIRGILIO, Aen., VI, 640-1: «Largior hic campos aether et lumine vestit / purpureo [...] ,, (TREVISAN), vedi DANTE, In/., 1, 16-7: «guardai in alto e vidi le sue spalle / vestite già de' raggi del pianeta >1 ; e anche Le Grazie, I, 203-4, a p. 422: «città che l'aureo sol veste di luce/ quando riede aWoccaso [...] ». 170. per . . . festanti: festosi grazie all'abbondanza delle uve nei vigneti. La metonimia sembra risalire a VIRGILIO, Georg., II, 521-2: 11 [ •••] et alte / mitis in apricis coquitur vindemia saxis ». Vendemmia per uuva" infatti è usato un'altra volta dal FoscoLo nelle Grazie, ed. Chiarini, Livorno, Vigo, 1882, p. 123, v. 956 varianti: 11[•••] e la vendemmia/ ch'or tu miri dai balzi»; convalli: le vatli minori confluenti nelle maggiori. E vedi Le Grazie, I, 9, a p. 409: u Nella convalle fra gli aerei poggi,,; MARULLO, De laudibris Senae, p. 58, 3-10: a Sena, delitiae Italiae, / seu libet positum loci / convallesque beatas / tot circum riguis aquis, / seu ver conspicere annuum / nativisque rosariis / semper purpureum solum / et colles viridantes 11; MONTI, Prometeo, II, 472: ue de' beati le convalli irriga». 172. incensi: "profumi'', così nobilitati in ragione della sacralità della terra. 173-4. e .•. fuggiasco: vedi la nota del FoscoLo, a p. 332. 173. e tu: analogo attacco nel sonetto E tu 11e' carmi avrai perenne vita, a p. 231; prima: ulteriore privilegio di Firenze; carme: l'inizio della Commedia. 174. a/legrò l'ira: vedi DANTE, Purg., xx, 94-6: 11 O Signor mio, quando sarò io lieto / a veder la vendetta che, nascosa, / fa dolce l'ira tua nel tuo secreto?,,. Nel Parallelo fra Dante e il Petrarca, qui nel tomo n, il FoscoLo, riecheggiando il passo sopra citato, osserva che Dante ,, pregustò nella conscia mente quella tarda ma certa e in eterno duratura vendetta che fé dolce Pirn sua nel suo segreto»; Glzibellin: in effetti guelfo di parte bianca; così denominato in omaggio alle note simpatie imperiali. 175-9. e • •• Celeste: e ancora tu, o Firenze, DEI SEPOLCRI (1807) desti a quel dolce di Calliope labbro che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma d'un velo candidissimo adornando, rendea nel grembo a Venere Celeste: ma più beata ché in un tempio accolte serbi l'ltale glorie, uniche forse 18o desti i genitori e la lingua a quello squisito cantore, che ricoprendo di un velo di modestia e di pudore l'amore sensuale dei Greci e dei Latini, lo riponeva in grembo alla Venere Celeste (spiritualizzandolo, e però rendendolo immortale; e vedi la nota al v. 179). 175-6. i . .. labbro: vedi la nota del FoscoLo, a p. 332. 176. dolce • .. labbro: labbro in sineddoche per "bocca,,_ Già nella Chioma di Berenice, cit., Discorso quarto, Della ragione poetica di Callimaco, p. 601 relativamente al Petrarca, il FOSCOLO scrive: «Che se nella sua terra natia e con la stessa sua lingua non felici seguaci: "Ebbe quel dolce di Calliope labbro,,» ecc. L'endecasillabo foscoliano risulta, come osser\'a il FERRARI, dall'unione di due emistichi della versione del Pagnini dell'Idillio Ili di Mosco (dove la perifrasi designa Omero); e vedi La Giustizia e la Pietà, 9, a p. 109: «Giustizia dura, pria che il dolce labbro»; Calliope: propriamente musa della poesia epica, qui, come in DANTE, Purg., 1, 9, sta per poesia in generale, e però l'espressione (dolce ..• labbro) vale complessivamente a raffigurare il Petrarca quale incarnazione della poesia stessa, designandone, grazie alla sua etimologia, la dominante stilistica. 177. Amore: nota il NATALI: «L'immagine d'un puttino velato in grembo alla mndre rappresenta il passaggio dal sensualismo erotico proprio degli antichi poeti greci e latini all'idealismo erotico del Petrarca. (Secondo L. Perroni Grande, l'immagine deriverebbe da un carme latino in lode del Petrarca del cinquecentista Giovanni l\1atteo Toscano, ben noto al F., che lo cita in Opere, II, 467). Il F. lodava l'amore verecondo cantato dal Petrarca, quando troppi poeti, specialmente francesi, cantavano l'amore lascivo. Cfr. nelle Gra::ie, II, 364-69, la condanna dell'inverecondia boccaccesca. L'immagine del velo, cara al Foscolo (cfr. il Velo delle Grazie, nel 111 inno), è da lui usata altre due volte a proposito del Petrarca: nel Ga::zettino del bel mondo: "A mc è cara la rosa della modestia per la sola ragione che è la più cara ad amore. Il Petrarca lo trovò nudo nei poeti latini, e lo coprl d'un candidissimo velo" (Opere, IV, 59); e, con qualche temperamento, nel Saggio sopra l'amore del P.: "Benché il Petrarca siasi studiato di ricoprire d'un bel velo la figura di Amore, che greci e romani poeti ebbero vaghezza di rappresentar nudo, questo velo è sl trasparente, che lascia tuttavin scerncrc le stesse forme" (Opere, x, 5) •· 179. rendea .•• Celeste: traduce il v. 56 della Coma Berenices: «et Veneris casto conlocat in grcmio,i; e vedi a p. 271 la nota ai vv. 70-1 della Cl,iomadi Berenice; Ve,,ere Celeste: vedi la nota del FoscoLo, a p. 332; e anche La chioma di Berenice, cit., Considerazione x, Venere Celeste, pp. 199-203, e Le Gra::ie, 11, 258, a p. 449: •fe' del celeste amor celebre il rito•. 180. 111a piiì beata: Firenze; e vedi a p. 109 la nota ai vv. 5-6 della Gillsti::ia e la Pietà; tempio: Santa Croce; accolte: adunate. 181. serbi: conservi; l1 ltale glorie: le tombe dei grandi; uniche: sola cd ultima testimonianza di grandezza. POESIE da che le mal vietate Alpi e l'alterna onnipotenza delle umane sorti armi e sostanze t'invadeano ed are 182.-5. da ... tutto: nota il CANELLO: «Le mal vietate Alpi sta per ule mal difese Alpi"; e il Foscolo fu portato ad attribuire questo insolito significato a vietate forse dalla analogia del francese defendre, che dice tanto "difendere,, quanto "vietare,,, o da quello del lat. prohibere. Perché la frase si regga poi logicamente bisogna attribuire al participio vietate (difese) valore e officio sostantivo, quasi si dicesse "la mala difesa delle Alpi"». Questa specie dicostrutto, insolito affatto nell'italiano, èinvece abbastanza frequente nel latino. Così Livio, XXI, 16: Pudor non lati auxilii patres cepit, cioè "la vergogna di non aver recato soccorso"; e Sallustio, Catil. 48: ne eum Lentulw et Cethegus deprehensi terrerent, cioè che "la cattura di Lentulo e di Cetego non lo dovesse spaventare" [...] E la mala difesa delle Alpi toglie a Firenze le armi, le sostanze e tutto; giacché a noi pare che l'invadea110, pur involgendo l'idea delle invasioni straniere, valga qui propriamente "toglieano". Né deve parere strano che il F. attribuisse ad invadere questo inaudito significato, fondandosi sull'analogia di involare, che in latino dice "assalire", e nell'italiano "rubare", cfr. il francese voler. E giustificabile è anche il dire che a Firenze era stata tolta, insieme colle armi ecc., anche la patria. Questa patria è l'Italia, non già l'Italia geografica, ma l'Italia politica, organata in regno, di cui Firenze fosse parte e forse capo». E vedi anche VIRGILIO, Ae11., x, 11-3: aAdveniet iustum pugnae (ne arcessite) tempus, / cum fera Karthago Romanis arcibus olim / exitium magnum atque Alpes inmittet apertas ». 182. le . .. Alpi: vedi Ortis (1802): 11 I tuoi confini, o Italia, son questi; ma sono tutto dì sormontati d'ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figlii? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? - Ov'è l'antico terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ognor memorando la libertà e la gloria degli avi le quali quanto più splendono tanto più scoprono la nostra abbietta schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E verrà forse giorno che noi perdendo e le sostanze, e l'intelletto, e la voce sarem fatti simili agli schiavi domestici degli antichi, o trafficati come miseri Negri, e vedremo i nostri padroni schiudere le tombe e diseppellire, e disperdere al vento le ceneri di que' Grandi per annientarne fino le ignude memorie; poiché oggi i nostri fasti ci sono cagione di superbia, ma non eccitamento dall'antico letargo. [...] lo guardando da queste alpi l'Italia piango e fremo, e invoco contro gl'invasori vendetta», qui alle pp. 669-70. Anche GALEAZZO DI TARSIA nel sonetto Già corsi l'Alpi gelide e canute, 2, per il quale vedi la nota al v. 166, definisce le Alpi «mal fido siepe alle tue rive amate n (ANTOGNONI). 182-3. e . .. sorti: vedi Ortis (1802): «Tutte le nazioni hanno le loro età. Oggi sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dianzi vilmente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco», qui a p. 671; e La chioma di Berenice, cit., Considerazione IX, Deificazioni, p. 194: a Le nazioni per la perpetua legge dell'universo alternano la schiavitù, e la signoria». 184. sostanze: vedi l'Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione, qui nel tomo n: «Né patria, né sostanze» ecc.; cd anche Ortis (1802.): « E verrà forse giorno che noi perdendo le sostanze» ecc., citato in nota al v. DEI SEPOLCRI (1807) 317 e patria e, tranne la memoria, tutto. 185 Che ove speme di gloria agli animosi intelletti rifulga ed all'Italia, quindi trarrem gli auspicii. E a questi marmi venne spesso Vittorio ad ispirarsi. Irato a' patrii Numi, errava muto 190 ove Arno è più deserto, i campi e il cielo desioso mirando; e poi che nullo vivente aspetto gli molcea la cura, 182; t'invadeano: vedi Ortis (1802): •Che s'io dividendomi non trovo la mia porzione di libertà; se gli uomini me l'hanno invasa perché sono più forti» ecc., qui a p. 667. 186-8. Che • .. auspicii: perché, quando agli Italiani dotati di alti sensi (forse addirittura all'élite rappresentata dagli uomini di cultura forniti di coscienza nazionale), e all'Italia tutta, tornerà ad offrirsi la possibilità del riscatto nazionale e della gloria conseguente, noi, poeti, dalle tombe di Santa Croce, quasi sacerdoti d'una religione che ha i suoi altari in quella, trarremo gli auspici del futuro. Contro il valore temporale-ipotetico dell'avverbio ove ha preso posizione A. PAGLIA• RO, op. cit., p. 344, osservando che «ammettendo per il primo [ove] significato temporale-ipotetico e locale [quindi] per il secondo•, si viene a rompere «la correlazione che la lettura immediatamente avverte fra ove e qr,indi 11, così che «ne risulta al periodo un significato confuso e tautologico: quello che è detto nella protasi, cioè "quando sorgeranno nuove speranze negli ltaliani0 , si ripete senza variazioni apprezzabili nell'apodosi: "da qui trarremo gli auspici", cioè la fede, la speranza nell'avvenire o simili•· La correlazione tra ove e quindi appare tuttavia difficilmente sostenibile, ove si consideri il valore parentetico della proposizione ove . .• Italia. Ne consegue che, stante il significato di trarrem gli auspicii, del resto interpretato nel senso sopra esposto anche da A. PAGLIARO, op. cit., p. 347, e considerata l'allusione foscoliana allo specifico compito spettante ai poeti, all'apodosi non si può far carico di incorrere in alcuna tautologia. 188. E .•• marmi: in Santa Croce. La E ha valore, oltre che coordinante, dichiarativo, come al v. 19. 189. Vittorio: l'Alfieri. 190-1. Irato ... deserto: vedi la nota del FoscoLo, a p. 332. 190. Irato •.. Nr,mi: adirato contro gli dèi tutelari della patria, per avere abbandonata la stessa al proprio destino. L'immagine alficriana, come dapprima avverti il CARRER., è condotta sulla falsariga cli quella di Bcllerofontc, in OMERO Il., VI, 200-2: cxU' <>TE 81) xcxt XELVOt; cxrdJx&ETO TtCXCJL .Oe:oicnv, / ~TOL o XCÌTt 7tt8(ov TÒ ,A>,f,r.ov oloc; cv.ii-ro, ' &v .OUµ.òv X0tTt8<.a>v, miTov clv&pw1t<.a>v CÌÀEE(vwv. E vedi Le Grazie, 111, 871 a p. 468: «Palla Minerva agli abitanti irata»; e ALFIERI, Rime, CLVII, 10: •Irato sempre, e non maligno mai•. 191. ove •.• deserto: dove le rive dell'Arno sono più deserte. 191-2. i . •• mirando: cercando appagamento al proprio affanno nella contemplazione della natura (i campi e il cielo). 192-3. e . .. c11ra: e poiché nessuna apparenza di vita gli mitigava l'affanno; e vedi La Gi11stizia e la Pietà, 83, a p. 107: •tua mano tutti colorisce e molce •· 193. cura: vedi il sonetto Forse perché della fatai quiete, I 1-21 a p. 201 ( «[...] e van con lui/ le torme delle cure onde meco egli si strugge»), e la nota relativa. 318 POESIE qui posava l'austero; e avea sul volto il pallor della morte e la speranza. 195 Con questi grandi abita eterno: e l'ossa fremono amor di patria. Ah sì! da quella religiosa pace un Nume parla: e nutria contro a1 Persi in Maratona ove Atene sacrò tombe a1 suoi prodi, 200 la virtù greca e l'ira. Il navigante 194. qui: in Santa Croce. 194-5. e . .. morte: vedi ALFIERI, Rime, CLXVII, 8: a pallido in volto, più che un re sul trono,,. 196. Con ... etemo: Vittorio Alfieri, morto 1'8 settembre 1803, fu sepolto in Santa Croce, dove la contessa d'Albany gli fece innalzare un monumento da Antonio Canova; eterno: per sempre. 196-7. e ... patria: e i resti dell'Alfieri mandano fremiti, suscitatori di virtù patria. 198. religiosa: sacra; un ... parla: a l'amore di patria deificato,, (NATALI). 200. sacrò . .. prodi: consacrò, innalzò i due tumuli sepolcrali ai caduti Ateniesi e Plateesi. E vedi la nota del FoscoLO, a p. 333. 201. la ... ira: il valore dei Greci, e il loro odio (comro a' Persi, v. 199). 201-12. Il . .. ca11to: una prefigurazione della battaglia di Maratona (12 settembre 490 a. C.) è ncll'Ortis (1802): 11 Sono salito a Monteaperto dove è infame ancor la memoria della sconfitta dei Guelfi. Biancheggiava appena un crepuscolo di giorno, e in quel mesto silenzio e in quella oscurità fredda, con l'anima investita da tutte le antiche e fiere sventure che sbranano ]a nostra patria ... o mio Lorenzo! io mi sono sentito abbrividare, e rizzare i capelli; io gridava dall'alto con una voce minacciosa e spaventata. E mi parca che salissero e scendessero dalle vie più dirupate della montagna le ombre di tutti que' Toscani che si erano uccisi, con le spade e le vesti insanguinate, guatarsi biechi, e fremere tempestosamente, e azzuffarsi e lacerarsi Je antiche ferite ... », qui alle pp. 646-7. Della tradizione della credenza popolare riferita da Pausania, e citata in nota dal FoSCOLO (vedi sotto), è ricordo, come già fu notato, nella canzone A S.A.S. il Duca di Sudermania per la sua solenne acclamazio11e in Arcadia sotto i nomi di Areifi/o Marato11io, 73-8, di CARLO GASTONE DELLA TORRE DI REZZONICO: 11 Col nuovo gregge andrai / di l\1aratona a spaziar sul lito, / e ne1 silenzi de la notte udrai / squillo di trombe e di destrier nitrito; / ch'ivi pugnano ancor l'ombre sdegnose / dc1 persi arcieri e dc gli astati achei I)' in G. CARDUCCI, Lirici del secolo XVIII, Firenze, Barbèra, 1871, p. 324. E vedi anche MONTI, Il Bardo della Selva Nera, 1, 329-35: «eran quete le selve, eran del11 aure / qucti i sospiri; ma lugùbri e cupi / s'udian gemiti e grida in lontananza / di languenti trafitti, e un calpestio / di cavalli e di fanti, e sotto il grave / peso dc' bronzi un cigolio di rote, / che mestizia e terror mettea nel core» (segnalato da G. FISCHIETTI, art. cit., pp. 367-8). Versi che il FOSCOLO non mancò di richiamare nelle Osservazioni sul poema del Bardo, prendendo a citare il passo dal v. 311, per notare come il Monti nel Bardo, rispetto ai precedenti poemi, «si fosse ora procacciate nuove forme e nuovo impasto [...] evitando il fragore di troppe e magne parole di cui si compiaceva tanto il Frugoni reputato come Dio dello sciolto cd oggi ancorn imitato» e così procurando II a se stesso ed a' poeti che nasceranno in Italia DEI SEPOLCRI (1807) J19 che veleggiò quel mar sotto l'Eubea, vedea per l'ampia oscurità scintille balenar d'elmi e di cozzanti brandi, fumar le pire igneo vapor, corrusche 205 d'armi ferree vedea larve guerriere cercar la pugna; e all'orror de' notturni silenzi si spandea lungo ne' campi di falangi un tumulto e un suon di tube e un incalzar di cavalli accorrenti 210 scalpitanti su gli elmi a' moribondi, e pianto, ed inni, e delle Parche il canto. Felice te che il regno ampio de' venti, Ippolito, a' tuoi verdi anni correvi! [...] un verso veracemente narrativo che dipinga alla mente ed al cuore più che non suoni all'orecchio» (Edizione Nazionale, VI, pp. 473 e 475). 202. veleggiò: percorse a forza di vela; aparc sia stato suggerito al F. [da] navigare aequor dei latini, cfr. Virgilio, En., I, 71 [ma I, 67] 11 (CANELLO); quel .•• Eubea: il mare Mirtoo, al cui nord è situata l'Eubea (attuale Ncgroponte), di fronte alla quale sta l'Attica e la pianura di Maratona. 203. ampia oscrirità: notte profonda. 205.fumar: usato transitivamente; corrusche: lampeggianti. In lettera a Ferdinando Arrivabene [Brescia aprile 1806] il FosCOLO scrive: 11 Le ombre sono corrusche d'armi ferree, perché il ferro brunito, e niun altro metallo, rimanda raggi tetri e terribili» (Epistolario, n, p. 194). 206. laroe guerriere: fantasmi di guerrieri. 207-8. e • •• silenzi: nello spaventoso silenzio notturno. E vedi La Giusti::ia e la Pietà, 86, a p. 112: a tra il calcato notturno immenso orroreD; RINUCCINI, Euridice, scena u, I 32-3: cr Venga, deh venga ornai la bella sposa/ tra 'l notturno silenzio e i lieti orrori 11; FANTONI, I, III, Ode Xl, 2: aper il notturno orrore». 209. di ••. tube: l'agitarsi delle falangi dei fanti greci, che prendono posizione al suono delle tube. Nota il CANELLO: ail litur,s era proprio dei cavalieri, e la tuba dc' pedoni ». 21o. e ... acco"enti: la cavalleria persiana. 21 1. scalpitanti: vedi DANTE, lnf., XIV, 34-5: « perch'ei provide a scalpitar lo suolo / con le sue schiere [...] ». 2 I 2. delle ... canto: vedi la nota del FoscoLo, a p. 333. Per le Parche vedi Le Grazie, II, 408-10, a p. 459: «pregavi lenta l'invisibil Parca / che accompagna gli Eroi, vaticinando / l'inno funereo [...] », e a p. 4701 Le Grazie, III, 125, e la nota relativa. 213. il . .• venti: il mare: aPerché i venti vi corrono liberi e senza intoppo» (DE RoDERTIS). Come segnalò A. UcourrrI, Studj s11i Sepolcri v. 229. animatrici: "ispiratrici", "prima fonte", in quanto le Muse oltre ad essere le dee della poesia sono anche figlie della memoria, associando però in sé le prerogative che emblematicamente convengono al vaticinio poetico. 230-4. Siedon ••• silenzio: il passo fu così rimaneggiato nel Parallelo fra Dante e il Petrarca: •Siedon le Muse su le tombe, e quando/ il Tempo con sue fredde ali vi spazza/ i marmi e l'ossa, quelle Dee fan lieti/ di lor canti i deserti, e l'armonia / vince di mille e mille anni il silenzio », qui nel tomo n ; Siedon: nel senso di 11 presiedono irremovibili,,. Nell'Esperimento di traduzione della Iliade di Omero, Versione del Canto Primo, il FOSCOLO, relativamente ali'espressione l~tr' lm:LT' cbrcivr:u&t veia>v del v. 48, da lui tradotto : •[..•]delle navi/ piantasi in vista[.•.]• (vv. 58-9), cosi annotava: •E tutti quanti interpreti e poeti traducono 1'a1sise: solo il Monti indovinò il testo. Infatti. f~oµcxt è verbo solenne in Omero, e lo assegna a tante e sl diverse situazioni d'animo e di corpo, che il nostro sedere, men abbondante di significati proprii e traslati, tradirebbe le più volte l'intendimento del poeta. Bcnsl nel latino il verbo sedeo seconda quasi tutte le idee concomitanti del greco. Tre volte in questo canto vale sedersi; talora giacersi; altrove è rito di supplicante; altrove starsi, dimorare; e qui piantarsi deliberatamente•, qui a p. 349. 231. fredde: perché apportatrici di distruzione e di morte. E vedi il sonetto Che stai1 già il secol l'orma ultima lascia, 41 a p. 248: •[•••] e obblio freddo li fascia•; spazza: vedi la nota a tJagolando del v. 71. 232.fin le rovine: in una postilla alla nota a • novum mare• del v. 45 (qui a p. 268) dell'originale catulliano in un esemplare della Chioma di Berenice (oggi conservato presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze), il FoscoLo scrive: • Ma l'etiam periere n,inae in Lucano (lib. 1x, verso 961) ove Cesare visita i campi di Troia eclissa quanti versi, e son pur molti, hanno fino ad oggi magnificato sl fatto pensiero. Or chi de' retori ha mai citato questo esempio di sublime? 11 (Edizione Nazionale, v1, p. 341); Pimp/ee: le Muse, cosi dette dal monte Pimpla in Macedonia, sacro alle stesse. 233. i deserti: i luoghi dove è passata la fredda ala distruttrice del tempo; l'armonia: il canto, la poesia. :n 322 POESIE Ed oggi nella Troade inseminata 235 eterno splende a' peregrini un loco eterno per la Ninfa a cui fu sposo Giove, ed a Giove die' Dardano figlio onde fur Troia e Assaraco e i cinquanta talami e il regno della Giulia gente. 240 Però che quando Elettra udì la Parca che lei dalle vitali aure del giorno chiamava a' cori dell'Eliso, a Giove mandò il voto supremo: E se, diceva, a te fur care le mie chiome e il viso 24S e le dolci vigilie, e non mi assente premio miglior la volontà de' fati, la morta amica almen guarda dal cielo 235. Troade: provincia dell'Asia Minore, dove sorse Troia; inseminata: "sterile,,, perché abbandonata. Vedi Le Grazie, 1, 239-40, a p. 425: u Quinci finvida Dea gl'inseminati / campi mira [...] 11. 236. eterno ... loco: vedi la nota del FOSCOLO, a p. 334; splende a' peregrini: vedi OSSIAN, Oitona, 79-80: • [...] che in regione ignota / risplende al peregrin [...] » (ANToGNONI). 237-40. eterno . .. gente: Elettra, figlia di Atlante, andò sposa a Giove, generando Dardano, dal quale discese Erittonio, il cui figlio, Troo, diede vita a Ilo, Ganimede e Assaraco. Da Ilo discese Laomedonte, indi Priamo, Ettore, Astianatte. Ganimede venne rapito in cielo da Giove, mentre da Assaraco, re di Dardania, discesero Kapis, poi Anchise, Enea, Iulo progenitore dei Romani (Giulia gente). Per la genealogia di Dardano vedi OMERO, Il., xx, 219-401 e per la sua connessione con la Giulia gente, vedi VIRGILIO, Aen., v111, 134-42. 237. per la Ninfa: grazie alla ninfa (Elettra). 237-8. la Ninfa ••. figlio: vedi la nota del FoscoLo, a p. 335. 239-40. i •. . talami: secondo si legge in OMERO, ll., VI, 244: 7WJT'J)XOVT1 Éveaa.v .&&µoL ~ecnoto ì,J&oLo, e in VIRGILIO, Aen., 11, 503: • Quinquaginta illi thalami, spes tanta nepotum •· 241. Però che: dipende da eterno del v. 237; la Parca: Atropo. 244. il ... supremo: l'ultima preghiera. E vedi Esperimento ecc., Versione del Canto Primo, 51: •questo voto m'adempi[••.]»; 109: «Non di voti l'obblio [...]»; 500: •[...] lo trarrò al mio voto", alle pp. 348, 353 e 376. 244-53. E ... tomba: come ha notato G. FISCHIETTI, art. cit., pp. 326-8, la preghiera di Elettra ricorda quella rivolta da Teti a Zeus in OMERO, Il., 1, 503-30 (598-631 della traduzione foscoliana, qui alle pp. 382-4). Il MARTINE1TI ha anche richiamato VIRGILIO, Aen., IV, 314-9. 244-5. E se .. . viso: vedi GALEAZZO DI TARSIA, Qlleste fiorite e dilettose fronde, 14: •se ti fur care le mie chiome, e 'l viso» (Le Rime d'.ANCELO DI COSTANZO ecc. con l'aggi11nta delle Rime di GALEAZZO DI TARSIA, Bassano, Remondini, 1781, p. 172) [CARRER]. 246. vigilie: notti passate vegliando; assente: concede. 247. premio miglior: l'immortalità; la .•. fati: cui anche Zeus sottostava. 248. la ••• amica: le mie spoglie mortali; a/men: rende l'omerico cd& ~cpù..Ec; di Il., I, 415 (G. FISCHIIITTI, art. cit., p. 331); g11arda: ..proteggi", come in DANTE, Purg., XIX, I 04: •pesa il gran manto a chi dal fango il guarda•• DEI SEPOLCRI (1807) 323 onde d'Elettra tua resti la fama. Così orando moriva. E ne gemea zso l'Olimpio; e l'immortal capo accennando piovea dai crini ambrosia su la Ninfa 249. Elettra tua: vedi a p. 235 la nota al v. 3 del sonetto Né pirì mai tocclierò le sacre sponde. 250. orando: vedi Esperimento ecc., Versione del Canto Primo, 53, a p. 348: u Si disse orando [...] »; E ne gemea: traduce l'omerico òx.fHJacxc; di Il., 1, 517 (che vale ..molto irato"), dal FoscoLO reso nella sua versione, v. 616, a p. 383: «Gemé dal cor l'Onnipossente [•••] », con espresso rinvio a MONTI, Prometeo, II, 494: «vacillando ge-- mea l'oppresso Olimpo» (G. FISCHIETTI, art. cit., p. 334). Ma vedi oltre a VIRGILIO, Aen., IV, 690-2, citato in nota ai vv. 121-3, i sonetti Cod gl'ù,teri giorni in lungo incerto, 1-2, a p. 218: «[, • ,] in lungo incerto / sonno gemo! [...] », Un di, s'io no,i andrò sempre fuggendo, 3, a p. 241: «su la tua pietra, o fratel mio, gemendo•, e La chioma di Bere11ice, Epistola di Catullo ad Orta/o, 14-5, qui alle pp. 257 e 259: • [...] ben sempre io la tua morte / con doloroso verso andrò gemendo• (là dove l'originale catulliano presenta, vv. 11-2, a p. 256: 1 [ •••] at certe sem-- per amabo / semper moesta tua carmina morte canam »). 250-3. E . .. tomba: vedi OMERO, Il., t, 528-30: TH xcxl XUCXV&J)GL\I 1:rr· Òcppuac. \IME Kpov(Ci>v' / cxµflp6atcxL 8' tipcx XCXL't'CXL brcppwacxv-ro «VCXX'to<; / xpct"t'Òt; à:1t1 cx&cxvci"t'oto· µéycxv 8' tÀéÀ~ev "'0Àuµ1tov (così tradotto dal FoscoLo, vv. 627- 31, a p. 384: 1[.•.] Disse; e accennò i neri sopraccigli: al Sire / Saturnio i crini ambrosii s'agitarono / sulla testa immortale, e dalle vette/ a' fondamenti n'ondeggiò l'Olimpo»). Sul passo omerico vedi Su la traduzione del cenno di Giove. Considerazioni di Uco FoscoLo, nell'Esperimento ecc. (Edizione Nazionale, 111, parte I, pp. 59-69). 251. e ... accennando: vedi FoscoLo Su la traduzione del cenno di Giove: «Neum:, Tutti ri-- petono che Giove mosse le ciglia: ma Giove non dice egli stesso che il cenno solenne era fatto dal capo? Ogni moto del capo si propaga natural-- mente alla fronte ed agli occhi. Il poeta dunque mostra l'effetto, poiché dianzi ci aveva avvertiti della causa. Pindaro l'imitò; ma liricamente tace la causa: Gl'immortali con le sopracciglia ammirono al consiglio di Temide (Istmica VIII, 99: brl f3Àcç>cipo~ VCÙactV cx&ttvcx't'OLaLV); e chi si ricorda d'Omero vede che gli Dei di Pindaro assentirono accennando col capo. Or traduci chinare le ciglia, piegarle, farle muovere, i,rarcarle, accennare, dar segno, non dipingerai mai il rapidissùno consenso degli occhi e delle sopracciglia al moto della testa; né l'espressione della fronte, da cui si emana tranquillamente, e s'effettua istantaneamente la volontà dell9onni-- possentc » (Edizione Nazionale, III, parte I, p. 61). 252. piovea: transiti-- vamentc è anche usato nelle Grazie, 1, 255, a p. 426: 1ogni lor dono pioveranno i Numi•; III, 127-301 alle pp. 470-1: «[•..]e per l'alto/ le vaganti accogliea lucide nubi / gareggianti di tinte, e sul telaio / piovcale a Flora a effigiar quel velo»; ambrosia: vedi a p. 233 il sonetto E tu ne' carmi avrai perenne vita, 14 (1spirar d'ambrosia l'aure innamorate»), e la nota relativa; Su la traduzione del cenno di Giove: •,Aµf3p6atcxL. Voce piena di fragranza, di mollezza, e di deità. Virgilio la derivò (Eneid., lib. 1, 650 - Servio, ivi); ma né Servio, grammatico della lingua latina vivente, sa darne idea precisa. Negli nntichi l'ambrosia è cibo degli Dei; spesso ne' greci bevanda: talvolta unguento che POESIE e fe' sacro quel corpo e la sua tomba. lvi posò Erittonio, e dorme il giusto cenere d'Ilo; ivi !'Iliache donne 255 sciogliean le chiome, indarno ahiI deprecando da' lor mariti l'imminente fato; ivi Cassandra, allor che il Nurne in petto le fea parlar di Troia il dì mortale, venne; e all'ombre cantò carme amoroso, 26o e guidava i nepoti, e l'amoroso apprendeva lamento a' giovinetti. E dicea sospirando: Oh se mai d'Argo, fa incorruttibili i corpi (Georg., 1v, 450). GPinterpreti tutti a questo luogo si ostinano a tradurre chiome divine, immortali, dall'alfa privativo e da ~po"t'&; mortale. Ma questo significato primitivo e generale seconda gli accidenti delle cose alle quali si riferisce. Ambrosia spesso si scambia con nettare, e nell'Iliade le vesti degli Eroi sono nettaree (Lib. XVIII, 25). La veste ambrosia in che fu involto il cadavere di Achille pare che ardesse colla pira (Odissea, lib. XXIV, 59-67); e Silii attribuisce capelli ambrosii a un fanciullo morente (Lib. XII, 245: Ambrosiae cecidere comae). L'olio ambrosia con che Giunone si fa bella per allettar Giove è soave e odorifero (Iliade, lib. XIV, 272.). La fragranza era a' mortali indizio d'un iddio presente (Iliad., lib. XIV, 170; - Odissea, lib. VIII, 364), e Ippolito conosce Diana all'odore celeste (Euripide, Ippol., v. 1392 e scg.). Omero dunque mirava in questi versi a quell'idea religiosa quasi che tutti gli elementi circostanti s'accorgessero della volontà di Giove. Il che sento nella voce ambrosia, la quale non per tanto sarebbe indistinta nella lingua italiana, e la perifrasi la stemprerebbe» (Edizione Nazionale, III, parte I, pp. 61-2); vedi inoltre Le Grazie, III, 197-8, a p. 474: a[...] la vaga opra fatale / rorò d'ambrosia [...] »; Ninfa: Elettra. 253.Je' sacro: consacrò; e vedi tronca fe' del v. 135. 254. Jvi: nella tomba di Elettra, divenuta mausoleo dei principi troiani; posò: ebbe sepoltura; Eriuonio: vedi la nota ai vv. 237-40. 255-6. l'lliache .•• chiome: vedi la nota del FOSCOLO, a p. 335. 256-7. indarno ...fato: invano (perché la distruzione di Troia era disposta dal fato) scongiurando i Penati di Troia di allontanare dai mariti la morte imminente. Per imminente vedi Le Grazie, 11, 350, a p. 455: a cosl imminente ornai freme Bellona • e, per il senso del verso in generale, Le Grazie, 11, 408, a p. 459: «pregavi lenta l'invisibil Parca•. 258. Cassandra: figlia di Priamo, amata invano da Apollo, e però condannata a predire il futuro senza essere ascoltata e creduta da nessuno; e vedi la nota del FoscoLo, a p. 335; Nume: Apollo. 259. parlar: transitivamente vale "predire"; il di mortale: la fine. 260. all'ombre: dei Troiani, ivi sepolti. E vedi la nota a lvi del v. 254; canne amoroso: carme dettato da pietà per il destino della patria. E vedi il v. 90. 262.. apprendeva: insegnava. 263. Argo: nota il CANELLO: a Argo vale qui la Grecia intera. Omero distingue l'Argo 1tEÀ«ayL><6v (Jl., 11, 681), ch'era la pianura tessalica, lungo le rive del Pcneo; e l'Argo clx«tx6v (Il., 1x, 141; Od., XVIII, 246) che comprendeva o l'intero Peloponneso, o la sola pianura Argolica, che n'è la parte orientale. In Argo, capoluogo dell'Argolide, regnava Tideo, padre di Diomede (il Tidide). Siccome DEI SEPOLCRI (1807) 325 ove al Tidide e di Laerte al figlio pascerete i cavalli, a voi permetta 265 ritorno il cielo, invan la patria vostra cercheretel Le mura opra di Febo sotto le lor reliquie fumeranno. Ma i Penati di Troia avranno stanza in queste tombe; ché de' Numi è dono 270 servar nelle miserie altero nome. E voi palme e cipressi che le nuore piantan di Priamo, e crescerete ahi presto di vedovili lagrime innaffiati, proteggete i miei padri: e chi la scure 275 asterrà pio dalle devote frondi men si dorrà di consanguinei lutti poi il figlio di Laerte, Ulisse, avea il regno in Itaca, è chiaro valer qui Argo per Grecia, come argivi fu detto e si dice per Greci (v. 291) Lma 290] •· 264. ove .•• figlio: vedi la nota al v. 263. 265. pascerete i cavalli: sarete in condizioni di cattività, e però adempirete ad uffici servili come pascere i cavalli dei principi greci. 267-8. Le .•• fumeranno: vedi VIRGILIO, Aen., 111, 3: «Ilium et omnis humo fumat Neptunia Troia• (TREvISAN). 268. 'l'eliquie: rovine. 269. I Penati, qui confusi con i Lari, designano i re e gli eroi troiani, numi tutelari della patria. 270-1. ché . •. nome: poiché è privilegio degli dèi (i Penati) conservare nome glorioso, cioè fama duratura, nella sventura. 272. palme e cipressi: simbolo, rispettivamente, del valore e della morte; le nuore: le cinquanta mogli dei cinquanta figli di Priamo. 273-4. e • •• innaffiati: vedi i vv. 88-90. 275. proteggete: vedi i vv. 65-9. 275-7. e . .• lutti: A. BALDI, Nota a Foscolo, Sepolcri, z75-7, in • Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXLIX, 465 (1972), pp. 152-3, richiama il Muratori, Anecdota graeca quae ex mss. codicilnu nunc primum eruit, Latio donat, noti.s, et disquisitionibw auget Lunov1cus ANTONIUS MuRATORIUS etc., Patavii, typis Seminarli, apud Joannem Manfré, 1709, epigramma CLXV: • ~l]IJ.Cl'tct xcxl v ·dwua&e:, c5t; ~µiciç !çctÀcin-ct~e:v. / Tii'>v 8è m:pLXTLO'V(l)V 8cixpuov GµµLv c5aov 0 Monumenta, et cinis, et ossa, et assessores / genii, qui extincti tumulum hunc incolitis, / scelestum ulciscimini istum, qui vos depopulatus est. / Finitimorum quot vobis lacrimae1° •, osservando persuasivamente: • Se, come penso, le lagrime dei finitimi - m:pLX·tfovct; rappresentano la vendetta che i k(µovcç eserciteranno sulle persone care del violatore del sepolcro (e l'oscura minaccia è coerente col tono dell'anatema), un accostamento al verso foscoliano: 11men si dorrà di consanguinei lutti", non sembrerebbe fuori luogo•; e rinvia anche a un passo della prima delle iscrizioni triopee divulgate da E. Q. V1SCONTI, lsaizioni triopee ora borghesiane con versioni ed ouervazioni, Roma, Pagliarini, 1794: •né alcun sull'erbe, o su' boschetti ameni / o sulle colte viti, alzar la scure / osi, la scure di Pluton ministra•· 276. asterrà: terrà lontano ; devote: offerte in voto, sacre. 277. consanguinei lutti: sciagure domestiche. E vedi la nota al v. 1oz. POESIE e santamente toccherà l'altare. Proteggete i miei padri. Un di vedrete mendico un cieco errar sotto le vostre 280 antichissime ombre, e brancolando penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne, e interrogarle. Gemeranno gli antri secreti, e tutta narrerà la tomba Ilio raso due volte e due risorto 285 splendidamente su le mute vie per far più bello l'ultimo trofeo ai fatati Pelidi. Il sacro vate, placando quelle afflitte alme col canto, 278. e . .• altare: •Potrà toccare (per giurare, pregare, far sacrifici) l'altare, con mani pure; e quindi impunemente» (DE RoBERTIS). Vedi OPPIANO, La pesca, v, 583: a né santamente toccherà l'altare» (Della pesca e della caccia tradotto dal greco, e illustrato con varie Annotazioni da ANTON MARIA SALVINI ecc., Firenze, Stamperia di Sua Altezza Reale, Appresso il Tartini e il Franchi, 1728). 280. un cieco: Omero. E vedi la nota del FoscoLo, a p. 335. 281-3. brancolando .. . interrogarle: vedi Le Grazie, III, 24-6, alle pp. 463-4: «le note istorie, e quelle onde a me solo / siete cortesi allor che dagli antiqui / sepolcri m'apparite [...] ». 281. brancolando: già DANTE, lnf., XXXIII, 72-3: «[.•.] ond'io mi diedi,/ già cieco, a brancolar sovra ciascuno»; ma vedi anche OSSIAN, Finga/, v, 343-5: e[..•] Oscuro e mesto / talor m'assido alla tua tomba accanto; / e vi brancolo sopra [...] •; e FANTONI, u, Notti, Alla tomba di Antonio di Gennaro duca di Be/forte, 31-3: «[ •••] La maligna soglia / varcherò della fossa tenebrosa, / e brancolando cercherò la spoglia». 283-4. Gemeranno ••• secreti: il -r61t<><; risale a VIRGILIO, Aen., III, 39-40: • [...] gemitus lacrimabilis imo/ auditur tumulo et vox reddita fertur ad auris • (donde DANTE, In/., XIII, 31 sgg.); e vedi Ortis (1802): «Geme la natura persin nella tomba II ecc., qui a p. 623. E vedi i vv. 49-50, e la nota relativa. 284. tutta . .• la tomba: tutte le tombe. 285. Ilio .•. risorto: vedi la nota del FoscoLo, a p. 336. Nota il CANELLO: a Ilio fu disfatta la prima volta da Ercole[...], come risulta dall'epodo Il della v Istmica di PINDARO; e sarebbe caduta la seconda volta, come par credesse il F., per opera delle Amazzoni. Se non che il v. 189, lib. III dell'Iliade, che il nostro Autore cita per confortare la sua asserzione, è lontano dal farlo. Anzi, secondo il racconto seriore di Darete frigio, le Amazzoni sarebbero accorse in aiuto di Troia minacciuta dai Greci•· 286. mute: per la distruzione della città. 287-8. per . •. Pelidi: per rendere più splendida la definitiva vittoria (trofeo, per metonimia) dei Greci. 288.Jatati Pelidi: vedi la nota del FoscoLo, a p. 336. Fatati per 11 fotuli11 , cioè destinati dal fato a procurare t>ultima rovina di Troia. 289. canto: vedi OMERO, Od., VIII, 577-80: ebd: 8' a'TL XÀc:deu:; xcxl 68upECXL lv8o&t &uµi;> / •Apydc.>v !la.va.Clv L8è ·JÀfou ohov &:xouc.>v. / TÒV 8è .Oeol µtv ffi~e:tv, mXÀù>O'CXVTO 8' 6M&pov / àv&p1tou;, tv« TIO'L x«l !aCJOµ.ÉvoLaLv &:oL8i). DEI SEPOLCRI (1807) i Prenci Argivi eternerà per quante abbraccia terre il gran padre Oceàno. E tu onore di pianti, Ettore, avrai ove :fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato, e finché il Sole risplenderà su le sciagure umane. 290 295 290-I. per ••. Oceàno: secondo Omero, Oceano è un fiume che circonda la terra. L'espressione vale dunque complessivamente: in tutta la terra. E vedi CATULLO, Cann., LXIV, 30: •oceanusque, mari totum qui amplectitur orbem • (TREVISAN). 292. onore di pianti: vedi Oss1AN, Temora, n, 242: •né onor di pianto, né di canto avrai•· 293. ove: ovunque; lagrimato: onorato di lacrime. 293-4. il ••• versato: vedi MONTI, Il Bardo della Selva Nera, v1, 90-1: •[..•]il petto ancor del sangue brutto/ per la patria versato [...] • (TREVISAN). 294-5. e •• . umane: relativamente alle ultime parole di Cassandra il FOSCOLO nella Lettera a Monsieur Guill ••• ecc., cit., osservava: • [•• ,] l'autore s'è ltudiato di raccorre tutti i sentimenti d'una vergine profetessa che si rassegna alla fatale e inevitabile in/elicità de' mortali, che la compiange negli altri perché sente tutto il dolore della sua propria, e che prevedendola perpetua su la terra la assegna per termine alla fama del più nobile e del men fortunato di tutti gli Eroi» (Edizione Nazionale, VI, p. 513). NOTE Ho desunto questo modo di poesia da' Greci i quali dalle antiche tradizioni traevano sentenze morali e politiche presentandole non al sillogismo de' lettori, ma alla fantasia ed al cuore. Lasciando agl'intendenti di giudicare sulla ragione poetica e morale di questo tentativo, scriverò le seguenti note onde rischiarare le allusioni alle cose contemporanee, ed indicare da' quali fonti ho ricavato le tradizioni antiche. [vv. 8-9] . . • . • il verso con la mesta armonia che lo governa. Epistole, e Poesie campestri d'Ippolito Pindemonte.1 [v. 44] fra 'l compianto de' templi Acherontei. nam iam saepe homines patriam carosque parenteis prodiderunt vitare Acherusia TEMPLA petentes.• E chiamavano Tempia anche i cieli.b a) Lucrezio, lib. 111, 85.2 b) Terenzio, Eunuco Att. III, Se. 5.3 Ed Ennio presso Varrone de L. L. lib. VJ.4 1. Epistole in versi di IPPOLITO PINDEMONTE veronese, Verona, Gambaretti, 1805, e Saggio di Poesie campestri del Cav. PINDEMONTE, Parma, Stamperia Reale, 1788. 2,. vv. 85-6 (1infatti molto spesso gli amati parenti e la patria vennero traditi per insana paura dei templi acherontei»). 3. v. 590: «[•••] qui templa caeli summa sonitu concutit ». 4. De lingua latina, VII (e non v1), 6-9: «Incipiam hinc: Unus erit quem tu tolles in caerula caeli / Tempia. Templum tribus modis dicitur: ab natura, ab auspicando, a similitudine; ab natura in cacio, ab auspiciis in terra, a similitudine sub terra. In caelo templum dicitur, ut in Hecuba: O magna templa caelitum, commixta stellis splendidis. [.•.] Quaqua intuiti erant oculi, a tuendo primo templum dictum: quocirca caelum qua attuimur dictum templum [...]. In terris dictum templum locus augurii aut auspicii causa quibusdam conceptis verbis finitus [.•.]. In hoc templo faciundo arborea constitui fines apparet et intra eas regiones qua oculi conspiciant, id est tuimur, a quo templum dictum, et contemplare, ut apud Ennium in Medea: Contempla et templum Cereris ad laevam aspice•· DEI SEPOLCRI (1807) • NOTE [vv. 57-8] . • • . . i canti che il Lombardo pungean Sardanapalo. Il Giorno di Giuseppe Parini. [v. 64] fra queste piante ov'io siedo. Il boschetto de' tigli nel sobborgo orientale di Milano. [v. 70] . . . .• fra plebei tumuli. Cimiterii suburbani a Milano. [v. 97] Testimonianza ai fasti eran le tombe. Se gli Achei avessero innalzato un sepolcro ad Ulisse, oh quanta gloria ne sarebbe ridondata al mo figliuolo!• [v. 98] . . . . are a' figli. Ego instauramus Polydoro funru et ingens aggeritur tumulo tellus, stant manibus ARAE coeruleis moestae vittis atraque cupresso.b Uso disceso sino a' tempi tardi di Roma, come appare da molte iscrizioni funebri. a) Odissea, lib. XIV, 369.1 b) Virgilio, Eneid. lib. 111, 62 ibid. 305 ;2 lib. v1, 177, ARA SEPULCRI. 1. vv. 369-70: TCf> xiv ol -ruµf3ov µiv ml7)ottV II«VOtX«xtol, / 'Ì)8é xc x«l ci> 1t0tt8l µéy«x XÀfot; ~pa:r' imLaaCt>. 2. vv. 62-4 (cc Cosi prepariamo le esequie a Polidoro e addossiamo un'ingente quantità di terra all'altura, ai Mani s'innalzano altari malinconici di fosche bende e nero cipresso»); vv. 303- 5: • libabat cineri Andromache manisque vocabat / Hectoreum ad tumulum, viridi quem caespite inanem / et geminas, causam lacrimis, sacraverat aras•. 33° POESIB [vv. 98-9] . . uscian quindi i responsi de' domestici Lari. Manes animae dicrmtur melioris meriti quae in corpore nostro Genii dicuntur,· corpori renuntiantes, Lemures,· cum domos incursionibus inIestarent, Larvae,· contra si f aventes essent, LARES familiares.• [vv. I 17-8] • . • . prezfosi vasi accogliean le lagrime votive, e seg. I vasi lacrimatorii, le lampade sepolcrali, e i riti funebri degli antichi. [vv. 125-6] amaranti educavano e viole su la funebre zolla. nunc non e manibus illis, nunc non e tumulo f ortunataque favi.Ila nascentur violae?h [vv. 126-7] • e chi sedea a libar latte. Era rito de' supplicanti e de' dolenti di sedere presso l'are e i sepolcri: a) Apuleio, de Deo Socratis.1 b) Persio, Sat. 1, 38.2 I. («Mani sono le anime di merito che in noi si chiamano Geni; fuori del corpo, Lemuri; infestanti le case, Larve; se, di contro, propizie, Lari familiari»). Ma vedi Liber de Dea Socratis, xv, 152: •est et secundo significatu species daemonum animus humanus cmeritis stipendiis vitae corpori suo abiurans. Hunc vetere Latina lingua reperio Lcmurem dictitatum. Ex bisce ergo Lcmuribus qui posterorum suorum curam sortitus placato et quieto numine domum possidet, Lar dicitur familiaris 11. 2. vv. 38-40: • Lnudant convivae: nunc non» ecc., cosi tradotti dal MONTI: • Non vuoi che l'ombra a quel plauso riscossa / si ringalluzzì, e nascan le vfole / dal fortunato rogo e dalla fossa?» (vv. 55-7). DEI SEPOLCRI (1807) • NOTE lllius ad tumulum fugiam supplexque sedebo et mea cum muto fata querar cinere.• [vv. 128-9] . . . . una fragranza intorno sentia qual d'aura de' beati Elisi. 331 Memoria Josiae in compositione unguentorumfacta opus pigmentarii.b E in un'urna sepolcrale: EN MìPOI~ :EO TEKNON H 'F'ìXH Negli unguenti, o figliuolo, l'anima tua.e [vv. 131-2] . . . . • le Britanne . .vergini. Vi sono de' grossi borghi e delle piccole città in Inghilterra, dove precisamente i campi santi offrono il solo passeggio pubblico alla popolazione; vi sono sparsi molti ornamenti e molta delizia campestre.d [vv. 134..6] . . • . . al prode che tronca fe' la trionfata nave del maggior pino, e si scavò la bara. a) Tibullo, lib. n, eleg. v111. 1 b) Ecclesiastic. cap. XLIX, 1.2 e) Iscrizioni a11tiche illrutrate dall'abate Gaetano Marini pag. 184.3 d) Ercole Silva, Arte de' giardini inglesi, pag. 32,7.4 1. Ma vr, 33..4 («fuggirò presso la sua tomba, e supplice siederò, e con il suo muto cenere lamenterò la mia sorte»). 2. Ma: «[•••] compositionem odoris, facta » ecc. («La memoria di Iosia è un composto di vari odo.. rifatto per mano di un profumiere»). 3. Iscri:::io11i antiche delle ville e de' palazzi albani, raccolte e pubblicate con note dall'abate ANTONIO MARINI, Roma, Giunchi, 1785. La citazione si ritrova anche nella Chioma di Bere11ice, cit., note ai vv. 88-91, p. 145. 4. E. SILVA, Dell'arte dei giardini inglesi, Milano, Dal Genio Tipografico, Anno IX (1801). Ma: • [...] alla popolazione; ma per quanti ornamenti, e quanta delizia vi sia sparsa, non è mai possibile di allontanare totalmente da quelli l'idea della tristezza e del dolore•. 332 POESIE L'ammiraglio Nelson prese in Egitto a' Francesi l'Oriente vascello di primo ordine, gli tagliò ralbero maestro, e del tr9ncone si preparò la bara, e la portava sempre con sé. [vv. 154-5] . • . . • il monumento vidi ove posa il corpo di quel grande. e seg. Mausolei di Nicolò Macchiavelli; di Michelangelo architetto del Vaticano; di Galileo precursore del Newton; e d'altri grandi nella chiesa di santa Croce in Firenze. [vv. 173-4] e tu prima, Firenze, udivi il carme che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco t parere di molti storici che la divina Commedia fosse stata incominciata prima dell'esilio di Dante. [vv. 175-6] • • . i cari parenti e l'idioma desti a quel dolce di Calliope labbro. Il Petrarca nacque nell'esilio di genitori fiorentini. [v. 179] • • • • . Venere Celeste. Gli antichi distingueano due Veneri; una terrestre e sensuale, l'altra celeste e spirituale:• ed aveano riti e sacerdoti diversi. [vv. 190-1] Irato a' patrii Numi andava muto ove Arno è più deserto. a) Platone, nel Convito;1 e Teocrito, Epigram. xn1.2 I. 180 D : iJ µiv yl. 7tOU 1tpea~uupot x«l d:µ1)"t'p Oùpotvou &uy«"t'YJP, ~V 3¾) x«l oùpotvE.otv brovo~oµ.EV· iJ 8È veupot 4tòc; x«t 4t~VtJc;, ~v 3'Ì) miv8ocµov XCXÀOUfJ,EV. 2. vv. 1-2: 'A Ku1tptc; où 7t1Xv8«µoc;. lM.mu:o -r«v &eòv 1:l1r~v / oùp«vlocv [•••]. L'epigramma è citato anche nella Chioma di Berenice, cit., Considerazione x, Venere Celeste, p. 203. DEI SEPOLCRI (1807) • NOTE 333 Così io scrittore vidi Vittorio Alfieri negli ultimi anni della sua vita. Giace in santa Croce. [v. 200] ove Atene sacrò tombe a' suoi prodi. Nel campo di Maratona è la sepoltura degli Ateniesi morti nella battaglia; e tutte le notti vi s'intende un nitrir di cavalli, e veggonsi fantamzi di combattenti.• L'isola d'Eubea siede rimpetto alla spiaggia ove sbarcò Dario. (v. 212] • delle Parche il canto. veridicos Parcae coeperunt edere cantus.h Le Parche cantando vaticinavano le sorti degli uomini nascenti e de' morenti. [vv. 217-8] . . . . . dell'Ellesponto i liti. Gli Achei innalzino a' loro Eroi il sepolcro presso l'ampio Ellesponto, onde i posteri navigatori dicano: Questo è il monumento d'un prode anticamente morto.e E noi dell'esercito sacro de' Danai ponemmo, o Achille, le tue reliquie con quelle del tuo Patroclo, edificandoti un grande ed inclito monumento ove il lito è più eccelso nell'ampio Ellesponto, acciocché dal lontano mare si manifesti agli 11omini che vivono e che vivranno in futuro.d n) Pausania, Viaggio nell'Attica, cap. xxxn.1 b) Catullo, Nozze di Tetide vers. 306.2 e) Iliade, lib. vn, 86.l d) Odissea, lib. xxiv, 76 e seg,4 I, I, 32, 3: Tcxtpe><; 81 l;v "t'i;> xt8( •A&l]Vv ! v6µcx"t'CX "t'WV à.1t0&V ~OUCJCXL. 2. LXIV, 306 (crle Parche principiarono a pronunziare i loro canti veraci»). 3. vv. 85-9: lSq:,pci i TcxpxuaCJL XCXplJ xoµ.ovtt:c; •Axcxto{, / aLV hl 7tÀcx"t'CL 'Elll)mt6vr' / xcx{ 1t0Tt "t'l.t; d7t'J)CJL xcxt 6!J,Ly6Vv «v&pw1tv, / Vllt 7tOÀU><Àl)i.3L 7tÀév btt o{V07t(l 1t6VTOV' / civ8pòç µi:v T68E: cri}µ« 7t«.À«L )(Cl'Tct'mM)W"t'Ot;. 4. vv. 76-84: iv Ti;> 'TOL XE:L"t'CXL ÀE:UX1 6attcx, tpcx(8tµ' 'AxLlleu, / µ(y3Cl 8é Il«Tp6XÀOLO MEVOt'Ti.ci3«o -hv6vroç, / Xptc; 8' 'Avrr.À6xo,o, TÒV l~oxct 'TLE:t; «miv- 334 POESIE [vv. 219-20] alle prode Retee l'armi d'Achille sovra rossa d'Aiace. Lo scudo d'Achille innaffiato del sangue d'Ettore fu con iniqua sentenza aggi.udicato al Laerziade; ma il mare lo rapì al naufrago facendolo nuotare non ad Itaca, ma alla tomba d'Aiace; e manifestando il perfido gi.udizio de' Danai, restituì a Salamina la dovuta gloria.a Ho udito che questa fama delle armi portate dal mare sul sepolcro del Telamonio prevaleva presso gli Eolii che posteriormente abitarono Ilio.b - Il promontorio Reteo che sporge sul Bosforo Tracio è celebre presso tutti gli antichi per la tomba d'Aiace. [v. 236] eterno ... un loco. I recenti viaggiatori alla Troade scopersero le reliquie del sepolcro d'Ilo antico Dardanide.e a) Analecta veterum Poetarum, editore Brunch, Voi. 111, Epigram. anonimo cccxc.1 b) Pausania, Viaggio nell'Attica, cap. xxxv.2 e) Le-Chevalier Voyage dans la Troade, seconda Edizione - Notizie d'un viaggio a Costantinopoli delPambasciadore inglese Liston, di Mr. Hawkins, e del Dr. Dallaway.3 "rCl>V / -rii'>v a.ÀÀtJlV ÉTCXp(.i)V !LtTIX IIcx-rpo>CÀ6v ye &cxv6v-rcx. / ciµv i-t!v AloÀÉ:tJlv -ri;)v 1'.Sa-repov obc11aciVTtJ1v"IÀLov t½ç; 't"Ì)v xp(aLv TY)V bd -rorc; on-Àotc; ~xouaa., ot 'tijç; va.u«y~c; '08uaaet cruµ(3cx.cxvToç xccl AtÒt; 'I«a((l)V x«t Acxp8«voc:; ql.voVTO. 3. vv. 134-6: • Dardanus, Iliacae primus pater urbis et auctor, / Electra, ut Grai perhibent, Atlantide cretus, / advehitur Teucros [..•] ». 4. vv. 31-2: «Dardanon Elcctra ncsciret Atlantide natum / scilicet, Electram concubuisse lovi? ». 5. vv. 63-5 (« [•••] si ergono ai Mani gli altari/ [...] / e !'iliache donne le attorniano, sciolti, come di costume, i capelli»). 6. vv. 245-6 (• [..•] dischiude ln bocca ai destini futuri Cassandra, per comando del dio, dai Teucri non mai creduta•). 336 POESIE Omero ci tramandò la memoria del sepolcro d'Ilo.• t celebre nel mondo la povertà e la cecità del sovrano Poeta. quel sommo d'occhi cieco, e divin raggio di mente, che per la Grecia mendic~ cantando: solo d'Ascra venian le fide amiche esulando con esso, e la mal certa con le destre vocali orma reggendo; cui poi tolto alla terra, Argo ad Atene, e Rodi a Smirna cittadin contende; e patria ei non conosce altra che il cielo.b Poesia di un giovine ingegno nato alle lettere e caldo d'amor patrio: la trascrivo per tutta lode, e per mostrargli quanta memoria serbi di lui il suo lontano amico. [v. 285] Ilio raso due volte. Da Ercole,e e dalle Amazzoni.d [v. 288] ai fatati Pelidi. Achille, e Pirro ultimo distruttore di Troia. a) Iliade, lib. xr, 166.1 b) Versi d'Alessandro Manzoni in morte di Carlo lmbonati [188-96]. e) Pindaro, Istmica v, epod. 2.2 d) Iliade, lib. 111, 189.3 1. vv. 166-7: ol 3l n«p• "D.ou cnjl,L« TCatÀOtLOU ~«p3«vl3«o / µiaaov x«,r nEBCov [••.]. 2. vv. 45-8: [.••] -rol xatl aùv µ«X«Lti / 3~ n6ÀLV TpC:,Jt np6TEpov, / x«l aùv •ATpEl3«Lti, [•••]. 3. ~l'atfl -rii> 6Te -r' ~).&ov •A110t~6vEç clVTuxveLpatL; e vedi a p. 326 la nota al v. :185. ESPERIMENTO DI TRADUZIONE DELLA ILIADE DI OMERO (1807) NOTA INTRODUTTIVA In lettera al Foscolo, Milano [giugno 1806], Vincenzo Monti scriveva: «Ho un canto quasi corretto dell,Iliade da farti sentire. Lo vuoi?» (Epistolario di VINCENZO MONTI raccolto ordinato e annotato da Alfonso Berto/di, Firenze, Le Monnier, 111, 1929, p. 23). Lo stimolo montiano indusse probabilmente il Nostro a concretare in uno specimen di versione dell,lliade, l'interesse alla traduzione dell'epopea omerica che, sino a quel tempo, era rimasto allo stato di privato esercizio, condotto per sparsi assaggi. Sebbene nella dedica della Chioma a Gio. Battista Niccolini (Milano 30 luglio 1803), il Foscolo' recisamente dichiarasse di avere «decretato di usare dell'ingegno più a fare da me, che a mortificarlo sulle opere altrui » (La chioma di Berenice, Milano, Dal Genio Tipografico, 1803, p. 4), tracce del lavoro al volgarizzamento dei poemi omerici, che doveva approdare al seriore Esperimento, si ritrovano infatti già all,altezza del 1803, quando il poeta-traduttore inseriva in nota ai versi 57, 66 e 81 del testo sopra citato, la versione di due passi dell'Iliade (v, 749-51 al v. 57; x, 79- 83 al v. 81), e di uno dell'Odissea (v, 270-5 al v. 66). Più tardi in lettera ad Isabella Teotochi Albrizzi (Milano 6 settembre 1806), dove anche era notizia dell'« Epistola sui sepolcri da stamparsi lindamente », il Foscolo scriveva: cc Io aveva preparati alcuni squarci delrlliade, e tutto tutto il primo canto; e voleva consigliarmi con voi e col traduttore dell'Odissea [Ippolito Pindemonte] se continuando la mia versione io avrei fatto leggere con meno ammirazione ma con più amore quel sacro Poeta» (Epistolario, n, p. 143); e ancora alla medesima corrispondente (Milano 24 novembre 1806) specificava: «Viaggiando per le Fiandre io avea tradotti moltissimi squarci dell'Iliade ; perché tutti i miei libri erano l'Iliade e il Viaggio d'Yorick; quando fui mandato ad esaminare le miniere di ferro nella Valtellina e sul Bergamasco [intorno ai primi di luglio del 1806], sono ritornato ad Omero; e mi fu solo compagno; ho compiuto i vacui, ed ho bello e finito il primo libro, e tutto il terzo. - Gli altri sono a squarci sino al principio del decimo. Ma non per questo mi salterà mai il grillo di stamparlo - di finire forse tutta l'Iliade - di stamparla non certo. Il demonio delle traduzioni è un demonio tentatore - ma mi ha del poltrone, ed è castrato. Vincenzo Monti m'avea prevenuto; n'ha pronti undici o tredici canti; e l'Iliade è verseggiata italianamente con tutta la schiettezza e la soavità originale. Non ha imparato mai sillaba di greco; pur s'è aiutato tanto con le altre versioni, e più con le latine, e con gli scolii de, grammatici e de' chiosatori, ch'egli l'ha inteso quanto gli altri tutti, ed al mio parere lo ha assai meglio tra- 34° POESIE dotto. Onde ecco una ragione di più per disegnare i quadri d'Omero, ma per non esporli mai al concorso col mio nome» (Epistolario, n, pp. 150-1). Su tale proposito il Foscolo ritornò poi rapidamente, se circa un mese dopo, sempre all'Albrizzi, da Milano il 2,7 dicembre I 806, poteva comunicare: «Mandandogli da stampare un canto d'Omero - non intendo di pubblicarlo ma di fame una ventina di copie per l'esame de' grecisti- il Padrone de' tbrchi [Niccolò Bettoni] disse al Padrone de' versi ch'egli invece di un opuscoletto, avrebbe voluto fare un libro elegante, e pregandomi, ed adulandomi e seducendomi, mi deliberò ad unire all'epistola le mie poesie già stampate, e la versione del primo canto di Omero. In luogo del testo che pochi intendono ci pongo a fronte la versione letterale del Cesarotti, postillando ov'io leggo o intendo il greco diversamente; ed andrò di .mano in mano esaminando nelle note appiè di pagina le versioni degli altri» (Epistolario, II, p. 159). All'impresa doveva successivamente associarsi anche il Monti, che in lettera a Gregorio Cornetti (Milano 19 gennaio 1807), scriveva:<<[...] un saggio di traduzioni d'Omero, che Foscolo vuol produrre (e sarà opera assai piccante e curiosa), mi obbliga a ritoccare tutto il primo libro dell'Iliade» (Epistolario di VINCENZO MONTI, cit., 111, p. 86). La stampa dell'Esperimento, direttamente curata dal Foscolo, che allo scopo si recò a Brescia sulla fine di gennaio, facendo quindi saltuariamente la spola con Milano durante i mesi di febbraio e di marzo, fu condotta parallelamente e separatamente da quella dei Sepolcri, e ancora all'altezza dei primi di marzo impegnava la tipografia del Bettoni, se questi cosi si giustificava con il Monti, che gli aveva inviato una «riempitura» dei vv. 396-401 della sua versione del canto primo dell'Iliade: «L'edizione di Foscolo, e posso anche dir vostra, sarebbe già compita, se il manoscritto lo fosse stato, e se Foscolo non ritrattasse le correzioni, e non vi facesse continui cambiamenti » ecc. (Epistolario di VINCENZO MONTI, cit., III, p. 114). Dal canto suo il Monti, che già il 30 gennaio 1807 aveva avvisato il Foscolo: «Cesarotti mi scrive un mondo d'ammirazioni sulla Spada di Federico, e mi accompagna una lettera della Vadori, nella quale sono queste parole: "Dirai a Foscolo, che Cesarotti, Franceschinis, e papà Bondioli l'amano quanto egli ama Monti". Vedi che non t'ho dato cattivo consiglio esortandoti a non mettere nelle tue critiche sillaba che possa ferire quel povero vecchio che tanto ti ama» (Epistolario di VINCENZO MONTI, cit., III, pp. 97-8), temendo la reazione del traduttore dell'Ossian, aveva tentato di cautelarsi, presentandogli la pubblicazione dell'Esperimento con le seguenti parole, in lettera, da Milano, del 24 marzo 1807: • Fra poco uscirà il saggio della omerica traduzione di Foscolo. Questo meraviglioso e strano cervello ha voluto ad ogni patto in- TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) • NOTA INTRODUTTIVA 341 serirvi qualche cosa del mio: ed io, desideroso come era da molt~ tempo di far palese al pubblico la mia venerazione per Cesarotti, ho colto il pretesto di censurare certo suo verso, finendo col mettermi umilmente sotto i suoi piedi. Foscolo che pur esso altamente vi stima, ha fatto (credo, in qualche nota) lo stesso; e questa panni la lode che deve più lusingare i grandi ingegni, quale voi siete. Foscolo vi manderà egli stesso la stampa, come sarà compiuta n (Epistolario di VINCENZO MONTI, cit., 111, p. 120). Ciò che tuttavia non valse a scongiurare gli effetti da lui paventati (vedi Epistolario di VIN• CENZO MONTI, cit., 111, p. 121, nota), gettando così la prima ombra nella sua amicizia con il Foscolo, e però fomentando originalmente quell'irritazione che lo condusse nel 1810 a rompere clamorosamente con lo stesso ogni rapporto (e vedi a p. 707 la nota introduttiva al Raggllaglio d'un'adunanza dell'Accademia de' Pitagorici). Finalmente, da Brescia, il 13 aprile 1807, il Foscolo annunciava al Monti: «Lode al Diavolo, l'edizione, se non è pronta è stampata. Avrò pazienza anche per questa settimana per non tornarmi con le mani vuote, perché bisogna lasciare asciugare gli esemplari fini, e legare i comuni,, (Epistolario, 11, p. 189). L'Esperimento di traduzione della Iliade di Omero, pubblicato posteriormente ai Sepolcri (vedi la lettera ad Isabella Teotochi Albrizzi, Brescia 7 aprile 1807, in Epistolan·o, 11, p. 189), in quattro tirature, e cioè in-16° in carta ordinaria, in carta velina, in carta sotto-imperiale, e in-4° grande in carta velina, constava dell4' dedica A Vincenzo Monti (Brescia I gennaio 1807), dell'Intendimento del traduttore (pp. VII-XII), della Versione del Canto Pn"mo del Foscolo con a fronte il Volgarizzamento letterale di Melchior Cesarotti, e le note di quello allo stesso (pp. 2-53), della Versione di Vincenzo Monti (pp. 57-85), delle considerazioni del Monti S11/la difficoltà di ben tradt1"e la protasi dell'Iliade (pp. 89-105), delle Considerazioni di Melchior Cesarotti sul verso 6t; fi81J -rti -r1 i6VTcx, u -r'iaa6µEVOt np6 T1 i6v-rcx (pp. 106-8), e di quelle del Foscolo Su la trad11zione del tenno di Giooe (pp. 109-20). Se in età umanistica e rinascimentale l'esercizio di traduzione dei classici aveva segnato la coscienza di una complessiva maturità culturale, capace di promuovere il confronto con i suoi modelli all'interno del proprio ambito linguistico, e se poi tale coscienza, grazie al successo della querelle degli antichi e dei moderni, si era trasformata nell'illuministico pregiudizio di una superiorità dei moderni sugli antichi, monopolizzata dalla cultura di fatto egemone nell'arco del secolo XVIII, sulla fine del medesimo il privilegio del panfrancesismo doveva essere scosso dall'insorgere di immagini che altre culture andavano storicamente riconoscendosi in tradizioni non riducibili all'archetipo greco-latino, e sulle quali doveva ideologicamente fondar• 342 POESIE si la rivendicazione di indipendenza e unità nazionale, in Europa, soprattutto conseguenza delle mire imperialistiche della politica napoleonica. Con la valorizzazione dello spessore storico di una cultura, e quindi d'ogni cultura, l'affermazione dell'autoctonia, segnatamente in area tedesca, comportò il ripudio delle traduzioni puramente parafrastiche, delle "belle infedeli,,, e il prevalere del partito della traduzione integrale, consistente nella naturalizzazione, nella lingua in cui veniva rivolto, del complesso degli elementi retorici, morfologici, lessicali e sintattici, metrici e ritmici dell'originale. E però se la preoccupazione di autentica fedeltà nei confronti del testo tradotto, che nell'ambito del secolo XIX doveva condurre alla versione dell'Iliade di Leconte de Lisle, sembra inizialmente discendere dagli scrupoli conservativi delle peculiarità retorico-stilistiche dei grandi esemplari omerici, caratteristica di molti traduttori settecenteschi di Omero, per altro verso alla traduzione integrale, al cui filone può, a buon diritto, tendenzialmente essere ascritta anche quella del Foscolo, si era giunti solo perché la dimensione diacronica, definendosi nella competente autoctonia, consentiva che la storicità dell'originale rivivesse nell'analoga fase cronologica della lingua in cui la sua versione era realizzata. Donde l'arduo impegno foscoliano, volto a «creare un vero "linguaggio degli Dei" degno di Omero, con parole antiche o fuor del comune uso moderno, di significato vagamente indefinito, evocatore di tutto quel mondo religioso e poetico che sorgeva nel suo animo alla lettura d'Omero• (B. TERRACINI, Il problema della traduzione, in Conflitti di linglle e di cultura, Venezia, Neri Pozza, 1957, p. 109). Donde anche la consapevolezza della ·sordità delle parole moderne al potenziale allusivo che in quelle dell'epico greco erano in grado di cogliere gli antichi, e il conseguente rivolgersi del poeta-traduttore alla poesia omerica con l'atteggiamento di chi intenda evocare un mito di eterna poesia, irrimediabilmente allontanato nel tempo, procedendo al recupero del potenziale allusivo originale entro lo spazio storico della pro.. pria lingua, e però stante che «le allusioni non producono l'effetto voluto se non su un lettore che si ricordi chiaramente del testo cui si riferiscono» (G. PASQUALI, Arte allusiva, in Stravaganze quarte e supreme, Venezia, Neri Pozza, 1950, p. II), e considerato il particolare punto di vista foscoliano, irpplicando costantemente sé stesso e la propria concezione della poesia nello strenuo confronto con la lettera del testo omerico. Non sorprende dunque che all'eccezio.. nale esperienza linguistica alfieriana nuovamente attingesse il Foscolo, per un'opera, quale la versione del canto primo dell'Iliade, nella quale, come ha opportunamente osservato G. BARBARISI, «gli elementi metrici e sintattici [.•.] come i latinismi frequenti, le TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) • NOTA INTRODUTTIVA 343 esclamazioni, le interrogazioni, le ripetizioni, l'isolamento di singole parole e membri del periodo, concorrono a far si che le idee siano "scolpite", a fronte di quelle "dipinte" del Monti n (Edizione Nazionale, 111, parte 1, p. XXXIX). L'Esperimento, condotto parallelamente ai Sepolcri, valse finalmente la simultanea devoluzione di istituti retorici e stilistici costitutivi della riconosciuta cultura d'origine, alla struttura e alla lingua del carme. METRO : endecasillabi sciolti. DALL'«ESPERIMENTO DI TRADUZIONE DELLA ILIADE DI OMERO» * VERSIONE DEL CANTO PRIMO L'ira, o Dea, canta del Pelide Achille che orre~da in mille guai trasse gli Achei, e molte forti a Pluto alme d'eroi spinse anzi tempo, abbandonando i corpi preda a sbranarsi a' cani ed agli augelli : così il consiglio s'adempia di Giove, da che la rissa ardea che fe' discordi il Re d'uomini Atride e il divo Achille. VOLGARIZZAMENTO LETTERALE DI MELCHIOR CESAROTTJI s Canta,• o Dea, l'ira d'Achille figli'o di Peleo (fra) pestifera, che recò infini'te doglie agli Achei, e slanciò all'Orco molte valorose ani'me d'Eroi, lasciando loro preda ai cani e agli augelli tutti: così compievasi il voler di Giove dacché pn·ma vennero altercando a discordia Atn'de il Re degli uomini, e 'l divino Achille. a) L'originale: L'ira canta - nel mio verso vedo vizioso il concorso di quattro a, e l'indole italiana vorrebbe cantami, o Dea; ma vedo altresì che Ira è la prima parola del Poema come n'è l'elemento, e che la venerazione di tutti i secoli per questo verso meritava che ad ogni patto non fosse spezzato come tutti fanno, e peggio il Ceruti :2 • Del figlio di Peleo le smanie o Diva/ canta e l'ira crudel».3 I. Melchio"e Cesarotti (Padova 15 maggio 1730 - Selvazzano 4 novembre 1808). La sua influenza sui contemporanei è soprattutto legata alla traduzione dei supposti canti di Ossian (nel 1762 Finga/, nel 1763 Temora e altri canti); alla versione in prosa dell'Iliade (1786-1794), corredata di proprie osservazioni, e poi rifatta, secondo un gusto attualizzante, nel poema La morte di Ettore (1795), al Saggio n,lla filosofia del gusto (1785)1 e al Saggio sulla.filosofia delle lingue (1885). 2. L'abate Giacinto Ceruti (Nove [Piemonte] 1735-ivi 1792). Oltre alla traduzione dell,lliade in versi sciolti si ricordano, fra l'altro, la traduzione dalPebraico del Libro di Giobbe, le rime arcadiche e una tragedia, Le disgrazie d'Ecuba. 3. Iliade d'Omero di GIACINTO CBRuTl1 in Parnaso de' Poeti classici d'ogni nazione, IV, Venezia, Zatta, 1793, p. 1, vv. 1-2. POESIE Chi degli Dei concitò l'ire? Il figlio di Latona e di Giove. Irato al Rege mandò una lue sterminatrice al campo e le genti perian; ché Agamennone d'oltraggi afflisse il sacerdote Crise. Venne Crise alle Achee celeri navi a redimer la figlia, e assai tesoro recò d'offerte. Avea l'infula in mano d'Apollo lungisaettante avvolta sull'aureo scettro, e orò supplice i Danai. E più gli Atridi, duci delle genti: Atridi, e voi ben gambierati Achei, se gl'immortali abitator d'Olimpo vi dien di Priamo a desertar le strade e posarvi felici a vostre sedi, la mia figlia diletta a me sciogliete IO 15 20 Chi degli Deigli azzuffò a contrasto? Ilfiglio di Giove e di Latona: perciocché egli sdegnato col Re suscitò per l'esercito un reo morbo (ne perivano i popoli) e ciò perché Atride disonorò Crise il Sacerdote. Era egli venuto alle celeri navi dei Greci• a riscattar la figlia, recando infiniti doni, e tenendo in mano il serto del lungisaettante Apollo intorno all'aurato scettro, supplicò gli Achei tutti, e spezialmente i due Atridi condottieri de' popoli. O Atridi, e voi altri Achei da'-begli-schinieri, cosi gli Dei che abitano le case dell'Olimpo diano a voi di rovesciar la città di Priamo, e di tornarvene salvi a casa, rendete a me la diletta figlia, e accettate i miei doni, rispettando il figlio di Giove il a) L'originale, Achei - «Il nome di greci dato da noi a questa nazione non si conobbe che in Italia, forse da qualche viaggiatore o capo di colonia poco noto. Il nome più comune dato da Omero all'intero popolo è quello di Achei che poi fu proprio soltanto d'una provincia. All'incontro quello di Elleni che poi prevalse e divenne universale, non era a' tempi di Omero che il nome d'una parte della Tessaglia. I Greci nell'Iliade sono anche talora chiamati Argivi e Danai ». CESAROTTI.1 Io serberò i nomi de' tempi Omerici. 1. Vedi L'Iliade d'Omero recata poeticamente in verso sciolto italiano dall'Ab. MELCHIOR CESAROTTI insieme col Volgarizzamento letterale del Testo in prosa ampiamente illustrato ecc., Padova, Penada, 1786-1794, tomo 1, parte 1, p. 354, nota al v. 18. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) 347 questi doni accogliendo, e venerando 25 Febo saettator prole di Giove. Tutte fremean le schiere: Il sacerdote venerarsi, e accettar l'inclito prezzo. N'increbbe alla turbata alma d'Atride, che lo caccia insultando e gli minaccia: 30 Ch'io non t'incontri, vecchio, appo le navi, né più indugiarti né tornarvi mai, eh'ei non ti gioverà forse lo scettro né Pinfula del Nume. Alla mia schiava non darò libertà, se la vecchiaia 35 pria non la colga nella nostra reggia tela in Argo tessendomi e trapunti fuor della patria, e al mio talamo ancella. Va, né crucciarmi, se reddir woi salvo. Disse. Temeva, ed ubbidì al comando, e muto al lito andò del mar fremente lungi-saettante Apollo. Quia tuttigli altri Achei assentirono che si onorasse il Sacerdote,· e si accettassero gli splendidi doni. Ciò però non piacque al turbato animo d'Agamennone, ma ributtollo aspramente, e vi aggiunse forti parole. Non far, o vecchio, ch'io ti sorprenda presso le concave navi, sia clie ora vi ti ci. a"esti, sia che altra volta ci. torni, onde non abbiano a giovarti poco lo scettro e 'l serto del Dio. lo costei non la scio"ò se pria non la coglie vecchiezza nella mia casa, in Argo, lungi dalla patria, intenta a far tela, e occupata nel mio letto:b or va va, non irritarmi, se ami di tornar salvo. Cosi disse, sbigottissi il vecchio e ubbidi al comando. Andò egli taciturno, lungo il lito del molti-fremente mare, e solitario il vecchio a)« Allor d'accordo fur tutti gli Achei, / doversi il Sacerdote riverire / e ricever lo splendido riscatto; / ma ciò ad Atride Agamennon non piacque, / anzi il cacciò da sé con mali modi / e parole v'aggiunse minacciose». RIDOLFI.1 b) «Il testo può significare egualmente aver cura del letto ed esserne a parte». CESAROTII.2 1. [CRISTOFORO RIDOLFI], L'Iliade d'Omero. Nuovamente tradotta dall'originai Greco in versi sciolti ecc., Venezia, Savioni, 1776, 1, p. 11, vv. 30-5. 2. Op. cit., tomo 1, parte n, p. 23, nota q. POESIE seco gemendo il vecchio, e supplicava a Febo Re, cui partori la Dea dalle trecce bellissime Latona: O dall'arco d'argento, odimi! O Nume 45 ch'ài Crisa in guardia; oh! all'ammiranda Cilla e a Tenedo possente imperadore, Sminteo! Se mai di tetto io proteggeva il tuo splendido tempio, e se di capre vittime t'arsi o pingue anca di toro, so questo voto m'adempi!1 I pianti miei paghino i Danai per le tue saette. Si disse orando:2 e l'udì Febo Apollo. mandò molte preci al Re Apollo, cui partorì la benchiomata Latona: Odimi o tu dall'arco-d'argento che proteggi Crisa, e la divina Cilla, e in Tenedo altamente imperi, o Sminteo,• se mai ho corona• tob il leggiadro tuo tempio, o se mai t'ho abbruciate pingui coscie di tori o di capre, adempi questo mio voto:paghino i Danai le mie lagrimeper k tue saette. Cosl disse pregando, intese/o Febo Apollo, e scese dalle vette a) «Odimi tu che tieni arco d'argento / di Crisa protettore, e della santa / Cilla, e signor di Tenedo possente / che de' topi il diluvio distruggesti / peste de' nostri campi, e però Sminteo / da noi t'appelli». SALVINI.3 Dopo due versi di propiziazione il Sacerdote apre il terzo con l'invocazione Sminteo, e chiude il periodo con solen• nità. Il Salvini ci ricompensa di questa bellezza verseggiando una erudizione tutta sua sul nome del Dio. b) Il verbo ipécpc.> suona anche incoronare, ma la preposizione ix( loriduce panni al significato di coprire. A' tempi antichissimi le are erano per lo più allo scoperto, e chi edificava doveva riputarsi benemerito degli Dei. - Il Ridolfi: << S'io mai nel tuo/ gentil tempio ti feci onore ».4 1. questo voto m'adempi: vedi Sepolcri, 244, a p. 322 («[ •••] mandò il voto supremo[...]»), e la relativa nota. 2. Si disse arando: vedi Sepolcri, 250, a p. 323: • Cosi orando moriva [...] ». 3. [A. M. SALVINI], Iliade d'Omero tradotta dall'originai greco in versi sciolti, Firenze, 'fortini e Franchi, 1723, p. 3, vv. 54-9. Anton Maria Sa/vini (Firenze 12 gennaio 1653 - ivi 17 maggio 1729). Fecondo volgarizzatore, oltre a Omero (Iliade, Odissea, Batracomiomachia e Inni) dal greco tradusse anche Esiodo, Anacreonte, Teocrito, Oppiano e Nonno; dal latino parte delle Metamorfosi ovidiane e delle epistole di Orazio; dall'ebraico le Lamentazioni di Geremia, dal francese l'Art Poitique di Nicolas Boileau e dall'inglese il Catone di Joseph Addison. 4. Op. cit., I, p. 12, VV. 53-4. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) Da' vertici d'Olimpo acerbo in core precipita; alle spalle agita l'arco e tutta chiusa la faretra; i dardi van tintinnando al dorso dell'irato che vien simile a notte: delle navi piantasi in vista disfrenando il dardo, 349 ss e orrendo un suon mandò l'arco d'argento. 6o Pria l'armento de' muli, e i can veloci invade; e quindi la mortai saetta fere gli umani. Ardean pire frequenti di perpetui cadaveri. Le frecce nove giorni scorreano per le schiere. 6s Al decimo il Pelide a parlamento convoca i Danai, e lo spirò Giunone dalle candide braccia, a cui nel petto d'Olimpo cruccioso il core, avendo a tergo l'arco e 'l d'ogn'-intornochiuso turcasso. Al moversi del Dio sdegnato i dardigli strepitavano su gli omeri; e sen gia simile alla notte. S'assise• poscia in disparte dalle navi, escoccò unafreccia; orribz'lefischio uscì da/l'arco d'argento.b Colpì egli da prima i· muli e i cani veloci, ma ben tosto volgendo l'acerba frecciaferì gliAcheistessi:ardevano tuttorafrequenti roghidicadaveri. Nove-giorni s'aggirarono per l'esercito le saette del Dio: nel decimo Achille convocò ilpopolo aparlamento: che glielo pose in cuore Giunone la Dea dalle-candide-braccia,· eh'ella avea pietà dei Greciveggendoa) E tutti quanti interpreti e poeti traducono s'assise: solo il Monti indovinò il testo. Infatti l~oµ.tlL è verbo solenne in Omero, e lo assegna a tante e sì diverse situazioni d'animo e di corpo, che il nostro sedere, men abbondante di significati proprii e traslati, tradirebbe le più volte l'intendimento del poeta. Bensì nel latino il verbo sedeo seconda quasi tutte le idee concomitanti del greco. Tre volte in questo canto vale sedern; talora giacern; altrove è rito di supplicante; altrove starn, dimorare; e qui piantarn deliberatamente. Chiunque fu in tempo di vedere in Italia la statua d'Apollo saettante, immaginerà distintamente l'aspetto e la mossa-del Febo Omerico. b) .Ò.CL'n) 81 XÀ«m yl:vr:r1 cxpyupéoto ~LOLO [v. 49): verso che imita a principio con le consonanti il suono dell'arco, e che terminando con iati protratti e con vocali acute fischia come il dardo che fende l'aria. Non ho saputo imitarlo. 35° POESIE pungea la cura de' morenti Argivi. Quei congregati, alzasi Achille e parla: 70 Di nuovo, Atride, ramingar dovremo, parmi, e dar volta, ove si scampi a morte; si la guerra e la peste ardon gli Achei! Or dunque un vate, o sacerdote, o esperto interroghiamo interprete di sogni, 75 anche il sogno è da Giove, onde riveli perché tanta ne prema ira di Febo; se mai di voti trascuranza ei danni o d'ecatombe, e se a distarne il morbo d'agni e di capre lo compiaccia il fumo. 80 Tacque sedendo. E il nato di Testorre, Calcante surse alla risposta primo, quel supremo degli auguri, veggente li perire. Poiché adunque furono congregati e adunati insieme, alzatosi fra loro parlò Achille dal piè veloce. Atride or sl cred'io che dowemo di-nuovo-erranti tornarcene addietro, se pure camperemo la morte, poiché peste e guerra ad un tempo domano i Greci. Or via dunque consultiamo qualche indovino, o sacerdote, o pure interprete-di-sogni (che anche il sogno viene• da Giove) il qual ci dica perché mai Febo Apollo è tanto sdegnato; s'egli ci accusa di voto (non osservato) o di Ecatombe (omessa) (per veder pure) se a caso volesse cacciar da noi la peste, accettando in cambio il fumo d'ag11elli e di scelte capre. Ciò detto egli s'assise, e allora s'alzò Calcante figlio di Testore il più valente degli Auguri,b che conosceva ciò eh'è, che sarà, e che fu, e che a) L'originale: Anche il sogno è da Giove. b) "Ot; ·~8'1] 't'p(ia«r. d µe aci&>aitc; [v. 83]. Tu or dichiara se mi difenderai: e il Ceruti - • Or dunque tu che del più forte il vanto / fra' Greci ottieni, or m'assicura e dimmi, / s'io t'ubbidisco e il ver disvelo e parlo/ saravvi alcun che d'infierire ardisca/ a farmi oltraggio e danno?».1 Cinque versi per cinque parole. E sempre di questo passo ardisce d'infierire con una schiera di frasi, facendo oltraggio e danno all'evidenza di Omero. Se non che i recenti editori Livornesi ci assicurano e dicono, che il Salvini è traduttore fedelissimo, ma che prescelsero il Ceruti come Poeta sqrlisito. L'esame disvelerà e parlerà il vero. b) L'originale: Supplicando, manifesti gli oracoli a, Danai. I. Op. cit., IV, p. 7, vv. 148-52. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) 353 veruno appo le navi in te, Calcante, avventerà le sacrileghe mani, 105 no, de' Danai veruno; e fosse Atride che agli altri duci imperador si noma. Fe' cor quel vate intemerato e disse: Non di voti l'obblio né l'ecatombe vendica Febo Re; ma il sacerdote no cui di minacce Agamennon percosse, sprezzò le offerte, e gli rattien la figlia: però ne perde di cotanta strage Febo, e ne perderà; né mai la grave mano asterrà dal sanguineo flagello 115 se pria del padre alla magion deserta la lagrimata vergine non torni irredenta da prezzo, e l'accompagni propiziando un'ecatombe a Crisa: forse che il Nurne temprerà gli sdegni. 120 S'assise. Ed indignato alzasi il sommo Eroe dall'ampio imperio Agamennone; atra ne' spirti gli fervea la bile, ed infiammati di sanguigna luce torce gli occhi in Calcante, e lo ripiglia: 125 col,,', niutio, me vivo e risguardante in terra, presso le concave navi non ti po"à addosso le ardite mani, non se pur nominassi Agamennone, che ora nell'esercito si gloria di grandeggiar sopra ogn'altro. Allora prese coraggio l'indovino i"i"prensibile, e disse: Egli non si risente di voti né d'Ecatombe, ma bensì per cagi·one del Sacerdote, cui Agamennone disonorò, né diede sciolta la figlia, né accettonne il riscatto: quest'è perché il Lungi-saettante ci diede dei guai, e ce ne darà, né prima egli sosterrà dalla peste le pesanti sue mani, se non si rende al padre diletto l'occhinera donzella senza-prezzo, sen:,sa-riscatto, e non si guida in Crisa una sacra Ecatombe: cosi forse ci, aooerrà di placarlo, e rimuoverlo. Egli ciò detto si pose a sedere: allora si alzò l'Eroe Atn"de ampiodominante Agamennone, turbato, i precordii fasciati-di-caligine gli si colmarono altamente di bile, i suoiocchisomigliavano afuoco sfavillante: tosto biecoguatando Calcante cosigliparlò: Profeta di sciagure, non 23 3S4 POESIE Vate di guai! né verrà dì ch'io t'oda dirmi prospera cosa? Al cor t'è gioia di profetar sciagure, e non per anco buona di te si vide opra o parola. Ed or fra Danai divinando arringhi, 130 quasi li piaghi Iddio perché a mercato dianzi negai la prigioniera mia, che l'elessi a' miei tetti, e più m'invoglia di Clitemnestra che menai pulce1la, tanto con lei di membra e d'avvenenza 135 gareggia e di gentili arti e d'ingegno. Pur, se più giova, io la consento: a nostre genti lo scampo e non l'eccidio merco. Ma un altro s'apparecchi a satisfarmi dono da tutta roste; e' non è dritto 140 ch'unico resti non premiato il duce, fu mai che tu mi dicessi una cosa grata: sempre tigodi nelpresagir malanni, ma né in parole, né in fatti non uscì mai un bene da te: ed ora in mezzo ai Greci tu parlamenti oracoleggiando, come se il LungiSaettante prenda a travagliare i Greci perch'ioa non volli accettare gli splendidi doni offerti per la fanciulla Criseide, no certamente, perché amo meglio di aver in casa lei stessa, ch'io la preferisco persi110 a Clitennestra che menai mogHe pulcella,· stanteché non le cede punto o nel corpo, o nel sembiante, o nello spirito, o nei lavori. Pure clzecché ne sia, son pronto a renderla, se questo è il meglio, ch'io amo che 'l m1.'o popolo sia salvo, piuttosto che perisca: ma voi procacciatemi tosto un altro premio, ond'io solofra i Greci non resti impre,niato, che ciò sconviensi: poichéb voi tutti ben vedete qual sia il premio a) «Il riscatto/ di Criseide non volli, assai bramando/ presso me averla, a Clitennestra mia / già desti11ata e uguale a lei per certo / d'indole, per sembianze e per lavori». MAFFEI! Così intendeva e verseggiava Omero il principe della letteratura di que' tempiI b) u Il mio premio scn va ben lo scorgete ». MAFFEI.z E cosi gli 1. Opere del MAFFEI, XIX, Poesie tJolgari e latine, Venezia, Curti, 1790, p. 200, vv. 146-50. Scipione Mafjei (Verona I giugno 1675 - ivi 11 febbraio 1755) dell1 Iliade tradusse soltanto i primi tre canti. 2. Op. cit., xix, p. 201, v. 157. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) e quanto io perda ognun sei vede. - E il divo Pelide al Sire: O glorioso a tutti, ma fra tutti mortali avido Atride! 355 Chi ti darà de' generosi Danai 145 il premio? Abbiam più noi pubb1iche spoglie? Il predato a' paesi è ormai diviso, né più alle schiere accomunarlo giova. Tu questa assenti al Dio. Noi tre fiate ti rifaremo e quattro, ove l'Olimpio 150 d'Ilio n'apra le porte indite in guerra. O deiforme, gli risponde, o prode, pur opri scaltroI Ma non io di speme m'appagherò, né tu m'eludi. Immuni le tue spoglie presumi, ed io nudato 155 ridarò la mia schiava? e tu l'imponi? Ma i magnanimi Achei mi ridaranno ch'io vengo a perdere. - A lui ripigliando, disse il piè-veloce divino Achille. O Atride boriosissimo,• sopra ogn'altro di-n"cchezze-avidissimo, come possono i magnanimi Achei darti un premio? noi non sappiamo che in alcun luogo vi siano beni indivisi,· ma le spoglie delle città si so1zo già partite fra tutti, né conviensi che i popoli leb raccolgano, e le ammassino. Or tu questa cedila al Dio, che poscia noi Greci ti compenseremo del triplo e del quadruplo, se mai Gi'ove ci concede di saccheggiar la ben murata città di Troia. A questo ripigliando, disse il regnante Agamennone: Con tutta la tua bontà, o Dei-si.miJe Achille, non pensar di gabbarmi, che non ti verrà fatto di deludermi, o di persuadermi. E che? vuoi tu forse eh'io mi segga qui spoglio di premio, mentre tu ti godi il tuo? e mi comandi di restituir costei? Sì se i magnanimi A ehivi mi daranno un premio soddisfacente all'animo, e d'ualtri. Egregiamente il Cesarotti rilevò l'originale. Atride pretendeva non solo compenso, ma compenso equivalente. a) Ku8ta-n;: Ku8oc; gloria - intendo: con tlltta la tlla gloria, o Atride, tu se' avido di ricche:::ze: come subito dopo Atride gli rimanda l'ironia: co,i tutte le tue virtù, Achille, tu ti diletti d'astu:zie. b) a Ragion non è che i popoli di nuovo / mettano in massa ciò che lor fu dato / per fare al Generale ora il regalo». SALVINI.1 I. Op. cit., p. 7, vv. 185-7. POESIE pari prezzo di doni, e che m,arrida, o ch'io 'l piglio di forza, e il tuo si fosse o d'Aiace o d'Ulisse, e andranne tristo 16o chi sei vedrà ... Ma di ciò poi. - Su via daremo alle divine onde la nave, e destri remiganti e un,ecatombe navigheranno con Criseide bella: parta duce un de, grandi; o ldomeneo, 165 o Aiace, o il divo Ulisse, o tu Pelide Eroe terribilissimo, ché Febo certo ne placherai con le sante opre. Guatalo torvo il pieveloce Achille: Ahi vestito di fraudi e d,impudenza! 170 E chi devoto ormai, chi de' guerrieri fia più al tuo cenno, o che a' perigli ciechi s'imboschi ardito, o virilmente pugni? Ed io per chi mi venni a' bellicosi Dardani? e per che colpe io li guerreggio? 175 Né mi rapiro i buoi né i miei cavalli, né a Ftia di molti abitatori altrice sceser su' pingui colti a campeggiarmi gual valore. Se poi nol daranno, verrò io stesso a prendermi o 'l premio tuo, o quel d'Aiace, o d'Ulisse, e presolo il condurrò meco, e quello a cui verrò ne sarà dolente. Ma di ciò consulteremo ancM dopo: or via, tiriamo la nera nave nel divino mare, raccogliamvi dentro acconci rematori, collochiamovi l,ecatombe, e facciamovi salire la stessa Criseide di-belle-guancie: vi presi.eda alcuno dei Capi-del-consiglio, o Aiace, o ldomeneo, o 'l divino Ulisse, o tu stesso o Pelide, terribilissimo sopra tutti gli uomini, acciocché tu co' tuoi sacrifizii ci renda placato il Lungi-Saettante. - A lui torto guatandolo, rispose Achille di piè veloce. O rivestito di sfacciataggi111!, c'-hai-anima-ne/guadagno, chi più tra gli Achei vo"à ubbidire a' tuoi comandi, sia per ire in qualche spedizione, sia per combattere valorosamente contro a' guerrieri? lo non venni già qua a pugnare a cagion dei bellicosi Troiani, che non mi fecero alcun torto; perciocché non mai mi rubarono né i miei cavalli, né i buoi, non mai vennero in Ftia nudriced,uomini, di-larghe-zolle, aguastare i mieifrutti; che vi sono di mezzo TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) 357 le nostre messi; ché montagne opache e il fremito del mar giace fra noi; r8o ma te tutti seguiamo, inverecondo, per Menelao, per te, ceffo di cane, di vostre onte correndo alla vendetta sovra i Troiani; e tu, come ne paghi? come ne curi ? minacciando a forza 18s di tormi il premio ond'io sudai pur tanto nelle battaglie; e mel donar gli Achei. Né l'avrò pari al tuo quando a' Troiani domino i Danai popolate ville: ma l'impeto maggior dell'aspra guerra 190 trattano le mie mani, e tu il migliore della preda divisa invaderai: mentr'io pur lieto di modesta spoglia verrò alle navi anelante posando molti boschi ombrosi, e 'l mare sonante: ma seguendo te, o arcisfacciato, siam qua venuti, per far piacere a te, per vendicar l'onore• di Menelao, e di te, ceffo-di-cane, contro i Troiani, dei quali (benefizii) non hai né cura, né gratitudine. E ora anche minacci di rapirmi tu stesso il premio per cui tanto ebbi ad affaticarmi, e che mi diedero i figU degli Achei? quando pure io non ho mai premio uguale al tuo, allorché gli Achei espugnano qualche ben-popolata città de' Troiani: il maggfore sforzo della tumultuosa guerra il governano le mie mani, poi quando si dividono le spoglie, il tuo premio è sempre il più distinto, ed io debbo andarmene alle mie navi con un premio picciolo e caro, a) L'Achille di Omero rinfaccia ad Atride la macchia dell'adulterio di Paride, e rammemora le cause della guerra; e l'Achille dell'abate Ceruti: «Te sol seguiamo, uom svergognato e sozzo, / a te cane io procaccio, e al tuo germano / da, Troiani ricchezze e spoglie e prede ». 1 Imitando e guastando il Cunich che pur a questo luogo non fa sentire tutto il testo.2 r. Op. cit., IV, p. 11, vv. 269-71. 2. Vedi HoMERI Ilias latinis versibus expressa a RAYMUNDO CUNICHIO Ragruino ecc., Venetiis, Haercdes Balleonii, 1784, 1, pp. 7-8, vv. 196-202. Raimondo Crmich (Ragusa [Dalmazia] 1719 _ Roma 1794), gesuita. La sua traduzione omerica vide la luce nel 1776. POESIE dalla vittoria. Or giova dunque a Ftia 195 ridurmi a' regni miei con le mie navi, che qui starmi sfregiato accumulando tesori a te. - E il Re de' regi: E fuggi fuggi, se il cor ti sprona; di più starti non io ti prego: altri son meco, e avranmi 200 in riverenza; e providente è Giove: anzi fra quanti al trono educa Giove tu mi se' odiosissimo, ché in petto poiché sono stanco dal gran combattere. Orsù me n'andrò a Ftia: eh'egli è molto meglio tornare a casa colle curve navi: né già cred'io che8 tu qui disonorato farai gran conquisto di tesori, e di prede. A lui quindi replicò il Re degli uomini Agamennone. Fuggi pure se il cuor ti stimola, io non ti prego a restartene per conto mio: altri vi sono presso di me che mi presteranno onore, eh sopra tutti il provido Giove. Fra tutti i Re nudriti-da-Giove, tu mi sei odiosissimo: poiché a) «Il testo ha qui due sensi: sendo tu vituperato, o sendo io vituperato; seguo la prima interpretazione adottata dalla Dacier, e dal Rochefort, e lascio l'altra al Clark che la preferisce perché più grammaticale: ma fra la miglior sintassi e il miglior senso non bilanciano che i grammatici». CESAR[OTII].1 - Non assento in tutto al Clark, ma né a questa interpretazione volgata. Ecco l'ossatura del discorso d'Achille: Venni a Troia per l'onor tuo, e tu mi vilipendi: conquisto, e tu così t'arricchisci: me n'andrò dunque, perché s'io sono vilipeso, io non voglio più omai arricchirti. Senso ch'io deduco più dall'argomento che dalla sintassi la quale ammette differentissime interpretazioni, tanto è intralciata. b) Questa è l'universale interpretazione: ecco la giacitura del testo: 1tcxp' éµ.oLye x• &uot Presso me ed altri. ot xé µ.e -rtµ.iJaouaL· µciÀtCTC"cx 8~ iJ.'7JTlE-roc Zcuç [vv. 174-5]. Che pur me onorerarino: sommamente poi provido Giove. Nel primo e nel secondo membro il testo sottintende il verbo essere. Le traduzioni latine, assegnando a tutti e due la particella dovenziale Y.i, accrescono la iattanza d'Agamennone quasi che presumesse più rispetto che aiuto da Giove. Isolando il secondo membro si concilia, panni, più grazia e rassegnazione al discorso. 1. Op. cit., tomo 1, parte n, p. 75, nota !3. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) 359 non t'è virtù che di corrucci e sangue; ma s'hai gran possa, ti fu largo Iddio. 205 Va, le navi rimena e le tue torme alle tue prode, e a' Mirmidoni impera, né il tuo partir né il tuo livor mi tocca: bensi t'intimo che se Febo Apollo vuolsi Criseide, oggi co' miei guerrieri 210 io la rimando e con la nave mia; ed a te la tua preda, a te la bella Briseide mi torrò; verrommi io stesso alle tue tende, onde tu pur conosca s'io t'avanzo in possanza, e ne paventi 215 chi mi si vanta eguale e chi m'affronta. Disse. E il dolor d'Achille alle minacce s'infiamma, e dentro delrirsuto petto l'alma lo combattea con due consigli: o la spada impugnar, gli altri sgombrando, 220 e trafiggere Atride; o la tempesta domar dell'ira. Ed agitando tutta la mente e il core in tanto ondeggiamento, sempre a te sono care la r,·ssa, le guerre, le battaglie. Se tu sei molto gagliardo, è un Dio che te lo diede. Tornatene pure alla tua casa colle tue navi, e co' tuoi compag11i, e comanda ai Mirmidoni, io non mi curo di te, né t'apprezzo punto sdegnato; bensl ti minaccio di tanto: poiché Febo Apollo mi n"toglie Criseide, questa io colla mia nave, e co' miei compagni la rimanderò; ma venendo io stesso alla tua tenda toglierò a te il tuo premio, Briseide di bella-guancia, onde tu conosca quanto io sia più grande di te, e paventi ogn'altro• di parlarmi da uguale, e meco affrontarsi". - Così disse: Pelide fu preso dab furore, il di lui cuore nel velloso petto è bilanciato da due parti (incerto) se traendo dalla coscia l'acuto ferro abbia a sgombraregli asta11ti, e a trucidare Atn"de, o a temperare lo sdegno, e raffrenar il suo impeto. 1l1e11tr'egli va così fluttuando fra la ragione e 'l furore,e e già a) L'originale: taov iµol f«a6occ. [v. 187]. Pari a me predicarsi. b) L'originale: «xoc; [v. 188] cordoglio. e) Il Clarck vuole che .&uµ.6i; risponda soltanto ad animo: il Cesarotti ad animo turbato da qualche affetto; credo che la sola voce 360 POESIE sguainava il gran brando. Allor dal cielo Pallade scende per voler di Giuno, ch'ambo la Dea dalle candide braccia amava i duci. Stettegli alle spalle Minerva, e il piglia per le fulve chiome, invisibile a tutti, a lui splendente: paventò Achille, e volgendosi, ratto Palla conobbe e gli occhi orrendi vide, nomolla, e alate le mandò parole: A che ne vieni, o dell'Egioco figlia? Forse l'insulto a contemplar d'Atride? Ben io ti dico, ed avverrà, che presto per le superbie sue perderà l'alma. E l'occhiazzurra Dea, venni, rispose, 225 230 235 mudava dal fodero il grande acciaro, venne dal cielo Minerva, che l'avea spedita la Dea dalle-bianche-braccia Giunone, la quale amava entrambi di cuore, e ne prendea cura. Stettegli• addietro e prese Pelide per la rossiccia chioma, mostrandosi a lui solo, che degli altri niuno la vide: sgomentossene Achille, e volsesi addietro tosto rico.. nobbe Pallade-M,:nerva, che terribili gli apparvero i di lei occhi, e indirizzò a lei. alate parole. A che, o figlia del/'Egi-tenente Giooe, qua ne venisti? forse a veder l'insolenza dell'Atride Agamennone? E bene, io ti dichiaro, e quel ch'io protesto sarà compito, costui per la sua prepotenza perderà ben tosto la fJita. - A lui ripigliò la Dea occhi-verdastra Minerva: io venni dal cielo a calmar il tuo sde.. adeguata sia l'irascibile, ma nemica alla poesia.1 - «Avvampa e freme/ d'ira e dolor nell'irto petto Achille, / s1agita e dubbio pende, o se dal fianco / sciolto e stringendo il ferro a viva forza / s'apra la via, s'avanzi al Re, l'uccida, / o prema il duol che il cor gli rode e lima». CERUTl.2 a) • Minerva da' begli occhi azzurra Dea / s'appressa a lui, stende la mano, e lieve/ pel biondo crin lo scote, e a lui si mostra / invisibile agli altri. Il capo ei volge / e al balenar di que' celesti rai ... ». CERUTI.3 1. Vedi M. CF.SAROTTI, op. cit., tomo 1, parte 11, p. 80, nota u3: •Le due voci phrena e thymon sembrano presentar un contrasto fra la ragione e la passione. Questo luogo prova contro il Clarke che thymos non vuol dir semplicemente animo, ma bensì animo turbato da qualche affetto•· a. Op. cit., 1v, p. 13, vv. 320-5. 3. Op. cit., 1v, p. 13, vv. 331-5. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) 361 a rammansarti, se per noi t'arrendi, ché Saturnia cui siete ambo nel core dal ciel m'invia. Tu dalla rissa posa, e allenta il pugno sulla spada; amaro, se il cor ti sprona, gli sarai ne' motti; ma fida intanto sulle mie promesse: tre fiate più ricchi a te verranno per tanta ingiuria i doni. Or tu pon modo 245 ed obbedisci. - E ben è dritto, o Dive, disse l'Eroe, che l'anima sdegnosa pieghi all'impero vostro, e fiane il meglio; clementi odon gli Dei chi li seconda. E obbediente il poderoso pugno 250 sull'else argenteo conteneva, e tutto il gran brando rispinse alla vagina. La Dea fra il coro de' Beati in cielo tornò alle sedi dell'Egioco Padre. Ma il furor non tacea del divo Achille, 255 e' Atride saettò d'aeri parole: Beone, occhio di cane, alma di cervo, né col popolo t'armi alla battaglia, né mai col nerbo de' guerrier t'attenti gno, se vuoi ubbidirmi, mi spedì la Dea dalle-bianche-braccia Giunone, che ama entrambi di cuore, e ne prende cura. Or via, cessa dalla rissa, né ,:mpugnar la spada: solo ingiurialo colleparole, comegià sarà: perciocché io ti dichiaro, e il mio detto sarà compito, un giorno avrai splendid,: doni tre volte altrettantiper questa ingiu,·ia: tu raffrenati e ubbidisci a noi. - A lei rispondendo disse Achille dal piè veloce: conv,:emmi, o Dea, assentire alle vostre parole, tuttoché il mio animo sia gravemente crucciato: che questo èil meglio. Chi ubbidisce agli Dei, è dagli stessi esaudito. Disse, e sull'else d'argento rattenne la mano pesante, e ripinse nella guaina il grande acciaro, né disubbidì al comando di Minerva: ella tor11ossene all'Olimpo nelle case dell'Egi-tenente Giove insieme cogli altri Dei. - Ma Pelide di nuovo con aspre parole. si rivolse ad Atride, né ancora avea calmato lo sdegno: Beone, che hai gli occhi di cane, e 'l cuore di cervo: tu non sostenesti mai coli'animo d'armarti alla guerra insi"eme col popolo, né di porti in POESIE d'ire ad aguati; ch'ei t'è morte al core. 26o Giova ben più di pompeggiar per l'ampio esercito de' Danai, e a chi t'oppone schietta parola rapinar le spoglie: Re del popolo tuo divoratore, perché imperi ad imbelli; ultimo questo 265 s'ei fosser prodi oggi saria l'insulto: or odi me, ch'io fo gran sacramento. Per questo scettro a cui ramo né foglia rinverdirà più mai, da che il suo ceppo lasciò ne' monti, e lo nudava il rame 270 di fronde e di cortecce, ed or le destre de' giudici fa sante a' quai le leggi de' figli degli Achei Giove die' in guardia, io giuro; e fiati giuramento orrendo: desio d'Achille stringerà gli Achei, 275 né perché tu ne pianga avranno scampo quando cadrà gran messe di trafitti sotto il brando d'Ettorre; e tu pentito il tuo furor maledirai, membrando agguato coipn"ncipali degli Achei: che ciò ti sembra una morte. In fJero è miglior cosa irsene per l'ampio esercito degli Acheipredando ilpremio di qualunque osa fiatare dinanzi a te; pri11cipea divora-popolo, perché imperi a gente da nulla: che certo, o Atride, questa fora l'ultima delle tue insolenze. Ma t'annunzio una cosa, e vi aggiungo un gran giuramento: sì per questo scettro, il quale non produrrà pirì 11éfoglie, né rami, posciaché dapprima lasciò il suo tronco nei monti; né rigermoglierà, poiché il rame gli levò d'intorno le frondi, e la scorza, ed ora lo porta110 nelle mani i giudici tra' figli degli Achei, che custodiscono le leggi a nome di Giove: e questo sarà per te un giuramento assai grande; verrà un giorno che tutti i figli degli Achei saranno invasi dal desiderio d'Achille, e tu benché addolorato non potrai soccorrergli, quando in folla cadranno morendo sotto l'omicida Ettore,· a) Agamennone diventa nel Ceruti, Cane, Pastore, CenJo, Re, Lupo, Tiranno, sinonimi.1 I. Op. cit., IV, p. 15, vv. 373-86. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) che il fortissimo Acheo non onorasti. Disse; e l'insigne d'auree borchie a terra scettro gittò, e s'assise. Ardeane Atride: ma dolce favellando alzasi in mezzo Nestore, arguto consiglier de' Pili, e l'eloquenza più che mel soave di sua bocca fluiva. Ei de' mortali modulanti la voce, e al caro lume della vita con lui nati e nodriti nell'aurea Pilo, già la prima vide 28s tu frattanto roderai di dentro il cuore, crucci.aio perché non onorasti il più valoroso degli Achei. Così disse Pelide, gittò a terra lo scettro distinto d'aurati chio'Ui, e s'assise. Atride dall'altra parte infuriava: allora sorse• in mezzo a loro il soave-parlante Nestore, piacevole Oratore de' Pilii, dallab cui lingua più dolce del mele sco"ea la voce. Aveva già egli co11sumate due età degli uomini articolatamente-parlanti,e i quali erano pria nati e a) «Il vecchio Nestore del Salvini salta su ».1 b) originalmente suonerebbe, panni, devastatori, e da cpOijµL, preoccupatori, intendesse i centauri, come traducono gl'interpreti, o qualche altra razza d'uomini, non è questo il luogo di disputare; e la certezza di questo fatto giacerà forse sempre nella notte dell'antichità. -Fortes cumfor- TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) 365 ei trafiggeano orrendamente. E anch'io 310 lungi dall'Apio suolo uscii di Pilo con elli, e m'invitaro, e gli ebbi amici, e a mio poter pugnai: ma più non pasce la genitrice terra umano corpo che li affrontasse; e non per tanto amico 315 porgean orecchio alle sentenze mie; e per lo meglio m'obbedite or voi. Perché in te sia più di possanza, al prode non rapir la donzella onde il fe' lieto la prole Achea. Né tu, Pelide, al Sire 320 mover battaglia con avversi Numi, ché non per anco in maestà l'agguagli; Giove lo scettro a lui del sommo impero diede e la gloria; e se una Dea più forte te generava, egli più genti regna: 325 figlio d'Atreo, ti placa; al pregar nostro dona gli sdegni e alla virtù d'Achille delle montag11e, e tern'bil,ne,ite gli uccisero. Con questi io m'intrattenni 'Venuto di Pilo lungi dalla terra Apia, che tti'Q'lJeano chiamato essi: combatteva io secondo le mieforze, ma contro di loro niun uomo terrestre di quei che or sono oserebbe combattere, epure ascoltavano i miei consigli, e condiscendevano alle mie parole: condiscendeteci dunque anche 'lJOi, che il condiscender fia meglio. Né tu benchépotente tJOlergli rapir la donzella, ma lasciagli quel premio che pria gli diedero i figli degli Achei, né tu Achille 'VOier cozzare col Re, che un Re scettrato cui Gio'lJe colma di gloria non riconosce alcuno pari in onore. Se tilnu anna / contulenmt, Jretique animis bella aspera contra / montanas gessere Jeras, et Pelio in alto / nubigenas dira straverunt caede bimembres. CUNICH.1 E spirò al Ceruti la licenza di cantarci la sua storia un po' più alla lunga: • Illustri prove / essi ben diero di valor, di forza, / non timidi a pugnar con orsi e tigri / per caverne e burroni allor che il sangue / de' figli d'lssion mostri bimembri / che la mentita nube a lui produsse / sparser su l'alto Pelio•.2 Cosl va sempre sulle peste del Cunich; e mi tiene forte sospetto che l'abate Ceruti professasse lingua greca nella università, non nel suo studio. I. Op. cit., I, p. 12., vv. 32.7-30. 2,. Op. cit., IV, p. 17, vv. 445-51. POESIE scudo a noi tutti nell'avversa guerra. Padre, ben parli, gli soggiunse Atride, ma costui tende a soverchiarne, e in tutto 330 signoreggiar, e impor sua legge a tutti, vano consiglio. E se favor di Numi lo creò battaglier, tanto disprezzo però con noi s'arrogherà ne' detti ? Ma la querela il Tessalo gli rende 33s interrompendo: Io? ... merterei rampogna di codardo e dappoco, ove a' tuoi cenni e alla sentenza tua sempre inchinassi. Tale impera su gli altri, e meco cessa: più non m'avrai guerriero obbediente; ma in cor ti poni questo ultimo detto. tu sei più gagliardo, e ti partorì una Dea, egli è più grande, perché a più genti comanda. Tu Atride,a calma il tuo sdegno, ch'io pregherò Achille a depor la sua collera, Achille che per tutti gli Achei è il gran propugnacolo dell'aspra guerra. - A questo rispondendo disse il regnante Agamennone. Invero, o vecchio, dicesti ogni cosa a dovere, ma quest'uomo vuol a tutti esser superiore, su tutti vuol dominare, con tutti farla da Re, comandar a tutti, né ciò cred'·io eh'ei l'ottenga. Se gli Dei. in perpetuo duranti ilfecero battagliere,gli diedero perciòanche il dritto di dir vituperii? -Ad esso interrompendolo rispose il divino Achille: Ben sareiaragi"onechiamato vile eda nulla, s'io ticedessiin ognicosa che t'accade diproferire: comanda in talguisa ad altri, a me non comandare, ch'io non sono più disposto a ubbidirti. Ti dirò una sola cosa, e tu piantala dentro il tuo cuore: io colleb ma11i non combatterò per la do11a) Il Brunck in una nota ad Aristofane, Rane, v. 856, rettifica l'interpunzione di questo passo.1 'ATpd811, aò 8è 1tcxuE: Ttbv µ.bt,o~, cxùTd:p lyye / ).(aaoµ.cxt, 'AxtU:ijl: µe8éµev x6Àov &ç µ.iy« 1tiiaLv / épxot; 'Axcx10Tatv 1téÀt-rcxt 1toÀÉ(J.OLo xcxxo!o (vv. 282-4]. Tu poi, Atride, calma l'ira tua, anzi io ti prego di donare i risentimenti ad Achille come quello eh'è agli Achei grande riparo 11ella guerra trista. b) ,, Con queste mani per una donzella / non pugnerò con teco né 1. Ma si tratta della nota al v. 851. Vedi ARISTOFANIS Comoediae ex optimis exemplaribus emendatae studio Rich. Frane. Pliil. Brunck argentoratenm, Argentorati, Treuttel, 1783, 1, pp. 189-90. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) Né a te né altrui contenderà il mio braccio la schiava che donata or mi rapite, ma nulla spoglia toccherete impuni di quante guarda la mia negra nave; osa, e vedranno i tuoi campion se ratto su la mia lancia fumerà il tuo sangue. Sì tenzonando con nemici detti sorgeano. A' legni l'assemblea si sciolse. Col Meneziade e i Larissei die' volta al suo campo il Pelide. Intanto a' flutti devolve Agamennon celere prora, e venti elegge remiganti, e impone un'ecatombe a Febo. Il Re guidava la beltà di Criseide alla marina ed il guerrier di molta mente Ulisse al viaggio prepose. E quei saliti 34S 350 35S zella né teco, né con altri, poiché dopo avermela data me la togliete: ma dell'altre cose ch'io posseggo nella negra veloce nave non neporteraivia neppur una contro mia voglia: se nol credifanne la prova, onde anche• gli altri" sel veggano; tantosto i'l nero tuo sangue sco"erà per la lancia. Così essi battagliando con vicendevoliparole s'alzarono, esdolsero il parlamentopresso le navi degliAchei. Pelide n'andòalle suetende, ealle navi ugualicolfiglio di· fttlenezio, eco• suoiseguad. Atrideintanto trasse almarela veloce nave, viscelseventirematon·, ev'impose z•Ecatombepel Di"o, indivicondussebCriseide di-bella-guancia, evisalìper condottiere z•aooeduto Ulisse. Or questi saliti che furono navigavano l'umide vi"e. con altri / perché quel mi togliete che mi deste». Rxo[OLFl].1 E frequentemente coglie nel senso, e benché verseggiatore freddo e monotono, è non per tanto meno triviale del Salvini, e più schietto del Ceruti. a) L'originale - fvet yvc!>Ci>aL x' ot3e: [v. 302]. Onde conoscano anche costoro. Qui manifestamente Achille punge gli altri capitani che non difendevano la giustizia delle sue parti, e risponde ad Agamennone, che dianzi li chiamava suoi campioni, vedi verso 200. b) L'Abate Ceruti onora Criseide di due cavalieri serventi: «Accompagnata/ dal Re medesmo e dal prudente Ulisse ».2 1. Op. cit., 1, pp. 25-6, vv. 392-4. 2. Op. cit., 1v, p. 20, vv. su-:z. 368 POESIE navigando ne gian !'umide vie. Quindi il rito lustrale alroste indisse il Re de, Re. Vedevi allor le turbe 36o tutte purificarsi, e le sozzure ne, lavacri gittar delroceano; e alle spiagge del ponto infruttuose di tauri e capre rituali mandre immolarsi ad Apolline; l'odore 365 involuto nel fumo andarne ai cieli. Tali propizie in campo opre ferveano: ma non ristava dal proposto Atride di che fe' pria minaccia, e a sé chiamando Taltibio ed Euribate, araldi al Sire 370 ed assidui ministri: Ite, imponeva, al padiglion del figlio di Peleo; quindi Briseide per la man traete: s'ei la contende, io ne verrò; gli armati me la daranno, e ciò gli fia più duro: 375 Atridepoiordinòchesipurifica.ssel'esercito: quellisipurificavano, egittavanoinmarlesozzure,poisacrificarono adApolloperfetteEcatombe di tori edi capre sul lido del mare• inessiccabile, el'odore n'andava alcielo af)f)oltolatonelfumo. In talicosesiadoperavano essiintorno l'esercito, ni però Agamennone cessava dalla contesa, di cui dianzi avea minacciato Achille, mafavellò a Taltibio, ead Euribate eh'erano suoi araldi, esolleciti ministri. Iteneb alla tenda del Pelide Achille, epresa per la mano conducetemi Briseide dalla-bella-guancia: che s'egli non la rila.scia, verrò con molti a prenderla io stesso, il che gli sarà ben più acerbo. a) u La voce atrigetos è generalmente tradotta sterile, infruttifero: io ho prescelto il significato meno comune ma che ha ben più rapporto col mare». CESAROTTI.1 - Qui, e poco dopo quest'epiteto è assegnato al mare, ma parlandosi di cose accadute alle spiagge: parmi che rinfruttuoso e l'inseminato riferiti alle arene innondate dal mare riescano veri e pittoreschi. b) 11 Del fiero Achille al padiglion veloci/ itene, dice lor, in questo istante». CERUTI.2 Ma doveva egli il Re impaurire con la fierezza d'Achille gli araldi già spaventati per se stessi? 1. Op. cit., tomo I, parte u, p. 124, nota v4. 2. Op. cit., IV, p. 20, vv. 529-30. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) e li manda e aggiugnea rigidi cenni. Quei per le vie d'inseminate arene ritrosi in mente camminando vanno sino a' Ftioti accampamenti. Achille di sotto al suo navil fuor della tenda trovan sedente. Nel vederli amaro tosto un avviso gli correa per l'alma. Ma que' duo riverenti e paurosi senza dir motto al duce o far domando 38o stavano. Ed ei che in suo pensier si avvide, 385 Salvete, disse, araldi, o de' mortali messaggieri e di Giove; e v'appressate. Non voi n'incolpo, ma di lui l'impero che a me vi manda. Or tu, sangue celeste, Patroclo, ad essi la donzella adduci. - 390 Ma e voi siatemi innanzi a' Dii beati, e all'universe genti, e al Re crudele testimoni, se mai nel fero esizio liberator me tutti invocheranno. Così dicendo gli" mandò, e vi aggiunse gravi parole: essi di mala voglia andarono lungo il lido dell'inessiccabile mare, e pervennero alle tende e alle navi dei Mirmidoni. Trovarono lui sedente presso la tenda e la negra nave, né in veder costoro allegrossi Achille. Essi sgomentati e rispettando il Duce si ristettero,• né domandarono né proferirono parola: egli s'accorse nel suo cuore, e disse. lo vi saluto, araldi, nunzii di Giove, e degli uomini: accostatevi, voi non avete colpa meco, ma il solo Agamennone che vi manda a cagione della fanciulla Briseide. - Or va, Gi'ovi-genito Patroclo, conduci fuora la fanciulla, e consegnala a loro perché la rimenino: ma voi stessi siate testimonii innanzi agli Dei beati, innanzi agli uomini mortali, e innanzi al feroce Re, se mai verrà agli altri (Greci) bisogno di me per allontanar il tnsto eca) u Da timor, riverenza, e dall'aspetto/ del magnanimo Eroe confusi, attoniti / appressarsi, parlar, a chieder nulla / osavano i due messi». CERUTI.1 Ma lo stavano che Omero pone per principio di verso e fine di sentenza dipinge più di questo star confusi, attoniti, non appressarsi, e nulla osare. I. Op. cit., IV, p. 21, vv. 544-7. 37° POESIE Furiali consigli a quel deliro, 395 cui né il passato né il futuro assenna, perdon la mente. A sciagurate prove, miseri Danai! seguirete Atride. Patroclo obbediente al caro amico dal padiglion guidò Briseide, e porse 400 la giovinetta dal dolce rossore da condurre agli araldi; e quei n'andaro al lor signore: rivolgendo gli occhi più tarda li seguia la dolorosa. Rompe in lagrime Achille, e scompagnato 405 d'ogni amico, si posa ove spumando urtan della marea l'atre correnti. E le mirava; e a te, diletta madre, ver l'immenso ocean tendea le palme, ci.dio ... che certo costui farnetica co' suoi consigli pestiferi, né sa distinguere ci.ò che gli sta innanzi e addietro,a e come gli Achei combattano salvi presso le navi. - Così disse, Patroclo ubbidì al caro amico, e condusse fuor della tenda Briseide dalla-bella-guancia, e diedela da ricondurre: essi di nuovo n'andarono alle navi degli Achei; la donna andava con loro di mala voglia. Tostob Achille separatosi dagli altri compagni si assise lagrimando sul lido del mar canuto, guardando sul pelago vini-colore, e molte preci mandò alla madre, stendendo le mani":c a) «Colui per certo è fuor di senno e nulla / scorge più del presente e del futuro / né più pensa al pugnar securi i Greci». MAFFEI.1 Uno di que' passi ch'io mi vedo astretto a tradurre con tropi e con parole affatto diverse. Né l'orgoglio d'Achille era senza generosità; né la sua vendetta sovra Agamennone senza compassione per gli Achei. Rispettò gli Araldi, e il dolore di Priamo. Tutti gli uomini d'indole leonina sono belli e magnanimi anche nella loro ferocia. D'altronde questa cura pe, suoi commilitoni con che li trae alle sue parti è un tratto accortissimo d'eloquenza. b) - «Allorché Achille/ piangendo, tosto da' compagni assiso/ in disparte, del mar canuto al lido, / guardando verso il Pelago alto e nero». SALVINI.2 c) - 11 Posciaché per durar poco / o madre mia mi partoristi, alme- 1. Op. cit., XIX, p. 209, vv. 434-6. 2. Op. cit., p. 17, vv. 512-5. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) 371 te divina invocando: A presta morte, 410 madre, mi partoristi ; e così forse così di gloria la mia vita breve consolerà il Tonante? Ahi né più speme, né più speme d'onor, poiché l'impero d'Agamennone mi rapi la spoglia; 415 e la si tiene! - E sì parlando i flutti guardava irati e gran pianto versava. La veneranda genitrice, assisa ne' profondi del mar presso l'antiquo padre, l'udiva. A immagine di nebbia 420 die' fuor dell'acque, e gli si fa dinanzi e con le dita nivee l'accarezza e gli parla e Io noma: A che con tante lagrime tu mi chiami ? Ed in che lutto ti geme il cor? Deh! non celarmi, o figlio, 425 Madre poiché mi· partoristi di così corta vita, doveva alme,io l'Oli"mpi"o altitonante Giove recarmi onore,· or egli non o,wrommi nemmeno un punto, poiché l'Atri'de ampio-regna11te Agamenno,ze mi di'so,zorò, eh'egli possede il mio premio, avendolo egli stesso rapito. - Così disse versando-lagrime; l'i,ztese la venerabile madre• sedente nel fondo del mare presso il vecchio padre, e rapidamente salse fuora dal mar canuto agguisa di nebbia, es'assise presso di luiche-spargeva-lagrime, e lo accarezzò colla 1110110, eglifavellò, e chiamollo a nome:figlz'uol mio, no I dovea l'Olimpio altitonante Giove/ non essermi d'onor parco: ma ora / né pur d'alcun pago mi volle onore». MAFFEI.1 - «O madre, esclama, / se sì angusto e sì breve a, giorni miei / giro prescritto è pur dal fato, almeno / d,onor di gloria al Re de' Numi e Padre / piacciuto fosse ornarmi, ond'ora, ahi lasso! / disprezzato, negletto, e vile oggetto / non mi vedessi degli oltraggi e scherni,,. CERUTI.2 Cosl anche molti altri di maggior fama non s'accorgono che i vocaboli quasi sinonimi anziché procacciarsi la mente del lettore, la dividono e la distraggono. a) - «Udì la Diva / nel profondo del mar, ove solea / seder col padre». CERUTI.3 Il sedente del poeta dipinge; il solea racconta ciò che in quel punto poteva essere e non essere. 1. Op. cit., xix, p. 210, vv. 447-51. 2. Op. cit., 1v, p. 22, vv. 580-6. 3. Op. cit., IV, pp. 22-3, vv. 590-2. 372 POESIE il tuo dolore ond'io teco ne pianga. Grave gemendo le rispose: Il sai, tu Diva; a che ridirlo ? Diroccata Tebe sacra città d'Eezione qui traemmo le spoglie, e tuttequante noi dividemmo gioventù guerriera. Ma d'egregio sembiante una fanciulla fu per Atride eletta. Afflitto Crise alla vergine padre, e sacerdote dell'arciero immortal venne agli Achei dagli usberghi di bronzo, ed opulente recava offerte a ricomprar la figlia. L'aureo scettro tenea cinto di bende pietà chiedendo a' Danai congregati, e più a' figli d'Atreo. Ma né l'assenso 430 435 perché piangi? qual tristezza t'occupa il cuore? parla, non celarlo nell'animo, onde il sappiamo entrambi. Ad essa profondamente - sospirando rispose Achille dalpiè'Oeloce. Tu 'l sai, perchéridirò tutte queste cose a te che ne sei istrutta? Andammo in Tebe sacra città d'Eezione, la guastammo, e qua ne portammo ogni cosa. I figli degli Achei ditJisero il tutto fra loro, ed elessero per Atride Criseide di-bella-guancia. Indi Crise, Sacerdote del lungi-saettante Apollo, 'Oenne alle tJeloci na'lli degli Achei dalle-tuniche-di-bronzo,a a riscattar la figlia,b recando infiniti doni, etenendo in mano ilserto del lungi-saettante Apollo intorno all'aureo scettro, supplz"cò gli Achei tutti, e spe:zialmente i due Atridi, condottieri de' popoli. Allora tutti gli altri Achei assentirono che si rispettasse il Sacerdote, e si accettassero gli splendidi doni. a) X,-r&>v suona tutto ciò che protegge il torace; onde le tonache di bronzo non possono essere che gli usberghi; ma il Salvini, traducendo col lessico, veste i Grecic:--anche di sottane ferree: «De' Greci ch'han di ferro usbergo e veste».1 b) Qui Omero ripete parecchi versi della introduzione. Panni che un Eroe risentito non debba narrare come il poeta: li rimpasto; e tranne pochi luoghi, ove la ripetizione letterale mi par necessaria, li rimpasterò sempre, secondando le circostanze e la condizione di chi parla, ma senza né menomare, né accrescere, né scomporre i concetti. 1. Op. cit., p. 18, v. 580. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) 373 con che l'oste accogliea l'uomo divino vinse nel fero Agamennon l'orgoglio: ché il supplicar rispinse minacciando dell'orbo vecchio; e quei fuggente impetra dal Dio che l'ama un dardo pestilente +45 che di duol ne rimerta e di terrore e fa di roghi luttuoso il campo. Savio i responsi rivelò di Febo un vate. Io primo in adunanza esorto espiazioni alla fatai vendetta: 450 surse l'ira d'Atride, e imperioso mi parlò una minaccia ed è compiuta. Già con vittime al Dio tornano a Crisa la prigioniera dalle brune luci, ma dalla tenda mia dianzi gli araldi 4S5 si portaro la figlia di Briseo, dono a me de' guerrieri. Or tu se il puoi, al tuo figliuol soccorri; ascendi al cielo a implorar Giove, se tu mai di detti fosti, o d'opre all'Eterno aiutatrice. 46o Ch'io sovente t'udia nelle paterne case pregiarti, che fra tutti Iddii tu dall'empio dolor sola campasti Ciò però non piacque al turbato animo d'Agamennone, ma rigetto/lo aspramente, e vi aggiunse forti parole. lrrùato il vecchio ritornò addietro: Apollo esaudì le sue preghiere, poichégli era assai caro, e vibrò contro gli Arg,,"vì l'acerba saetta, i popoli ne morivano affollati, da tutte le parti s'aggiravano per l'ampio esercito de' Greci. le freccie del Dio. Allora un esperto indovino ci palesò gli oracoli d'Apollo: tosto io primo esorto che siplachl il Dio; ma ilfurore invase Atride, ed alzandosi proferi u1la minaccia che s'è pur troppo compita. lmperciocché l'una gli Achei occhi-neri la co,iducono a Crìsa colla veloce nave, e portano doni al (Dio) Re, etaltra or oragli araldi vennero a ritormela fuor della tenda, dico la fanciulla di Briseo, datami dai figliuoli degli Achei. Ma tu, s'è ver che lo puoi, aiuta tuo figlio: vattene all'Olimpo, e prega Giove, se mal in qualche puntogiovasti al cuore di Gi"ove o con parole o con opre ••• perciocchépiù volte nella casa del padre t'intesi 374 POESIE l'eccelso delle nubi adunatore, quando Saturnia e il magno Enosigeo, 465 Palla Minerva e gli universi Olimpii gli congiurar catene; e tu giungevi e il liberavi, o Dea, ratto appellando fino a sommo l'Olimpo il Centimano Egeon da' terrestri, e Briareo 470 nomato in cielo, ei che i Tartarei vince tuttiquanti di passe; ed esultante del nuovo onor, sedea propinquo a Giove sgomentando gli Eterni; e quei posaro. Ciò tu gli membra, e siedi, e all'Immortale 47S cingi i ginocchi onde ali'Iliache squadre di tanto arrida, che a' navigli e ali'onde incalzati, addossati, trucidati del loro imperador godan gli Achei, e quel superbo in tanto rio si accorga 480 se il vitupero gli giovò d'Achille. vantarti dicendo che tu sola fra gl'immortali scampasti dall'estrema sciagura il Saturnio neri-nugolo, allorché gli altri OHmpii, Giunone, Nettuno, e Pallade-Minerva volevano ·incatenarlo: ma tu o Dea, venuta colà lo liberasti dai ceppi, avendo chiamato all'eccelso Olimpo il Centimano, che gli Dei chiamano Briareo, egli uomini tutti Egeone, eh'egli in forza era da più di suo padre,3 or egli si assise presso il Saturnio, esultante di baldanza, gli Dei beati ne paventarono, né più legarono (Giove). Or tu rammentandogli siffatte cose, siedigli accanto; e prendigli le ginocchia, e tenta s'ei volesse soccorrere i Troiani, e cacciar gl,," Acheisino alle navi, ed al mare, truddati, acciocché tuttigodano del loro Re, e l'A tride ampio-regnante Agamennone conosca il suo torto di non aver onorato il più valoroso dei Greci'. A lui rispose Tetide versana) «Questo gigante era figliuolo pi Nettuno. Gli scoliasti danno un'altra lezione di questo luogo: perch'egli era molto pii'l forte di quanti abitano sotto il Tartaro tenebroso». CESAROTTJ •1 - lo l'accolgo, perché mi pare più magnificata la congiura contro il Re dell'Universo ove si commova per essa il mare, il cielo, e l'inferno. 1. Op. cit., tomo 1, parte n, p. 142, nota 1115. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) Udialo Teti lagrimando, e, oh figlio, dicea, se mi nascevi a dì sinistri deh perché t'allattai? Ohimè alle spalle t'incalza il fato: almen posassi illeso e senza pianto! Ma tu corri a morte e sciagurato più d'ogni uomo vivi perch'io ti partoria dentro le stanze del mio Peleo con miserandi augurii. Udrà il lamento mio l'Onnipossente che del fulmine gode, e ad esorarlo d'Olimpo i gioghi salirò nevosi. Tu, crucciato agli Achei, tienti alle navi 375 490 do-lagrime;a alzimè,figliuol-mio, perché t'ho io allevato, avendoti partorito cosìfatalmente? volesse il clelo che tu sedessipresso le navisenzalagrime, e senza danno, poiché il fato già ti sta presso, né gli manca molto: ora tu sei ad un tempo di-corta-vita, e travagliato sopra ogn'altro: perciò con tn"sto destino t'ho partorito nelle mie stanze. Pure andrò sull'OHmpo carco-di-neve a parlar per te a Giove godi-folgore, e veder s'i'o posso persuaderlo. Ma tu per ora seduto nelle celeri-grade navipersz"st1:pur nel tuo sdegno controgli Achei, eastientiin tutto dalla a) «Ahi figlio mio perché allevaiti a duro / destin pur nato? senza pianto e senza / offesa ben veder vorreiti poi / ché breve e corto è il corso tuo; ma ecco / di presta morte, e miser sopra tutti / tu se': con tristo io ben ti diedi in luce / augurio». MAFFEl.1 Dov'è la patetica armonia de' versi Omerici? e quella circostanza nelle Stanze che fa più evidente la passione delle rimembranze materne e l'amarezza della speranza delusa? Donisi l'ommissione alla ignoranza del Ceruti che tralascia tutto, anche ti ho partorito;" donisi la trivialità alla gelata anima del Salvini ;3 ma perché il dottissimo degttltaliani,. l'autore della Merope lacera questo lamento materno? E quel suo vantarsi nella prefazione di aver tradotto un canto in sette giorni non è forse indizio d'irriverenza alle lettere e delle cieche adulazioni de• suoi dotti contemporanei che intendevano forse, ma non sentivano Omero? 1. Op. cit., XIX, p. 212, vv. 425-31. 2. Op. cit., IV, p. 26, vv. 683-6: crDeh perché volli, o sfortunata madre, / poiché sotto un nemico astro nascesti, / cura prender di te, serbarti in vita,/ figlio infelice! [...] ». 3. Op. cit., p. :zo, vv. 611-8. POESIE lungi dall'arme. Fra gli Etiopi santi scese nell'ocean ieri a convito •95 Giove, e seguaci avea tutti i Beati. Lui nella reggia edificata in bronzo rivedrà il cielo al dodicesmo giorno: ivi n'andrò; ravvolta ivi a suoi piedi, forse, o ch'io spero,1 lo trarrò al mio voto. - 500 E ciò detto si parte; e l'abbandona pur con tutti i pensieri alla perduta vergine insigne d'elegante cinto, e l'onta in petto e il rapitor gli freme. Al condottier dell'ecatombe sacra 505 Crisa intanto appariva, e già i capaci vadi del porto la carena attinge. Chi raccoglie le vele e ne' riposti guerra: poiché Giove ieri andò sino all'Oceano a convito presso gl'irriprennbili Etiopi, e tutti gli Dei lo seguirono: il duodeci.mo giorno ritornerà all'Olimpo, ed io allora andronne allafondata-sul-bronzo casa di Giove, egli stringerò leginocchia, espero di persuaderlo. Cosi detto ella partì,• e lasci.olio ivi crucciato nell'animo per la donna leggiadramente-cinta che gli aveano mal suo grado rapita a forza. Ulisse intanto a"ivò in Crisa, guidando la sacra Ecatombe. Or questi poiché giunsero nel porto molti-profondo, raccolsero le vele, e a) • In questo dir partissi e lasciò quivi / per la femmina lui sdegnato in cuore / che in cintola era bella ed avvenente / la quale a lui malgrado suo levaro ». SALVINI.2 «Ciò detto si parti, lasciando! quivi, / per la donzella in cintola gentile / lui tolta a forza pien di rabbia interna». MAFFEI.3 u Così detto, disparve; e afflitto, solo / pel grave oltraggio e la rapita donna, / al suo sdegno, al suo duol lasciollo in preda,,_ CERUTI.4 «Così detto parti; lasciando il figlio / in suo cuore sdegnato per la donna / leggiadramente cinta, a lui rapita / suo malgrado per forza». R100LF1.5 u Essa nell'onde / tuffassi, e sparve: fra speranza e doglia / rimansi Achille, e col pensier divora / la sospirata sua tarda vendetta». CESAROTTI.6 1./orse, o ch'io spero: vedi Le Grazie, 1, 21, a p. 410: • Forse (o ch'io sperol) •, e la nota relativa. 2. Op. cit., p. 20, vv. 633-6. 3. Op. cit., xix, p. 213, vv. 542-4. 4. Op. cit., JV, p. 27, vv. 709-11. 5. Op. cit., 1, p. 33, vv. 570-3. 6. Op. cit., tomo 1, parte 1, p. 387, vv. 592-5. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) 377 del naviglio le piega; altri accorrendo alle stridenti sarte entro la nicchia 510 l'alber declina; altri co' remi a terra affrettano la prora; e la profonda ancora, e il fune le raffrena il corso. E i Danai popolar vedi le prode, e al Lungi-oprante l'ecatombe esposta, 515 e calar dalla nave ondinatante Criseide. In petto all'amoroso padre il sapiente Ulisse a piè dell'ara per man la guida e gli favella: O Crise, il Re d'uomini Atride a te m'invia 520 a tornarti la figlia, e a pregar pace da Febo a noi con la devota greggia, perch'ei travaglia di gran duol gli Argivi. E nelle man ripose al sacerdote la figlia: giubilando egli la strinse. 525 Quindi all'altar solennemente istrutto schierata l'ecatombe, e co' lavacri abluendo le mani, e il sacro farro commisto al sale, in mezzo a tutti Crise le riposero nella negra nave, eprestamente calando dalle sarte l'albero• lo adagiarono nella nicchia, e co' remi spinsero la nave a proda, gi'ttarono l'ancore, legarono le poppe all'intorno. Allora essi discesero sopra il lido del mare, ed esposero l'Ecatombe al lungi-saetta,ite Apollo, e Criseide calò dalla nave viaggiatrice-del-mare: questa l'aooeduto Ulisse guidando all'ara pose nelle mani al diletto padre, egli favellò: O Crise, inviommi Agamennone, il Re degli uomini, per condu"e a te la figlia, e sacrificar a Febo la sacra Ecatombe a pro dei Danai, affinché plachiamo il Re che ora mandò su gli Argivi sospirose doglie. Cosi dicendo glie la pose tra le mani, ed egli accolse con gioia la cara figlia. Essi poscia i,inanzi al ben-/abbricato altare disposero ordinatamente la splendida Ecatombe al Dio. Indi lavarono le mani, e presea) «L'alber n,aggior robuste braccia e funi / stendono al suol». CERUTI.1 Quanti alberi avean elle le greche navi? 1. Op. cit., 1v, p. 27, vv. 71s-6. POESIE levò le palme al cielo e mandò il voto: 530 O dall'arco d'argento, odimil o Sire propugnator di Crisa, o alla beata Tenedo e a Cilla correttor sublime! Già al mio pianto inchinasti, ed onorando me sacerdote tuo, fosti agli Argivi 535 gran lutto. Or compi la seconda prece! L'iniquo morbo su gli Achei perdona. Tal supplicava; e l'udì Febo Apollo. Pregaron gli altri; e cospargendo il farro, e torte in alto all'ostie le cervici, 540 gemia nel sangue lo sgozzato armento; e lo nudar de' velli, e giù da' lombi smembrar le cosce che di doppia falda d'adipe ricopriro, accumulando roa il f a"o misto col sale: allora Crise alzate le mani pregò ad alta voce per loro. Odimi, o tu da/I'-arco-d'-argento, che circ01zdi Crisa, e la divina Cilla, e in Tenedo altamente imperi: tu già dianzi esaudisti le mie preci, onorasti me, e festi gran damzo al popolo degli Achei: ora pur anche adempi questo mlo voto, togli omai dai Greci l'orribil peste. Così disse pregando, intese/o Febo-Apollo.b Quindi poich'ebbero pregato, e gittato il farro salso, primieramente tirarono indietro (il collo alle vittime) e le scannarono, e le scorticarono, e tagliarono a) «Il sai tenendo e il farro, / il Sacerdote allor ambe levando / le palme al ciel». CERUTI.1 S'ei teneva il sale e il farro, tornava meglio di fargli levare ambe le pugna. b) I sacrificii e la descrizione de' costumi sono il più arduo della versione: nobilitati, traffigurano la storia; interpretati, inviliscono la poesia. Or vedi con quanta esattezza di costumi, ed evidenza di stile si tragga d'impaccio il Ceruti: - «A scorticarle intento/ altri le coste, altri il coltello adopra / a risecar le cosce, e pingue omento / avvolge intorno d'ogni membro e parte./ Recisi pezzi altri su l'are aduna, / che il Sacerdote, su la sacra fiamma / purpureo vin versando, impone e liba: / mentre appo lui de, lor schidioni armati, / le viscere gustate e gli arsi fianchi / ne' lunghi spiedi i giovani infilzando / stanno operosi ad arrostirgli intesi ».2 r. Op. cit., IV, p. 28, vv. 738-40. z. Op. cit., IV, pp. 28-9, vv. 756-66. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) 379 sovr'esse i brani di sanguigne carni. 54S Ardele il vecchio, e di fiammante vino le irrora al fuoco d'arbori spaccate: e gli porgeano lesti i garzonetti di cinque forche i spiedi. Incese l'anche, prelibano i precordi; e l'altre membra sso fur tronche in parti e ne' schidoni infisse, e maturate al fuoco. Tutte cose sgombrano quindi; e fu perfetto il rito. Onde assettan le mense, e banchettaro, e abbondò il cibo compartito. Or quando sss fu d'esca lieto e di bevande il core, di vin le tazze i giovani coronano, in volta ministrando; il coro a' candidi augurii liba, e fin che l'ore splendono placano tutti l'Immortal co' cantici; s6o e il bel peana i giovinetti Danai van geminando e celebrando Apolline, e l'inno, o Febo, t'esultò n~ll'animo. Già si chinava il Sole, e le tenebre le coscie, e le ricopersero di grasso a doppia falda, e vi posero sopra i pezzi crudi. Il vecchio ardeva/e sopra fesse leg11a, spargendole di vino color-di-fuoco, e i giovani gli stavano intorno, te11endo in mano spiedi di-cùzque-pmzte. Indi poiché le coscie furono abbruciate, ed ebbero assaggiate le viscere, mùzuzzarono ilrestante, lo infissero 1leglischidioni, lo cossero acconciamente, elevarono ognicosa. Compiuta l'opra, e apprestata la mensa, banchettarono, ed ognuno ebbe a suogrado abbondevolmente d'ugual vivanda. Indi poiché spensero il desiderio di beva,ida, e di cibo, i giovani coronarono le coppe di vino, e ne distn"buirono a ciascheduno, libando colle tazze. Ess,: l'-i'ntero-giorno placarono col ca11to 1."l Dio, e cantaro110 il leggiadro Peane i'gfovit,etti Achei, celebrando il Lungi-saettante,· egli i,i udirlo n'ebbe gioia nell'animo. Quando poi tramontò il Sole e sopravvennero le tenebre, dormirono essi ove• a) «Entro le curve navi / su' palchi stanco ad un profondo sonno / s'abbandona ciascun». CERUTI.1 1.0 Ulisse venne con una sola naI, Op. cit., IV, p. 29, vv. 781-3. 380 POESIE prendean le cose. A' vincoli del legno 565 tenne il sonno gli Achei. Ma quando apparve la figlia del mattin rosea le dita, incontanente all'accampate genti sciolsero; e Febo li traea dal porto con agevoli orezzi. Alzan l'antenna 570 e candide vi spandono le vele e pieno il vento all'aere le gonfia. Risplendeano le perse onde squarciandosi con gran fiotto di sotto alla felice nave fuggente pe' cerulei campi. 515 E riggiunta lor oste, al continente traean la poppa, e di lunghe palanche le navi erano legate, e come apparve l'Aurora figlia-del-mattino dallerosee-dita, allora sciolsero verso l'ampio eserdto degli Achei. Il Lungisaettante Apollo mandò loro favorevole vento:• essi, alzarono l'albero, e vi spiegarono le candide vele, il vento gonfiò la vela nel mezzo, all'andar della nave forte rimbombava intorno la carena ilflutto porporeggiante:b indipoichégiunsero all'ampio eserdto degli Achei, trasseve. 2.0 Le greche navi non avean molti palchi. 3.0 Omero addormenta i Greci sulla spiaggia ov'erano raccomandati i poppesi. a) Se Crisa, come si crede, era verso Tenedo, Ulisse navigava nel suo ritorno da ponente a levante, né sarebbe stato gratissimo al Ceruti dell'Austro che qui gli regala.' b) L'originale: 1topipupeov xuµcx, purpureo flutto.2 Si crede che questo aggiunto qui non suoni che splendido, e sia traslato dalla porpora. A me pare anzi che la voce porpora derivi dal colore proprio e naturale all'alto mare. I fisici dissentono sulla causa dello splendore violaceo del mare. Chi lo ascrive a' raggi solari, chi alle sostanze dell'acqua, e chi a uno strato d'insetti luminosi aleggianti a fior dell'onde. Per me so d'avere veduto il mediterraneo e l'oceano, sommossi dal vento, risplendere d'un colore tra l'azzurro e il pavonaccio. E a quella specie di purpureo degli antichi risponde il nostro perso, parola a torto obbliata, di cui Dante nel Convito: Il perso è rm color misto di purpureo e di nero, ma vince il nerò.3 1. Op. cit., IV, p. 30, vv. 790-1: u [ •••] le spiegate vele / Austro distende [•••] ». 2. vv. 481-2: [..•] «µcpt 8è xuµct / a-n:Cp7J 1topcpupcov µeycu.' toxc v,iòc; loU•.2 I. Op. cit., I, p. 21, v. 600 2, Op. cit., IV, p. 31, vv. 818-9. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) 383 l'adunator de' nembi, e in gran silenzio dopo i voti sedea. Ma la dolente 610 più gli si stringe a' piedi, ed abbracciava e ripregava: Con verace detto fa sicuri i miei preghi, o Ii rifiuta: che temi, o Re? Saprò quant'io mi sia Dea fra tutti gli Eterni inonorata. 615 Gemé dal cor l'Onnipossente,1 e disse: Funesta è l'opra! A nimistà con Giuno mi spingi, e ad ira per le sue querele. Sempre al concilio degli Dei m'impugna quas'io soccorra alle Dardanie genti. 620 Or ti diparti, o Dea, eh'ella non forse di te s'avvisi. In me starà l'evento. E ad affidarti interamente, or vedi, la mia promessa affermerò col capo, certo segno agli Dei; però che quanto 625 rispose Giove Adunator-delle-nubi, e stettesi lunga pezza tacendo: ma Tetide tene,zdo tuttavia strette le di lui ginocchia, lo pregò di nuovo: Promettimi con verità, e dammi il segno dell'assenso,a oppure ricusalo: che tu notz hai a temer di nulla, ond'io conosca s'io debba esser la Dea più disonorata fra tutti 1," 1Vumi. Allora gravemente turbato rispose Giove Adu11ator-delle-nubi: Trista opra itzvero tu fai poiché mi spingi ad inimicarmi con Giunone, che m'irriterà con detti ingiuriosi: poiché già anche adesso alla presenza degl'immortali Dei mi rimbrotta, e dice ch'io nella gue"a presto soccorso ai Troiani. Or tu ritirati tosto, che Giunone non s'accorga di te: io poi avrò cura di soddisfarti. E percliéb tu ne sia convinta 11efarò cenno col capo: questo è tra gl'ima) KttT«vt:uaov, YJ cl1t61:m1: [vv. 514-5]. Assenti, o disdici. b) Et a•«ye: "tOL XE(f'IXÀTI XGtTCXVEIJGOµe: oq,pcx 1tE:rtOC0nç [v. 524]. Anzi, orsi~ col capo accennerò assenso onde tu creda. «Orsù, io ti farò col capo cenno, / acciocché tu ti persuada e creda. / Questo è il massimo mio tra gl'immortali / segno che non si può tornare addietro». SALVINI.2 «Ed ecco, acciocché fede / tu m'abbia, il capo io moverò ». MAFF[EI].3 «Eccone in pegno il formidabil cenno / dell'immortal I. Gemé.. . l'Onniposse,ite: vedi Sepolcri, 250-I, a p. 323: 11 [ •••] E ne gemca / l'Olimpio [...] ». 2. Op. cit., p. 25, vv. 777-80. 3. Op. cit., XIX, p. 216, vv. 661-2. POESIE nell'universo col mio capo assento fia vero, pieno, irrevocato. Disse; e accennò i neri sopraccigli : al Sire Saturnio i crini ambrosii s'agitarono sulla testa immortale, e dalle vette a' fondamenti n'ondeggiò l'Olimpo. Così si dipartiro. Ella d'un salto da rai del ciel si tuffò nel profondo, e il Saturnio si volse alla sua reggia. Sursero i divi all'apparir del padre tutti ad un tempo da lor sedi, e nullo Iddio ristando il suo venir sostenne, ma si fean riverenti a rincontrarlo. Ei sul trono s'assise. E perché accorta si fu Giuno di lui quando alle preci adocchiò Teti dall'argentee piante candida prole del marino antico, 630 635 mortali il segno più grande ch'io dar mai possa, che quello ch'io accenno colcapo nonpuò esser nérevocabile, néfal/ace, né senza effetto. Disse e col fosco-azzurro sopracciglio accennò il Saturnio, le ambrosie chiome si scossero sull'immortale suo capo, efe' crollar l'alto Olimpo.a - Cosi conch1,"uso l'affare si separarono: ella spiccò un salto dallo splendido Olimpo nel mar profondo, e Giove se n'andò alla sua casa. Tutti gli Dei. a un punto s'alzarono dai loro seggi incontro al loro padre; né alcuno sofferse di aspettar la sua venuta, ma tutti andarono ad incontrar/o. Egli si assise sul trono. Ma Giunone che avea veduto ogni cosa, non ignorò che con esso avea tenuto consiglio la figlia del marino vecchio, Tetide dal-piè-d'argento, e tosto si rivolse a Giove Saturmia fronte,,. CERUTI.1 «Se non mel credi, ora col capo cenno / io ti farò perché tel persuada». RIDOLF[I].a «Di mia fede intanto/ il non fallace irrevocabil pegno / ricevi, e in lui riposa; il cenno è questo / del capo mio, capo di Giove». CF.SAR[OTTI].3 a) Vedi in fine la considerazione terza.4 I. Op. cit., IV, p. 32, vv. 860-1. 2. Op. cit., I, p. 38, vv. 706-7. 3. Op. cit., tomo I, parte I, p. 395, vv. 730-3. 4. La si veda in Edizione Nazionale, 111, parte 1, pp. 59-69. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) pronta a Giove ritorse amari detti. Chi degl'Iddii, macchinator, ti strinse dianzi a consigli? Accorgimenti arcani, arcani a me, ti sono unica gioia, né mai spontanea mi s'aprì tua mente. Ma il padre de' mortali e de' celesti, Indarno, disse, t'argomenti, o Diva, di veder tutto il mio senno supremo, e a te sposa di Giove arduo saria. Cose cui dato sia l'appalesarsi, né a mortale né a Dio fien manifeste anzi che a te. Ma quante il mio secreto lungi da' Numi provedendo volve, né interrogarle, né spiarne mai. A lui volgendo i grandi occhi rispose 650 655 nio con punge,ztiparole_.a Chi tra gli Dei, o ingannatore, tenne consiglio con te? Sempre t'aggrada in disparte da me tramar occulti disegni, né maib ti soffre il cuore di farmi motto di dò che pensi. - A lei rispose il padre degli uomini e degli Dei. Giunone, non immaginarti di sapere tutti i miei consigH, che sariano troppo gra'lli per te, benché sei mia moglie. Tutto dò che a tee conviensi d'ascoltare, niuno tra gli Dei, o tra gli uomini, nol saprà mai innanzi di te, ma quelle cose ch'io voglio meditar meco stesso in disparte dagli altri Dei, non domandarle ad una ad una, e lascia di farne ricerche. - A lui replicò la a) Dissimulare etiam sperasti, perfide, mentem / consiliumque tuum? Soror an, coniuxque Tonantis / propterea vocor, ut divum quicumque latenter, I meque etiam velit invita deflectere verbis / corda animumque tuum? Sic nos in regna vocasti? ALEGRE.1 Tradusse dopo il Cunich. Innesta tutti i versi tradotti o imitati da Virgilio: a' passi intatti da Virgilio innesta i modi Virgiliani: salta a piè pari ciò ch'ei dispera d'abbellire: ha parecchi bellissimi versi, maniunasembianza Omerica. b) L'originale: né mai spontaneo. e) L'originale: ci~ che s'addice d'ascoltare. Panni che l'a te ritorcendosi alla sola Giunone scemi la dignità del decreto. 1. La traduzione dell'Iliade del gesuita Francisco Xavier A/egre (Veracruz 1729- Bologna 1788) apparve la prima volta a Bologna nel 1776 (Typis Fer• dinandi Pisarri). Una seconda edizione usci poi a Roma nel 1788 (apud Salvionem). 25 386 POESIE la veneranda Giuno: E che sentenza, severissimo Iddio, manda il tuo labbro? Né mai ti chiesi, e non indago l'opre 660 che nel silenzio maturando vai, or temo sol non di Nereo la figlia, Teti da nivei piè, che mattutina ti s'accolse d'intorno e t'implorava, temo non t'abbia lusingando tratto 66s ad assentirle per onor d'Achille su magnanimi Achei molta sciagura. E il Sire a lei: Genio superbo, intento sempre a sospetti, a te non uno fugge nostro pensied Né tu n'andrai più lieta; 670 ch'anzi men grazia nel mio cor più sempre, e a te più doglie impetri. Or se t'apponi venerabile Giunone dall'-ampio-sguardo: Severissimo Saturnio, e quai parole Jzai tu detto? È molto tempo ch'io non t'interrogo, né vo investigando gli affari tuoi, e con piena tranquillità disponi checché t'aggrada. Ma oragrave timore mista nell'animo, che non t'abbia sedotto la figlia del marino vecchio, Tetide dal-piè-d'-argento. Ella sul mattino s'accostò a te, e ti strinse le ginocchia, or io ho gran sospetto che tu le abbia dato il cenno d'assenso, di onorar Achille, e di spegner molti degli Achei presso alle navi. - Ripigliò allora Giove Adunator-delle-nubi: Sdaurata,a tu sempre sospetti, né posso celarmi a te: ma ogni tuo tentativo fia inutile, e sempre più m'andrai cadendo doli'animo, il che ti riusdrà doloroso. Se il fatto sta pur cosi, quest'è perché mi a) "La parola daemo11ios usata nel testo non può spiegarsi adeguatamente in Toscano. Ella significa un'eccellenza ambigua sia in bene sia in male. Nel nostro vernacolo noi usiamo demonio neJlo stesso stessissimo senso. Il Pope tradusse spirjtosamente Fata dell'orgoglio: ma questa espressione può esser ben appropriata a' tempi d'Omero?». CESAR[OITI].1 L'interprete latino improba2 - Saivini o divina! o mirabile!3 - Maffei Mirabil Diva4 - Ridolfi Temeraria5 - Cen1ti Jl1alvagia e folle.6 Io desunsi 1a mia traduzione dal Genit1s con che i Romani 1. Op. cit., tomo 1, parte 11, p. 167, nota 116. 2. Vedi R. CuNICH, op. cit., 1, p. 23, v. 673. 3. Op. cit., p. 26, v. 835. 4. Op. cit., xix, p. 218, v. 704. 5. Op. cit., I, p. 40, v. 755. 6. Op. cit., IV, p. 34, v. 917. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) 387 a cib che avvenne, per mia voglia avvenne. Tu queta le parole, e sì fa senno del mio consiglio che non forse aiuto 675 impotente ti sieno gl'lmmortali quanti veggon l'Olimpo, ov'io le mani invincibili mie su te commetta. La veneranda paventò a que' cenni e in silenzio le luci ampie chinava 68o ammansandosi il cor. N'increbbe agli altri delle case di Giove abitatori, e pria Vulcano artefice divino si fe' co' detti a rattemprar la madre: piace che sia. Orsù siedi, e statti cheta, e ubbidisci al mio comando, onde non abbiano a giovarti poco quanti Dei sono 11ell'Olimpo s'io• mi t'accosto, e ti pongo addosso le invitte mani. - Così disse, e paventò la venerabile Giunone dall'-ampio-sguardo, e s'assise taciturna, domando il caro suo cuore: se ne afflissero per la casa di Giove gli Dei celesti. 1vfa in mezzo a loro incominciò a parlare Vulcano l'inclitoartefice, volendo raddolcire la cara madre,b Giunone di-candide-bracspiegarono ~cdµ(i)v divinità delle passioni e de' fati umani, onde gl'1taliani il Genio benefico e malefico: e Plinio mi conferma, Stor. lib. 2, 7. Singuli quoque ex semetipsis totidcm deos f acùmt Iunonesque Gcniosque adoptant sibi.1 Onde pare che le Giu11oni fossero genii femminei, e ~cxLµov(71 è femn1inino in Omero. a) «Che se m'irriti ond'io le man sul crine / ti pongo un din. CERUTI.2 Così guasta le bellezze originali, ed esagera i difetti innestandovi molte delle fedeltà del Salvini a cui non basta di battere con Omero la regina de' Numi, ma gli dà anche una mano a scapi- gliarla.3 b) Dir qualche dolcezza spiega accuratamente l7t'll)pot qilpCi>v ripetuto poco dopo e qui tradotto raddolcire; onde male i latini interpretano obscquium, e bizzarramente il Maffei due volte: «Al caro padre presentar rinfreschi ».4 I. C. PLINII SECUNDI Natu.ralis Historia ecc., Lugduni Hatnvon1m, ex Officina Hackiana, 1669, t. I, lib. II, p. 8. 2. Op. cit., IV, p. 34, vv. 923-4. 3. Vedi A. M. SALVINI, op. cit., p. 27, vv. 845-6: a quando l'invittc immense mani mie / entro a' capegli t'averò già messe». 4. Op. cit., XIX, p. 218, v. 727. 388 POESIE Ahi sciagura sciagura! E cui dà il core di tollerarla? E fremerà l'Olimpo sempre in rancori per rumana plebe? Oh se il peggio prevale, ove n'andrai o voluttà delle soavi mense! Io la divina genitrice prego di ciò eh'ella pur vede; al caro padre ritorni ornai graziosa d'amore, ond'ei pur minacciando non conturbi le feste de' conviti. Ove talenti di sgominarne i troni tuttiquanti al signor delle folgori, chi Dio, chi sosterrebbe la Saturnia possa? Deh! tu gli porgi amabili parole, e a noi l'Olimpio si farà sereno. Disse; e il calice gemino ritondo alla regina d'immortal bellezza 685 690 700 eia. Sarà questa invero acerba cosa, ed intollerabile, se voi altercate così a cagion de' mortali, e suscitate tumulto tra gli Dei, né vi sarà pfù l'allegrezza del buon convito, qualora il peggio la vinca. Or io esorto la madre, benché sel sappia da sé, a dir qualche dolcezza al caro padre Giove, onde il padre non contrasti di nuovo, e non ci scompigli il convito: che s'egli pur vuole l'Olimpio fulm1:natore cacciarne tutti dai nostri seggi, sì può farlo, eh'egli" è oltre modo possente: ma tu raddolcisci,/o con soavi. parole, che l'Olimpio ci si mostrerà ben tosto nuovamente placido. - Così disse, ed alzatosi, presa una tazza rotonda-da-due-manichi,a la pose in mano alla cara madre, e sì le para) «Per la parola amphicypellon, usata nel testo, Eustazio e Pietro Vittorio intendono coppa da due fondi di cui l'uno serve di base all'altro. Io ho seguita la spiegazione d'altri grammatici che mi sembra più opportuna». CESAR[OTTI].1 I Lessici mi fan dare nel parere d'Eustazio ;2 ma non m'appago né del mio verso, né della mia inter- 1. Op. cit., tomo 1, parte 11, p. 172, nota /6. 2. Eustazio, arcivescovo di Tcssalonica (morto circa il u94), è soprattutto noto per la sua trnduzione di Pindaro e per gli scolii all'Iliade e all'Odissea. Per quanto afferma il Cesarotti circa il significato della parola ciµcpLXu"JtEÀÀov, vedi in HOMERUS cum Eustathii commentariis, Florentiae 1730, il paragrafo 338, alle pp. 300-1. TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) 389 offeria susurrando: Or ti dà pace, or le doglianze nel tuo petto affrena, ch'io con questi occhi ti vedrei star sopra la destra onnipotente, e il mio dolore 705 a te diletta non daria soccorso, lò:• Soffri, o madre mia, con pazienza, benché ti dolga, ond'io non abbia poi con quesfocchi a vederti battuta, ancorché tu mi sia così cara, che allora con tutto il mio dolore non potrei aiutarti: terribile è l'Olimpretazione. «Sì disse e su levato, un bussolotto / di vin pieno in man pose alla sua cara / Madre». SALVINI.1 Ho udito in Toscana dir bussolotto, sebbene la Crusca noi noti, a quello che sporgono gli orbi a raccorre le limosine: ma alle voci bossoletto e bossolo gli Accademici definiscono: vasetto piccolo di qualsivoglia uso comunemente di legno. Così dianzi il Salvini scapigliò come una fante la Dea, ed ora le porge innanzi il nappo de' zingari mescendole vino invece di nettare. Onde se l'attenuare le cose magnifiche è ricca fonte di ridicolo, chi vuol applicarvi ringegno troverà in questo esattissimo traduttore un egregio esemplare. Pure io lo vedo ne' libri chiamato Colui che tutto seppe; e dedicò al Re d'Inghilterra quest'Omero,2 ove già leggevasi il Pope: e professa nel proemio traduzioni serrate e nel tempo stesso elega,zti;3 e chi vuol farsi tenere intendente di greco n'esalta la fedeltà. a) L'or. Kcd µtv rtpoaf&ntt [v. 585]. E tutti: E le favellava. Io spiego: E a lei dappresso-favellava. Quest'è il solo esempio, ch'io sappia, di 1tpoai1t, verbo composto di rtp6ç, accanto, fra, e di l1t, favellare. Il discorso primo di Vulcano esalta Giove e l'ascendente delle lusinghe di Giunone; ed è tenuto al concilio celeste. Ma questo secondo, ove fosse pronunciato palesemente, ricorderebbe con imprudenza la tirannide del padre e l'umiliazione della Dea: e l'atteggiamento di Vulcano mostra ch'egli parli bisbigliando alla madre la quale unica sorride a• suoi detti. Senso sospettato anche da Vincenzo Monti e sfuggito a tutti gli altri.4 1. Op. cit., p. 27, vv. 871-3. 2. dedicò . •. quest'Omero: l'edizione del Salvini è dedicata All'invittisnmo e potentissimo re della Gran Brettagna Giorgio I, Elettore d'Hannover ec. 3. trad11::ioni . •. eleganti: il passo è nella lettera Il Traduttore A' Lettori (A. M. SALVINI, op. cit., p. v). 4. Senso . .• gli altri; vedi lliade, 773-6: • [...] Surse, ciò detto,/ cd all'amata genitrice un tondo / gemino nappo fra le mani ci pose, / bisbigliando all'orecchio [...] 11. 39° POESIE ché terribile è il padre ad affrontarsi. Ben io mi so come ti fui campione altra fiata. A un piè diemmi di piglio e lungi dal divino atrio m'avventa: per le nuvole giù precipitando, intero un dì all'aer m'aggirai; al Sol fuggente in Lenno caddi, appena su labbri estremi anelavami i»anima, e fui raccolto dalle Sintie genti ospiti umani al misero caduto. Così narrava il fabbro. Sorridendo a lui le braccia candide sporgea Giuno, e accoglieva di sue man la tazza. Egli da destra procedendo in volta, dall'anfora versava onde fragranti di nettare, ed a' Numi iva mescendo. D,immenso riso giubilò l'Olimpo quando coppiero per l'eteree sale vider gli Dei Vulcano a raffrettarsi. Così quanto rifulse aurea la luce gian banchettando; né d'ambrosia copia né delle Muse vi mancar le belle voci alternanti l'armonia del canto, e non la lira splendida di Febo. Ma come l'etra balenò de' rai 710 720 pio, e indarno gli si resiste. Perciocché anche l'altra volta quand'io volli recarti soccorso, egli afferratomi per un piede mi scagliò fuora della divina soglia, io m'aggirai un intero gior110, e col Sole che tramontava caddi in Lenno, che mi restava poco di fiato, tosto i Sintii mi raccolsero nella mia caduta. - Così disse, rise Giunotie la Dea dalle-candide-braccia, e ride,zdo prese la tazza dalla mano del figlio: egli poscia incominciando dalla destra versò-da-bere agli altri Dei., trae,1do dal vaso il dolce nettare. Destassi fra gli Dei beati un riso inesti11gui'bile, allorché videro Vulcano affacce,idarsi per la casa. Tutto quel giorno sino al tramontar del Sole stettero a me,zsa, ed ognuno ebbe abbondevolmente d'ugual vivanda, né vi mancò la sple,idida cetra che teneva Apollo, né vi mancarono le Muse che cantavano a vicenda con TRADUZIONE DELLA ILIADE (1807) declinanti del Sol, tutti gli Eterni riggiunsero agli alberghi a ricorcarsi là 've la reggia ad ogni Nurne eresse di quell'inclito zoppo il magistero. E il Fulminante alla quiete sacra del suo talamo ascese, ove posando con sue dolcezze lo blandiva il sonno. Giuno dall'aureo trono eragli accanto. 391 135 leggiadra voce. Poi quando tramontò la fulgida luce del Sole,a ciascheduno se n'andò al proprio albergo a riposarsi, colà ove a ci.ascheduno avea f abbn"cato la casa con saputo ingegno l'inclito zoppo-d'-ambi-ipiedi Vulcano. Gz"ove l'Olimpio fulminatore ti ritirò al suo letto ove solea dormire qualora coglieva/o il dolce sonno, ivi salito si addormentò, e presso posava Giunone dal-trono-d'-oro.b a) Il Cesarotti e l'ab. Foucher1 provano che il Sole era a' tempi Omerici un iddio subalterno e ministeriale, diverso da Febo. Così anche nell'Odissea.2 Ma il Ceruti lo chiama Febo: e quanti ha versi nel primo canto questo traduttore, tanti ha peccati contro il senso o il gusto e la dottrina. Ho notato i solenni: e chi mi apponesse d'insultare al silenzio d'un morto, risponderò ch'io esamino un libro vivo, e vivono quei che lo raccomandano alle scuole, e che ne' Parnassi de' traduttori e nelle Collane van celebrando i vituperii della letteratura italiana. b) Il testo ha in questo canto, esametri 611. Il Salvini nella sua traduzione ha versi endecassillabi 917. Il Maffei, versi 768. Il Ridolfi, versi 826. Il Ceruti, versi 1004. Il Cesarotti nella Vers. Poet. v[ersi] 853. Nella Morte d'Ettore si scosta assai più dall'originale. I. Paul Foucher (Tours 4 aprile I 704 - Paris 4 maggio I 778), nella fattispecie citato dal Foscolo per la Recherclie sur l'origi,,e et la nature de l'/zélle11isme, ou la Re/z"gion des Grecques, che apparve nei tomi XXXIV-XXXVI della Raccolta dell'AccadJmic dcs lnscriptions di Parigi. 2. Il Cesarotti . •• nell'Odissea: vedi M. CESAROITI, op. cit., tomo I, parte 1, p. 401, nota al v. 848: 11 li Sole ai tempi d'Omero non era lo stesso che Apollo. NeWOdissea egli viene supplichevole nel Consiglio degli Dei a domandar giustizia, e sembra che non abbia dritto di sedervi. L'Ab. Foucher lo crede un Dio subalterno e ministeriale ». LE GRAZIE (1803-1822) NOTA INTRODUTTIVA Come è noto la storia dell'incompiuto poema delle Grazie ha inizio nel 1803, quando, chiosando il termine famulum, attributo di Zefiro, messaggero di Venere, al v. 57 (« lpsa suum Zephyritis eo famulum legarat ») del canne LXVI di Catullo, il Foscolo, relativamente alle attestazioni poetiche del corteggio della dea, anche osserva: «Ne' frammenti greci ch'io credo d'un antico inno alle Grazie, da me un tempo tradotti, veggonsi le Ninfe fluviali ancelle ad un convito dato in Tempe da Venere a tutti gli Dei, e le Ore ministre del carro e de' cavalli del Sole» (La chioma di Berenice, Milano, Dal Genio Tipografico, 1803, pp. 114-5), citando poi di seguito il frammento Odorata spirar l'aura dai crini (vedi Appendice prima, 1, a p. 477). I successivi frammenti, Involontario nel Pierio fonte e Or delle Grazie, contenuti, unitamente all'altro Della luce infinita i rai deposti, nella Considerazione xu, Chiome bionde (vedi Appendice prima, II, III, IV alle pp. 478-80), sembrano legarsi meno occasionalmente all'originale catulliano, costituendo un saggio di rappresentazione poetica del concetto, poi eminente cifra compositiva del genere in cui le Grazie si inscrivono, qui esemplarmente suggerita, e riprodotta nel minimo di campitura del frammento, sulla scorta dell'interpretazione allegorica della favola eziologica callimachea. Quanto dell'«antico inno alle Grazie» il poeta, all'altezza del 1803, avesse realmente "tradotto" non è dato neppure supporre, ma è lecito sospettare che il Foscolo non fosse andato al di là dei quattro frammenti riprodotti nella Chioma, se, come sembra, gli stessi dipendono, più o meno strettamente, dal contesto del commento, volta a volta motivante la ragione della loro presenza. In essi è dato ravvisare il primo specimen di un genere che nei Sepolcri, propriamente conosce solo l'evidenza dell'episodio di Elettra, ma cui già nel 1806 il poeta si proponeva di dare corso con l'Alceo, del quale è notizia in lettere rispettivamente ad Isabella Teotochi Albrizzi, del 13 luglio 1806, da Milano (Epistolario, u, p. 129), e a Mario Pieri, del 19 novembre 1806, sempre da Milano (Epistolario, II, p. 146), e che poi, come ancora risulta da lettera a Vincenzo Monti, del dicembre 1808, da Pavia, doveva entrare a far parte degli Inni Italiani, trattando «[ •••] la storia della letteratura in Italia dalla rovina dell'Impero d'oriente a' di nostri» (vedi nel tomo u la lettera 62), unitamente Alle Grazie, A Eponia Dea, All'Ocea110, Alla Dea Sventura, e A Pindaro. Ne restano sessantadue versi, pubblicati per la prima volta da L. CARRER, in Prose e Poesie edite ed inedite di Uco FoscoLo, Venezia, Co' tipi del Gondoliere, 1842, POESIE e che vanno comunemente sotto il nome di Inno alla nave delle Muse (li si veda in CHIARINI, pp. 321-3), oltre a quanto poté eventualmente trovar luogo nel materiale dell'Inno secondo delle Grazie. Quando poi la collana degli Inni Italiani si fondesse nel progetto dell'unico poema delle Grazie, riesce a tutt'oggi impossibile precisare. Certo si è che il primo accenno al canne, dato per compiuto, e da stamparsi a Roma, dedicato al Canova, risale al 22 agosto 1812, ed è contenuto in lettera da Firenze indirizzata all'Albrizzi (Epistolario, 1v, p. 109), abituale cassa di risonanza di notizie letterarie cui il Foscolo intendeva conferire il privilegio di una discreta, ma non per questo meno diffusa, pubblicità. Se non che tutto è revocato in dubbio, già all'altezza del I sottobre dello stesso anno. Scriveva infatti il poeta ali'Albrizzi, da Firenze: «Al carme delle Grazie mancano assai cose, né lo stamperò, se non se forse a Roma, perché lo intitolo a Canova,, (vedi nel tomo II la lettera 79). Il proposito di passare quanto prima alla stampa riaffiora circa un anno più tardi, quando il Foscolo inviava a Milano, perché fossero sottoposti all'approvazione vicereale, i versi del Rito delle Grazie, Frammento dell'Inno terzo (vedi Appendice prima, v, alle pp. 481-4). Passati positivamente al vaglio dei Censori reali della stampa (Morali e Nardini), d'ordine di Paolo De Capitani (del quale vedi la lettera al Foscolo del 30 luglio 1813, in Epistolario, IV, pp. 307- 8) il 21 luglio, gli stessi ricevevano conseguentemente il benestare vicereale, del quale il Consigliere Segretario di Stato A. Strigelli cosi dava notizia a S. E. il Sig. Conte Ministro degli Interni, il 28 luglio: «S. A. R. il Principe Vice Re si è con Decreto di ieri degnato di approvare che siano pure inclusi nel Poema alle Grazie, che si propone di pubblicare il Sig.r Ugo Foscolo i versi da lui presentati nella carta unita al di lei officioso rapporto 21 corrente, i quali alludono alle glorie militari dello stesso Principe, ed alle virtù della sua Augusta Consorte. Ella vorrà dunque compiacersi di partecipare il grazioso ~ermesso all'Autore,, ecc. (Archivio di Stato di Milano, serie autografi 174). Che il Nostro intendesse stringere i tempi della stampa è poi confermato da.quanto si legge in lettera all'Albrizzi, del 16 agosto 1813, da Milano (Epistolario, IV, p. 324), e in lettera, dello stesso giorno, a Giuseppe Grassi anche prometteva: «Prima che spiri quest'anno, avrete, ov'altro non accadesse, il Canne su le Grazie diviso in tre inni>• (Epistolario, IV, p. 328). Ma subito aggiungeva: «È finito; ma non terminato, perché fino a che non siano stampati io mi sento impacciatissimo de' miei scritti,, (ivi). E infatti a Silvio Pellico, il 12 ottobre 1813, da Firenze, scriveva: 1 Vo talor correggendo a memoria il carme delle Grazie; ma se non piglio la penna non riescirà mai nulla di proposito; e più che di correzioni, ha bisogno d'aggiunte » (Epistolario, IV, p. 393). LE GRAZIE (1803-1822) • NOTA INTRODUTTIVA 397 Aggiunte che, comportando verosimilmente l'alterazione del piano originale del canne, ed esigendo a loro volta l'abituale e strenuo lavoro di lima, fecero probabilmente sì che le Grazie, quanto alla stampa, restassero nella condizione dell'anno precedente, cosi che il poeta confessava a Leopoldo Cicognara, in lettera da Milano del 22 luglio 1814: «A voi, oratore delle Grazie, manderò fra non molto il Carme delle Grazie; se pure avrò alcuni momenti d'ilarità da potergli dare l'ultima limatura» (Epistolario, v, p. 179). Espressioni analoghe ricorrono poi in lettere a Isabella Teotochi Albrizzi (Milano 22 luglio 1814), a Ippolito Pindemonte (Milano 22 luglio 18r4), a Camillo Ugoni (Milano 22 luglio 1814), a Michele Leoni (Milano 23 luglio 1814), in Epistolario, v, rispettivamente alle pp. 180, 182, 183, 186. Ancora all'Albrizzi, da Milano il 24 agosto 1814: «Delle mie Grazie, sono assai contento; ma la malinconia che mi sta addosso da più settimane, benché la febbre m'abbia ormai perdonato, non mi lascia far nulla di buono; e quelle mie vergini Dive si stanno terminate ma non finite» (Epistolario, v, p. 222). Da tutto ciò comunque si inferisce che, nonostante le precarie condizioni di salute, le aggrovigliate vicende sentimentali di quei mesi, l'assillo stesso di condurre, volta a volta, al maggior grado di rifinitura un'opera costantemente messa in forse nella sua complessiva orditura, il Foscolo, durante l'estate del 1814 pensò e lavorò alle Grazie con il proposito di venirne a capo. Scriveva infatti da Milano alla contessa d'Albany, il 12 ottobre 1814: «[...] da più mesi non leggo se non Omero, Omero, Omero, e alle volte tre o quattro Latini, e quattro Italiani, tutti poeti, perch'io attendo, ed oggi con tutte le forze, e in tutti i minuti, quando pur dovessi morire sotto il lavoro, a una certa operetta in versi ch'Ella ha veduto nascere, consacrata alle Grazie: la tela mi s'è allargata nel tessere; ma perché la troppa larghezza poteva forse nuocere al disegno, ho reciso molte parti già belle e tessute; e la composizione, sl delle parti, si dell'Architettura di tutto il poema è pienamente perfetta secondo me; mi manca sola.. mente la verseggiatura qua e là• (vedi nel tomo II la lettera 94). Dagli spazi lasciati in bianco nel cosiddetto Quadernone (vedi Appendice seconda, alle pp. s14-32), frutto della riduzione della tela sopra annunèiata all'Albany, e bella copia di quanto del canne diviso in tre inni il poeta originalmente considerava accettabilmente finito all'altezza dell'estate del 1814, la versificazione appare forse più la.. cunosa che non comporti la dichiarazione foscoliana sopra riferita. Tale impasse, nuovamente accusato in lettera da Milano alla mede.. sima corrispondente, il 15 ottobre(•[...] il demonietto del verseggiare [...] se n'è ito improvvisamente», Epistolario, v, p. 270), indusse poi il Nostro ad accantonare provvisoriamente il canne, tanto da costrin- POESIE gerlo, ancora in lettera all'Albany da Milano il 23 novembre 1814, ad ammettere: «Le Grazi.e fanno pur le ritrose; e vedo che dovrò contentarmi di ripigliarle a Primavera» (Epi.stolario, v, p. 301). La precipitosa fuga dall'ex capitale del Regno d'Italia, sanzionò successivamente il materiale distacco dai manoscritti delle Grazie del poeta, che così ne informava Quirina Mocenni Magiotti, in lettera da Hottingen del 6 gennaio 1816: cr Ed anche per tua consolazione non tacerò che le mie Grazie scamparono dal naufragio; non ch'io abbia potuto condurle meco; ma il mio cuore paterno non sofferse di lasciarle con gli altri mobili; e sono in salvo; e s'io non le ho qui, dipende dall'avere io temuto che le si smarriscano su per le Alpi e le nevi; farò d'averle presto a ogni modo: e te ne manderò di grandi squarci per volta; e le sono già adulte» (Epistolario, VI, p. 199). Fu il Pellico ad incaricarsi di fargli pervenire in !svizzera, tra l'altro, i preziosi manoscritti, e il Foscolo ne accusava ricevuta con lettera da Hottingen del 28 gennaio 1816 (Epistolario, VI, pp. 234-5). Non tutti, se quello ancora il 3 aprile 1816, richiedeva che gli fossero inviate le carte relative all'Inno terzo (Epistolario, VI, p. 381), il cosiddetto manoscritto di Valenciennes (per il quale vedi CHIARINr, pp. 567-9). Riparato in Inghilterra, il 30 settembre 1818 ancora si illudeva di poter rimettere mano al lavoro, scrivendo al Pellico, da East-Moulsey: cc[•••] s'io avrò costanza e salute da finire questo noioso lavoro, forse potrò raggranellare in pochi anni tanto da consolare poi la mia vita, ed avere tanta quiete d'animo cd ozio da vedere finite le Grazie, le care mie Grazie,, (vedi nel tomo II la lettera 105). Ma in precedenza (Londra 3 marzo 1818), aveva realisticamente ed amaramente confessato alla Magiotti: «Stando nel 1814 in Milano, io aveva quasi finito il Carme delle Grazie in tre inni; ed erano riesciti oltre ogni mia lusinga; - ma non sono finiti; né so se avrò quiete né vita da vederli stampati mai» (Epi.stolario, vn, p. 293). E così fu. A prescindere infatti dalla raffazzonatura, certo estranea alla sua volontà, pubblicata nella e, Biblioteca Italiana n del 1818 (vedi Appendice prima, VI, alle pp. 485-90), e a quanto, non meno arbitrariamente, mise insieme chi allestì la stampa di Prose e versi del Silvestri nel 1822 (vedi Appendice prima, vn, alle pp. 491-9), il Foscolo, oltre ai frammenti della Chioma di Berenice, delle Grazie doveva dare alla luce ancora e solo i frammenti citati nella Dissertazione contenuta nell'Outline E11gravings and Descriptiqns of the Wobur11 Abbey Marbles (vedi Appendice prima, VIII, alle pp. 500-13). Alla concezione della poesia come perenne trascendimento metaforico del significato, si può dire che il Foscolo pervenisse già nel 1803, con La chioma di Berenice, certo stimolato dal contatto con un testo, quale il poemetto callimaco-catulliano, doppiamente indi- LE GRAZIE (1803-1822) • NOTA INTRODUTTIVA 399 cativo in tal senso, e però particolarmente funzionale alle necessità teoriche dell'ora. Ciò doveva anche servire a fondare una visione storica, di per sé non originale, nella quale le epoche più antiche, meno ricche di idee accessorie, risultavano come le più fedeli portatrici dell'unità fondamentale del significato. Evento di decisiva importanza nella carriera letteraria foscoliana, tanto sul versante delle scelte linguistiche, quanto su quello relativo alla determinazione del genere, e, che più conta, al loro stretto legame, alla luce di una particolare accezione del ricorrente canone classicistico del fine didascalico della poesia. Nelle Gra%ie, tale principio comportava che con le stesse, al poeta fosse insomma possibile, per usare delle sue parole, u [ •••] rivocare l'arte lirica a' suoi principii; eccitando velocissimamente nel cuore molti e varii affetti caldi ed ingenui, da' quali scoppia il vero ed il bello morale; e si presenta imaginoso alla fantasia con più splendore e con più armonia, ed è quindi accolto più facilmente e con più amore a con più tenacità nella mente» (CHIARINI, p. 109). Che è quanto era già stato detto nel Discorso quarto, Della ragione poetica di Callimaco, nella Chioma di Berenice (da noi riprodotto nel tomo n) quando, stabilito che «la poesia deve per istituto cantare memorabili storie, incliti fatti ed eroi, accendere gli animi al valore, gli uomini alla civiltà, le città alrindipendenza, gl'ingegni al vero ed al bello », anche era stato messo in chiaro che il suo fine consisteva nel «percuotere le menti col meraviglioso ,., tratto «Dal cielo poiché la natura e l'educazione hanno fatto elemento dell'uomo le idee soprannaturali», e nell'influenzare «il cuore con le passioni», derivate invece dalla società. Nuovo era per contro quanto il Foscolo aggiungeva circa il partito stilistico adottato, precisando: u Però basterà a' lettori di dire, che il fondo del Carme delle Grazie è didattico, ma lo stile è fra l'epico ed il lirico: per ciò che nel raccontare (e questo è l'ufficio principale del puro epico) una serie d'avvenimenti, l'entusiasmo del poeta li trasforma in altrettante pitture l'una dipendente dall'altra e formanti un tutto, che, come nella poesia lirica, il lettore può comprendere non tanto nel ricordarsi i fatti narrati, quanto nel rappresentarsi vivamente le immagini e gli affetti che ne risultano. A taluni dispiacerà forse questa novità di mescolare il didattico l'epico e il lirico in un solo genere, né io credo che l'autore brami ch'io ne faccia le sue discolpe; ma dirò solo che non è novità, perché gl'inni attribuiti ad Omero, quei di Callimaco, le più lunghe odi di Pindaro, che per esser narrative, sono le più belle, il poema di Catullo su le nozze di Teti e Peleo sono per l'appunto misture de, tre generi; e tale fu forse la prima [prima] poesia; e, per citare un maestro più autorevole a' critici, tale è il Canne di Virgilio intitolato Sileno, dove con nuove vivissime 400 POESIE immagini espose il sistema epicureo nel canto del vecchio Dio, e nelle favole di Pasifae e di Tereo le passioni sfrenate che turbano la tranquillità dell'animo, unico scopo della filosofia di Epicuro» (CHIARINI, pp. I 10-1). Non è qui il caso di soffermarsi sopra il cc fondo didattico,, del carme, rifacentesi, non peregrinamente, alla tradizione mitologica delle Grazie, ma piuttosto di rilevare come la sua rappresentazione, mirando all'oggettività dello stile epico, si proponesse quale narrazione di miti razionali allegoricamente doppiati in figurazioni, cui spettava di istruire la parenesi di un ideale lettore, attuabile grazie a uno stile dove la tecnica narrativa dell'epica oggettivamente mediasse contenuti caratteristici della lirica, anche assumendone lo specifico fine. Donde la frammentarietà, prima che degli esiti, del processo compositivo delle Grazie, esemplarmente documentata dal Quadernone, dove il tentativo di fondere in un sol genere due maniere distinte, doveva fatalmente incappare, volta a volta, nella coscienza dell'autonomia dell'immagine dal contesto narrativo, necessitante, sempre, un supplemento di legatura, puntualmente lasciato in bianco (le lacune nella versificazione lamentate appunto dal poeta). Tutto ciò non è senza rapporti con la struttura del carme. Conseguentemente al fatto che suo studio era stato di«[...] guidare più sempre l'animo di chi legge al meraviglioso, senza scostarlo dal naturale» (CHIARINI, p. I 1s), il Foscolo infatti scriveva: «E quanto poi all'architettura del poema l'autore s'è servito, per così dire, dei frammenti più antichi, ricorrendo all'origine del mondo, e li ha uniti a' moderni e contemperati ( ?) per formare un solo edificio» (CHIARINI, p. 112). E aggiungeva, in un passo parzialmente decifrato dall'editore: u Senza disunione di parti non hai armonia né chiaroscuro; senza unione l'armonia riesce confusa: il primo difetto genera noia, l'altro confonde il lettore. Quindi la rarità della vera poesia lirica, che è il sommo dell'arte. Se l'autore abbia .... dissotterrati tanti e sì diversi frammenti antichi, se li abbia architettati in armonia co' moderni, altri può giudicarlo facilissimamente e inappellabilmente ...... la noia o la confusione dell'animo di chi legge non trovi il mirabile antico necessario alla poesia, temperato e fatto parere più credibile dalla verità delle cose contemporanee che si dipingono» (CHIARINI, p. I 15). Contrapposizione vistosamente esperita nei Sepolcri, ma anche ricorrente in forme tecnicamente affini, se non identiche, nelle odi (le deificazioni), nei sonetti, e nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Segnatamente in queste ultime, l'atteggiamento plutarchiano, antisociale nel senso di anticonvenzionale, di Iacopo, il suo atteggiarsi sulla falsariga dei campioni classici della libertà repubblicana, come la lingua, esuberante di forme antiprosastiche e peculiari del registro poetico, e l'univocità sentenziosa ed LE GRAZIE (1803·l822) • NOTA INTRODUTTIVA 401 epigrafica di uno stile affatto insueto alla prosa di romanzo tradizionale, sembrano obbedire al proposito antiquariale di trasferire il moderno nell'antico, quale tangibile, politica espressione del rifiuto del presente storico. Tale conversione si presenta nei Sepolcri nella guisa di una netta opposizione, organizzata quasi nella forma di una vasta e complessa comparazione, nella quale al mondo classico, eloquentemente rievocato senza preoccupazioni di subordinazione logica alla precedente campitura, compete la funzione di secondo termine di paragone, là dove nelle Gra2ie l' "armonia" e lo ccsfumato" alludono, sia pure a livello intenzionale, al fitto contrappunto di antico e moderno che avrebbe dovuto risultare da una costante compositiva volta a rappresentare l'immanenza dell'implicazione dei due piani nella dimensione di un presente, evasivo, nei confronti della sua storicità, grazie alle caratteristiche strutturali di una tecnica espressiva che avendo per istituto di far passare «dal noto, che mostra evidentemente, all'ignoto a cui tende, facendolo sospettare,, (CHIARINI, p. 114), è però in grado di congiungere • l'origine del mondo al suo stato presente ed al nuovo caos della sua distruzione• (ivi). «Questo servirsi» nota ancora il Foscolo «di materie che il tempo e le circostanze hanno quasi immensamente disgiunte fra loro è un privilegio della poesia e della musica. Le altre arti sono costrette dalla contemporaneità di un solo punto» (CHIARINI, pp. 113-4). Così che l'Inno terzo, esaurita la funzione storica delle Grazie, autorizzando finalmente l'allegoria del loro culto, affermante la presenza dell'ideale nella trama intricata e contraddittoria delle vi~ cende umane, avrebbe dovuto trasportare il lettore •[...] né a que' secoli né a questi, né in luoghi a noi conosciuti, ma nel mezzo del- 1'oceano, in terra celeste, e con arti così divine, che le nostre parrebbero appena imitazioni. E a ciò pare che mirasse il poeta nel lavoro del velo delle Grazie, che le preserva [...] da' delirii funesti dell'amore e delle ( ?) altre umane passioni, e le fa ospiti della terra, senza che sieno avvicinate dall'uomo, in guisa che non possano più dargli le consolazioni, per cui furono unicamente mandate in terra dal cielo• (CHIARINI, pp. 116-7). Alla morte del poeta, quando i manoscritti foscoliani, affidati dalla figlia Floriana al canonico Miguel Riego, furono ceduti da questo a Gino Capponi, Enrico Mayer e Pietro Bastogi, perché fossero depositati presso la Biblioteca Labronica, Quirina Mocenni Magiotti, dopo essercisi lei stessa provata, affidava a Francesco Silvio Orlandini il compito di riordinare le carte delle Grazie, e di procurarne redi.. zione (su tutto ciò vedi F. PAGLIAI, Nota per 1,n progetto di edizione cri.. tica delle« Grazie» di Ugo Foscolo, in «Studi di filologia italiana», XXVII, 1970, pp. 255-66). Il testo fissato dall'Orlandini, e pubblicato a spese 26 402 POESIE della Magiotti nel 1848, doveva tuttavia apparire largamente arbitrario «perché l'editore, avendo disposto in una compagine unitaria, e secondo un ordine di successione fittizio, frammenti sparsi di versi ai quali sarebbe spettato il riconoscimento del carattere di una singolare e autentica individualità, in quanto significavano gli esiti della elaborazione formale di motivi originali della ispirazione, non aveva rispettato l'integrità delle stesure, e aveva ceduto al facile invito di adottare, nelle operazioni di cucitura e d'innesto, irragionevoli amputazioni, o aggiunte arbitrarie di versi, frasi, mezzi versi e parole» (F. PAGLIAI, art. cit., p. 256). Per ovviare alla soggettività dei criteri orlandiniani, Giuseppe Chiarini (1882) ritenne di dover porre a fondamento del proprio testo il Quadernone, rappresentante «il tentativo più autorevole di raccogliere in un corpo unitario i frammenti sparsi del Carme» (F. PAGLIAI, art. cit., p. 257), contemporaneamente rivolgendo la propria attenzione a tre sommari, l'ultimo dei quali, contenuto nel Quadernone, gli parve fornire «indicazioni atte a chiarire la identificazione del maggior nwnero di frammenti che ci sono stati tramandati; e a suggerirne una sistemazione che rispondesse alle esigenze funzionali della più ampia e complessa costituzione strutturale del Carme» (F. PAGLIAI, art. cit., p. 258). Ebbe torto nel ritenere che il terzo sommario rappresentasse l'ultima volontà del poeta, e inoltre non preoccupandosi di distinguere la reale seriazione dei vari stadi di elaborazione del testo, finì per contaminare fasi redazionali differenti, nella presunzione, generalmente indiscussa, che delle Grazie si desse autenticamente un assetto finale concluso. In epoca crociana, l'estetistica valutazione dei dati filologici valse poi al Chiarini l'accusa di avere sacrificato la poesia al poema delle Grazie, concepite frammentariamente, per liriche distinte, solo a posteriori destinate a comporre un'organica struttura. Il che, se può rendere parzialmente ragione delle difficoltà incontrate dal Foscolo nel portare a termine l'opera, non è certo di alcun conforto ove si tratti di determinare i criteri in base ai quali condurne l'edizione critica. Con l'abituale grande chiarezza osservava infatti il Barbi: «Che il Foscolo assai per tempo avesse fra i suoi propositi un carme alle Grazie, è pacifico; che frammenti di questo carme, e di altri affini per materia, avesse composto, e prima del 1812, anche questo è noto; ma non consegue perciò che quei frammenti fossero liriche indipendenti da una più vasta ideazione o costruzione e non ricevessero luce dall'ispirazione centrale da cui movevano. Si sa quali fossero le idee del Foscolo circa questi carmi, -che vantava "genere di poesia nato da lui''. Dovcvan essere come una serie di quadri particolari, antichi e moderni, e di discordanti materie, riuniti fra loro in modo da produrre una grata armonia ("senza LE GRAZIE (1803-1812) • NOTA INTRODUTTIVA 403 disunione di parti, non hai armonia né chiaroscuro; senza unione, l'armonia riesce confusa,,): quindi, da una parte, il bisogno di trovare nella storia dell,umanità scene e figurazioni da poter ravvicinare o contrapporre in un tutto poetico variato; dall'altra, lo stimolo poetico che portava a tentare e ritentare questo o quel quadro, secondo l'ispirazione del momento e il desiderio di trovare un'espressione che interamente appagasse. Nel tentare or questo or quel motivo, nel dipingere or questo or quel quadro, e, più, nel cercare il modo di legare fra loro questi sparsi tentativi, ben si capisce come dovessero avvenire cambiamenti continui nell'architettura del carme e continui adattamenti dei frammenti a nuovi propositi; ma la composizione o l'adattamento di ciascun frammento è sempre legato a un disegno, a uno schema; non è mai produzione che sorga in sé e per sé libera da ogni legaine. Possono ben essere, anzi sono, la più gran parte dei fram."llenti delle Grazie anteriori ai sommarii del pe-- riodo milanese; ma questo non prova che non facessero parte di schemi anteriori, anche se meno complicati, anche se non ci rimangono stesi sulla carta n (M. BARBI, L'Edizione Nazfonale del Foscolo e le «Grazie», in «Pan », a. n, voi. 12, 1934, p. 483). Nell'assenza dell'edizione critica delle Grazie, cui da tempo attende Francesco Pagliai, al testo del Chiarini si è preferita l'edizione procurata da Severino Ferrari (1891), fondamentalmente basata su quello, e però naturalmente passibile delle considerazioni sopra avanzate a carico dello stesso, ma più fedele nell'attuazione della volontà rappresentata dal terzo sommario, e quindi di più agevole lettura, grazie alla n1aggiore coerenza narrativa dell'insieme. L'Appendice prima e l'Appendice seconda documentano infine rispettivamente quanto, vivente il Foscolo, i suoi contemporanei conobbero dell'incompiuto poema, e quanto del medesin101 all'altezza del 1814, cioè r.ella fase estrema della sua elaborazione, il poeta ritenne avesse raggiunto un sufficiente grado di finitezza formale. METRO: endecasillabi sciolti. LE GRAZIE CARME AD ANTONIO CANOVA * ·SOMMARIO TERZO• INNO PRIMO: 1. Protasi. - 2. Dedica. - 3. Origine e lodi a Citera e Zacinto. - 4. Nereidi. - 5. Primi portenti delle rose bianche. - 6. La dea ornata. - 7. Cacciatori. - 8. Cannibali. - 9. Sparta. - 10. Arcadia, Pane. - I I. Calliroe e lfianea. - 12. L'ara. - 13. Beozia intera. - 14. Inno. - 15. Silvani. - 16. Viaggio in Olimpo. - 17. Arti s derivate dall'armonia. - 18. Epodo. INNO SECONDO: PARTE PRIMA. 1. Tre donne. - 2. Urania e Galileo. - 3. Principio del rito. - 4. Fanciulle. - 5. Canova scultore. - 6. Suonatrice. - 7. Musica media. - 8. Melodia. - 9. Musica alta e Lario. - 1o. Fiori. - PARTE SECONDA. [Polinnia e invocazione]. - 1. Gia- 10 no le manda a chiamare [le Grazie]. - 2. Loro venuta con Galatea, e passaggio loro per Ibla: le seguono le api. - 3. Siedono con A.more, il quale non era per anco irato con esse, in Posilipo, ed Apollo con esse e loro canti. Amore udendo i vaticinii, e il regno delle Grazie in Italia, meditò appunto allora di perdere l'Italia, e di allontanare in 15 altri tempi gl'imcnei casti da cui nascono i bambini, di cui le Grazie sono amanti. - 4. Egli frattanto per perdere allora l'Italia, armandosi di tutte le umane passioni ch'egli eccita tutte, non Fetonte, condusse il sole che ancora non era governato da' Numi. - 5. Descrizione della caduta del sole in Italia. - 6. Venere viene in Italia e conduce 20 in Cielo le Grazie: loro silenzio: Apollo canta, ec. - 7. Giove distri• Ricostruito dal FERRARI sulla scorta di quello che gli pan•e l'ultimo intendimento del poeta, il presente testo è contenuto nel Fascicolo 1, altrimenti detto Quadernone (cc.Sr. e 7v.) dei manoscritti delle Grazie conservati presso la Biblioteca Labronica di Livorno. Per gli altri due sommari vedi CHIARINI, pp. 126-8. 3-6. I numeri 9, 12, 13, xs, 17, nel ms. sono seguiti dai seguenti due segni ) ( ex; i numeri 10 e II soltanto da una x. 4. Ai numeri 10 e Ix, uniti dn una parentesi a graffa, nel ms. fa seguito la seguente nota: "La scena di notte•; e accanto ai numeri 12 e 13, pure collegati da una uguale graffa, si legge: «Qui incomincia il secondo giorno del viaggio». 5. I numeri I se 16 nel ms. sono seguiti dallo nota: •Socrate che viene con Aspasia e i suoi discepoli ali'Aro. Qui incomincia il terzo giorno». 10. Nota il FERRARI: «In quella che sembra l'ultima redazione del Sommario [c. 7v.: Distribu::ione diversa dell'Inno Secondo nell'Antistrofe], l'argomento Polinnia e invocazione, è tolto: ma vi sono poi nel Carme i vv. che gli corrispondono »: ma nelle due precedenti stesure del sommario stesso (c. 8r.) l'argomento relativo a Polinnia è sempre presente. POESIE buisce i pianeti agli Dei, e caccia l'Erinni ne' ghiacci del mar australe. - 8. Vesta dà il foco gentile alle Grazie, e le api ch'erano intorno al trono di Giove le seguirono. - 9. Le Grazie dànno le api alle Muse 25 in Imcto e in Ibla: Teocrito, poesia pastorale. - 10. Portano il foco di Vesta a Roma. Egeria, Numa. - 11. Ma quando si armò di nuovo tutto il Nord contro gl'Italiani, e le ... - 12. Marte caccia le Muse: le seguono le api: Eco. - 13. Nel loro viaggio si dividono le api in due schiere. - 14. Una per PAdria viene al Po. Ariosto, Berni e Tasso. 30 - 15. L'altra in Toscana. Speranza. Architettura sino a Palladio. - 16. Non vogliono i fiori antichi le api in Toscana, e pigliano i moderni. - 17. Dante, Petrarca, Boccaccio. - 18. Donna del favo: sua cura delle api: sua preghiera. - 19. Scultura, Canova. - PARTE TERZA. I. Viene la danzatrice. - 2. Milano. - 3. Offerta. - 4. Lodi del cigno. 35 - 5. Viceregina. - 6. Lodi della bellezza delle donne italiane. - 7. Ballerina. - 8. Ballo delle Baccanti. - 9. Orfeo morto che scende e dà la lira a Virgilio. - 10. Grazie che siedono a piangere Orfeo. INNO TERZO: PARTE PRIMA. I. Esordio. - 2. Tre giorni stettero [le Grazie] con Venere in terra, tre in Cielo e tre all'Eliso. - 3. Perché 40 appena discese dal Cielo, e Amore vide la loro onnipotenza sugli animali e sugli uomini, e le Ninfe boschereccie quando andava a visitarle gli dicevano che Venere amava le figlie più del bacio che Amore le dà, assunse non le forme con le quali comparisce agli uomini, ma quelle che ha veramente. - 4. Dove stavano. - 5. Tumulto d'Amore 45 e Tenebre. - 6. Comparsa di Minerva che promette un dono, e dice intanto d'andare alla spiaggia, adorare la madre e poi viaggiare alle terre de' cedri. - PARTE SECONDA. 7. Lor viaggio, una Dea che trovano; descrizione di questa Dea, e sue parole. - 8. Vanno all'Eliso; tutti sorgono a una voce che gridava: ... sua figura. - 9. Molti altri, 50 fra' quali il Tasso. - 10. Ma li conducono dove erano tre ciechi; ]oro pittura. - 11. Discorsi de' tre ciechi. Tiresia sotto le palme di Cirene. - PARTE TERZA. 12. Mentre questi discorsi faccano ali' Eliso, Pallade tornava: la sua reggia. - 13. Descrizione. - 14. Velo. - 15. E uscian le Grazie appunto con la ... dall'Eliso. - 16. Lor pone il velo ss addosso, e sue parole. - 17. Epilogo. 27. I puntini indicano parole indecifrabili. Lo stesso dicasi per la linea 49. 51. Nel ms. invece di I I si legge 12. 53. Nel ms. n 13 e 14 manca l'indicazione numerica. 53-4. Nel ms. invece di 15 si legge 22. 54. lVIa potrebbe forse leggersi: u con la madre loro». Nel ms. invece di 16 si legge 22. 55. Nel ms. invece di 17 si legge 24. STROFE Alle Grazie immortali le tre di Citerea figlie gemelle è sacro il tempio, e son d'Amor sorelle; nate il dì che a' mortali beltà ingegno virtù concesse Giove, 5 1-9. Non è certo che il Foscolo intendesse preporre alle Grazie le presenti tre strofe, dato anche che di tale proposito non è traccia in alcuno dei sommari del carme (li si veda in CHIARINI, pp. 126-8, e per il cosiddetto terzo, vedi qui alle pp. 405-6), né nel Quadernone (vedi Appendice seconda, alle pp. 514-32). Del resto, è stato giustamente notato: «Che se l'inserto I 1 della biblioteca Labronica di Livorno [per la cui descrizione vedi CHIARINI, p. 573] reca nel retto del foglio secondo, il titolo "Strofe / Primo inno / Arcadia", è chiaro che "strofe" risponde ad uantistrofe" nel retto del terzo foglio e ad "epodo" nell'ultimo sommario, ciò che con anche maggiore evidenza dimostra il fascicolo terzo; non è, in somma, che una delle tre partizioni liriche del carme, all'usanza greca, e di conseguenza nulla a tal fine comprova» (CHIORBOLI, p. 255). Dell'imperfetta elaborazione formale è poi prova manifesta la rima irrelata del v. 7. 1-3. Alle . .• sorelle: tra le epigrafi da preporre al carme, registrate dal Foscolo nel foglio 1 dell'inserto I 5, nel verso dello stesso, si legge anche la seguente: a Sunt nudae Charites niveo de marmore; at illis / luppiter est genitor, peperit de semine coeli: / inde alitur nudus placida sub matre Cupido• (CHIARINI, p. 576). I. Grazie: Eufrosine, Aglaia, Talia, figlie di Giove e di Venere, sorelle di Amore. 2. Citerea: Venere. 3. tempio: l'ara sul poggio di Bellosguardo, per la quale vedi Inno primo, 9-16. 4-5. nate ... Giove: scrive il Foscolo nei Frammenti vari: «Le Grazie sono divinità intermedie tra il ciclo e la terra, dotate della beatitudine e della immortalità degli Dei, ed abitatrici invisibili fra' mortali per diffondere sovr'essi i favori de' Numi e impetrare ad essi il perdono della severa giustizia celeste. Però come Divinità tutelari de' più dolcissimi e delicati affetti dell'uomo nacquero assai tardi e quando lo spettacolo della bella natura cominciò ....• e gli affetti sociali nati dal bisogno reciproco. - Al nascere delle Grazie, fecondando di amabili immagini la fantasia, [si] popolò il mare di Nereidi, e i boschi di Ninfe, e con le Grazie nacque la musica, il ballo, l'eleganza dell' ..... la gratitudine n' benefizi, il desiderio di beneficare, il religioso amore della patria, la dolce e serena pietà de' mali altrui» (CHIARINI, pp. 125-6). E vedi Inno primo, 132-60. 5. beltà .•. virtù: le tre doti celesti, corrispondenti alle tre dee: Venere, Pallade, Vesta. Scrive il Foscolo nei Frammenti vari: «Finalmente, secondo le sue (dell'autore] idee metafisiche, la grazia è una delicata armonia cl,e spira ( ?) contemporaneamente spontanea dalla beltà corporale, la bontà del cuore e la vivacità dell'ingegno, congiunte in sommo grado in una sola persona, e che ingentilisce .sommamente (?) e consola la vita educando gli uomini all'idea divina del bello, al piacere della virtù ed allo studio delle arti, che con l'imitazione possono perpetuare e moltiplicare gli effetti delle Grazie •.•• nelle poche persone che sono .•• ornate di mano della natura• (CHIARINI, p. 121). POESIE onde perpetue sempre e sempre nuove le tre doti celesti e più lodate e più modeste ognora le Dee serbino al mondo. Entra ed adora. INNO PRIMO• VENERE•• Cantando, o Grazie, degli eterei pregi di che il cielo v'adorna, e della gioia che vereconde voi date alla terra, belle verginil a voi chieggio l'arcana 6-9. onde ... mondo: affinché le dee conservino al mondo per sempre intatte (perpetue ••• nuove), e sempre più lodate, perché sempre modeste, le tre doti celesti (beltà ingegno virtrì). 9. Entra: nel tempio. - • Scrive il Foscolo nell'Architettura del Carme: «Il primo inno narrando l'origine divina delle Grazie e la civiltà progressiva del genere umano, non si diparte, se non nel modo di dipingerle, dalle prime nozioni favolose che si trovano ne' poeti[.•.]. la Grecia antica si mostra più che l'Italia moderna; e sono, per dir cosi, materiali e sensibilissimi gli effetti delle Grazie sull'uomo, perché palesano solamente l'incremento dell'agricoltura, delle leggi e della religione nel mondo» (CHIARINI, pp. 11 5-6). •• Venere: scrive il Foscolo nei Frammenti '1ari: •Secondo il suo [dell'autore] sistema storico, le Deità diffusero i loro benefizi più particolarmente alla Grecia antica dov'ebbero l'origine, e all'Italia dov'hanno trasferita la loro sede. [...] Però il primo Inno è intitolato Venere, divinità che ha per distintivo la bella natura apparente [.••]•(CHIARINI, p. 121). E ancora: «Venere, che qui simboleggia la bellezza dell'universo, e da cui nascono le Grazie, partecipa ad esse l'armonia degli affetti che è la prima e secreta origine de' più dolci e tranquilli ed affettuosi movimenti del cuore umano 11 (CHIARINI, p. 122). 1-3. Cantando ... terra: nelle Note all'Inno primo abbozzate dal Foscolo, si legge: e Le Grazie, Deità intermedie tra il cielo e la terra, secondo il sistema poetico dell'autore, ricevono da' Numi tutti i doni ch'csse dispensano agli uomini: tutta la macchina del carme è stabilita su questa immaginazione: però il primo inno è intitolato Venere, il secondo Vesta e il terzo Pallade• (CHIARINI, p. 314). 1. eterei: celesti; pregi: vedi Strofe, 51 e la nota relativa. 2. di ... adorna: vedi Strofe, 5. 2-3. e .•. terra: vedi Strofe, 4-51 e la nota relativa. 3. '1ereconde: vedi Strofe, 8. 4-8. belle ••. carme: nelle citate Note foscoliane si legge• L'armonia arcana della versificazione è un'attitudine indefinibile dell'animo, e natia come le Grazie. - La melodia conviene alla poesia graziosa. - La facoltà pittrice è dote essenziale del poeta, che nelle combinazioni e ne' suoni delle parole rappresenta immagini': - queste destano affetti, e tanto più efficaci quanto più nuovi e imprmJ'1ÌSÌ: - però il LE GRAZIE (1803-1822) • INNO PRIMO armonfosa melodia pittrice della vostra beltà; si che all'Italia afflitta di regali ire straniere voli improvviso a rallegrarla il carme. Nella convalle fra gli aerei poggi di Bellosguardo, ov'io cinta d'un fonte limpido fra le quete ombre di mille giovinetti cipressi alle tre Dive l'ara innalzo, e un fatidico laureto in cui men verde serpeggia la vite 5 IO poeta ora rappresenta immagini nuove per destare affetti lieti alla sua patria contristata dalle vicende politiche: tale deve essere l'unico scopo della poesia; e Virgilio adornò nelle Georgiche le arti dell'agricoltura per distorre le menti de' Romani dal furore delle guerre civili» (CHIARINI, pp.314-5). E ancora nei Frammenti vari: •L'armonia degli affetti, e la dolcezza e vivacità della fantasia producono la grazia e la vita delle arti belle• (CHIA• RINI, p. I 23); • L'armonia dell'universo, di cui gli uomini tutti hanno un sentimento secreto, benché non possa esprimersi, è diffusa anche nella vita dell'uomo• (CHIARINI, p. 123). 6-7. .sì • •• straniere: si allude probabilmente ai travagli politici del Regno d'Italia, successivi alla campagna di Russia. 8. a rallegrarla: analogamente LUCREZIO, De rer. nat., 1, 28-30: • Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem, / effice ut interea fera moenera militiai / per maria ac terras omnis sopita quiescant • (MARTINETI'I). 9-16. Nella ... inni: nelle citate Note foscoliane si legge: • Bellosguardo è poggio di Firenze oltr'Arno, dove scriveva l'autore. - Il Canova avea poco prima posta la sua Venere ch'esce dal bagno al luogo stesso, nella galleria di Firenze, dov'era la Venere dei Medici. - Lo stesso scultore attende a un gruppo delle Grazie» (CHIARINI, p. 315). 9. convalle: vedi Sepolcri, 170, op. 314, e la nota relativa; aerei: che s'innalzano alti nell'aria. Come in VIRGILIO, Bel., v111, 59-60: •praeceps aerii specula de montis in undas / deferar [...] • (FERRARI). 10. Bellosguardo: nella villa • Torricella 11, dove il Foscolo aveva fissato dimora intorno ai primi di aprile del 1813. 13. l'ara innalzo: nel recto del foglio sciolto allegato al fascicolo dell'Archivio di Stato di Milano, contenente il Rito delle Gra::ie (vedi Appendice prima, v, alle pp. 481-4), tra gli At1t1ertimenti (vedi p. 481), si legge: «L'aro del Rito fingesi a Bello-sguardo; v'è un coro di Garzoni e di Donzelle. Tre Donne una Toscana; l'altra di Lombardia di qua dal Po; e la terza della capitale del Regno d'Italia, vi vengono sacerdotesse, rappresentando la musica, la poesia, e la danza•; fatidico: perché sacro ad Apollo, in virtù del mito di Dafne, trasformata in alloro dal padre Peneo per sottrarsi alla brama del dio. Vedi OVIDIO, Metam., 1, 557-65. 14. in cui: sul quale; men tJerde: del lauro; serpeggia: si attorciglia. E vedi TASSO, Ger. lib., XVI, u, 5-6: «lussureggiante serpe alto e germoglia/ la torta vite ov'è più l'orto aprico• (MARTINE'ITI). 410 POESIE la protegge di tempio, al vago rito 15 vieni, o Canova, e agl'inni. Al cor men fece dono la bella Dea che in riva d'Arno sacrasti alle tranquille arti custode; ed ella d'immortal lume e d'ambrosia la santa immago sua tutta precinse. 20 Forse (o ch'io spero!) artefice di Numi, nuovo meco darai spirto alle Grazie ch'or di tua man sorgon dal marmo. Anch'io pingo e spiro a' fantasmi anima eterna: sdegno il verso che suona e che non crea; 2s 15. la ... tempio: protegge l'ara, coprendola, a guisa di tempio, grazie anche all'intreccio con la vite (vedi i vv. 295-7); vago: <1Per l'idea medesima di movimento, Vago diventa affine a Grazioso, Leggiadro, perché la grazia non è cosa immobile: e però le Grazie furono imaginate da11zanti. E siccome il movimento è varietà, cosi la varietà è essenziale all'idea di bellezza» (TOMMASEO-BELLINI). 16. Antonio Canova (Possagno I novembre 1757-Venezia 13 ottobre 1822). 16-8. Al . •• custode: me li ispirò (gli in11i) Venere, che tu (Canova) consacrasti in Firenze alla custodia delle belle arti. La cosiddetta Venere italica del Canova, scolpita intorno al 1812, era stata infatti collocata (29 aprile 18I 2) agli Uffizi nel luogo occupato originalmente dalla Venere medicea, per essere rimossa e trasferita a Pitti, quando quella venne restituita dai Francesi. E vedi la nota ai vv. 9-16. 19-20. ed . .. precinse: e Venere stessa, per manifestare il compiacimento per )'eccellenza del- 1•opcra, avvolse (precinse) la sua immagine, santa perché consacrata alla custodia delle tranquille arti, di luce eterna e d'ambrosia, prerogative divine, così eternandola. 21. (o ch'io spero!): o m'illudo) Vedi Esperimento di traduzione della Iliade di Omero, Versione del Canto Primo, 500, a p. 376: «forse, o ch'io spero, lo trarrò al mio voto»; e PETRAUCA, Rime, ccv111, 11 : 11 forse (o che spero?) e 'I mio tardar le dole 11; artefice di Numi: scultore di divinità pagane (frequenti nella produzione canoviana). 22. nuovo .•• Grazie: infonderai, ispirato dal vago rito, e dagli inni, nuovo spirito al gruppo marmoreo delle Grazie. 23. cli'or ... marmo: il gruppo delle Grazie commissionato dall'imperatrice Giuseppina, e terminato nel 1814, fu conosciuto dal Foscolo solo nella replica procurata dal Canova nel 1816 per il duca di Dedford, che la collocò a Woburn Abbey. 24. pingo: vedi i vv. 4-5; fantasmi: immagini. 25. sdegno •. . crea: la poesia che non conosce il fine di cui al verso precedente. E vedi i vv. 301 -2, e Inno secondo; 413-5. LE GRAZIE (1803·1822) • INNO PRIMO 411 perché Febo mi disse: Io Fidia primo ed Apelle guidai con la mia lira. Eran l'Olimpo e il Fulminante e il Fato, e del tridente enosigeo tremava la genitrice Terra; Amor dagli astri 30 Pluto feria: né ancor v'eran le Grazie. Una Diva scorrea lungo il creato a fecondarlo, e di Natura avea l'austero nome: fra' Celesti or gode di cento troni, e con più nomi ed are 35 le dan rito i mortali; e più le giova 26-7. perché ••• lira: perché Apollo, e fuori di metafora, lo studio della poesia, mi ha insegnato che i massimi scultori (Fidia), e pittori (Ape/le), furono guidati, cioè trassero ispirazione, dalla poesia (lira). 28-65. Eran ... cedri: nelle citate Note foscoliane si legge: a L'universo e la natura si guardano [dall'uomo] con una stupida ammirazione mista al terrore, finché è ingentilito cd ammaestrato dalle Grazie. - La bellezza non è amabile né adorata senza le Grazie; quindi la religione a Venere da che apparì con le sue seguaci. - Citera è l'isola dopo Zacinto, patria datami dai Numi, ed è l'estrema della repubblica settinsulare. - I primi veneti che furono suoi padri erano colonia troiana dopo la ruina dell'Asia. - Zacinto, secondo Plinio, era celebre per la sua religione a Diana due secoli innanzi la guerra iliaca. - Teocrito la chiama bella Zacinto! e Omero e Virgilio la lodano per la beltà de' suoi boschi e la serenità del cielo •..•• l'agricoltura e il commercio accennato dall'autore• (CHIARINI, p. 3I 5). 28. l'Olimpo: la religione dell'Olimpo; il Flllmina11te: Giove; il Fato: al quale sottostanno tutti gli dèi. 29. del: per; tride11te: di Nettuno, re del mare; enosigeo: scuotitore della terra, in quanto gli antichi identificavano nei maremoti la causa dei terremoti. 30. genitrice: "madre", come in LUCREZIO, Dt rer. nat., 1, 1: aAeneadum gcnetrix [...] D, 30-1. Amor ••. feria: si allude al ratto di Proserpina da parte del dio degli Inferi Plutone, e come osserva il NATALI: « [•••] forse ai connubii ferini dei primi uomini». 30. dagli ostri: nota il MARTINETTI: a Amore è contemporaneo degli astri (NONNO, Dionis., XLVII, 467), ne' quali ebbe seggio: e se troppa paresse la distanza, sappiasi che Amore ha "Brevi le mani, e pur lontan saetta, Fino a Stige saetta il Re d'Averno" (Mosco, Am. Jt1gg.; tr. del PAGNINI). - Del resto dagli astri può anche interpretarsi per dall'alto; e veramente nelle Metamorfosi (v, 363 es.) Amore dall'Olimpo saetta "a dentro Il gran Dio dell'Inferno infin al centro.,». 32. Una Diva: Venere; scorrea lflngo: percorreva. 33. a feconclarlo: vedi LUCREZIO, De rer. nat., 1, 1-20. 33-4. J.Vatura ... nome: nella Considerazione x, Venere celeste, della Chioma di Berenice, Milano, Dal Genio Tipografico, 1803, p. 202, il FoscoLO scrive: «(•••] i poeti-teologi e gli storici-filosofi intendendo la Natllra sotto questo nome di Vcncre [...], lo applicavano a tutte le cagioni e gli effetti della procreazione». 36. le da11 rito: la celebrano; più: dei cento troni ecc.; giova: pince. 412 POESIE l'inno che bella Citerea la invoca. Perché clemente a noi che mirò afflitti travagliarci e adirati, un dì la santa Diva, all'uscir de' flutti ove s'immerse a ravvivar la gregge di Nereo, appari con le Grazie; e le raccolse l'onda Ionia primiera, onda che amica del lito ameno e dell'ospite musco da Citera ogni dì vien desfosa a' materni miei colli: ivi fanciullo la Deità di Venere adorai. Salve, Zacintol all'antenoree prode, de' santi Lari Idei ultimo albergo e de' miei padri, darò i carmi e l'ossa, e a te il pensier; ché piamente a queste Dee non favella chi la patria obblia. Sacra città è Zacinto. Eran suoi templi, 45 50 37. l'inno .•. intJoca: essere invocata con il nome di Citerea. E vedi l'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, 3-4, a p. 175: «[ •••] lini odorati/ che a Citerea porgeano,.. 38. clemente: vedi Sepolcri, 133-4, a p. 310: a[...] ove clementi/ pregaro i Genii [...] •· 39-40. la santa ... flutti: vedi, a p. 235, la nota al v. 5 del sonetto Né più mai toccherò le sacre sponde. 40. de' flutti: del mare Ionio. 41. a ••• Nereo: più che: «Ad accrescere vivacità alle festanti figlie di Nereo, le quali, come sappiamo da Orfeo [Alle Nereidi], erano amanti de' giuochi e ballerine», secondo intende il MARTINE'ITI, ritengo valga: "a dar vita alla fauna marina", anche se 11ravvivare", propriamente significa "accrescere vigore", e non "fecondare"; Nereo: figlio dell'Oceano, dio marino, marito di Doride, e padre delle Nereidi. 42. raccolse: accolse; e vedi Sepolcri, 34, a p. 297: «che lo raccolse infante e lo nutriva». 43-6. l'onda •.. colli: l'onda del mare Ionio, attratta dall'amenità accogliente del muscoso lido di Zacinto, si affretta ogni giorno a venire alla sua isola natale. 46-7. ivi ... adorai: «Vuol dire [...] che a Zante il poeta senti la forza (deità) della bella natura, e senti in sé stesso l'antica religione de' greci• (FERRAR!). 48. all'antenoree prode: alle terre venete. La leggenda vuole che Antenore, eroe troiano, con i figli e gli Eneti, attraverso la Tracia e l'Illiria, venisse nella Venezia, cacciandovi gli Euganei, e fondandovi Padova. 49. de' ..• Idei: dei Penati troiani, cosi detti dal monte Ida, prossimo a Troia. 50. e de' miei padri: i Veneti. E vedi la nota ai vv. 28-65. 50-1. darò . .. pensier: vedi il sonetto Né pii, mai toccherò le sàcre sponde, 12-4, a p. 237: • Tu non altro che il canto avrai del figlio, / o materna mia terra; a noi prescrisse / il fato illacrimata sepoltura•· 5I. piamente: con affettuosa devozione. 51-2. qHeste / Dee: le Grazie. 53. Sacra: per quanto è detto di seguito; e vedi il sonetto Né più mai toccherò le sacre sponde, 1, a p. 235. 53-5. Eran ••• coro: vedi la nota ai vv. 28-65; Eran: esistevano. LE GRAZIE (1803-1822) • INNO PRIMO 413 era ne' colli suoi l'ombra de, boschi sacri al tripudio di Diana e al coro; ss pria che Nettuno al reo Laomedonte munisse Ilio di torri indite in guerra. Bella è Zacinto. A lei versan tesori l'angliche navi; a lei dall'alto manda i più vitali rai l'eterno sole; 6o candide nubi a lei Giove concede, e selve ampie d,ulivi, e liberali i colli di Lieo: rosea salute prometton l'aure, da' spontanei fiori alimentate, e da' perpetui cedri. 6s Splendea tutto quel mar quando sostenne su la conchiglia assise e vezzeggiate dalla Diva le Grazie: e a sommo il flutto, quante alla prima prima aura di Zefiro le frotte delle vaghe api prorompono, 70 e più e più succedenti invide ronzano a far lunghi di sé aerei grappoli, van aliando su' nettarei calici 55. al ... coro: alle danze e agli inni del coro delle ninfe di Diana. E vedi la nota ai vv. 28-65. 56-7. pria . •• guerra: prima che Nettuno fortificasse Troia, della quale era re Laomedonte, reo di non avere corrisposto la pattuita mercede. 57. inclite in guerra: bellicamente rinomate, perch~ inespugnabili. 58-9. A ... navi: vedi la nota ai vv. 28-65. E La Giu- 1ti::ia e la Pietà, 63-4, a p. 111: • onde sien carchi di Britannia i pini, / del dolce frutto di Zacinto onore•. 61. candide: dimpide• nel sonetto Né più mai toccherò le sacre sponde, 7, a p. 236. 62. ampie: ricche. 62-3. liberali .•• Lieo: i colli abbondanti di uve (Lieo, epiteto di Bacco, per metonimia "uva''. ccvino"). 63. rosea: florida. 64. prometton: assicurano; spontanei: non coltivati dall'uomo. 65. cedri: che forniscono legno profumato. E vedi Sepolcri, 114-6, a p. 308: • (...] Ma cipressi e cedri/ di puri effiuvii i zefiri impregnando / perenne verde protendean su l,ume •· 68-74. e ... s'allegrano: nelle citate Note foscoliane si legge: •L'immaginazione ingentilita e rallegrata produce le gentili fantasie, e in Grecia popolò il mare di Ninfe. - La similitudine dell'Api dal primo e dall'ultimo verso in fuori è tolta da Omero: Iliade, II, [87-90] » (CHIARINI, p. 315). Cosi tradotti dal FoscoLO nella bella copia del libro secondo (1815-1816): • Quante dai fori d1alvear petroso / le schiatte delle vaghe api prorompono/ e più e più succedenti invide ronzano / a far lunghi di sé aerei grappoli, / sovra i fiori d'aprii vanno aliando / e qua e là s'accampano a drappelli. / Così [...] • (Edizione Nazionale, 111, parte 1, pp. 353-4). 68. e ••. flutto: a fior d'acqua. 69. alla •• • Zefiro: a primavera; prima prima: primissima. 70. vaghe: vaganti. 73. oliando: aleggiando, volando. POESIE e del mele futuro in cor s'allegrano, tante a fior dell'immensa onda raggiante ardian mostrarsi a mezzo il petto ignude le an1orose Nereidi oceanine; e a drappelli agilissime seguendo la Gioia alata, degli Dei foriera, gittavan perle, dell'ingenue Grazie il bacio le Nereidi sospirando. Poi come l'orme della Diva e il riso delle vergini sue fer di Citera sacro il lito, un'ignota violetta 7S So 75-81. tante .•• sospirando: vedi CATULLO, Carm., LXIV, 12-8: «Quae simul ac rostro ventosum proscidit aequor, / tortaquc remigio spumis incanduit unda, / emersere freti candenti e gurgite vultus / aequoreae monstrum Nereides admirantes. / Illa, atque haud, alia viderunt luce marinas / mortales oculis nudato corpore Nymphas / nutricum tenus extantes e gurgite cano D (MARTINETTI). 75. raggiante: rende il catulliano a tortaque remigio spumis incanduit unda». 77. Nereidi: vedi la nota al v. 41. 79.Joriera: annunziatrice. So. perle: vedi i vv. 90-1, e Inno secondo, 357-8. 82-91. Poi •.• aprile: scrive il FoscoLo nella Dissertazione: «All'apparir delle Grazie, la terra si coperse di fiori; ma quelli esseri divini non se ne adornarono: Venere solamente: "Mille habet omatus, mille decenter habet". Le Grazie son sempre ignude, adorne di loro natia amabilità, protette dall'innocenza propria e dalla innocenza che ispirano, "Gratia cum Nymphis geminisque sororibus audet / ducere nuda choros". Intrecciano viole e rose bianche, e quelle trecce avvolgono a un ramoscello di cipresso, e aggiuntevi delle perle (le perle che coronavano Venere quando emerse dal fondo dell•oceano) offrono siffatta ghirlanda alla madre loro. D'allora in poi i Greci usarono sempre di cantar inni alle Grazie alrombra del cipresso e di offrire sul loro altare una tazza di latte ghirlandata di bianche rose, perle e viole. - I versi che seguono sono tradotti letteralmente da uno dei frammenti greci [Fu quindi .•. aprile]. Donde appare che le offerte di tortore, colombe e frutta che, nel romanzo pastorale di Longo, Dafni e Cloe porgono alle tre Grazie, debbono essere innovazioni di una età posteriore. Secondo i riti più antichi, i sacrifizi alle Grazie erano di latte, in memoria della introdotta vita pastorale, le cui pacifiche arti eran succedute alle selvagge obitudini della caccia; e si usavano ghirlande di cipresso per ciò che il cipresso <'ra fra gli emblemi della morte, non obbJiata mai dagli antichi nelle festive adunanze: e quella mesta allusione che spesso incontrasi nei canti dei conviti e nelle giulive canzoni d'Anacreonte e d'Orazio non solamente ha in sé.un proposito morale, ma fa ancora in poesia l'effetto d'un chiaroscuro• (vedi Appendice prima, VIII, alle p:,. 503-4). 82. !'orme: lo presenza. 84- 7. un'ig,iota ... candide: nota il CHIORDOLI: a La violetta, il cipresso, l'imbiancarsi delle p11,p1tree ròse simboleggiano le virtù che procedono dalle G rnzie seguaci di Venere: la beltà s'ingentilisce di modestia, di puro candore e d'innocenza; sacra diviene la vita, come sacra era la morte, la violetta come il cipresso, e religioso dell'una e dell'altra diviene il pensiero e il culto•· 84. ignota: perché cresce nascosta tra le erbe. LE GRAZIE (1803-1822) • INNO PRIMO 415 spuntò a' piè de' cipressi; e d'improvviso 85 molte purpuree rose amabilmente si conversero in candide. Fu quindi religfone di libar col latte cinto di bianche rose e cantar gl'inni sotto a' cipressi ed offerire all'ara 90 le perle e il primo fior nunzio d'aprile. L'una tosto alla Dea col radiante pettine asterge mollemente e intreccia le chiome dell'azzurra onda stillanti; raltra ancella alle pure aure concede, 95 a rifiorire i prati a primavera, l'ambrosio umore ond'è irrorato il petto della figlia di Giove; vereconda la lor sorella ricompone il peplo sulle membra divine, e le contende 100 di que' mortali attoniti al desio. Non prieghi d'inni o danze d'imenei, 87-90. Fu ••• dpressi: vedi Sepolcri, 126-9, a p. 309: u [ •••] e chi sedea / a libar latte e a raccontar sue pene/ ai cari estinti, una fragranza intorno/ sentia qual d'aura de' beati Elisi». E vedi Inno secondo, 41-2. 88. religione: vedi Sepolcri, 101, a p. 307: « religion che con diversi riti•· 89. cinto: in vaso cinto ecc. 91. i/ ••• aprile: la viola, così detta anche dal MONTI, In occasione del parto della Vice-Regina d'Italia, 41-2: •primo de' fior porgendole/ la bruna che spuntò nunzia d'aprii» (FERRARI). 92-101.L'una ... desio: scrive il FoscoLo nella Dissertazione:• L'idea di rappresentare le Grazie come ancelle ministre di Venere, addette all'uffizio di ornarne la persona, sembra venuta dopo i tempi di Omero. ì\'la siccome, nel vero, tutti gli allettamenti della bellezza dcri,·ano dalle Grazie, l'allegoria fu immaginata acconciamente, ed ha suggerito molte belle immagini ai poeti antichi, ed eleganti composizioni e disegni a~li artisti. In quest'inno greco Venere si fa vedere nel momento che sorge dall'Oceano; ed una delle Grazie asterge le chiome stillanti della Dea e le compone a trecce; un'altra invita i Zeffiri a predar l'ambrosia dal seno di Venere per fecondarne i fiori di primavera; mentre la terza spande un velo su le belle forme della Dea, affinché non sieno profanate dal cupido sguardo degli uomini ispidi ancora ed incolti» (vedi Appendice prima, Vili, alle pp. 504-5). 92. radiante: "splendente", perché stillante d'acqua marina. 93. asterge: libera dall'acqua; 1110llemente: dolcemente. 96. a rifiorire: "a far fiorire"; attivamente' il verbo è ancora usato nell'Inno secondo, 3941 e nell'Inno terzo, 151. 98. figlia di Giove: e di Dione, Venere. 99. la lor sorella: la terza delle Grazie; peplo: manto. 1 oo. contende: sottrae. 102. priegl,i d'inni: riti religiosi; da11ze d'imenei: riti nuziali. 102-44. Non ••. 1'01110: vedi Sepolcri, 91-6, a p. 306. 102- 17. Non ••• ammirando: scrive il FOSCOLO nella Dissertazione:• Venere[•••] POESIE ma di veltri perpetuo l'ululato tutta l'isola udia, e un suon di dardi, e gli uomini sul vinto orso rissosi, e de' piagati cacciatori il grido. Cerere invan donato avea l'aratro a que' feroci; invan d'oltre l'Eufrate chiamò un di Bassareo, giovane Dio, a ingentilir di pampini le rupi: il pio strumento irrugginia su' brevi solchi, sdegnato; e divorata, innanzi che i grappoli recenti imporporasse a' rai d'autunno, era la vite: e solo quando apparian le Grazie, i cacciatori e le vergini squallide, e i fanciulli l'arco e 'I terror deponean, ammirando. Con mezze in mar le rote iva frattanto lambendo il lito la conchiglia, e al lito pur con le braccia la spingean le molli 105 110 115 120 mossa a pietà del genere umano, vedendo che esso non era capace di migliorare e perfezionarsi, creò le Grazie e primamente comparve con esse a Citèra. Colà, non si erano mai udite preci ai numi - né mai vedute danze giulive - né cantici d'imeneo erano mai risuonati; ululati di bestie rapaci e latrar di cani ferivano l'aria di continuo; e tutto era pieno di terrore e spavento pel fischiar degli strali, per le grida degli uomini contendentisi l'orso da loro ucciso, e pei gemiti dei cacciatori feriti. Cerere avea fatto loro, già tempo, il dono dell'aratro, e, provvida Dea, avea chiamato Bacco che adornasse di vigneti i colli di Citèra. - Ma indarno: il vomere irrugginl abbandonato entro il solco che appena avea cominciato a segnare; e i grappoli furono divorati, prima che cominciassero a imporporarsi dei raggi di un sole di autunno. Ma non sl tosto comparve Venere con le Grazie in mezzo agli abitatori di Citèra, i cacciatori, le donzelle, i fanciulli lasciarono cadersi di mano gli archi e gli strali e d'un tratto passarono dal terrore alla meraviglia, dalla ferocia alla gentilezza: lasciarono la caccia e divenner pastori 11 (vedi Appendice prima, VIII, alle pp. 502-3). 106. piagati: feriti dalle fiere. 107. Cerere: dea dei campi e delle biade; invan: nelle citate Note foscoliane si legge: • La benevolenza e l'aiuto reciproco, e l'amore del riposo e della società, affetti ispirati dalla gentilezza del cuore, fanno perfetta l'agricoltura, non trattata a principio se non quanto esige l'incalzante necessità» (CHIARINI, p.316). 108. d'oltre l'Eufrate: dall'India. 109. c/,iamd: Cerere; Bassareo: Bacco, cosi detto da Bassara, città della Lidia, dove godeva di culto speciale. 111. il pio strumento: l'aratro. E vedi CATULLO, Carm., LXIV, 42: •squalida desertis rubigo infertur aratris•; brevi: appena iniziati. 112. sdegnato: spregiato. 116. squallide: incolte, trascurate. 118. Con .•. rote: con le ruote immerse a metà nel mare, e quindi prossima ad uscirne. 120. molli: agili. LE GRAZIE (1803-1822) • INNO PRIMO Nettunine. Spontanee s'aggiogarono alla biga gentil due delle cerve che ne' boschi dittei schive di nozze Cintia a' freni educava; e poi che dome aveale a' cocchi suoi, pasceano immuni di mortale saetta. Ivi per sorte vagolando fuggiasche eran venute le avventurose, e corsero ministre al viaggio di Venere. Improvvisa Iri che segue i Zefiri col volo s'assise auriga, e drizzò il corso all'istmo del Laconio paese. Ancor Citera del golfo intorno non sedea regina; dove or miri le vele alte sull'onda pendea negra una selva, ed esiliato 125 130 135 121. Nettuni11e: le Nereidi, abitatrici del regno di Nettuno. 122. due . •• cerve: nelle citate Note foscoliane si legge: •Le cerve di Diana al carro di Venere indicano Parte della caccia che cede a studi più umani• (CHIARINI, p. 316). 123. boschi dittei: boschi del monte Diete, nell'isola di Creta; schi'Ve di nozze: vergini. 124. Cintia: Diana, cosi detta per essere nata, da Giove e da Latona, sulle pendici del monte Cinto nell'isola di Dclo; a' freni: alle redini. 125-6. immuni ••• saetta: invulnerabili, al riparo da frecce umane. 126. per sorte: a caso. 127. vagolando: vedi Sepolcri, 70-1 1 a p. 303: • Forse tu fra plebei tumuli guardi / vagolando [...] •; fuggiasche: da Diana. 128. avtJenturose: fortunate, per la ventura di essere aggiogate al carro di Venere; ministre: guida. 129-32. lmproooisa • •. paese: nelle citate Note foscoliane si legge: • Iride è presagio fausto di pace e di serenità. - Nell'istmo che congiungeva Citera alla Laconia, e che fu sommerso nel mare, si spiega il fenomeno di quella specie d'isole vicine al continente• (CHIARINI, p. 316). 131. drizzò: indirizzò; istmo: che univa Citcra alltestrema propaggine della Laconia. 132. Laconio paese: la Laconia, regione greca del Peloponneso, di cui era capitale Sparta. 132-43. Ancor ..• sommersa: scrive il FOSCOLO nella Dissertazione:« "Citèra non era ancor circondata dalle onde del mare: perché là, dove ora noi vediamo le navi spander le vele ai venti, i nostri maggiori vedeano una negra foresta stendersi coll'ombra sua". "Di là il culto degli Dei era sbandito, i figli della terra si guerreggiavano l'un l'altro a morte; e il superstite vincitore focea convito delle membra del caduto nemico. Come prima quei selvaggi ebber visto il carro delle Grazie e della madre, mandarono orrende grida e misero mano ai ferri. La Dea stringendosi al seno le giovinette figlie trepidanti e coprendole del suo velo gridò: - Sommergiti, o foresta I - e di subito la foresta e il terreno onde era surta e che allora congiungeva Citèra al continente della Laconia, disparve e fece via al mare"» (vedi Appendice prima, v111, alle pp. 505-6). 134. alte: spiegate. 135. esiliato: escluso. 27 POESIE n•era ogni Dio da' figli della terra duellanti a predarsi: e i vincitori d'umane carni s'imbandian convito. Videro il cocchio e misero un ruggito, palleggiando la clava. Al petto strinse 140 sotto il suo manto accolte, le tremanti sue giovinette, e: Ti sommergi, o selva! Venere disse, e fu sommersa. Ahi tali forse eran tutti i primi avi dell'uomo! Quindi in noi serpe, ahi miseri, un natio 145 delirar di battaglia, e se pietose nel placano le Dee, spesso riarde ostentando trofeo l'ossa fraterne. Ch'io non le veggia almeno or che in Italia fra le messi biancheggiano insepolte( 150 137. duellanti a predarsi: unicamente intesi a combattere, per spogliarsi dei propri averi. Nelle citate Note foscoliane si legge: « I selvaggi senza religione e antropofagi indomabili dalle Grazie, e sterminati a un cenno di Venere, alludono alle nazioni come sono quelle dell'India settentrionale, che sdegnando l'agricoltura e le leggi sociali, si vanno disperdendo fra loro, e dalla fame e da molta miseria. - Vedi i viaggiatori dell'India settentrionale, e intorno al fiume Orenoco. - Pare che l'autore supponga l'uomo naturalmente guerriero; e così lo definì altrove (Origine e ufficio della letterat.); e che questa sua tendenza sia moderata dalla religione, daH'incivilimento e dalle arti n (CHIARINI, p. 316). 140. palleggiando la clava: nota il MARTINETTI: «Di questo verbo usa l'Autore tre volte nella vers. dell'Iliade, e il fa corrispondere a 1tcxlle~v (111, 19), ixxovTlCeLv (1v, 596), civix1tffieLv (vn, 244); dove il Monti ha guizzare, librare, bilanciare. Ma mxÀÀeLv è tradotto pure da esso con palleggiare (v1, 474: x1, 212: XVI, 142: XIX, 389), e cosi vwµ.<'iv (v, 594); e palleggiare la clava altro non suona che maneggiarla speditamente e gagliardamente». 143-4. Ahi ... t1omo!: vedi la nota al v. 137, in fine. 145. Qui,,di: però; serpe: serpeggia; natio: originale. 146. delirar di battaglia: vale "delirare battaglie" in accezione transitiva. 146-8. e . . . fraterne: e se pure le Grazie, impietosite della sorte dei mortali, intervengono a placare il delirar di battaglia, sovente questo riarde ecc. 147. nel placano: nota il FERRAR!: «Il Chiarini, Vigo, p. 75, avvertl come tutti i Ms. chiaramente abbiano Nel (e nel ha la Dissert.), ma che l'Orlandini e tutti gli editori che lo precedettero stamparono Noi (Clb. [Calbo] tuttavia ha Nel). E che il senso dia ragione al Chiarini si comprova colle lez. var. (cfr. Chiarini, Vigo, 95-96). Miseri! placarlo (quel desio] Pui> il Cielo, ma o"ibile riarde/ Miseri, talvolta Nel placano le Dee, ma più funesto Risorge». 149-50. Ch'io ••• insepolte!: vedi i vv. 6-7, e 239-43, e Inno secondo, la nota al v. 350. LE GRAZIE (1803-1822) • INNO PRIMO 419 Il bel cocchio vegnente, e il doloroso premio de' lor vicini arti più miti persuase a' Laconi. Eran da prima per l'intentata selva e l'oceano dalla Grecia divisi; e quando eretta 155 agli ospitali Numi ebbero un'ara, vider tosto le pompe e le amorose gare e i regi conviti; e d'ogni parte correan d'Asia i guerrieri e i prenci argivi alla reggia di Leda. Ah non ti fossi 16o irato Amori e ben di te sovente io mi dorrò dacché le Grazie affliggi. Per te all'arti eleganti ed a' felici ozi per te lascivi affetti, e molli ozi, e spergiuri a' Greci, e poi la dura 165 vita, e nude a sudar nella palestra le fanciulle .•. onde salvarsi Amor da te. Ma quando eri per anche delle Grazie non invido fratello Sparta fioriva. Qui di Fare il golfo 170 151. J/ ••• vegnente: il sopravvenire del cocchio di Venere. 151-2. e ... premio: vedi i vv. 142-3. 152-3. arti ••• Laconi: indussero gli Spartani a praticare arti più miti. 154. iritentata: dagli altri Greci. 155-60. e • .• Leda: nelle citate Note foscoliane si legge: «Dipinge il paese qual era a' tempi .•••..... quale si vede oggi nella sua topografia, e quanto a' costumi quale era a' tempi di Leda quando la corte di Sparta era elegantissima, e vi concorrevano tutti i principi della Grecia» (CHIARINI, pp. 316-7). 158- 9. e .•• argivi: i pretendenti di Elena. 160. Leda: moglie di Tìndareo, da Giove convertito in cigno, generò Elena, Clitemncstra e i Dioscuri (Castore e Polluce). 160-1. Ah ... Amor!: adirato con le Grazie, indusse Elena a commettere adulterio, fuggendo con Paride. Nelle citate Note foscoliane si legge infatti: «La sua decadenza [di Sparto] nelle arti eleganti è ascritta all'adulterio d'Elena, perché le Grazie sono protettrici dell'amor coniugale• (CHIARINI, p. J17). 163-8. Per • •• te: per tua causa alle arti eleganti e ai felici/ ozi divenuti rispettivamente lascivi affetti e 1110/li I ozi, seguitarono spergiuri a' Greci, la dura I vita ecc. 165. spergir,rì a' Greci: si allude a Paride che tradl l'ospitalità offertagli dn Menelao, marito di Elena. 165-6. e ..• vita: l'educazione spartana. 167-8. onde . .. te: per preservarsi dai tuoi nocivi affetti. 168. eri: Amore. 169. i1ttJido: invidioso del loro potere. 170. Fare: città della Laconia, situata a mezzogiorno di Sparta, non lontano dall'Eurota. 170-8. Qui .•• divina: il passo deriva da OMERO, Il., II, 582-5, cosl tradotto dal FoscoLo nel 1814: •[...] Qui di Fare è il golfo / 420 POESIE cinto d'armoniosi antri a' delfini qui Sparta e le fluenti dell'Eurota grate a' cigni; e Messene offria secura ne' suoi boschetti alle tortore i nidi; qui d'Augia 'l pelaghetto, inviolato al pescator, da che di mirti ombrato era lavacro al bel corpo di Leda e della sua figlia divina. E Amide terra di fiori non bastava ai serti delle vergini spose; dal paese venian cantando i giovani alle nozze. Non de' destrieri nitidi l'amore li rattenne, non Laa che fra tre monti 17S 180 riscintillante placido alla luna / qui <è> Sparta, e le fluenti dell'Eurota / grate a' cigni; qui Messa offre fecondi / ne' suoi boschetti alle colombe i nidi; / qui è d'Augia il pelaghetto inviolato / al pescator da che Nettuno il vieta; / e non lunge è Brisea donde il propinquo / Taigeto intende strepitar l'arcano / tripudio e i riti onde il femmineo coro / placa Lièo. Lasciarono i garzoni / lagrimose le vergini in Amide / terra di fiori; né la spiaggia Elòa / li rattenne, né Làa che fra tre monti / ama le cacce e i riti di Diana» ecc. (Edizione Nazionale, 111, parte I, p. 307). 171. cinto .. . delfini: nota il MARTINETTI: 11 ai quali antri corrono i delfini, attirati dalle armonie, prodotte o dai venti, o dalle onde in essi rifrangentisi, o dall'Eco che ripete i pastorali accenti. - È nota la favolosa passione dei delfini per la musica; e si legge di Arionc che gettato da ladre mani in mare, fu salvo da un delfino che era accorso alle sue armonie». r 72. le fluenti: le correnti dcll'Eurota, sulle cui sponde Leda fu violata da Giove. 173. grate a' cigni: perché soggiorno di Giove, convertito in cigno. 173-4. e . .. nidi: vedi il passo dell'Iliade riportato in nota ai vv. 170-8: « [ •••] qui Messo offre fecondi / ne' suoi boschetti alle colombe i nidi». 175. Augia: Egla, città della Laconia meridionale; inviolato: "sacro", per la ragione esposta ai vv. 177-8. 178. figlia divina: Elena, figlia di Giove; Amicle: città della Laconia, sita sull'Eurota, tra Sparta e Fare. 180-5. dal • •• pesce: vedi CATULLO, Cann., LXIV, 32-42: «advencrc, domum conventu tota frequentat / Thessalia, oppletur laetanti regia coetu: / dona ferunt prae se, declarant gaudia vultu. / Deseritur Scyros, linquunt Phthiotica Tempe, / Crannosisque domos ac mocnia Larisaea, / Pharsaliam coeunt, Pharsalia tecta frequentant. / Rura colit nemo, mollescunt colla iuvencis, / non humilis curvis purgatur vinea rastris, / non glebam prono convellit vomere taurus, / non falx attenuat frondatorum arboris umbram, / squalida desertis rubigo infertur aratris » (MARTINETTI). 1 So. dal paese: dai luoghi circostanti. 182. nitidi: dal pelo lucente. 183. Laa: Las, città situata sulla costa occidentale del golfo di Laconia; tre monti: Asia, Ilium, Cnaca- dium. LE GRAZIE (1803-1822) · INNO PRIMO 421 ama le caccie e i riti di Diana, né la maremma Elea ricca di pesce. 185 E non lunge è Brisea, donde il propinquo Taigeto intese strepitar l'arcano tripudio, e i riti, onde il femmineo coro placò Lieo, e intercedean le Grazie. [Dopo la descrizione del viaggio delle Dee in ccArcadia» e gli episodi di «Pane » e di «Calliroe e Ifianea• », il poeta ·chiede alle Grazie che gli dicano ove ebbero il primo altare] Ma dove, o caste Dee, ditemi dove la prima ara vi piacque, onde se invano or la chieggio alla terra, almen l'antica religione del bel loco io senta. Tutte velate, procedendo all'alta Dorio che di lontan gli Arcadi vede, 190 195 185. maremma Elea: la palude di Elo, città prossima alla foce dell'Eurota. 186-9. E . •. Grazie: non lontano è la città di Brisea (celebre per un tempio sacro a Bacco), dalla quale il Taigeto (catena montuosa tra la Laconia e la Messenia) udiva l"arcano tripudio delle donne (che sole avevano accesso nel tempio, donde arcano), grazie al quale, con l'intercessione delle Grazie, esse placavano Bacco. - •Nota il FERRARI: aAppunti in prosa di questi pezzi e qualche luogo versificato, puoi vedere in Chiarini, p. 360-62. Forse non è l'ultimo disegno definitivo: in ogni modo ecco il riassunto ..Apparvero [le Grazie in ARCADIA] nel mezzo del terror pànico. - Descrizione - causa. - Vedono gente e una donzella: chi fosse: sta per cadere: Pane è presente e suona terribilmente la zampogna; vede le Grazie e le mira con occhi maliziosi e ridenti, e i suoi labbri scorrono su la zampogna più lentamente, e n'escono suoni soavissimi. La fanciulla è liberata. Sua vita e sua offerta prima all'ara delle Grazie"•· 190-1. dove ••. piacque: dove vi fu dapprima innalzata un'ara. 191-2. invano • •• te"a: se inutilmente oggi la ricerco, in quanto d'essa non è più traccia. 194-6. Tutte •• • Trio: in un appunto relativo al Sommario secondo, si legge: a 10. Velate sempre [le Grazie] ivano in Tessaglia e su l'Olimpo. Scendono e vedono il mare; però che Pane d'Arcadia di qui dapertutto andava per la Grecia il terror panico; e sacrificavano vergini innocenti; là lfianea voleva perire ma cadere modestamente. Le Grazie la salvarono e la fecero preside del decoro, e ripassando da quelli Iride toccò il fiume Titaresio. Non più sacrificii di sangue. Ditemi; ..•• Pane le seguiva, e le andava guardando, e ritraeva dolcezza ne' versi, e seguiva a passi eguali le Dee, e a Trio l'Alfeo rimosse l'onde• (CHIARINI, p. 127). 194. procedendo: dalla Laconia all'Arcadia. r 95. Dorio: luogo citato da OMERO, Il., n, 594-5: [•••] xcxl ~61pLov, lv&« u Mouattoto 1t6pov (uguado deJPAlfeo»); e così pure traduce il FoscoLo nel 1814 (vedi Edizione Nazionale, III, parte I, p. 308). 197. arretrò l'onda: vedi l\1oNTI, Bassvilliana, IV, 86-7: u [ •••] cd arretrò la Senna / le sue correnti stupefatte e mute n. 200-1. sentirono ••. celeste: vedi Appendice, 1, 1-3, a p. 477: «Odorata spirar [..•] sentiano »; ed inoltre il sonetto E tu ne' carmi avrai pere1,ne vita, 14 (a spirar ambrosia l'aure innamorate»), e la nota relativa, a p. 233. 202-8. De' ... Grazie: la toponomastica di OMERO, Il., n, 511, è così ampliata e tradotta dal FOSCOLO nel 1814: «De' Beòti al confin siede Aspledòne / città che l'aureo sol veste di luce / quando scende all'occaso. Indi non lunge / sta su l'immensa Miniea pianura / la beata Orcomèno ove le Grazie / belle regine odon propizie gl'inni n (Edizione Nazionale, III, parte 11 p. 299). 202. Aspledo,re: città situata presso le rive settentrionali della palude Cefisia. Nota il MARTINETTI: I( STRAD., [Geogr.], I. 9, [2]. Alcuni chiamano Asp/edone, tolta la prima lettera Spledone; e dappoi, mutato il nome, chiamarono la città cd il territorio Eudielo, che, cioè, gode di bel crepuscolo n. 203. veste di luce: vedi Sepolcri, 168, a p. 314: «Lieta dcll'aer tuo veste la Luna». 205•6. mi11iea . •• Orcome110: Orcomcno, città della Beozia, milriea, come in OMERO, Il., 11, su, da Minia, re di quella regione, e padre di Orcomeno, fondatore dell'omonima città. Nota il FERRARI: «Strabone nel lib. IX dice che Etèoclc figlio del fiume Cefiso, dedicasse il primo altare alle Grazie presso il fonte Acidalio [.•.] >1• 209- 13. Cosi .•. Febo: nei Frammenti vari si legge: «Al nascere delle Grazie, fecondando di amabili immagini la fantasia, [si] popolò il mare di Nerei• di, e i boschi di Ninfe (.•.] n (CHIARINI, p. 125). LE GRAZIE (1803-1822) • INNO PRIMO vider la Deità furon beati, e di Driadi col nome e di Silvani fur compagni di Febo. Oggi le umane orme evitando, e de' poeti il volgo, che con lira inesperta a sé li chiama, invisibili e muti per le selve tacquero. Come quando esce un'Erinne a gioir delle terre arse dal verno, 423 215 212. Driadi: da 3pur; (quercia), ninfe che mai si allontanavano dagli alberi da loro custoditi; Silvani: da Silvano, dio italico, protettore dei boschi, delle piantagioni, dei campi e dei giardini, assimilato sovente col Pan ellenico. Venerato da pastori e contadini, ogni cascina possedeva tre immagini, corrispondenti a tre aspetti del dio: domesticiu, agrestis e orientalis (della casa, del podere e dei confini). 213-7. Oggi .•. tacquero: oggi appartati, evitando di mescolarsi alla turba dei poeti, che li invocano rozzamente, tacciono nascosti nelle selve. L'allusione, come poi risulta con maggiore evidenza dai versi seguenti (217-43), riguarda la predilezione romantica per la mitologia delle saghe nordiche. Scriveva infatti il FOSCOLO nelle Lettere dall'lngliilte"a: • Intanto i nostri giovani poeti svogliati delle Muse, delle Grazie, e di tutte le Deità dell'Olimpo, e sdegnati anche delle fantasie romanzesche dell'Ariosto, cavalcano i destrieri nuvolosi di Odino; e rompono lance in onore della poésie romantique •, e aggiunge, dopo avere riportata la descrizione pariniana della notte: « Il poeta che dipingeva sl da maestro gli spauracchi di que' castelli non prevedeva nella sua patria deriso il Parnaso abitato dalle Muse - derisa l'amena Tempe popolata di Grazie e di Ninfe - derisi i Genii e i Numi d'Olimpo, e celebrate le rovine de' castelli teutonici. Ei già vecchio settuagenario raccomandavami: uNon ti dipartire, o giovinetto da' Greci che hanno insegnato a' Latini, né dai Latini che insegnano a noi a sentire la bella natura - sl mirabile a un tempo ed amabile nel nostro clima - e a raccorre da essa le immaginazioni che danno alla terra la luce eternn del cielo" » (Edizione Nazionale, v, pp. 359-60, e nota ba p. 360). 217-43. Come . •. incompianti: nota il FERRARI: • Pare che il pezzo si leghi coll'antecedente mediante il verbo tacere sottint.: Come tacciono quando cc. - Alla lettera qui il poeta descrive un'aurora boreale, che egli chiama Erinne, cio è Furia, ne' suoi effetti pittorici e in relazione colla fantasia popolare. Le fonti di questo pezzo sono da ricercarsi in Antonio Conti, che nel tom. 1 delle Opere, già cit., [Prose e poesie del sig,ior abate ANTONIO CONTI, Venezia, Pasquali, 1739-1756, voli. z, 1], a pag. LXVIII scrisse da scienziato le Rijlessio11i sull'aurora boreale, e a pag. cxxiv e seg. tentò di trattarne poeticamente riferendosi ad un'aurora boreale "agitatissima" vista de lui in Londra il 1716 •· 217. Erinne: le Erinni, divinità infernali, secondo Esiodo nate dal sangue del mutilato Urano, secondo Eschilo figlie della Notte, e secondo Sofocle della Terra e del Buio. Omero ne menziona or una ora parecchie ma senza precisarne il numero o i nomi. In età alessandrina ebbero la precisa denominazione di Aletto C-'colei che mai riposa"), Tisifone C'ultrice dell'omicidio") e Megera ("l'invidiosa"). 218-23. a ... aspira: si compiace malvagiamente dello spettacolo della terra sterile per i lunghi inverni, si bagna nelle esecrate (perché di origine POESIE maligna, e lava le sue membra a' fonti dell'Islanda esecrati, ove più tristi fuman sulfuree l'acque; o a groelandi laghi lambiti di cerulee vampe, le tede alluma, e al ciel sereno aspira; finge perfida pria roseo splendore, e lei deluse appellano col vago nome di boreale alba le genti ; quella scorre, le nuvole in Chimere orrende, e in imminenti armi converte fiammeggianti; e calar senti per l'aura dal muto nembo l'aquile agitate, che veggion nel lor regno angui, e sedenti leoni, e ulular l'ombre de' lupi. 220 225 230 infernale) acque sulfuree dell'Islanda, o nei laghi della Groenlandia, lambiti da vampe di fuoco, perché d'origine vulcanica, e accese le fiaccole, l'innalza verso il cielo. 219-21. a' •.. acque: nota il FERRARI: •A. Conti, Rijless. [op. cit., p. LXX]. "La miniera del zolfo che nutrisce l'Ecla nell'Islanda, e le sue diramazioni per tutto il terreno dell'Isola, germogliano que' cespi bituminosi, che gli abitanti adoprano per riscaldarsi. Vi sono in quest'Isola fontane calde che dove sgorgano, e cadono, impresse lasciano orme sulfuree; .•. laghi che sempre fumano, fochi fatui, che continuamente qua e là vanno vagando" 11. 221-2. o ... laghi: nota il FERRARI: «A. Conti,/. c. (op. cit., p. LXX] "Nella Groelandia pure si ritrovano montagne e sotterranei ardenti, e non mancano a' Lapponi più alti de' bagni sl caldi, che non si possono soffrire l'inverno"». 222. cerulee: scure, nerastre. 225. deluse: illuse. 227-32. quella ..• lupi: nota il FERRARI: « Allude al fatto che fra le nubi si veggono delle strisce delle fasce delle code, come scrive il Conti, che porgono occasione di paurose fantasie al popolo. Il Conti - poesia cit. alla nota [217-43]: "D'orror di meraviglia / la popolosa Londra alzò le ciglia / allor che dopo del Tamigi il gelo / tante fiamme a volar vide nel cielo. / Densa notte il copria / ad Occidente e verso Borea uscia / come da vasto e spalancato grembo, / di crinite comete un aureo nembo, / che per l'aere fischiando / or Iridi, or Parelii iva stampando: / s'inostra il Ciel, par che d'incendio avvampi, / ed in faville si disciolga e in lampi. / La luce è tanto grande, / tant'alto vola, si raggira e sponde, / che furo ancor ne la Germania viste / l'argcntee volte, e le vermiglie liste. / Il vulgo in un le mesce, / e co' fantasmi il suo terrore accresce; / pargli veder eserciti schierati / e conta i Duci, e i Cavalieri armati"• (op. cit., pp. cxxiv-cxxv). 227. Chimere: secondo Omero la Chimera aveva il busto di leone, il torso di capra, la coda di serpente e vomitava fuoco; fu da Esiodo detta figlio del mostro femminile Echidna e del gigante Tifone. Gli antichi la ritenevano la personificazione dei fenomeni vulcanici. 228. imminenti: sovrastanti (la terra). E vedi Inno secondo, 130. 232. ulular: retto da veggion del verso precedente. E vedi Sepolcri, 80, a p. 304: • su le fosse e famelica ululando •· LE GRAZIE (1803·1822) • INNO PRIMO lnnondati di sangue errano al guardo della città i pianeti, e van raggiando timidamente per l'aereo caos; tutta d'incendio la celeste volta s'infiamma, e sotto a quell'infausta luce rosseggia immensa l'iperborea terra. Quinci l'invida Dea gl'inseminati campi mira, e dal gelido oceano a' nocchieri conteso; ed oggi forse per la Scizia calpesta armi e vessilli, e d'itali guerrier corpi incompianti. 235 [Parrebbe che qui dovesse seguire il pezzo di cc Socrate che viene con Aspasia e i suoi discepoli all'ara•» delle Grazie. - Intanto le Dee seguitano il loro viaggio a piedi guidate da Venere, e mentre Iride riconduce a Diana in Creta il cocchio e le cerve, esse salgono il monte Ida] E solette radean lievi le falde 233. lnnondati di sangue: sanguigni. 233•4. errano • •• pianeti: sembrano sottrarsi alla vista della terra. 235. aereo caos: atmosfera perturbata. Nota il FERRARI: • Il Conti pure Rijless. [op. cit., p. L"). Giungono le api in Italia seguendo le Muse cacciate dai Tartari] 163. cure: affanni. 165-6. ma •. . affetti: l'eloquenza che induce affetti propri alla natura delle Grazie. 167. pia con: reverente verso. 174. Padre: Giove. 175. l'aquila: dispensatrice dei fulmini di Giove. - • Nota il FERRARI: « Qui, nel Sommario séguita l'argomento cancellato e frammentario, di un nuovo gruppo di versi, che puoi vedere in Chiarini. Le parole che ho messe in fine dopo le virgolette, non sono mie, ma del Foscolo stesso (Chiarini, Vigo, p. CLXXVI); e le ho preferite a queJle del Sommario [vedi 12, a p. 406], perché meglio collegano il senso. - Il Chiarini poi accolse ancora nel testo questi due gruppi di vv., i quali pure non sono nel Quadern., ma in altro Ms. (Parla dei poeti greci; e nel secondo, particolarmente di Saffo): "Dite, o garzoni, a chi mortale, e voi, Donzelle, dite a qual fan.. ciulla un giorno Più di quel mèl le Dee furon cortesi. N'ebbe primiero un cieco; e sullo scudo Di Vulcano mirò moversi il mondo, E l'alto Ilio dirùto, e per l'ignoto Pelago la solinga itaca vela, E tutto Olimpo gli s'aprì alla mente, E Cipria vide e delle Grazie il cinto. Ma quando quel sapor venne a Corinna Sul labbro, vinse tra l'e]ee quadrighe Di Pindaro i destrier, benché Elicona Li dissetasse, e li pascea di foca Eolo, e prenunzia un'aquila correva, E de' suoi freni li adornava il Sole. . •. Di quel mèl la fragranza errò improvvisa Sul talamo all'eolia fanciulla, E il cor dal petto le balzò e la lira: Ed aggiogando i passeri, scendea Venere dall'Olimpo, e delle sue Ambrosie dita le tergeva il pianto"•· POESIE Indarno !metto le richiama dal di che a fior dell'onda Egea, beate volatrici, il coro Eliconio seguieno, obbedienti ali'elegia del fuggitivo Apollo. Però che quando su la Grecia inerte Marte sfrenò le tartare cavalle depredatrici, e coronò la schiatta barbara d'Ottomano, allor l'Italia fu giardino alle Muse, e qui lo stuolo fabro dell'aureo mel pose a sua prole il felice alvear. Né le Febee api (sebben le altre api abbia crudeli) fuggono i lai della invisibil Ninfa, che ognor delusa d'amorosa speme, 18o 18s IC)O 176. ]metto: monte a oriente di Atene, famoso per la qualità del suo miele; equivale a Grecia. 177. /e: le api. 177-8. a .•. Egea: sorvolando il mare Egeo. 178-9. il ... Eliconio: le Muse. 179-80. obbedienti ••. Apollo: obbedienti al comando, espresso mestamente da Apollo, che se ne fuggiva dalla Grecia. 181. inerte: imbelle. 182. Marte: la guerra. 182-3. le • •• depredatrici: la cavalleria tartara, al servizio dei Turchi di Maometto Il, che nel 1453 espugnò Costantinopoli, ponendo così fine all'Impero d'Oriente. 183-4. e • •• Ottomano: e fece signore della Grecia Maometto II. 185-6. lo . •. mel: le api; fabro: artefice. 186-7. pose ••• alvear: depose a favore dei futuri poeti italiani (a sua prole), il fecondo (felice) alveare. 187-8. Febee api: le api di Apollo. 188. /e altre: le api mortali; abbia crudeli: l'invisibil Ninfa del verso seguente, abbia avverse. Anche Vmmuo, Georg., IV, 49-50, consiglia il cultore di non lasciare le api: a[..•] ubi concava pulsu / saxa sonant vocisque offensa resultat imago » (FERRARI). Sostanzialmente ricalcato dal RucELLAI nelle Api, 12-9: «Tu sai pur che l'immagin de la voce, / che risponde dai sassi ov'Ecco alberga, / sempre nimica fu del nostro regno: / non sai tu ch'ella fu conversa in pietra, / e fu inventrice de le prime rime? / E dei saper ch'ove abito costei, / null'ape abitar può per l'importuno / cd imperfetto suo parlar loquace» (FERRARI). 189. lai: lamenti; invisibil Ninfa: Eco, ninfa oreade, innamoratasi, senza essere corrisposta, di Narciso, per il dolore, non restando altro che la voce, assimilata dall'aria (però invisibil). Personifica il fenomeno acustico omonimo, qui .figuratamente usato o designare la rima. Tra le varie tradizioni del mito, il Foscolo segue quella fissata da Ov1010, Metam., 111, 356-401. LE GRAZIE (1803-1822) • INNO SECONDO 443 pur geme per le quete aure diffusa, e il suo altero nemico ama e richiama; tanta dolcezza infusero le Grazie, per pietà della Ninfa, alle sue voci, che le lor api immemori dell'opra, 195 oziose in Italia odono l'eco che.al par de' carmi fe' dolce la rima. [« Nel lor viaggio si dividono le api in due schiere - Una per l'Adria viene al Po >1] Quell'angelette scesero da prima ove assai preda di torrenti al mare porta Eridano. Ivi la fata Alcina di lor sorti presaga avea disperso molti agresti amaranti; e lungo il fiume 200 191. diffusa: disciolta. 192. altero nemico: Narciso, figlio di Cefiso e di Liriope, innamoratosi della propria immagine, e però impossibilitato ad amare altri che sé stesso, come è narrato in OVIDIO, Metam., III, 339-510; altero: sprezzante; ama e ricl,iama: osserva il NATALI: «Nota, in questo passo [190-2] su la rima, rime interne e contigue: delusa e diffusa, speme e geme, ama e richiama». L'artificio è già presente nel RucELLAI, Le Api, 16: «e fu inventrice de le prime rime• (FERRARI). 193-7. tanta ••• rima: tanta dolcezza, impietosite per la sorte della ninfa, concedettero le Grazie ai suoi lamenti, che le loro api odono risonare la nuova poesia, fondata sulla rima, altrettanto dolcemente dell'antica, che ne era priva. 195. immemori deltopra: della fabbricazione del miele. 198. angelette: perché alate. E vedi RucELLAI, Le Api, 3: •vaghe angelette de le erbose rive•(FERRARI). 199.. 200. ove ••• Eridano: a Ferrara, alle foci del Po. 199. assai ••. to"enti: le acque, e quanto esse trascinano seco, degli affluenti. 200. Eridano: nome mitico e poetico del fiume Padus (Po); Alcina: sulla scorta di ARIOSTO, Ori. /ur., v1-v11 ex, qui addotta come simbolo della poesia romanzesca. 201. di ••• presaga: prevedendo che le api avrebbero quivi sostato; disperso: sparso variamente. 202-4. e ... la11ri: allude all'Orlando innamorato del B01Aa.. DO, relativamente al quale nell'articolo Narrativeand Roma,itic Poems of the ltalians (del quale, oltre al testo inglese pubblicato in rivista, possediamo anche la redazione originale su cui quella venne condotta, stesa in lingua francese, qui nel tomo u), il FoscoLo scriveva: •Mais lcs monstres les géants et les enchantcments sont si multipliés, si nouvellement circonstanciés, et sont présentés avec tant de profusion inépuisables d'imagination et d'omémens, que tandis qu'ils fatiguent, ils étonnent; et le lecteur avoue qu'aucun poete n'avoit reçu autant de pouvoir d'invention que Boiardo». 202. mal.. 444 POESIE gran ciel prendea con negre ombre un'incolta selva di lauri: su' lor tronchi Atlante di Ruggiero scrivea gli avi e le imprese, e di spettri guerrier muta una schiera e donne innamorate ivan col mago, aspettando il cantor; e questi i favi 205 ti ... amaranti: più che «[...] le grazie ingenue dello stile boiardesco 11, secondo intende il NATALI, meno specificamente, con il FERRARI, si può ritenere che «[.•.] negli agresti amaranti si raffigurino le grazie dello stile precipuamente, o in quanto fossero in quei poemetti ove "i novellatori propagavano la lingua comune arricchita delle parole necessarie a descrivere dame ec. e accostwnavano - il popolo - a una lingua meno volgare1 ' (Foscolo Sulla ling. ital. Disc. v), o in quanto si trovassero nel Boiardo, o in questo e in quelli insieme». Scrive infatti il FoscoLo nelle Epoche della lingr,a italiana, Epoca quinta dall'anno r400 al r500: «Erano i novellatori e narratori delle lunghe storie miracolose di Carlo Magno, celebrate sino dal secolo undecimo in leggende d'ogni maniera, e soprattutto dal romanzo attribuito all'Arcivescovo Turpino, e che allora passava per autentico. Tutte le meraviglie ch'oggi leggiamo ne' romanzi e poemi che hanno per soggetto i Paladini erano allora raccontate al popolo da novellatori, e quest'uso rimase in alcune città, e specialmente in Venezia e in Napoli sino a questi ultimi anni [...]. Or i novellatori essendo anch'essi per lo più itineranti nel Medio Evo propagavano la lingua comune arricchita delle parole necessarie a descrivere dame, cavalieri erranti, guerre e imprese di giganti e di fiere, palazzi reali e incantati; e aprendo alla immaginazione del popolo nuovi mondi, lo accostumavano a una lingua meno volgare. Poi, nel secolo decimoquinto, mentre la lingua corretta, nobile ed elegante si guastò d1improvviso, i novellatori di Carlo Magno si divisero in due classi. Gli uni continuavano a divertire la loro assemblea su le strade. Gli altri a scrivere quelle meraviglie in rima, e farne poemi lunghissimi interminabili, che non tardarono ad essere cantati in versi, spiegati in prosa, e commentati al volgo in lingua italiana itineraria, come i dotti commentavano in latino dalle lor cattedre la Divina Commedia di Dante» (Edizione Nazionale, XI, parte 1, p.211). 203. gran ciel pendea: grande spazio di cielo occupava; incolta: allude alla frondosità inestricabile dell'intreccio dell'Orlando innamorato. 204. Atlante: mago che si prende cura di Ruggero, progenitore degli Estensi, identificato dal Foscolo con il Boiardo stesso, cantore degli avi e delle imprese dell'eroe sopra menzionato. 207. mago: Atlante. 208-9.favi ••• deposti: deposti sui tronchi (v. 204) dell'incolta/ selva (vv. 203-4). 208. aspettando il cantar: rAriosto. Scrive il FOSCOLO nelle Epoche della lingua italiana, Epoca qui,ita dall'anno r400 al r500: «L'Ariosto poscia non raccontò che le meraviglie celebrate da que1 novellatori plebei, e ricantate in que' barbari poemi; ma scrisse in guisa da lasciare alla posterità modelli di dizione mirabile1 e che vive immortale. Il LE GRAZIE (1803-1822) · INNO SECONDO vide quivi deposti, e si mietea tutti gli allori; ma de' fior d'Alcina più grazioso distillava il mele, e il libò solo un lepido poeta, che insiem narrò d'Angelica gli affanni. Ma non men cara l'api amano l'ombra del sublime cipresso, ove appendea 445 210 215 Boiardo, cinquant'anni innanzi a lui e appunto verso la fine dell'epoca di cui parliamo, era i; e più oltre (pp. 207-8): • E questa capigliatura fulva era la leonina, così dipinta da tutti i poeti latini [...] o fors'anche fu quel dilicato colore tra il nero e l'aureo di cui scrive Ovidio: Amor. 1, eleg. xiv, 9-[12]: Nec tamen ater erat, neque erat tamen aureus illis [ma i/le] Sed, quamvis neuter, mixtus uterq,,e color. Qualem clivosae madidis in vallibus Jdae Ardua direpto cortice cedrw habet •· 57. disarmate: libere dall'armatura. 58. senti ••• celeste: il profumo di ambrosia, indizio della presenza divina. E vedi Appendice prima, 1, 1-3, a p. 477: • Odorata spirar l'aura dai crini / molli ancor per la fresca onda del Xanto, / sentiano i venti, perché venne Apollo•; il sonetto E tu ne' carmi avrai perenne vita, 13-4, a p. 233: a mentr'io sentia dai crin d'oro commosse / spirar ambrosia l'aure innamorate 11; Sepolcri, 128-9, a p. 309: • [..•] una fragranza intorno/ sentia qual d'aura de' beati Elisi». 60. paflrose: timorose di nuocere. 62. discorrenti: fluenti. 63. siccome ••. a11re: secondo lo spirare del vento. 64-5. natie • .• eliconie: i monti dell'Elicona, cntena montuosa della Beozia; natieIcime: perchéTiresia era nato aTebe, in Beozia. LE GRAZIE (1803-1822) • INNO TERZO né per la coronea selva di pioppi guidò a' ludi i garzoni, o alle carole l'anfi'.onie fanciulle; e i capri e i cervi, tenean securi le beote valli, ché non più il dardo suo dritto fischiava; però che la divina ira di Palla al cacciator col cenno onnipotente avvinse i lumi di perpetua notte. Tal destino è ne' fati. Ahi! senza pianto l'uomo non vede la beltà celeste. lii 75 [l\1entre nell'Eliso si facevano i discorsi dei tre ciechi, Pallade tornava per dare alle Grazie il promesso dono. ,, Sua reggia»] Isola è in mezzo all'ocean, là dove sorge più curvo agli astri; immensa terra come è grido vetusto, un dì beata d'eterne messi e di mortali altrice. Invan la chiede all'onde oggi il nocchiero, 66. coronea: di Coronea, città della Beozia, posta sul fianco occidentale del monte Tilfossion. 67. ludi: giochi; carole: danze. 68. anfionie: "tebane"; Anfione, figlio di Giove e di Antiope, con il gemello Zete, divise la signoria di Tebe, dotandola di una rocca, e cingendola di mura che la leggenda vuole sorgessero al suono dolcissimo della sua lira che aveva il potere di smuovere persino le pietre. 69. tenean: abitavano; securi: senza pericolo di venire cacciati; beote: della Beozia. 70. suo: di Tiresia; dritto: infallibile. 71-3. però •.• notte: vedi la nota al v. 55. 73. avvinse ••• notte: tolse per sempre la vista. 76. Isola ••• ocean: Atlantide; là dove: presso l'equatore. 76-7. sorge • •• astri:• lvi essendo la curvatura maggiore. Nel luogo, ndunque, men remoto dagli astri e agli astri più proteso 1> (CHIORBOLI). 77-8. immensa •• •vetusto: scrive Platone nel Timeo:«[.••] era l'isola [Atlantide] più grande che In Libia e l'Asia insieme, donde era passaggio alle altre isole a queHi che viaggiavano di quel tempo, e dalle isole a tutto il continente che è a dirimpetto, che inghirlanda quel vero mare» (PLATONE, Dialoghi volgariz::ati da Francesco Acri, Milano, Libreria Editrice Popolare Italiana, s.a., p. 522). 78. grido tJetusto: antica fama. 79. d'eterne messi: raccolti che non s'interrompono; altrice: alimentatrice. 80. lnvan: scrive PLATONE nel Timeo, cit., pp. 522-3: • Passando poi tempo, facendosi terremoti grandi e diluvii, sopravvcgnendo un dì e una notte molto terribili [...] l'Atlantide isola, somiglian- POESIE or i nostri invocando or dell'avverso polo gli astri; e se illuso è dal desio, mira albeggiar i suoi monti da lunge, e affretta i venti, e per l'antica fama Atlantide l'appella. Ma da Febo detta è Palladio Ciel, da che la santa Palla Minerva agli abitanti irata, cui il ricco suolo e gl'imenei lascivi fean pigri all'arte e sconoscenti a Giove, dentro l'Asia gli espulse, e l'aurea terra cinse di ciel pervio soltanto ai Numi. Onde, qualvolta per desio di stragi si fan guerra i mortali, e alla divina libertà danno impuri ostie di sangue; o danno a prezzo anima e brandi all'ire di tiranni stranieri, o a fera impresa seguon avido re che ad innocenti popoli appresta ceppi e lutto a' suoi; allor concede le Gorgoni a Marte Pallade, e sola tien l'asta paterna 85 95 100 temente inabissando entro il mare, sl sparve. E però ancora presentemente quel pelago non è corso da niuno, ed è inesplorabile; essendo d'impedimento il profondo limo, il quale, al nabissare dell'isola, si scommosse •; ali'onde: che la inghiottirono. 8I -2. or •.. astri: cercandola tanto nell'emisfero artico, che in quello antartico. 82-3. e • •• /unge: allude al fenomeno noto con il nome di Fata Morgana. 82. desio: di ritrovare Atlantide. 83. albeggiar: apparire incerti, come nella luce deWalba. 84. e . .• venti: aiuta la spinta dei venti nella velatura, con la forza dei remi; oppure: • affretta il corso della nave dispiegando le vele ai venti 11 (CHIORBOLI); per . . . fama: vedi la nota ai vv. 77-8. 86. Palladio Ciel: tempio di Minerva. 87. agli: contro. E vedi Sepolcri, 190, a p. J 17: • Irato a' patrii Numi [...] •· 88-9. cui •.• Giove: che la fertilità della terra, e i licenziosi amori, allontanavano dal lavoro (pigri all'arte), e sconoscenti nei confronti di Giove, loro benefattore. 90. aurea: felice. 91. peroio: accessibile. 92. qualvolta: ogni qual volta. 93-4. e ... sang11e: e sacrificano, con mani impure, alla divina libertà vittime umane. 95. o • .• brandi: e si vendono anima e corpo; all'ire: alle contese. 96. /era: nel senso di "ingiusta". 97. avido re: allude probabilmente a Napoleone. 98. ceppi: catene; suoi: popoli. 99. le Gorgoni: Steno, Euriale e Medusa, vergini alate, nnguicrinite, cinte di serpenti, il cui sguardo mutava in pietra. Il capo di Medusa, mozzato da Perseo, ornava l'egida di Minerva. Rappresentano, unitamente a Marte, la guerra di oppressione. 100. sola: solamente; paterna: avuta dal padre Giove. LE GRAZIE (1803-1822) · INNO TERZO 469 con che i regi precorre alla difesa delle leggi e dell'are, e per cui splende a' magnanimi eroi sacro il trionfo. Poi nell'isola sua fugge Minerva, e tutte Dee minori, a cui diè Giove 105 d'esserle care alunne, a ogni gentile studio ammaestra: e quivi casti i balli, quivi son puri i canti, e senza brina i fiori e verdi i prati, ed aureo il giorno sempre, e stellate e limpide le notti. 110 Chiamb d'intorno a sé le Dive, e a tutte comparti l'opre del promesso dono 101-3. co11 ••. trio,ifo: asta con la quale previene i re nella difesa delle istituzioni ci\'ili (leggi), e delle istituzioni religiose (are), così che, grazie a quella, ai generosi campioni che con il suo aiuto hanno intrapreso )a difesa della libertà, può arridere il trionfo, conseguente alla vittoria. 104. nell'isola sua: Atlantide. 105. e ... minori: tutte quante le minori divinità, che di seguito interverranno nell'opera del velo delle Grazie. 105-6. a ••• alunne: destinate da Giove a prestarsi agli insegnamenti di Minerva. 106-7. a • •• studio: a ogni sorta di piacevole disciplina. 108. se11za brina: che ne distrugge la freschezza. 109. a11reo: luminoso, splendido. 111- 203. Chia,,,ò . •• nude: circa il velo, scrive il FoscoLo nella Dissertazione: • Ma come le violente passioni avrebbero distrutte le più miti aspirazioni delle Grazie, sovvenne al poeta l'avventuroso pensiero di proteggere quelle Deità con un velo dagli assalti dcli'Amore, che governa questo globo impetuosamente e da tiranno. È sì trasparente quel velo, che non pur non asconde, ma neanche adombra le bellissime forme; e a guisa di amuleto invisibile le difende dal fuoco delle passioni divoratrici. Di questo velo fu per avventura creduto che altro non fosse se non un simbolo di modestia; ma se si consideri in che modo è descritto, ci è mestieri supporre che nella sua allegoria avvolgcasi un senso più astruso e molteplice• (vedi Appendice prima, v111, a p. 509). Tale allegoria è così spiegata dal MARTINl:.TI"I: • [•••] ad intessere il velo, simbolo della vita umana, vengono prime le Ore, che ci ricordano che il nostro corpo è mortale (l'ordito). Le Parche intraprendono ad animarlo, e le trame raggia11ti ecc. simboleggiano l'immortalità dell'anima. lri, nunzia di pace, impersona la costante, inappagata aspirazione alla felicità dei mortali, mentre Flora è la bellezza, non immune da insidie, se Psiche, allegoria degli inconvenienti cagionati dal piacere, da lei stessa sperimentati, radde11sa la tela, cioè invita a fortificarsi contro quello•· Ancora nota il MARTINETTI: • E le Dee della musica, del ballo, del canto sono conforto a Flora nell'opera; perché queste arti allietano lo spirito e aggiungono alla bellezza; le grate imagini poi che Flora dipinge sono appunto esempi delle care illusioni e delle soavi virtù, le quali ci tengono lontani dalla troppa passione d'Amore•· 111. le DitJe: le Dee mi11ori del v. 105. 112. comparti: assegnò; del • •• dono: del velo, promesso al v. 48. 47° POESIE alle timide Grazie. Ognuna intenta agl'imperii correa: Pallade in mezzo con le azzurre pupille amabilmente signoreggiava il suo virgineo coro. Attenuando i rai aurei del sole, volgeano i fusi nitidi tre nude Ore, e del velo distendean l'ordito. Venner le Parche di purpurei pepli velate e il crin di quercia; e di più trame raggianti, adamantine, al par dell'etra, e fluide e pervie e intatte mai da Morte, trame onde filan degli Dei la vita, le tre presaghe riempiean la spola. Né men dell'altre innamorata, all'apra Iri scese fra' Zefiri; e per l'alto le vaganti accogliea lucide nubi 115 120 125 113-4. intenta agl'imperii: attenta ai comandi. 115. le . .. pupille: tradizionale attributo di Minerva. 117. Attenuando: assottigliando (con il filarli). 118. nitidi: risplendenti, per i rai aurei. J J 8-9. tre ... Ore: come è noto gli antichi dividevano il giorno in tre parti. Circa il numero tre, scrive il FoscoLo nella Dissertazione: • [...] il mistico numero di tre evvi conservato sempre scrupolosamente, tre Grazie, tre Ore, tre Parche sono a parte del lavoro; tre Dee, Pallade, Psiche cd Ebe concorrono nella principal parte dell'opera e in tutti i processi che debbono rendere immortale quel velo, mentre tre altre, Iride, Flora cd Aurora, si adoperano a farne gli adornamenti; ed invece di nove vi sono mentovate solo tre Muse, Tersicore, Talia, Erato» (vedi Appendice prima, VIII, a p, 513). 119. diste11dean: disponevano. 120. le Parche: scrive il FoscoLo nella Dissertazione: •Qui le Parche sono le incomprensibili Deità di Platone, coronate di quercia e avvolte in lunghi manti di porpora[...]» (vedi Appendice prima, VIII, a p. 513). 121-5. e di •.. spola: scrive il FoscoL0 nella Dissertazio11e: ir Le fila dell'ordito son tratte dai raggi del sole e acconcc al telaio dalle Ore; una porzione dello stame interminabile (quello di che il destino fila la vita degli Dei, e che trasparente e flessibile come 1'aria ha di più lo splendore e la durezza del diamante) è messo sulla spola dalle Parche 11 (vedi Appendice prima, VII 1, a p. 509). 122-3. al .. .peroie: flessibili e trasparenti come l'aria (etra). 125.presaghe: che conoscono il futuro. E vedi, a p. 333, la nota del Foscm~o al v. 212 dei Sepolcri. Ì26. innamorata: nel senso specificato meglio dalla seguente variante: aNon men dell'altre gareggiante all'opra / Flora vola, e d'olezzi Iride allegra / passando, e toglie, a variar quel peplo, / l'cteree tinte rugiadose [...] u (CHIARINI, p. 300), 127. Jri: Iride, mcssnggiera degli dèi; fra' Zefiri: fra i venti; per l'alto: ciclo. 128. lucide: rilucenti. LE GRAZIE (1803-1822) • INNO TERZO 471 gareggianti di tinte, e sul telaio pioveale a Flora a effigiar quel velo: 130 e più tinte assumean riso e fragranza e mille volti dalla man di Flora. E tu, Psiche, sedevi e spesso in core, senza aprir labbro, ridicendo «Ahi, quanto gioie promette, e manda pianto Amore!» 135 raddensavi col pettine la tela. E allor faconde di Talia le corde, e Tersicore Dea, che a te dintorno fea tripudio di ballo e ti guardava, eran conforto a' tuoi pensieri e all'apra. 140 Correa limpido insiem d'Erato il canto da quei suoni guidato; e come il canto Flora intendeva, e si pingea con l'ago. Mesci, odorosa Dea, rosee le fila; 129. gareggianti: in splendore. 130. pioveale: usato transitivamente; vedi Inno primo, la nota al v. 255. 130. Flora: vedi Inno secondo, la nota al v. 25. Scrive il FOSCOLO nella Dissertazione: «Iride dà i colori e Flora li moltiplica in mille varietà di tinte e figure, di che eseguire il ricamo, che Erato le detta cantando al suono della lira di Talia » (vedi Appendice prima, VIII, a p. 509); a effigiar: affinché adornasse di figure. 131- 2. e • •• Flora: e le tinte, fomite da Iride, intessute tra di loro per mano di Flora, assumevano splendore (riso), fragranza (quasi illusiva sensazione inerente allo splendore), e molteplici aspetti. 133-5. E .•• Amore: per il mito di Psiche qui rievocato, vedi la nota ai vv.111-203. 136. raddens(lt)i: • Atto proprio delle tessitrici col quale ad ora ad ora aggiustano l'ordito alla voluta densità» (CHIORBOLI). 137. Ta/ia: quarta delle Muse, propriamente musa della poesia comica, qui, genericamente, musa del suono. 138. Tersicore: nona delle Muse; musa della danza. 141. Eroto: sesta delle Muse; musa della poesia erotica e della mimica. 142. e ••• ago: e Flora ricamava (pingea cor, l'ago) così come le dettava il canto. 144. odorosa dea: Flora, odorosa, cioè profumata perché dea dei fiori; rosee: colore competente alla giovinezza, prima nella seriazione foscoliana riferita in nota ai vv. 144-87. 144-87. Mesci ••• vita: così Eroto si rivolge a Flora. Nella Disserta::ione il FoscoLo scrive: « Il ricamo è fatto di gruppi, che rappresentano la gioventù, l'amor coniugale, l'ospitalità, la pietà filiale e la tenerezza materna» (vedi Appendice prima, v111, a p. 509). Quanto ai precedenti storici e alla funzione del ricamo, ancora si legge: a Non è improbabile che le più antiche pitture storiche fossero rappresentate per trapunti nelle vesti. Omero, che non fa mai motto di pittura, parla degli arazzi come di lavori cui venivano avvezze le figlie e le mogli dei re [...].L'espediente cui s'appigliano talora i poeti, di descrivere pitture e sculture storiche, invece di parlare in 472 POESIE e nel mezzo del velo ardita balli, 145 canti fra 'l coro delle sue speranze Giovinezza: percote a spessi tocchi antico un plettro il Tempo; e la danzante discende un clivo onde nessun risale. Le Grazie a' piedi suoi destano fiori, 150 a fiorir sue ghirlande: e quando il biondo crin t'abbandoni e perderai 'l tuo nome, vivran que' fiori, o Giovinezza, e intorno l'urna funerea spireranno odore. Or mesci, amabil Dea, nivee le fila; 155 e ad un lato del velo Espero sorga dal lavor di tue dita; escono errando fra l'ombre e i raggi fuor d'un mirteo bosco due tortorelle mormorando ai baci; mirale occulto un rosignuol, e ascolta 16o silenzioso, e poi canta imenei: fuggono quelle vereconde al bosco. loro propria persona, produce il doppio vantaggio e di variare il tuono della narrativa e d'introdurre episodi con più naturalezza» (vedi Appendice prima, v1111 a p. 512). Così che: u Figure e gruppi non sono descritti dal poeta, ma Flora li disegna ella medesima, e li colorisce ammaestrata da Erato, e pare, mentre noi stiamo ascoltando il canto delle Muse, che quelle figure l'una dopo l'altra sorgano e si muovano innanzi agli occhi nostri» (vedi Appendice prima, vu1, a p. 512). 146. canti ... speranze: il MARTINETTI richiama il seguente passo di una lettera foscoliana a Sigismondo Trechi, del 10 settembre 1812 da Firenze: a[.•.] le speranze vestite di fiori danzano sempre dinanzi a' passi della gioventù 11 (Epistolario, IV, p. 137). 147-9. percote • •• risale: più chiaramente nella seguente variante: a[...] e al suon d'un plettro che pcrcotc il Tempo / la mcnin giù pel clivo della vita 11 (CHIARINI, p. 301). 147. spessi: frequenti. 148. plettro: per metonimia, "lira". 149. clivo: dell'età. 150. desta110: fanno spuntare. 151. a fiorir: per adornare. Vedi Inno primo, 96, e Inno secondo, 394. 151-2. e .•• t'abbandoni: quando, cioè, incanutirai. 154. l'urna funerea: la tomba. 155-62. Or . .. bosco: il quadro rappresenta l'amore coniugale, secondo nella seriazione foscoliana riferita in nota ni vv. 144-87. 155. amabil dea: Flora; nivee: "argentee", come pare convenire oltre che alla purezza dell'amore coniugale, alla luce lunare (per la quale vedi la nota al v. 158). 156. Espero: «è il pianeta della sera, Venere vespertina; al suo apparire gli antichi conducevano la giovine sposa alla casa del marito [...]»(FERRAR!). 157. dal •.• dita: dal tuo ricamo. 158. i raggi: della luna, sulla scorta della seguente variante: • come se n' raggi della luna amico (sic) / per vaghezza de' baci escono a gara / fuor d'una mirtea macchia» (CHIARJNI, p. 303); mirteo: di mirto, pianta sacra a Venere, come le tortorel/e del verso seguente. 160. occa,lto: nascosto. LE GRAZIE (1803-1822) • INNO TERZO Mesci, madre dei fior, lauri alle fila; e sul contrario Iato erri co' specchi dell'alba il sogno; e mandi alle pupille sopite del guerrier miseri i volti della madre e del padre allor che all'are recan lagrime e voti; e quei si desta, e i prigionieri suoi guarda e sospira. Mesci, o Flora gentile! oro alle fila; e il destro lembo istoriato esulti d'un festante convito: il Genio in volta prime coroni agli esuli le tazze. Or libera è la gioia, ilare il biasmo, e candida è la lode. A parte siede bello il silenzio arguto in viso e accenna che non fuggano i motti oltre le soglie. Mesci cerulee, Dea, mesci le fila; 473 175 163-9. Mesci ••. sospira: il quadro rappresenta Pamore filiale, e nella seriazione foscoliana riferita in nota ai vv. 144-87 occupa la penultima sede. 163. madre dei fior: Flora; lauri: convenienti alla dignità dei guerrieri vittoriosi, che solevano incoronarsene. 164. e . •• lato: cioè opposto a quello dove è situato il quadro dell'amore coniugale. 164-8. erri . .. voti: il sogno dell'alba, volgarmente ritenuto più veritiero d'ogni altro, vada intorno (erri) con gli specchi nei quali riflette l'immagine della realtà che presenta al guerriero assopito la figura del dolore dei genitori (che all'are / recan lagrime e voti) dei suoi prigionieri. 170-7. Mesci . .. soglie: il quadro rappresenta l'ospitalità, e nella seriazione foscoliana riferita in nota ai vv. 144-87 occupa la terzultima sede. 170. oro: perché l'ospitalità è prerogativa preziosa, quanto l'oro. 171. destro lembo: del velo. 171-2. istoriato ... convito: sembri esultare per la vivacità della rappresentazione di un allegro banchetto. 172. in volta: andando in giro tra i commensali. 173. esuli: ospiti stranieri. 174. ilare: senza malignità. 175. candida: disinteressata; A parte: appartato. 176-7. e • •• soglie: più chiaramente nella seguente variante: «(•••] in parte siede / bello il silenzio, delle Grazie alunno, / col dito al labbro, e l'altra mano accenna / che non volino i detti oltre le soglie• (CHIARINI, p. 302). 178. cerulee: «Qui prevale il CERULEO, il color del cielo, che sembra voglia richiamare alla sua beatitudine gl'infanti » (NATALI). 178-87. Mesci .• • vita: il quadro rappresenta la tenerezza materna, ultima nella seriazione foscoliana riferita in nota ai vv. 144-87. Scrive il FoscoLo nella' Dissertazione: • Le immagini e la morale del gruppo mentovato per ultimo danno un'idea abbastanza esatta degli altri. "'Unn giovine madre seduta alla culla del suo primo nato, temendo non quei gemiti sieno pronostico di vicina morte, chiama al Cielo con tutta la importunità delle preghiere e delle lagrime. - Oh quanto è felice quella tenera madre chè non sai dice Erato a Flora: eHa non conosce che ai fanciulli è la morte un benefizio, e che i loro pianti sono luttuosi presagi 474 POESIE e pinta il lembo estremo abbia una donna che con l'ombre i silenzi unica veglia; 180 nutre una lampa su la culla, e teme non i vagiti del suo primo infante sien presagi di morte; e in quell'errore non manda a tutto il cielo altro che pianti. Beata! ancor non sa come agli infanti 185 provido è il sonno eterno, e que' vagiti presagi son di dolorosa vita. Come d'Erato al canto ebbe perfetti Flora i trapunti, ghirlandò l'Aurora gli aerei fluttuanti orli del velo 190 d'ignote rose a noi; sol la fragranza, se vicino è un Iddio, scende alla terra. E fra l'altre immortali ultima venne rugiadosa la bionda Ebe, costretti in mille nodi fra le perle i crini, 195 silenzi'osa, e l'anfora converse: e dell'altre la vaga opra fatale rorò d'ambrosia; e fu quel velo eterno. Poi su le tre di Citerea Gemelle tutte le Dive il diffondeano; ed elle 200 tra le fiamme d'amore ivano intatte dei travagli e delle pene a cui l'uomo è nato"» (vedi Appendice prima, VIII, a p. 509). 179. pinta: dipinta; il ••• estremo: il sinistro; vedi il v. 171. 180. che .. , veglia: che nel silenzio della notte, sola, veglia. 181. 11utre: tiene accesa. 182. non: che. 184. a, •. cielo: a tutte le divinità celesti. 188-98. Come •.• eterno: scrive il FOSCOLO nella Dissertazio,re: a Non appena Flora ha finito il ricamo, l'Aurora adorna i lembi del velo con rose, ignote fino allora alla terra, benché i mortali ne avessero sentita la fragranza, indizio d'alcun essere celeste che s'avvicina. Né però il velo era compiuto. Ebe viene tacitamente tra le altre Deità, e dal suo vaso spande ambrosia sulla tela fatale, e la rende incorruttibile» (vedi Appendice prima, VIII, alle pp. 509-10). 188. perfetti: compiuti. 189. i trapunti: i ricami. 190. aerei: lievi, impalpabili. 193. l'altre immortali: divinità che avevano presieduto alla creazione del velo. 194. costretti: raccolti. 196. converse: versò, I 97. dell'altre: le Ore, le Parche, Iride, Flora, Psiche, Talia, Tersicore, Erato, Aurora. 198. rorl> d'ambrosia: irrorò di ambrosia, rendendola incorruttibile. Vedi Sepolcri, 251-2, alle pp. 323-4: 11 [.,.]e l'immortal capo accennando/ piovea dai crini ambrosia su la Ninfa1. 199. tre ••• Gemelle: le Grazie. 200. dijfondeano: distendevano. 201. intatte: vedi la nota ai vv. 111-203. LE GRAZIE (1803-1822) · INNO TERZO a rallegrar la terra; e si velate apparian come pria vergini nude. 475 [Sembra che dovessero seguire le «parole» che Minerva aveva da rivolgere alle Grazie. Poi, l'« Epilogo» seguente] Addio, Grazie: son vostri, e non verranno soli quest'inni a voi, né il vago rito 205 obblieremo di Firenze ai poggi quando ritorni Aprii. L'arpa dorata di novello concento adorneranno, disegneran più amabili carole e più beato manderanno il carme 210 le tre avvenenti ancelle vostre all'ara: e il fonte, e la frondosa ara e i cipressi, e i serti e i favi vi fien sacri, e i cigni votivi, e allegri i giovanili canti e i sospir delle Ninfe. Intanto, o belle, 21s o dell'arcano vergini custodi celesti, un voto del mio core udite. Date candidi giorni a lei che sola, da che più lieti mi fioriano gli anni, m'arse divina d'immortale amore. 220 Sola vive al cor mio cura soave, 202-3. e . .• nude: il velo se le protegge dalle fiamme d'amore, lascia tuttavia trasparire le loro forme. 204-37. Addio •• • sorriso: nota il FERRARI: cr Questo pezzo, che manca nel Quodern., nei manoscritti ultimi lasciati dall'autore, prese il posto di chiusa nell'Inno terzo. [.•.]Per altro, osserva il Chiarini, ancora questa ultima redazione "e tutte le varie lezioni di essa sono cancellate con un frego verticale" ». 209. disegneran: vedi Inno secondo, 433, e la nota relativa. 211. le • •. vostre: Eleonora Nencini, Cornelia Rossi, Maddalena Dignami. 215. o belle: le Grazie. 216. dell'arca110: d1 ogni segreto, e quindi anche di quello del Foscolo (relativo al suo amore per la Bignami), come risulta dalln seguente variante: n Date candidi giorni e queti sonni / a lei che amai di verecondo amore / quando più lieti mi fioriano gli anni; / né dal mio labbro mni, né dnlla cetra / volò il suo nome, e fia celato il pianto / che esule io verso [...] » (CHIARINI, p. 308). 218. candidi: luminosi, felici. Vedi CATULLO, Carna., vin, 3: • Fulscre quondam candidi tibi soles 11 (FERRARI); a lei: Maddalena Bignami. 219. da cl,e: nel tempo in cui. 220. ,n•arse ... amore: vedi il sonetto Perché taccia il rumor di mia catena, 9-101 a p. 216: «E narro come i grandi occhi ridenti/ arsero d'immortal raggio il mio core». 221. cura: affanno. POESIE sola e secreta spargerà le chiome sovra il sepolcro mio, quando lontano non prescrivano i fati anche il sepolcro. Vaga e felice i balli e le fanciulle di nera treccia insigni e di sen colmo, sul molle clivo di Brianza un giorno guidar la vidi; oggi le veste allegre obbliò mesta e il suo vedovo coro. E se alla Luna e ali'etere stellato più azzurro il scintillante Eupili ondeggia, il guarda avvolta in lungo velo, e plora col rosignol, finché l'Aurora il chiami a men soave tacito lamento. A lei da presso il piè volgete, o Grazie, e nel mirarvi, o Dee, tornino i grandi occhi fatali al lor natio sorriso. 225 230 235 222-3. sola .•. sepolcro: vedi TIBULLO, 111, 2, 11-2: «ante mcum veniat longos incompta capillos / et Beat ante meum moesta Neaera rogum » (MARTINETTI). 223. quando: se. 224. prescrivano: vedi il sonetto Né più mai toccherò le sacre spo11de, 13-4, a p. 237: a[•••] a noi prescrisse / il fato illacrimata sepoltura•. 225-37. Vaga ... so"iso: vedi Appendice prima, v, 1-14, alle pp. 481-2. 227. molle: "dolce", di non ardua salita, forse memore della pariniana Vita rustica, 33-6: « Colli beati e placidi/ che il vago Eupili mio / cingete con dolcissimo / insensibil pendio>>. 228-9. oggi ••• coro: allude al fallimento dell'azienda bancaria dei Bignami (1813), in seguito al quale il capo famiglia, e titolare della ditta, Carlo Bignami, si era tolto la vita (vedi Epistolario, 1v, pp. 273 e 282). 229. vedovo: della sua presenza. 230. alla .•. stellato: sotto la luce della luna e del cielo stellato. 23 1- 2. più . •. velo: l'avvocato Rocco Marliani, padre di Maddalena Bignami, possedeva ad Erba la villa Amalia (dal nome della moglie), posta sulla cima di una collina dalla quale si godeva la vista del lago di Pusiano (il scintillante E11pi/i). In lettera a Giulio di Montevecchio del 30 marzo 1809, il FOSCOLO scriveva: e Stasera dormirò a Erba nella villa Amalia - Vedrò la Primavera sorridere su' colli di Pusiano e su gli alberi fioriti del monte di Brianza [...] • (Epistolario, III, p. 116). 232-3. e • •• rosi'gnol: come in PETRARCA, Rime, x, 10-2: a e 'I rosigniuol che dolcemente all'ombra / tutte le notti si lamenta et piagne, / d'amorosi penscii il cor ne 'ngombra • (MARTINE'ITI). 236-7. tornino •.• sorriso: vedi l'ode Alla amica risa11ata, 14-5, a p. I 90: cr [ •••] tornano / i grandi occhi al sorriso•, e la nota relativa, e il sonetto Perché taccia il run,or di mia catena, 9, a p. 216: a E narro come i grandi occhi ridenti ». APPENDICE PRIMA * I [1803] Odorata spirar l'aura dai crini molli ancor per la fresca onda del Xanto, sentiano i venti, perché venne Apollo. A lui furtive sorridean di Anfriso, de' pastorali amor conscie le Ninfe, alla mensa ministre. Intanto le Ore sciogliean dall'aureo cocchio i corridori, e risciacquando nel Peneo le briglie spremean la spuma .... s POESIE II [1803] Involontario nel Pierio fonte vide Tiresia giovinetto i fulvi capei di Palla liberi dall'elmo coprir le rosee disarmate spalle; sentì l'aura celeste, e mirò le onde lambir a gara della Diva il piede e spruzzar riverenti e paurose la sudata cervice e il casto petto che i fulvi crin discorrenti dal collo coprian siccome li moveano l'aure. 5 IO LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE PRIMA 479 III [1803] - Or delle Grazie né d'aurei raggi liberale è il crine siccome è il crine del divino Apollo allor ch'ei monta per lo sacro clivo d'Olimpo, e più s'infocano i cavalli s non pur del grido e de' spumosi morsi al comandar, o della sferza al fischio; de' dardi il tintinnir dentro il turcasso aureo, capace, e pien di eterna possa quei quattro corridori incalza quando 10 del Saturnio signor veggon le case meta di Febo. Né di foco rosse sono le trecce delle care Grazie quali sotto il cimier contien Bellona pari alla giuba delle sue poledre 15 che pel di lionessa hanno e vigore. Né son ricciute come il crin d'Amore non come quel di Cintia cacciatrice pallide, e tutte rannodate al collo. Ma d'onde spesse cascano le chiome 20 sembran più fosche, e sono auree le ciocche che sparse al vento van mutando anella e mostran varii ognor biondeggiamenti. Spiran soave odor, ma non di mirra non delle rose di Cirene odore, 2s indite rosei lVIa cotal fragranza mandano pari all'armonia che diede d'Orfeo la Lira, allor che al sacro capo dalle baccanti di Bistonia infissa venne nell'alto Egeo spinta dai m.onti, 30 e un'armonia suonò tutto quel mare, e risole l'udiano e il continente, sebben né vate mai né arguta corda di Lidia cantatrice a quel fatale suono diè legge e nome. • . . 35 POESIE IV [1803) Della luce infinita i rai deposti tutto-veggenti, e il telo onnipotente scendeva in terra fra rambrosie tazze Giove dell'universo animatore. Rizzarsi i Numi, e Cipria riverente cedeagli il loco; armonizzar le lire s'udiano allor delle vergini Muse e cantar Febo, ed olezzare i boschi, e risuonare i Tessali torrenti, e risplendere il cielo, e delle Dive raggiar più bella l'immortal bellezza ché Giove padre sorrideva, e in lui con gli occhi intenta, l'aquila posava. s 10 LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE PRIMA 481 V [1813] AVVERTIMENTI L'ara del Rito fingesi a Bello-sguardo; v'è un coro di Garzoni e di Donzelle. Tre Donne una Toscana; l'altra di Lombardia di qua dal Po; e la terza della capitale del Regno d'Italia, vi vengono sacerdotesse, rappresentando la musica, la poesia, e la danza. L'inno primo idoleggia gli effetti dell'armonia. Il secondo, gli effetti dell'amabilità dello spirito. Il terzo, gli effetti della bellezza, e de' vezzi. Ciò che nel frammento si dice de' cigni, è allusione che deriva dalla storia naturale di quegli uccelli. Lo squarcio intorno ad Aiace, è tratto dalla tragedia inedita dell'Autore che innanzi di pubblicarla la spoglierà di tutti i versi lirici inopportuni; e principalmente di questi che qui ci stanno a pennello. La ragione della cecità di Tiresia è riferita da Callimaco poeta Cireneo. 31 IL RITO DELLE GRAZIE CARME FRAMMENTO DELL'INNO TERZO . . . . . . . . . . . . . . . . . Colei che i balli e le fanciulle, di nera treccia insigni e di sen colmo, sul molle clivo di Brianza un giorno lieta guidava: oggi le vesti allegre obbliò lenta e il suo vedovo coro. E se alla luna e all'etere stellato più azzurro il scintillante Eupili ondeggia il guarda avvolta in lungo velo, e plora col rosignuol finché l'aurora il chiami s a men soave tacito lamento. 10 Ma udi il mio canto; e a noi vien per l'Olona agile come in cielo Ebe succinta; 482 POESIE e mirando le Dee, tornano i grandi occhi fatali al lor natio sorriso. Sostien del braccio un giovinetto cigno. 15 Quei lento al collo suo del flessuoso collo s'attorce; e più lieto la mira mentr'ella schiude a questi detti il labbro. GRATA AGLI DEI DEL REDUCE MARITO DA' FIUMI OVE I BEI CIGNI HANNO IL LOR NIDO 20 ALLE VIRGINEE DEITÀ CONSACRA VALTA REGINA MIA CANDIDO UN CIGNO. Accogliete, o garzoni, e su le pure onde vaganti intorno all'ara e al bosco deponete l'augello, e sia del nostro 25 fonte signor[;] su per le fresche sponde danzando, a piene mani, o verginelle, i meandri del rivo, e i giri ondosi del notatore, e i veleggianti vanni infiorate di gigli. A quanti alati 30 aman l'erbe del par, l'aere, e i laghi amabil sire è il cigno; e con l'impero clemente delle Grazie i suoi vassalli regge, ed agli altri volator sorride, e lieto la sublime Aquila onora. 3S Sovra l'omero suo guizzan securi gli argentei pesci, ed ospite leale il vagheggiano s'ei visita all'alba le lor ime correnti, desioso di più freschi lavacri onde rifulga 40 sovra le piume sue nitido il sole. Nuovi gigli versate. Al vago rito l'inviò lei che nella villa amena de' tigli (amabil pianta, e a' molli orezzi propizia, e al santo coniugale amorel) 45 educa i cigni; e quei dal pelaghetto la miran grati, e a lei agitan l'onde sotto l'ombra ridenti - O della speme cara all'Italia, e di tre regie Grazie madre, e del popol tuo; bella fra tutte so figlie di regi, e agl'immortali amicai LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE PRIMA 483 Tutto il cielo t'udia quando al Marito pregavi lenta l'invisibil Parca che accompagna gli Eroi vaticinando l'Inno funereo e l'alto avello e le armi ss più terse e la quadriga e i corridori candidi eterni a correre l'Eliso. Ma come Marte, quando entro le navi rispingeva gli Achei, vide sul vallo fra un turbine di dardi Aiace solo, 6o fumar di sangue; e ove diruto il muro dava più varco a' Teucri, ivi attraverso piantarsi; e al tuon de' brandi onde intronato avea l'elmo e lo scudo i vincitori impaurir del grido; e rincalzarli, 6s tra le Dardanie faci arso e splendente; scagliar rotta la spada, e trarsi l'elmo e fulminar immobile col guardo Ettore, che perplesso ivi si tenne: tal dell'Ausonio Re l'inclito alunno 70 fra il lutto e il tempestar lungo di Borea si fe' vallo dell'Elba, e n1inacciando il trionfo indugiava e le rapine dello Scita ramingo oltre la Neva. Quinci indignato il sol torce il suo carro 1s quando Orione predator dell'Austro sovra l'Orsa precipita e abbandona corrucciasi i suoi turbini e il terrore sul deserto de' ghiacci, orridi d'alto silenzio e d'ossa e armate esuli larve. 8o Sdegnan chi a' fasti di Fortuna applaude le Dive mie; e sol fan bello il lauro quando Sventura ne corona i prenci. l\tla più alle Dive mie piace quel canto che d'egregia beltà l'alma e le forme s5 con la pittrice melodia ravviva. Spesso per l'altre età, se l'idioma d'Italia correrà puro a' nepoti, (è vostro, e voi, dehl lo serbate, o Grazie) tentai ritrar ne' miei versi l'immago POESIE della Sposa regale. E quando in lei posi industre lo sguardo, areeggiava deità manifesta. Onde il mio Genio diemmi un avviso, ch'ei da Febo un giorno sotto le palme di Cirene udiva. 95 Involontario nel Pierio fonte vide Tiresia giovinetto i fulvi capei di Palla liberi dell'elmo coprir le rosee disarmate spalle; senti l'aura celeste, e mirò le onde 100 lambir a gara della diva il piede e spruzzar affrettando paurose la sudata cervice e il casto petto: ma non più rimirò dalle natie cime Eliconie il cocchio aureo del Sole; 105 né per la Coronea selva di pioppi guidò a' ludi i garzoni e alle carole l'Amfionie fanciulle; e i capri e i cervi tenean arditi le Beote valli, ché non più il dardo suo dritto fischiava. 110 Però che la divina ira di Palla al Cacciator col cenno onnipossente avvinse i lumi di perpetua notte. Tal decreto è ne' fati. Ahi senza pianto l'uomo non mira la beltà celeste. 115 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE PRIMA 485 VI [1818] LE GRAZIE INNI DI UGO FOSCOLO A CANOVAa Cantando, o Grazie, degli eterei pregi di che il cielo vi adorna, e della gioia che vereconde voi date alla terra, belle vergini, a voi chieggo l'arcana armoniosa melodia pittrice della vostra beltà, sì che all'Italia voli improvviso, e la rallegri il carme. a) Questi frammenti ci. sono stati mandati con questa lettera. MIO CARISSIMO, 5 Mi è venuto alle mani l'autografo d'alcuni versi di Ugo Foscolo, e sono entrato nel pensiero di mandarveli, onde, se vi par bene, li vogliate pubblicare nella vostra Biblioteca. Sono squarci di alcuni l11ni alle Grazie, che l'autore intendeva indirizzare al Canova, come a quello che già mostrava l'animo devoto alle tre Dive effigiandole nel marmo. E il poeta parve sperare che la voce delle Muse potesse infonder nuovo valore nella mente dell'artefice. Se non che il Canova trasse poi di per sé a compimento l'opera sua, e mostrò l'inspirazione divina. Ma io non so se l'innografo terminasse mai i suoi versi, o se nella tempestosa ed errante sua vita smarrisse anche la parte ch'io ne tengo. Di che dubitando, vorrei che voi gliela conservaste colle stampe. Né certo, aderendo al mio desiderio, derogherete a quel savio divisamento di non voler far luogo nel vostro dotto giornale, se non a quelle poesie che superano mediocrità. Perocché se questa che vi offro è lontana da quella perfezione che fa ammirabili gli altri versi dello stesso scrittore, non pertanto credo che anche in questi troverete un non so che di splendido: e vi sarà avviso (perch'io parli in queste materie poeticamente) che l'alto ingegno abbia lasciato pur quivi il suo vestigio. E ne traluce come da quelle scolture che il divino Michelangelo non volle compiere, e che pur recano maggior diletto che non le compitissime dell'Ammanato e del Bologna. - Tuttavia sì per non averci a rissare con genti sottili, e vederle compiacersi del trionfo; e sì per non dar materia di querele al sig. Foscolo, il quale certamente non vorrebbe cercar gloria di cosi tenue ed imperfetto lavoro, panni op- POESIE Nella convalle fra gli aerei poggi di Bellosguardo, ov'io cinto da un fonte limpido fra le quete ombre di mille 10 giovinetti cipressi alle tre Dive Para innalzo, e un fatidico laureto, in cui men verde serpeggia la vite, le protegge di Tempio; al vago rito vieni, o Canova, e agli Inni. Al cor men fece 15 portuno che questi versi sieno offerti al pubblico, come dettati senza studio veruno, e solo per raccogliere quelle scomposte immagini che occorrono alla fantasia nel primo concetto. - Così confido che l'autore non si vorrà dolere né di voi, né di me; e vie meno poi se porrà m·ente, ch'io non avrei senza sua volontà usato arbitrio alcuno nelle cose sue, se avessi saputo ove volgermi per interrogarnelo; e che voi vi terrete obbligato di non tacere tutto ch'egli vi vorrà a questo proposito significare. - Ma niun aspro lamento, ripeto, egli certo vorrà fare; perché conoscerà, non per irreverenza alla sua fama pubblicarsi questa poesia, ma sì bene per la stima grande che fassi d'ogni cosa di lui; e per contentare di alcun modo il desiderio ch'è universale, e che da più tempo ei lascia voto, di veder qualche frutto di un chiaro ingegno che tanto onore ha fatto, e lasciò speranza di fare all'Italia. - E, se di meglio non abbiamo, doveansi lasciar ire smarriti anche questi versi, perché pochi ed incolti? Che se per ventura il sig. Foscolo tomi a dormire nel bello ovile (voi intendete), e adempia egli il comune desiderio meglio che noi ora non possiamo; e se ne dia anche compiuti cotest'Inni alle Grazie, io penso che la vostra stampa de' presenti squarci non tornerà per ciò affatto inutile. Anzi parmi che gioverà ad apprendere a chiunque vorrà considerare i mutamenti fattivi, come la bontà dell'intelletto trovi prontissima le prime forme delle immagini, e quelle con lungo studio accordi poscia all'intenzione dell'arte e faccia perfette, sdegnosa di stare contenta a que' facili dettati che soddisferebbcro gl'ingegni mezzani. E gli studiosi indagando le ragioni di que' mutamenti, troveranno forse di per sé stessi alcune norme che li guidino a migliorare gli scritti loro. Ma ad ogni modo, ancorché questo lungo giro di parole potesse parer fatto a solo fine di onestare l'arbitrio ch'io mi tolgo, non potrà però l'autore non conoscere, che qui hassi di lui quella sollecitudine e quel desiderio ch'ei mostra di non avere, non dirò della patria, ma di quelli che lo amano ed onorano. Vivete felice e memore dell'amico vostro [Giovita Scalvini]. LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE PRIMA 487 dono la bella Dea che in riva d'Arno sacrasti alle tranquille arti custode: ed ella d'immortal lume e d'ambrosia la santa immago sua tutta precinse. Forse, o ch'io spero, artefice di Numi, 20 nuovo meco darai spirto alle Grazie, ch'or di tua man sorgon dal marmo. Anch'io pingo e spiro ai fantasmi anima eterna. Sdegno il verso che suona e che non crea, perché Febo mi disse: io Fidia primo, 25 ed Apelle guidai colla mia lira. Eran l'Olimpo, e il Fulminante e il Fato, e del Tridente enosigeo tremava la genitrice terra; Amor dagli astri Pluto feria, né ancora eran le Grazie. 30 Una Diva scorrea lungo il creato a fecondarlo, e di Natura avea l'austero nome. Fra celesti or gode di cento troni, e con più nomi ed are le clan rito i mortali; e più le giova 35 l'Inno che bella Citerea la invoca. . . . . . . . . Perché clemente a noi che mirò afflitti travagliarci e adirati, un dì la santa Diva, all'uscir de' flutti, ove s'immerse a ravvivar le gregge di Nereo, apparì colle Grazie, e la raccolse l'onda ionia primiera, onda che amica del lito ameno e dell'ospite musco di Citera, ogni di vien desiosa a' materni miei colli. Ivi fanciullo la deità di Venere adorai. Salve Zacinto . de' santi Lari idei ultimo albergo e de' miei padri: darò i carmi e l'ossa e a te il pensier, che santamente a queste Dee non favella chi la patria obblia. Sacra città è Zacinto. Eran suoi templi, era ne' colli suoi l'ombra de' boschi 45 50 POESIE sacra al tripudio di Diana e al coro. Né ancor Nettuno al reo Laomedonte muniva Ilio di torri indite in guerra. Bella è Zacinto: a lei versan tesori l'angliche navi; a lei dall'alto manda i più vitali rai l'eterno sole. Limpide nubi a lei Giove concede e selve ampie d'ulivi, e liberali i colli di Lieo. Rosea salute spirano l'aure dal felice arancio tutte odorate e da' fiorenti cedri. . . . . . . . . . . . . . . . 55 6o Tacea splendido il mar poiché sostenne 65 sulla conchiglia assise e vezzeggiate dalla Diva le Grazie; . . . . . quale alla prima prima aura di zeffiro le frotte delle vaghe api prorompono, e più e più succedenti invide ronzano 70 e fan lunghi di sé aerei grappoli . . . . . . . . . . . . . vanno aliando sui nettarei calici; tale a fior dell'immenso radiante ardian mostrarsi a mezzo il flutto ignude le amorose Nereidi oceanine, e a drappelli agilissime seguendo . . . . . . . . . gittavan perle, delle ingenue Grazie il bacio le Nereidi sospirando. Con mezze in mar le rote iva frattanto lambendo il lito la conchiglia, e al lito pur colle braccia la spingean le molli Nettunine. Spontanee s'aggiogarono alla biga gentil due delle cerve che ne' boschi dittei schive di nozze Cinzia a' freni educava, e poi che dome aveale a cocchii suoi, pasceano immuni da mortale saetta. Ivi per sorte vagolando ribelli eran venute le avventurose, e corsero ministre 15 8o 85 LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE PRIMA 489 al viaggio di Venere. Improvvisa 90 lri che segue i zeffiri col volo s'assise auriga, e drizzò il corso all'istmo del laconio paese: ancor Citera del golfo intorno non sedea regina. Dove or miri le vele alte sull'onda 95 pendea negra una selva, ed esiliato n'era ogni Dio dai figli della terra duellanti a predarsi: i vincitori d'umane carni si bandian convito. Videro il cocchio, e misero un ruggito 100 pa[l]leggiando la clava. Al petto strinse sotto il suo manto accolte le gementi sue giovinette, e, o selva, ti sommergi, Venere disse, e fu sommersa. Ah tali forse eran tutti i primi avi dell'uomo. 105 Quindi in noi stolti e miseri un natio delirar di battaglie, e se pietose nol placano le Dee, cupo riarde ostentando trofeo l'ossa fraterne; ch'io non le vegga almeno or che in Italia 110 fra le messi biancheggiano insepolte. . . . . . . . . . . . . . . . Poi come l'orme della Diva, e il riso delle vergini sue fer di Citera sacro il lido, un'ignota violetta spuntò appiè de' cipressi, e d'improvviso molte purpuree rose amabilmente si conversero in candide. Fu quindi religione di libar col latte cinto di bianche rose, e cantar gl'Inni sotto i cipressi, e di afferire all'ara le perle e i fiori messaggier d'aprile. . . . . . . . . . . . . . . . L'una tosto alla Dea col radiante pettine asterge mollemente e intreccia le chiome dell'azzurra onda stillanti. L'altra sorella ai zeffiri consegna, a rifiorirne i prati a primavera, 115 120 IZS 490 POESIE l'ambrosio umore ond,è irrorato il seno della figlia di Giove: vereconda la terza ancella ricompone il peplo sulle membra divine, e le contende di que, selvaggi attoniti al desio. Non prieghi d,inni, o danze d'imenei, ma di veltri perpetuo l'ululato tutta l'isola udia, e un suon di dardi, e gli uomini sul vinto orso rissosi, e de' piagati cacciatori il grido. Cerere invan donato avea l'aratro a que' feroci: invan d'oltre l'Eufrate chiamb un dì Bassareo, giovine Dio, a ingentilir di pampini le balze. Il pio stromento irruginia su brevi solchi sdegnato; divorata innanzi che i grappoli novelli imporporasse a' rai d'autunno, era la vite, e solo quando apparian le Grazie i predatori e le vergini squallide e i fanciulli l'arco e il terror deponeano ammiranti. . . . . . . . . . . Siccome allor che lene Euro careggia sull'alba il queto Lario, e a quel susurro JJO 135 145 canta il nocchiero, e allegransi i propinqui 150 liuti, e molle il flauto si duole. . . . . . . . . . . . . . . . Per entro i colli rintronano i corni terror del cavriol, mentre in cadenza di Lecco il maglio domator del bronzo suona dagli antri ardenti. Stupefatto perde le reti il pescatore, e ascolta. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155 LE GRAZIE (1803·1822) • APPENDICE PRIMA 491 VII (1822] LE GRAZIE FRAMMENTI D'INNI A CANOVA Cantando, o Grazie, degli eterei pregi di che il Cielo v'adorna, e della gioia che vereconde voi date alla terra, belle Vergini, a voi chieggo l'arcana armonfosa melodia, pittrice s della vostra beltà, si che all'Italia affiitta da regali ire straniere voli improvviso a rallegrarla il carme. Nella convalle fra gli aerei poggi di Bellosguardo, ov'io, cinto d'un fonte 10 limpido fra le quete ombre di mille giovanetti cipressi, alle tre Dive l'ara innalzo, e un fatidico laureto, (in cui men verde serpeggia la vite) la protegge di tempio: al vago rito 15 vieni, o Canova, e agli Inni. Al cor men fece dono la bella Dea che in riva d'Arno sacrasti alle tranquille arti custode; ed ella d'immortal lume, e d'ambrosia la santa immago sua tutta precinse. zo Forse (o che io spero) artefice di Numi nuovo meco darai spirto alle Grazie ch'or di tua man sorgon dal marmo. Anch'io pingo, e spiro a' fantasmi anima eterna. Sdegno il verso che suona, e che non crea; zs perché Febo mi disse: Io Fidia primo ed Apelle guidai colla mia lira. Eran l'Olimpo, e il Fulminante, e il Fato e del tridente Enosigeo tremava la genitrice Terra. Amor dagli astri 30 Pluto feria, né ancor v'eran le Grazie. Una Diva scorrea lungo il creato 492 POESIE a fecondarlo, e di natura avea l'austero nome: tra Celesti or gode di cento troni, e con più nomi ed are 35 le dan rito i n,ortali, e più le giova l'inno che bella Citerea l'invoca. Perché clemente a noi, che mirò afflitti travagliarci, e adirati un di la santa Diva all'uscir de' flutti, ove s'immerse 40 a ravvivar la gregge di Nereo, appari colle Grazie; e le raccolse l'onda Ionia primiera, onda che amica del lito ameno, e dell'ospite musco da Citera ogni dì vien desiosa 4S a' materni miei colli. Ivi fanciullo la Deità di Venere adorai. Salve Zacinto, ali'Antenoree prode de' santi Lari Idei ultimo albergo e de' miei padri: darò i carmi, e l'ossa, so e a te i pensier, che piamente a queste Dee non favella chi la patria obblia. Sacra città è Zacintol Eran suoi templi, era ne' colli suoi l'ombra de' boschi sacri al tripudio di Diana, e al coro: 55 né ancor Nettuno al reo Laomedonte ·muniva Ilio di torri indite in guerra. Bella è Zacinto! A lei versan tesori l'angliche navi, a lei dall'alto manda i più vitali rai l'eterno Sole; 6o limpide nubi a Lei Giove concede, e selve ampie d'ulivi, e liberali i colli di Lieo. Rosea salute spirano l'aure, dal felice arancio tutte odorate, e dai fiorenti cedri. 65 Tacca splendido il mar, poiché sostenne sulla conchiglia assise, e vezzeggiate dalla Diva le Grazie, e a sommo il flutto. Quante alla prima prima aura di zefiro le frotte delle vaghe api prorompono, 70 e più e più succedenti invide ronzano LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE PRIMA 493 a far lunghi di sé aerei grappoli, vanno aliando su, nettarei calici, e del mele futuro in cor s'allegrano; tante a fior dell'immenso radiante 75 ardian mostrarsi a mezzo il flutto ignude, le amorose Nereidi oceanine, e a drappelli agilissime seguendo la gioia alata degli Dei foriera, gittavan perle, dell'ingenue Grazie So il bacio le Nereidi sospirando. Poi come l'orme della Diva, e il riso delle vergini sue fer di Citera sacro il lito, un'ignota violetta spuntò al piè de' cipressi, e d'improvviso 85 molte purpuree rose amabilmente si cangiarono in candide. Fu quindi religione di libar col latte cinto di bianche rose, e cantar gl'inni sotto a' cipressi, e d'afferire all'are le perle, e il fiore messaggier d'aprile. L'una tosto alla Dea col radiante pettine asterge mollemente, e intreccia le chiome dell'azzurra onda stillanti; l'altra, sorella a Zefiri, consegna 95 a rifiorirle i prati a primavera l'ambrosio un1ore; onde è irrorato il seno della figlia di Giove; vereconda la terza ancella ricompone il peplo sulle membra divine, e le contende 100 di que' selvaggi attoniti al desio. Non preghi d'inni, o danze d'Imenei, ma di veltri perpetuo l'ululato tutta l'isola udia, e un suon di dardi; e gli uomini sul vinto orso rissosi, 105 e de' piagati cacciatori il grido. Cerere invan donato avea l'aratro a que' feroci, invan d'oltre l'Eufrate chiamò un di Bassareo, giovane Dio, a ingentilir di pampini le balze: no 494 POESIE il pio stromento irrugginia su' brevi solchi sdegnato; divorata, innanzi che i grappoli novelli imporporasse a' rai d'autunno, era la vite; e solo quando apparian le Grazie i predatori ns l'arco e il terror deponeano ammirando. Con mezze in mar le ruote iva frattanto lambendo il lito la conchiglia, e al lito pur colle braccia la spignean le molli Nettunine. Spontanee s'aggiogarono 120 alla biga gentil due belle cerve che ne' boschi Dittei, schive di nozze, Cinzia a' freni educava, e, poi che dome aveale a' cocchi suoi, pasceano immuni da mortale saetta. Ivi per sorte 125 vagolando ribelli eran venute le avventurose, e corsero ministre al viaggio di Venere. Improvvisa lri, che siegue i Zefiri col volo, s'assise auriga, e drizzò 'I corso all'Istmo 130 del laconio paese. Ancor Citera del golfo intorno non sedea regina: dove or miri le vele alte sull'onde, pendea negra una selva, ed esigliato n'era ogni Dio da' Figli della Terra 135 duellanti a predarsi; i vincitori d'umane carni s'imbandian convito. Videro il cocchio, e misero un ruggito palleggiando la clava. Al petto strinse sotto il suo manto accolte le gementi 14o sue giovanette, e, o selva, ti sommergi Venere disse, e fu sommersa. Ahi! tali forse eran tutti i primi avi dell'uomo. Quindi in noi serpe, miseri; un natio delirar di battaglie; e se pietose 145 noi placano le Dee, cupo riarde ostentando trofeo l'ossa fraterne: ch'io non le veggia almen or che in Italia fra le messi biancheggiano insepolte. LE GRAZIE (1803-1822) • APPSNDICE PRIMA 495 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Però che quando nell'ascrea convalle disfrenando le tartare puledre Marte afflisse que' fiori, e le sacrate ossa de' vati profanò un superbo nepote d'Otomano, allor l'Italia fu giardino a que' fiori, e qui lo stuolo fabbro dell'aureo mel pose sua prole il felice alvear. Né le Febee api (benché le altre api abbian crudeli) fuggono i lai dell'invisibil Ninfa, che, ognor delusa d'amorosa speme, pur geme fra le quete aure diffusa, e il suo albero nemico ama, e richiama. Tanta dolcezza infusero le Grazie per pietà della Ninfa alle sue voci che le lor api immemori dell'opre oziose in Italia odono lI eco che al par de' carmi fe' dolce la rima. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Novella preda a' nostri liti addussero vittor10si i zefiri sull'ale, e or fra' cedri al suo talamo imminenti d'ospite amore e di tesori industri questa gentil Sacerdotessa educa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Come quando più gaio Euro provoca sull'alba il queto Lario, e a quel susurro canta il nocchiero, allegransi i propinqui liuti, e molle il flauto si duole d'innamorati giovani, e di Ninfe sulle gondole erranti; e dalle sponde risponde il pastore! colla sua piva. Per entro i colli rintronano i comi, 155 16o 165 175 180 POESIE terror del cavriol, mentre in cadenza di Lecco il maglio, domator del bronzo, tuona dagli antri ardenti, stupefatto pende le reti il pescatore, ed ode. Tal dell'arpa diffuso erra il concento per la nostra convalle, e mentre posa la sonatrice ancora odono i colli già del piè, delle dita, e dell'errante estro, e degli occhi vigili alle corde ispirata sollecita le note che fingon come . . . . . . . . Agli astri, all'onda eterna e alla natante terra per l'Oceano, e come franse l'uniforme creato in mille volti 185 co' raggi e l'ombre, e il ricongiunse in uno, 19s e i suoni all'acre, e diè i colori al sole; e l'alterno continuo tenore alla fortuna agitatrice e al tempo, e che le cose dissonanti insieme rendan concento d'armonia divina 200 e innalzino le menti oltre la terra. Or le recate, o Vergini, i canestri e le rose, e gli allori a cui materni nell'ombrifero Pitti irrigatori fur gli Etruschi silvani, a far più vago 205 il giovin seno alle mortali Etrusche, emule d'avvenenza, e di ghirlande; soave affanno al pellegrin se inoltra improvviso ne' lucidi teatri; e quell'immensa voluttà del canto, ::uo ed errare un desio dolce d'amore mira ne' volti femminili, e l'aura pregna di fiori gli confonde il cuore. Recate insieme, o vergini, le conche dell'alabastro, provvido di fresca 215 linfa, e di vita ahil breve ai giovanetti gelsomini e alla mammola dogliosa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE PRIMA 497 Leggiadramente d'un ornato ostello che a Lei d'Arno futura abitatrice,• i pennelli posando, edificava 220 il bel Fabbro d'Urbino, esce la prima vaga mortale,b e siede ali'ara, e il bisso liberale acconsente ogni contorno di sue forme eleganti, e fra il candore delle dita s'avvivano le rose, 225 mentre accanto al suo petto agita l'arpa; scoppian dall'inquiete aeree fila, quasi raggi di sol rotti dal nembo gioia insieme e pietà, poiché sonanti rimembran come il Ciel l'uomo creasse 230 al delitto e agli affanni, onde gli fia librato e vario di sua vita il volo; e come alla virtù guidi il dolore; e il sorriso, e il sospiro errin sul labbro delle Grazie; e a chi son fauste e presenti, 235 dolce in cuore ei s'allegri, e dolce gema. Pari un concento, se pur vera è fama, un di Aspasia tessea lungo l'Ilisso, era allor delle Dee sacerdotessa, e intanto al suono Socrate libava 240 sorridente, a quell'ara, e col pensiero quasi ai sereni dell'Olimpo alzossi. Quinci il Veglio mirò volgersi obliqua affrettando or la via su per le nubi or ne' gorghi Letei precipitarsi 245 di Fortuna la rapida quadriga da viventi inseguita. E quel pietoso gridò invano dall'alto: a cieca duce siete seguaci, o miseri, e vi scorge dove in bando è pietà, dove il Tonante 250 più adirate le folgori abbandona a) Nobil Donna fiorentina che abita una casa di cui fu architetto Raffaele. b) Introduce nell'inno come sacerdotesse tre belle ed illustri donne viventi. POESIE sulla timida terra. O nati al pianto e alla fatica, se virtù vi è guida, dalla fonte del duol sorge il contento. Ahi ma nemico è un altro Dio di pace più che fortuna, e gl'innocenti assale. Ve' come l'arpa di costei sen duole. Duolsi che a tante verginelle il seno sfiori, e di pianto in mezzo alle carole insidioso Amor bagna i lor occhi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Date principio, o giovanetti, al rito, e dai festoni della sacra soglia dilungate i profani. Ite insolenti Genii d'Amore, e voi livido coro 255 di Momo, e voi che a prezzo Ascra attingete. 265 Qui né oscena malia né plauso infido può, né dardo attoscato: oltre quest'ara cari al volgo e a' tiranni ite profani. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Con elle • qui dov'io canto Galileo sedea 270 • • • . . . . . a spiar l'astrob della loro regina, e il disviava col notturno rumor l'acqua remota che sotto ai pioppi della riva d'Arno furtiva e argentea gli volava al guardo. 275 Qui a lui l'Alba, la Luna e il Sol mostrava gareggianti di tinte, or le serene nubi sulle cerulee Alpi sedenti, ora il piano che . . . . . . alle tirrene Nereidi, immensa di città e di selve 28o scena; e di templi e d'arator beati, or cento colli, onde Appennin corona a) Casa in Camaldoli, già abitata dal Galileo, e ultimamente dal Foscolo. b) Quivi Galileo scoperse i satelliti della Luna. LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE PRIMA 499 d'ulivi e d'antri, e di marmoree vilJe l'elegante Città, dove con Flora le Grazie han serti, e amabile idioma. 285 soo POESIE VIII (1822] DI UN ANTICO INNO ALLE GRAZIE DISSERTAZIONE I versi che dichiarano il velo delle Grazie, nella descrizione del gruppo di Canova, fanno parte d'un poema italiano, le cui immagini son tolte dai Greci, e specialmente da alcuni frammenti inediti, avanzo per certo di uno degli antichi inni dedicati alle Grazie. Il più di quei versi e nella struttura, e nella lingua, e nell'andamento del pensiero, somigliano tanto alla poesia generalmente creduta di Fanocle, che quest'inno fu pure attribuito a quel poeta. Ma non si tosto fu annunziata la scoperta di quei frammenti, che venner veduti molti anacronismi; per esempio, la menzione di Flora e di Psiche; e notati dei tratti nei quali l'estrema accuratezza e l'artifiziosa costruzione sembrano toccare l'ultimo termine della finitezza e rivelare un poeta posteriore a quell'età, nella quale il canto lirico era in Grecia l'effusione spontanea del genio e delle passioni.• Se quei frammenti fossero stati pubblicati nell'originale greco, i dotti avrebbero potuto prima d'ora far giudizio, se non certo, almeno molto probabile intorno al nome dell'autore, alla data e al carattere dell'inno. Ma l'impresa di mettere in luce un manoscritto che tanta ingiuria aveva sofferta dal tempo e tanto sconcio dagli errori ortografici dei monaci del medio evo, domandava assai perseveranza e potenza di critica filologica; e avanti di accingersi a siffatto lavoro l'autore italiano stimò di pubblicare la poesia propria insieme a quel tanto dei frammenti che gli avean servito di modello. Quel poema, che l'autore non ha potuto fin qui finire in guisa degna del subbietto, è inteso ad apprestare una serie di disegni da usare nelle belle arti. Gliene occorse il pensiero nel veder Canova all'opera intorno al gruppo delle Grazie, che ora adorna la galleria delle sculture nell'abbazia di Woburn; gruppo, che dove non fosse in noi altra idea delle Grazie, varrebbe per sé solo a destare l'immaginazione ed il cuore a quelle sorridenti visioni e teneri sentimenti, che gli antichi intendevano di esprimere con l'allegoria di queste Deità. a) Vedi le illustrazioni alla chioma di Berenice di Callimaco, Milano, 1803. LE GRAZIE (1803·1822) · APPENDICE PRIMA 501 Le allegorie, benché sembrino cose ridicole ai critici metafisici, furono non pertanto agli artisti i materiali più belli ed efficaci di lavoro; e il dispregio in che sono cadute fra noi, proviene dall'uso insensato che ne è stato fatto, e dal cattivo gusto degli inventori moderni. Imperocché un'allegoria non è veramente che un'idea astratta personificata, la quale perché agisce più rapidamente e agevolmente sui sensi e sulla immaginazione in questa forma, ci si apprende alla mente con più prontezza. Ai poeti ed artisti della Grecia, Venere non era altro che la rappresentazione personificata della bellezza ideale; e la statua della Venere medicea porge assai miglior dimostrazione di ciò che non tutte le raffinate teorie scritte intorno al bello e al sublime. Se gli Ateniesi, in luogo dei poeti che fornivano di soggetti, di attitudini e di espressioni gli artisti, avessero avuto filosofi del fare di Burke e di Mendelssohn, può ben dubitarsi che non avrebbero mai prodotto quei capolavori di scultura che Fidia riconosce da tre versi della Iliade.• Michelangelo, il genio più originale e creativo nelle arti, vantava di aver tolte dal poema di Dante le sue figure, le composizioni, le movenze, l'espressione. Dagli incidenti dell'episodio allegorico d'Apuleio trasse la fantasia di Raffaele i maravigliosi disegni ond'egli poté aggiungere nuove attrattive e classiche bellezze alla favola di Cupido e Psiche. Inoltre quasi tutti i concetti che il genio creativo della poesia porge alle belle arti rifluiscono a guisa di nuove e più facili sorgenti d'ispirazione dalle opere degli artisti alle menti dei poeti; e così la sublime e grandiosa descrizione del Bardo: Robed in the sable garb of woe. . . . . . . . . . . . . . . . Loose his beard and hoary hair stream 'd like a meteor, to the troubled air. confessò Gray d'averla copiata dalla terribil figura che un verso del profeta ebreo aveva suscitata nella fantasia di Raffaele. Ma le Grazie (benché quasi tutti gli autori greci e latini, come se fosse un dover religioso, ne faccian menzione) non ebbero mai una mitologia tanto nota e si ben definita, che potesse prestare immagini alle belle arti. Raro è che gli antichi poeti ci dicano, che quelle Deità avean tempio e che appiè dei loro altari si offrivano preghiere: alcuni dotti moderni hanno creduto che le Grazie a) Iliade, lib. 1, 598, 599. Plin. Hist. nat. L. XXXIV, c. 8. 502 POESIE avessero appena diritto a particolari sacrifizi; e che i riti e le adorazioni e le offerte destinate ad esse si comprendessero in quelle appartenenti a Venere. Le eccezioni a quest'opinione attinte da qualche luogo del romanzo pastorale di Longo, e da un idillio di Teocrito, sembrano anzi confermarla. lmperocché Longo scriveva in un tempo, che la teologia e i riti del paganesimo non erano conosciuti se non per tradizioni miste già di nuovi usi e più recenti finzioni; e Teocrito non considera le Grazie se non come Deità allegoriche, che avevano ufficio d'ispirare al ricco la liberalità, al povero la gratitudine. Nondimeno le Grazie ebber luogo nella teogonia fin dai più remoti tempi del politeismo; ed alcune allegorie che ad esse si riferiscono, contengono misteri religiosi tanto astrusi che si niegano alla comprensione di chicchessia. Per darne qualche esempio, se le Grazie non eran tre, cessavan d'essere le Grazie; ove una di loro fosse divisa dalle altre due, la loro divinità non era più; e sebbene ciascheduna delle· tre fosse adorna di qualità proprie a sé sola, pure ciascheduna partecipava le qualità delle altre. Ma esse eran anche venerate per altri attributi più facili ad essere compresi; e se quelle antiche allegorie fossero state dichiarate da Platone o da Bacone, noi avremmo avuto una conferma di più alla opinione messa innanzi da loro, che le allegorie derivano da una propensione naturale della mente umana, che sono da noverare fra le più graziose produzioni della fantasia, e che la loro applicazione morale è dettata da una sapienza sollecita del miglioramento e perfezionamento della vita sociale. I frammenti di quest'inno greco sono per verità curiosissimi e di grande importanza, conservando tradizioni che ci erano sconosciute fin qui, intorno alla mistica mitologia delle Grazie. Noi li produrremo qui in una versione italiana, dando loro talvolta forma di parafrasi, e traducendoli talvolta letteralmente. Le Grazie erano Deità poste in mezzo fra gli uomini e gli Dei; abitavano sulla terra invisibili ai mortali, eppur facendo sentire intorno i buoni effetti di lor presenza. Secondo il sistema simbolico del politeismo che assegnava un pianeta a ciascun iddio, il globo della terra consideravasi sottoposto alla immediata influenza d'Amore, il quale fecondandolo, infiammava tutti i suoi abitatori di ardenti passioni, simili a quelle che tuttavia imperversano tra le belve e i cannibali. Venere, che secondo lo stesso sistema era il LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE PRIMA 503 simbolo della natura universale, mossa a pietà del genere umano, vedendo che esso non era capace di migliorare e perfezionarsi, creò le Grazie e primamente comparve con esse a Citèra. Colà, non si erano mai udite preci ai numi - né mai vedute danze giulive - né cantici d'imeneo erano mai risuonati; ululati di bestie rapaci e latrar di cani ferivano l'aria di continuo; e tutto era pieno di terrore e spavento pel fischiar degli strali, per le grida degli uomini contendentisi l'orso da loro ucciso, e pei gemiti dei cacciatori feriti. Cerere avea fatto loro, già tempo, il dono dell'aratro, e, provvida Dea, avea chiamato Bacco che adornasse di vigneti i colli di Citèra. - Ma indarno: il vomere irrugginl abbandonato entro il solco che appena avea cominciato a segnare; e i grappoli furono divorati, prima che cominciassero a imporporarsi dei raggi di un sole di autunno. Ma non sì tosto comparve Venere con le Grazie in mezzo agli abitatori di Citèra, i cacciatori, le donzelle, i fanciulli lasciarono cadersi di mano gli archi e gli strali e d'un tratto passarono dal terrore alla meraviglia, dalla ferocia alla gentilezza: lasciarono la caccia e divenner pastori. Non prieghi d'inni o danze d'imenci, ma di veltri perpetuo l'ululato tutta l'isola udia, e un suon di dardi, e gli uomini sul vinto orso rissosi, e de' piagati cacciatori il grido. Cerere invan donato avea l'aratro a que' feroci; invan d'oltre l'Eufrate chiamò un dl Bassareo, giovane dio, a ingentilir di pampini le rupi: il pio strumento irrugginia su' brevi solchi, sdegnato; e divorata, innanzi che i grappoli recenti imporporasse a' rai d'autunno, era la vite: e solo quando apparian le Grazie, i cacciatori e le vergini squallide, e i fanciulli l'arco e il terror deponean, ammirando. All'àpparir delle Grazie, la terra si coperse di fiori; ma quelli esseri divini non se ne adornarono: Venere solamente: Mille habet ornatus, mille decenter habet. Le Grazie son sempre ignude, adorne di loro natia amabilità, protette dall'innocenza propria e dalla innocenza che ispirano, POESIE Gratia cum Nymphis geminisque sororibus audet duccre nuda choros. Intrecciano viole e rose bianche, e quelle trecce avvolgono a un ramoscello di cipresso, e aggiuntevi delle perle {le perle che coronavano Venere quando emerse dal fondo dell'oceano) offrono siffatta ghirlanda alla madre loro. D'allora in poi i Greci usarono sempre di cantar inni alle Grazie all'ombra del cipresso e di offrire sul loro altare una tazza di latte ghirlandata di bianche rose, perle e viole. - I versi che seguono sono tradotti letteralmente da uno dei frammenti greci. Fu quindi religione di libar col latte cinto di bianche rose, e cantar gl,inni sotto a' cipressi, ed afferire all'ara le perle, e il primo fior nunzio d'aprile. Donde appare che le offerte di tortore, colombe e frutta che, nel romanzo pastorale di Longo, Dafni e Cloe porgono alle tre Grazie, debbono essere innovazioni di una età posteriore. Secondo i riti più antichi, i sacrifìzi alle Grazie erano di latte, in memoria della introdotta vita pastorale, le cui pacifiche arti eran succedute alle selvagge abitudini della caccia; e si usavano ghirlande di cipresso per ciò che il cipresso era fra gli emblemi della morte, non obliata mai dagli antichi nelle festive adunanze: e quella mesta allusione che spesso incontrasi nei canti dei conviti e nelle giulive canzoni d'Anacreonte e d'Orazio non solamente ha in sé un proposito morale, ma fa ancora in poesia l'effetto d'un chiaroscuro. L'idea di rappresentare le Grazie come ancelle ministre di Venere, addette all'uffizio di ornarne la persona, sembra venuta dopo i tempi di Omero. Ma siccome, nel vero, tutti gli allettamenti della bellezza derivano dalle Grazie, l'allegoria fu immaginata acconciamente, ed ha suggerito molte belle immagini ai poeti antichi, ed eleganti composizioni e disegni agli artisti. In quest'inno greco Venere si fa vedere nel momento che sorge dall'Oceano; ed una delle Grazie astergc le chiome stillanti della Dea e le compone a trecce; un'altra invita i Zeffiri a predar l'ambrosia dal seno di Venere per fecondarne i fiori di primavera; mentre la terza spande un velo su le belle forme della Dea, affinché non sieno profanate dal cupido sguardo degli uomini ispidi ancora ed incolti. LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE PRIMA 505 L'una tosto a la Dea col radiante pettine asterge mollemente e intreccia le chiome de l'azzurra onda stillanti; raltra ancella a le pure aure concede, a rifiorire i prati a primavera, l'ambrosio umore ond'è irrorato il petto de la figlia di Giove; vereconda la lor sorella ricompone il peplo su le membra divine, e le contende di que' mortali attoniti al desio. Tutti i pensieri ond'è composto l'estratto seguente si trovano in diversi frammenti dell'inno; e provano abbastanza, che gli antichi credevano la coltura della razza umana essere stata opera delle Grazie. Poiché Venere ebbe dapprima introdotte le Grazie alla vista dei mortali in Citèra, le lasciò per tre giorni andare per la Grecia; la cui geografia è così descritta da mostrare o che il poeta appartenne ad un'età antichissima, o che egli desiderò far credere che il suo inno era di quelli attribuiti ad Omero. «Citèra non era ancor circondata dalle onde del mare: perché là, dove ora noi vediamo le navi spander le vele ai venti, i nostri maggiori vedeano una negra foresta stendersi coll'ombra sua». e< Di là il culto degli Dei era sbandito, i figli della terra si guerreggiavano l'un l'altro a morte; e il superstite vincitore facea convito delle membra del caduto nemico. Con1e prima quei selvaggi ebber visto il carro delle Grazie e della madre, mandarono orrende grida e misero mano ai ferri. La Dea stringendosi al seno le giovinette :figlie trepidanti e coprendole del suo velo gridò: - Sommergiti, o foresta! - e di subito la foresta e il terreno onde era surta e che allora congiungeva Citèra al continente della Laconia, disparve e fece via al mare». Ancor Citèra del golfo intorno non sedea regina; dove or miri le vele alte su l'onda, pendea negra una selva ed esiliato n'era ogni Dio da' figli della terra duellanti a predarsi: e i vincitori d'umane carni s'imbandian convito. Videro il cocchio e misero un ruggito, palleggiando la clava. Al petto strinse sotto al suo manto accolte, le tremanti 506 POESIE sue giovinette, e: Ti sommergi, o selva! Venere disse, e fu sommersa. Ahi tali forse eran tutti i primi avi dell'uomo! Quindi in noi serpe, ahi miseri, un natio delirar di battaglia; e se pietose nel placano le Dee, spesso riarde ostentando trofeo l'ossa fraterne. ccl tre dì che le Grazie stettero nella Grecia cangiarono l'aspetto del paese, stato fino allora irto di foreste e insanguinato dai cannibali, in un giardino popolato di cultori». Si ha pure in questi frammenti alcuna traccia di quelle pratiche religiose che i Greci primamente sostituirono ai sacrifizi umani. A spiegar questi versi sarebbe mestieri avventurarsi troppo nelle congetture e supplire alle lacune con tradizioni appartenenti ad altri periodi dell'antichità. È ben da lamentare che i tempi abbian reso quasi affatto illeggibile un lungo tratto che sembra aver descritta l'influenza delle Grazie non solo nel perfezionare e far progredire le belle arti, ma nel farle primamente apparire in Grecia. Ciò nondimeno è chiaro che l'autore dell'inno seguiva la dottrina, che dall'armonia riconosceva l'origine delle leggi di natura e le forme impresse nelle varie opere della potenza creativa. Venere, nel momento di lasciar la terra per rendersi all'abitazione degli Dei, menò le Grazie sulla cima del monte Ida, e pervenuta a quell'altezza dove le creste del monte apparivano colorate d'un roseo celeste e dalle stelle parcano effondersi fiumi di aurea luce, accomiatossi dalle sue figlie, dicendo loro che, le regioni celesti essendo felici abbastanza, le Grazie doveano rimanere alla terra, dov'erano assai sventure che domandavano conforto, e il Cielo affiderebbe loro molti beni da dispensare fra gli uomini. «Quando gli Dei, continuava Venere, avranno deliberato di non sopportare più a lungo le iniquità degli uomini, ma di far loro sentire quanto pesi la punizione, io vi ritrarrò nel Cielo framezzo ai turbini e alle folgori che circondano mio padre, e voi li mitigherete. Ora io vi lascio; ma tosto che sarò giunta alle stelle, voi udirete scendere dal Cielo l'armonia, la cui virtù solo per voi può esser diffusa fra i mortali. Essa ispirerà, dirigerà la mente degli uomini per alleggerirne i travagli e le pene, e liberarli dal terrore della morte. I campi elisi vi saranno anch'essi gradevole albergo; colà rallegrerete del LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE PRIMA 507 vostro sorriso i poeti che colsero allori con mani incontaminate, principi che regnarono benigni, giovani madri che non diedero mai a suggere ai loro bamboli il latte di una straniera, modeste fanciulle che non tradirono mai il segreto del loro amore, ma nel fior della vita lo si recarono inviolato nella tomba, e giovani valorosi che caddero combattendo alla difesa della patria. Siate immortali, ed eterna sia la vostra bellezza». Mentre proferiva queste ultime parole, e fissi gli occhi intentamente nelle figlie, la Diva impartì loro la carnagione e la freschezza dell'aurora, e lasciolle. Le Grazie continuarono a riguardare verso di lei cogli occhi suffusi di lagrime; ed ella, quando ebbe quasi raggiunte le celesti magioni, si volse a guardar le sue figlie, e disse: «Il destino vi sta apparecchiando afflizioni che vi faranno degne di gioia immortale». Non appena la Dea ebbe ripreso albergo nel suo pianeta, tutto quanto il Cielo fu commosso delle note giulive dell'armonia del- l'universo. E solette radean lievi le falde de rida irriguo di sorgenti; e quando fur più al Ciclo propinque, ove una luce rosea le vette al sacro monte asperge, e donde sembran tutte auree le stelle, alle vergini sue, che la seguieno mandò in core la Dea queste parole: - Assai beato, o giovinette, è il regno de' Celesti ov'io riedo; a la infelice terra cd a' figli suoi voi rimanete confortatrici: sol per voi sovr'essa ogni lor dono pioveranno i Numi: e se vindici sien più che clementi, allor frn' nembi e i fulmini del Padre, vi guiderò a placarli. Al partir mio tale udirete un'armonia dall'alto, che diffusa da voi farà più liete le nate a delirar vite mortali, più deste ali'Arti e men tremanti al grido che le promette a morte. Ospizio omico talor sienvi gli Elisi: e sorridete a' vati, se cogliean puri l'alloro, ed a' prenci indulgenti ed a le pie giovani madri che a straniero latte non concedean gl'infanti, e a le donzelle che occulto amor trasse innocenti al rogo, 508 POESIE e a• giovinetti per la patria estinti. Siate immortali, eternamente belle! Più non parlava, ma spargea co' raggi de le pupille sue sopra le figlie eterno il lume de la fresca aurora, e si partiva: e la seguian cogli occhi di lagrime suffusi, e lei da l'alto vedcan conversa, e questa voce udiro; - Daranno a voi dolor novello i fati e gioia eterna. - E sparve; e trasvolando due primi cieli, s'avvolgea nel puro lume dell'astro suo. L'udì Armonia, e giubilando l'etere commosse. Questa dottrina dell'armonia dell'universo sembra essere stata esposta e invigorita, anzi che inventata, da Pitagora; essa attribuisce ogni perfezione od imperfezione, qualunque virtù o vizio, la felicità e le miserie che si ritrovano fra gli uomini, ad un maggiore o minor grado di armonia. Laonde, per rispetto alle belle arti, come la musica dipende dall'armonia de' suoni, così la scultura dall'armonia delle forme, e la pittura dall'armonia delle linee e dei colori. Nella stessa guisa il più o meno di felicità goduta da ciascheduno sta in ragione dell'armonia che regna nelle sue passioni, e noi siamo infelici per effetto di discordia o di dissonanza fra' nostri sentimenti. Scosse improvvise, commozioni violente, perturbando, squilibrando la mente umana, mettono in noi lo stordimento e l'agitazione, ed allora ne va smarrita ogni amabile idea, ogni grazioso sentimento. E però smodata gaiezza e dolore profondo sono ignoti alle Grazie; queste Deità sorridendo talora con temperata letizia, e talor sospirando con gentile pietà, fanno a quando a quando che l'uom si ricordi di essere stato affidato alle alterne cure del piacere e del dolore, come a due guide che debbono sostenerlo a correr diritto o sorvolare per lo spazio assegnatogli di vita. Il piacere gli dà forza e coraggio a tollerare il tocco crudele del dolore, dal quale gli viene insegnato il cammino della virtù e della gloria. Rimembran come il Ciel l'uomo concesse a le gioie e agli affanni, onde gli sia librato e vario di sua vita il volo, e come a la virtù guidi il dolore, e il sorriso e il sospiro errin sul labbro LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE PRIMA 509 de le Grazie; e a chi son fauste e presenti, dolce in core ei s'allegri e dolce gema. Ma come le violente passioni avrebbero distrutte le più m1t1 aspirazioni delle Grazie, sovvenne al poeta l'avventuroso pensiero di proteggere quelle Deità con un velo dagli assalti dell'Amore, che governa questo globo impetuosamente e da tiranno. È si trasparente quel velo, che non pur non asconde, ma neanche adombra le bellissime forme; e a guisa di amuleto invisibile le difende dal fuoco delle passioni divoratrici. Di questo velo fu per avventura creduto che altro non fosse se non un simbolo di modestia; ma se si consideri in che modo è descritto, ci è mestieri supporre che nella sua allegoria avvolgeasi un senso più astruso e molteplice. Esso è lavoro di molte Dee, cui dirige Pallade. Le fila dell'ordito son tratte dai raggi del sole e acconce al telaio dalle Ore; una porzione dello stame interminabile (quello di che il destino fila la vita degli Dei, e che trasparente e flessibile come l'aria ha di più lo splendore e la durezza del dia-- mante) è messo sulla spola dalle Parche. Psiche siede silenziosa, compresa dalla memoria della lunga serie dei suoi affanni, e tesse; mentre Tersicore le si volge intorno al telaio, danzando per divertirla e animarla a finir l'opera. Iride dà i colori e Flora li molti-- plica in mille varietà di tinte e figure, di che eseguire il ricamo, che Erato le detta cantando al suono della lira di Talia. Il ricamo è fatto di gruppi, che rappresentano la gioventù, l'amor coniugale, l'ospitalità, la pietà filiale e la tenerezza materna. Le immagini e la morale del gruppo mentovato per ultimo danno un'idea abbastanza esatta degli altri. (( Una giovine madre seduta alla culla del suo primo nato, te-- mendo non quei gemiti sieno pronostico di vicina morte, chiama al Cielo con tutta la importunità delle preghiere e delle lagrime. - Oh quanto è felice quella tenera madre che non sai dice Erato a Flora: ella non conosce che ai fanciulli è la morte un benefizio, e che i loro pianti sono luttuosi presagi dei travagli e delle pene a cui l'uomo è nato». Non appena Flora ha finito il ricamo, l'Aurora adorna i lembi del velo con rose, ignote fino allora alla terra, benché i mortali ne avessero sentita la fragranza, indizio d'alcun essere celeste che s'avvicina. Né però il velo era compiuto. Ebe viene tacitamente 510 POESIE tra le altre Deità, e dal suo vaso spande ambrosia sulla tela fatale, e la rende incorruttibile. Mentre opravan le Dee, PaIIade in mezzo con le azzurre pupille amabilmente signoreggiava il suo virgineo coro. Attenuando i rai aurei del sole, volgeano i fusi nitidi tre nude Ore, e del velo distendean l'ordito. Venner le Parche di purpurei pepli velate e il crin di quercia; e di più trame raggianti, adamantine, al par de Petra, e fluide e pervie e intatte mai da Morte, trame onde filan degli Dei la vita, le tre presaghe riempiean la spola. Né men delPaltre innamorata, all'opra Iri scese fra' Zefiri; e per l'alto le vaganti accogliea lucide nubi gareggianti di tinte, e sul telaio pioveale a Flora a effigiar quel velo; e più tinte assurnean riso e fragranza e mille volti dalla man di Flora. E tu, Psiche, sedevi, e spesso in core, senz'aprir labbro, ridicendo: «Ahi, quante gioie promette, e manda pianto Amore! ,,. Raddensavi col pettine la tela. E allor faconde di Talia le corde, e Tersicore Dea, che a te dintorno fea tripudio di ballo e ti guardava, eran conforto a' tuoi pensieri e a l'opra. Correa limpido insiem d'Erato il canto da que' suoni guidato; e come il canto Flora intendeva, e sì pingea con l'ago. Mesci, odorosa Dea, rosee le fila; e nel mezzo del velo ordita balli, canti fra 'I coro delle sue speranze Giovinezza: percote a spessi tocchi antico un plettro il Tempo; e la danzante discende un clivo onde nessun risale. Le Grazie a' piedi suoi destano fiori a fiorir sue ghirlande; e quando il biondo crin t'abbandoni e perderai 'l tuo nome, vivran que' fiori, o Giovinezza, e intorno l'urna funerea spireranno odore. Or mesci, amabil Dea, nivee le fila; e ad un lato del velo Espero sorga dal lavor di tue dita; escono errando LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE PRIMA 51 I fra l'ombre e i raggi fuor d'un mirteo bosco due tortorelle mormorando ai baci; mirale occulto un rosignuol, e ascolta silenzioso, e poi canta imenei: fuggono quelle vereconde al bosco. Mesci, madre dei fior, lauri alle fila; e sul contrario lato erri co' specchi dell'alba il sogno, e ma'ldi a le pupille sopite del guerrier miseri i volti de la madre e del padre allor che all'are recan lagrime e voti; e quei si desta, e i prigionieri suoi guarda e sospira. Mesci, o Flora gentile, oro alle fila; e il destro lembo istoriato esulti d•un festoso convito: il Genio in volta prime coroni agli esuli le tazze. Or libera è la gioia, ilare il biasmo, e candida è la lode. A parte siede bello il Silenzio arguto in viso e accenna che non volino i detti oltre le soglie. l\tiesci cerulee, Dea, mesci le fila; e pinta il lembo estremo abbia una donna che con )'ombre i silenzi unica veglia, nutre una lampa su la culla, e teme non i vagiti del suo primo infante sien presagi di morte; e in quell'errore non manda a tutto il cielo altro che pianti. Beata! ancor non sa quanto agl'infanti provido è il sonno eterno, e que' vagiti presagi son di dolorosa vita. Come d'Erato al canto ebbe perfetti Flora i trapunti, ghirlandò l'Aurora gli aerei fluttuanti orli del velo d'ignote rose a noi; sol la fragranza, se vicino è un lddio, scende alla terra. E fra l'altre immortali ultima venne rugiadosa la bionda Ebe, costretti in mille nodi fra le perle i crini, silenziosa, e l'anfora converse: e dell'altre la vaga opra fatale rorò d'ambrosia; e fu quel velo eterno. Poi su le tre di Citerea gemelle tutte le Dive il diffondeano; ed clic fra le fiamme d'amore ivano intatte a rallegrar la terra; e sì velate apparian come pria vergini nude. 512 POESIE Non è improbabile che le più antiche pitture storiche fossero rappresentate per trapunti nelle vesti. Omero, che non fa mai motto di pittura, parla degli arazzi come di lavori cui venivano avvezze le figlie e le mogli dei re. Quando Paride si arma per andare a combattere con Menelao, Elena siede al telaio: . . . . . . . . . . tessea a doppia trama una splendida e larga tela, e su quella istoriando andava le fatiche che molte a sua cagione soffriano i Teucri e i coturnati Achei. L'espediente cui s'appigliano talora i poeti, di descrivere pitture e sculture storiche, invece di parlare in loro propria persona, produce il doppio vantaggio e di variare il tuono della narrativa e d'introdurre episodi· con più naturalezza. Virgilio ed alcuni epici moderni nel valersi di questo privilegio ne hanno abusato, e senz1aggiungere alcuna novità all'antico espediente, le loro imitazioni rimangono di gran lunga inferiori alla descrizione degli scudi di Achille e di Ercole lasciataci da Omero e da Esiodo. Ma il trapunto del velo delle Grazie, benché sembri ispirato dagli stessi prototipi, è nondimeno trattato in guisa, che ha vista di concepimento originale. Figure e gruppi non sono descritti dal poeta, ma Flora li disegna ella medesima, e li colorisce ammaestrata da Erato, e pare, mentre noi stiamo ascoltando il canto delle Muse, che quelle figure l'una dopo l'altra sorgano e si muovano innanzi agli occhi nostri. Anche il concetto morale di esse è ovvio; perché, sebbene Aristotile, o piuttosto i dommatici interpreti de' suoi oracoli, insegnino il contrario,• i poeti non devono scriver versi a diletto solamente degli oziosi: gli antichi fecero ciò veramente, in special modo quelli che scriveano inni da esser cantati nei tempii mentre venivano offerti i sacrifizi nelle feste solenni. Quanto a tutti gli altri inni pervenuti fino a noi (da quelli attribuiti ad Omero ed Orfeo a quelli de' poeti della scuola alessandrina), il misticismo di che sono avviluppati era inteso a farne altrettanti stromenti che consacrassero e conservassero favolose tradizioni e riti di culto, piuttosto che a dirigere gli usi e costumi. Forse il solo che fa eccezione a ciò è il carme secolare di Orazio. a) Poetica di Aristotile in fine, e Castelvetro, pag. 505, con la nota 277 di Twining. LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE PRIMA 513 Quest'inno alle Grazie è abbondante di mistiche allegorie anche più di quelli antichissimi inni; ma comprende insieme più gran numero di allusioni assai ovvie. Qui le Parche sono le incomprensibili Deità di Platone, coronate di quercia e avvolte in lunghi manti di porpora, il mistico numero di tre evvi conservato sempre scrupolosamente, tre Grazie, tre Ore,a tre Parche sono a parte del lavoro; tre Dee, Pallade, Psiche ed Ebe concorrono nella principal parte dell'opera e in tutti i processi che debbono rendere immortale quel velo, mentre tre altre, Iride, Flora ed Aurora, si adoperano a farne gli adornamenti; ed invece di nove vi sono mentovate solo tre Muse, Tersicore, Talia, Erato. Molte altre peculiarità di questa specie potrebbero esser segnalate; ma a voler dichiararle si darebbe in erronee congetture, e di più sarebbe inutile impresa. Rispetto alle allusioni morali che trovansi in questi frammenti, non che in quelli generalmente della mitologia dei poeti greci, noi possiamo forse a buon diritto lamentare che esse non sieno state abbastanza considerate, specialmente dagli artisti. Le massime, - che qualunque cosa bella, elegante e graziosa ne rinfresca l'anima e conforta lo spirito - che pietà, liberalità, e modestia sono le più amabili propensioni di nostra natura - che da esse la vita sociale deriva le sue più dolci attrattive e le maggiori utilità che la felicità sta nella contemperanza ed equilibrio delle nostre passioni e nel debito esercizio delle virtù intellettive ... sono altrettante verità che un poeta simile a quello del Saggio sull'uomo potrebbe col mezzo di bella verseggiatura scolpire profondamente nella nostra memoria: il nostro cuore però rimarrebbe freddo, e la fantasia dormente; e indarno vorrebbe un pittore o uno scultore cercare ispirazioni da siffatti poemi. Ma in tutto quel che i poeti antichi dicono delle Grazie, le stessissime verità, espresse per via di figure, son poste in azione con tanta vivezza, che di leggieri se ne pç,ssono formare pitture e gruppi di scultura, forse in ricompensa dell'aver la greca mitologia ispirato al Canova il concetto di questo gruppo delle Grazie. Questo gruppo, la men terrestre forse delle sue creazioni, ispirerà un giorno la fantasia di qualche poeta con la più universale e meno metafisica nozione di quanto v,ha di amoroso e di bello nella natura. a) Il giorno era diviso dagli antichi Greci e dai Romani solamente in tre parti; e cosi la notte. Omero, lliad., lib. x, 252-53. 33 APPENDICE SECONDA * LE GRAZIE CARME AD ANTONIO CANOVA INNO PRIMO VENERE Cantando o Grazie degli eterei pregi di che il cielo v'adorna, e della gioia che vereconde voi date alla terra, belle vergini! a voi chieggio l'arcana armoniosa melodia pittrice s della vostra beltà; sì che all'Italia afflitta di regali ire straniere voli improvviso a rallegrarla il carme. Nella convalle fra gli aerei poggi di Bellosguardo ov'io cinta d'un fonte 10 limpido fra le quete ombre di mille giovinetti cipressi alle tre Dive l'ara innalzo, e un fatidico laureto la protegge di tempio, al vago rito vieni, o Canova, e agl'inni. Al cor men fece •s dono la bella Dea che tu sacrasti qui su l'Arno alle belle arti custode, ed ella d'immortal lume e d'ambrosia la santa immago sua tutta precinse. Forse (o ch'io spero!) artefice di numi, 20 nuovo meco darai spirto alle Grazie che or di tua man sorgon dal marmo: anch'io pingo, e la vita a' miei fantasmi inspiro; sdegno il verso che suona e che non crea; perché Febo mi disse: Io Fidia primo 25 ed Apelle guidai con la mia lira. Eran l'Olimpo, e il Fulminante e il Fato e del tridente Enosigeo tremava la genitrice Terra; Amor dagli astri Pluto feria: né ancor v'eran le Grazie. 3° LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE SECONDA 515 Una Diva scorrea lungo il creato a fecondarlo e di Natura avea l'austero nome; fra celesti or gode di cento troni, e con più nomi ed are le dan rito i mortali, e più le giova 35 l'inno che bella Citerea la invoca. Perché clemente a noi che mirò afflitti travagliarci, e adirati, un dì la santa Diva all'uscir de' flutti ove s'immerse a ravvivar le gregge di Nereo 40 apparì con le Grazie; e le raccolse l'onda Ionia primiera, onda che amica del lito ameno e dell'ospite musco da Citera ogni dì vien desiosa a' materni miei colli: ivi fanciullo 4S la Deità di Venere adorai. Salve, Zacinto! all'Antenoree prode de' santi Lari Idei ultimo albergo e de' miei padri darò i carmi e l'ossa e a te il pensier, ché piamente a queste so Dee non favella chi la patria obblia. Sacra città è Zacinto. Eran suoi templi era ne' colli suoi l'ombra de' boschi sacri al tripudio di Diana e al coro, pria che Nettuno al reo Laomedonte ss munisse Ilio di torri indite in guerra. Bella è Zacinto. A lei versan tesori l'Angliche navi; a lei dall'alto manda i più vitali rai l'eterno sole. Candide nubi a lei Giove concede 60 e selve ampie d'ulivi, e liberali i colli di Lieo; rosea salute prometton l'aure da' spontanei fiori alin1entate e da' perpetui cedri. Splendea tutto quel mar quando sostenne 65 su la conchiglia assise, e vezzeggiate dalla Diva le Grazie; e a sommo il flutto 65. Sopra tutto nell'interlinea si legge «intorno•· POESIE quante alla prima prima aura di Zefiro le frotte delle vaghe api prorompono e più e più succedenti invide ronzano 70 a far lunghi di sé aerei grappoli van aliando su' nettarei calici e del mele futuro in cor s'allegrano, tante a fior dell'immensa onda raggiante ardian mostrarsi a mezzo il petto ignude 7S le amorose Nereidi Oceanine, e a drapelli agilissime seguendo la Gioia alata, degli Dei foriera, gittavan perle, dell'ingenue Grazie il bacio le Nereidi sospirando. So Poi come l'orme della Diva e il riso delle vergini sue fer di Citera sacro il lito, un'ignota violetta spuntò a' pie' de' cipressi, e d'improvviso molte purpuree rose amabilmente 85 si conversero in candide. Fu quindi religione di libar col latte cinto di bianche rose, e cantar gl'inni sotto a' cipressi, e d'afferire all'ara le perle e il fiore messagger d'Aprile. L'una tosto alla Dea col radiante pettine asterge mollemente e intreccia le chiome dell'azzurra onda spumanti; l'altra sorella a Zefiri consegna a ~ifiorirle i prati in primavera 95 l'ambrosio umore ond'è irrorato il seno della figlia di Giove. Vereconda la terza ancella ricompone il peplo su le membra divine, e le contende di que' selvaggi attoniti al desio. 100 Non prieghi d'inni o danze d'imenei ma de' veltri perpetuo l'ullulato tutta l'isola udia, e un suon di dardi 91-100. I versi sono preceduti e seguiti dal segno #. 101-16. I versi sono preceduti e seguiti dal segno :f::t:. LE GRAZIE (11103-1822) • APPENDICE SECONDA 517 e gli uomini sul vinto orso rissosi e de' piagati cacciatori il grido. 105 Cerere invan donato avea l'aratro a que' feroci, invan d'oltre l'Eufrate chiamò un di Bassareo giovine Dio a ingentilir di pampini le balze: il pio stromento irruginia su brevi r10 solchi sdegnato; divorata innanzi che i grappoli novelli imporporasse a' rai d'autunno, era la vite: e solo quando apparian le Grazie i predatori e le vergini squallide e i fanciulli 115 l'arco e il terror deponeano ammiranti. Con mezze in mar le rote iva frattanto lambendo il lito la conchiglia, e al lito pur con le braccia la spingean le molli Nettunine. Spontanee s'aggiogarono 120 alla biga gentil due delle cerve che ne' boschi Dittei schive di nozze Cintia a' freni educava, e poi che dome aveale a' cocchi suoi pasceano immuni di mortale saetta. Ivi per sorte 125 vagolando fuggiasche eran venute le· avventurose, e corsero ministre al viaggio di Venere. Improvvisa lri che segue i Zefiri col volo s'assise auriga, e drizzò il corso alristmo 130 del Laconio paese. Ancor Citera del golfo intorno non sedea regina: dove or miri le vele alte su l'onda pendea negra una selva, ed esiliato n,era ogni Dio dai figli della terra 135 duellanti a predarsi; i vincitori d'umane carni s'imbandian convito. Videro il cocchio e misero un ruggito palleggiando la clava. Al petto strinse 117-31. I versi sono compresi in doppia parentesi tonda. 131-47. Da.Ancor Citera a fraterne i versi sono preceduti e seguiti dal segno :t:t. 518 POESIE sotto il suo manto accolte le gementi 140 sue giovinette, e, O selva ti sommergi, Venere disse, e fu sommersa. Ah tali forse eran tutti i primi avi dell'uomo! Quindi in noi serpe miseri un natio delirar di battaglie e se pietose 145 nel placano le Dee, cupo riarde ostentando trofeo d'ossa fraterne; ch'io non le veggia almeno or che in Italia fra le messi biancheggiano insepolte! [...] Qui di Fare il golfo 150 cinto d'armoniosi antri a' delfini qui Sparta e le fluenti dell'Eurota grate a' cigni; e Messene offria securi ne' suoi boschetti alle tortore i nidi qui d'Augia il pelaghetto inviolato 155 dai pescator mandava acque lustrali, alla sacra Brisea donde il propinquo Taigeto udiva strepitar l'arcano tripudio e i riti onde il femmineo coro placò Lieo; tornavano i garzoni 16o ghirlandati alle vergini in Amicle terra di fiori; non l'Elea maremma li rattenne con Laa che fra tre monti [. . . . . . . . . . .] Dite candide Dee ditemi dove la prima ara vi piacque, onde se invano or la chieggio alla terra, almen l'antica religione del bel loco io senta. Tutte velate procedendo all'alta Dorio che di lontan gli Arcadi vede, le belle Dee vennero a Trio; l'Alfeo arretrò l'onda, e die' a' lor passi il guado che anch'oggi il pellegrin varca ed adora. 160. Sopra tornavano i garzoni nell'interlinea si legge «e intercedean le Grazie"· 165. Sopra il verso nell'interlinea si legge a Ma e dove, o caste Dee». 171. Sopra a belle Dee nell'interlinea si legge •Dive mie». LE GRAZIE (1803-1822) · APPENDICE SECONDA 519 Fe' manifesta quel portento a' greci la Deità; sentirono da lunge 175 odorosa spirar l'aura celeste. >Non son genii mentiti. Io dal mio poggio quando tacciono i venti fra le torri della vaga Firenze odo un Silvano ospite ignoto a' taciti eremiti 180 del vicino oliveto: ei sul meriggio fa sua casa un frascato, e a suon d'avena le pecorelle sue chiama alla fonte. Chiama due brune giovani la sera né piegar erba mi parean ballando, 185 esso mena la danza. N'eran molte sotto l'alpe di Fiesole a una valle che da sei montagnette ond'è ricinta scende a sembianza di teatro Acheo. Affrico allegro ruscelletto accorse 190 a lor prieghi, dal monte, e fe' la valle limpida d'un freschissimo laghetto. Nulla per anco delle Ninfe inteso avea Fiammetta allor ch'ivi a diporto novellando d'amori e cortesia 195 con le amiche sedeva, o s'immergea te Amor, fuggendo; e tu la spiavi dentro le cristalline onde più bella. Fur poi svelati in que' diporti i vaghi misteri, e Dionea re del drapello 200 le Grazie afflisse. Perseguì i colombi che stavan su le dense ali sospesi a guardia d'una grotta; invan gemendo sotto il flagel del mirto onde gl'incalza gli fan ombra d'attorno, e gli fan prieghi 205 che non s'accosti; sanguinanti e inermi sgombran con penne trepidanti al cielo. Della grotta i recessi empie la Luna, e fra un mucchio di gigli addormentata 202. Sopra a che stavan su le nell'interlinea si legge •di selvaggi colombi•• 520 POESIE svela a un Fauno confusa una Napea. 210 Gioi il protervo dell1esempio, e spera allettarne Fiammetta; e pregò tutti allor d'aita i Satiri canuti e quante emule ninfe eran da' giochi e da' misteri escluse: e quegli arguti ,ns oziando ogni notte a Dioneo di scherzi, e d'antri, e talami di fiori ridissero novelle. Or vive il libro dettato dagli Dei; ma sfortunata la damigella che mai tocchi il libro. 220 Tosto smarrita del natio pudore avrà la rosa; né il rossore ad arte può innamorar chi sol le Grazie ha in core.< E solette radean lievi le falde d'Olimpo irriguo di sorgenti. Or quando fur più al cielo propinque ove diversa luce le vette al sacro monte asperge e donde sembran tutte auree le stelle alle vergini sue che la seguiano volse la santa Dea queste parole: Assai beato o giovinette è il regno de' celesti ov1 io riedo. All'infelice terra ed a• figli suoi voi rimanete consolatrici; sol per voi sovr•essa ogni lor dono pioveranno i numi. E se vindici fien più che clementi anzi al trono del padre io di mia mano guiderovvi a placarlo. Al partir mio tale udirete un'armonia dal[l1 ]alto che di[f]fusa da voi farà più miti de' viventi i dolori. Ospizio amico talor sienvi gli Elisi, e sorridete a' vati che cogliean puri l'alloro ed a' premi indulgenti, ed alle pie giovani madri che a straniero latte 230 235 230. Sopra a fJolse la santa nell'interlinea ai legge •mandi) al core la•· LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE SECONDA 521 non concedean gl'infanti, e alle donzelle .che occulto amor trasse innocenti al rogo, e a' giovinetti per la patria estinti. Siate immortali. Disse e le mirava e dagli sguardi diffond[ea] [•..] 250 Poi d'un suo bacio confortò le meste vergini sue che la seguian con gli occhi e li velava il pianto, e lei dall'alto vedean appena, e questa voce udiro: Daranno a voi dolor novello i fati e gioia eterna. E sparve: e trasvolando due primi cieli si cingea del puro lume dell'astro suo. L'udi Armonia e giubilando l'etere commosse. 255 Che quando Citerea torna a' beati 26o cori, Armonia su per le vie stellate move plauso alla Dea pel cui favore temprò un dì l'Universo. [...] Ma non che ornar di canto, e chi può tutte ridir l'opre de' Numi. Impaziente 265 il vagante inno mio fugge ove incontri graziose le menti ad ascoltarlo, pur non so dirvi, o belle suore, addio, sento pieno di nuovo inno la mente. Ma e dove or io vi seguirò, se il Fato 270 ah da gran giorni ornai profughe in terra alla Grecia vi tolse, e se l'Italia che v'è patria seconda i doni vostri misera ostenta e il vostro nume obblia? Pur molti ingenui de' suoi figli ancora 275 a voi tendon le palme. Io finché viva ombra daranno a Bellosguardo i lauri ne farò tetto all'ara vostra, e offerta di quanti pomi educa l'anno, e quante 269. Nella colonna di destra il verso ~ cosl rifatto: • [ill«gibilt] alteri inni il pensiero ». 522 POESIE fragranze ama destar l'aura d'Aprile. E il fonte e queste pure aure e i cipressi e secreto il mio pianto e la sdegnosa lira, e i silenzi vi fien sacri e l'arti. Fra l'arti io coronato e fra le ninfe alla patria dirò come indulgenti tornate ospiti a lei, sì che più grata in più splendida reggia, e con solenni pompe v'onori: udrà come redenta fu due volte per voi, quando la fiamma pose Vesta sul Tebro, e poi Minerva diede a Flora per voi l'Attico Ulivo. Venite o Dee, spirate Dee, spandete la Deità materna, e novamente deriveranno l'armonia gl'ingegni dall'Olimpo in Italia. E da voi solo né dar premio potete altro più bello sol da voi chiederem Grazie un sorriso. LE GRAZIE CARME AD ANTONIO CANOVA INNO SECONDO VESTA Tre vaghissime Donne a cui le trecce infiora di felici itale rose Giovinezza, e per cui splende più bello sul lor sembiante il giorno, all'ara vostra z8o 290 295 sacerdotesse, o care Grazie, io guido. s Qui e voi che Marte non rapì alle l\1adri correte, e voi che muti impallidite nel penetrale della Dea pensosa [...] Urania era più lieta [...] e le Grazie a lei l'azzurro 10 paludamento ornavano. Con elle LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE SECONDA 523 qui dov'io canto Galileo sedeva [...] a spiar l'astro della loro regina, e il disviava col notturno rumor l'acqua remota rs che sotto a' pioppi delle rive d'Arno furtiva e argentea gli volava al guardo. Qui a lui l'alba la luna e il sol mostrava gareggiando di tinte or le severe nubi su la cerulea alpe sedenti, 20 or il piano che fugge alle Tirrene Nereidi, immensa di città e di selve scena e di templi e d'arator beati or cento colli ove Apennin corona d'ulivi e d'antri e di marmoree ville 2s l'elegante città dove con Flora le Grazie han serti e amabile idioma. Date principio, o giovinetti, al rito e da' festoni della sacra soglia dilungate i profani. Ite insolenti 30 Genii d'Amore, e voi livido coro di Momo, e voi che a prezzo Ascra attingete. Qui né oscena malia, né plauso infido può, né dardo attoscato, oltre quest'ara, cari al volgo e a' tiranni, ite profani. JS Dolce alle Grazie è la virginea voce e la timida offerta; uscite or voi dalle stanze materne ove solinghe Amor v'insidia, o donzellette uscite; gioia promette, e manda pianto Amore. 40 Qui su l'ara le rose e le colombe deponete e tre calici spumanti di latte inghirlandato; e fin che il rito v'appelli al canto tacite sedete. Sacro è il silenzio a' vati; e vi fa belle 45 più del sorriso. E tu che ardisci in terra vesti d'eterna giovinezza il marmo, or l'armonia della bellezza, il vivo spirar de' vezzi ne le tre ministre che all'arpa io guido agl'inni e alle carole so POESIE vedrai qui al certo; e tu potrai lasciarle immortali fra noi, pria che all'Eliso su l'ali occulte fuggano degli anni. Leggiadramente d'un ornato ostello che a lei d,Amo futura abitatrice 55 i pennelli posando edificava il bel fabbro d'Urbino, esce la prima vaga mortale, e siede all'ara, e il bisso liberale acconsente ogni contorno di sue forme eleganti, e fra il candore 6o delle dita s'avvivano le rose mentre accanto al suo petto agita l'arpa. Scoppian dall'inquiete aeree fila quasi raggi di sol rotti dal nembo gioia insieme e pietà, poi che sonanti 65 rimembran come il ciel l'uomo concesse al diletto e agli affanni onde gli sia librato e vario di sua vita il volo e come alla virtù guidi il dolore e il sorriso e il sospiro errin sul labbro 70 delle Grazie, e a chi son fauste e presenti dolce in cuore ei s'allegri, e dolce gema. Pari un concento se pur vera è Fama un dl Aspasia tessea lungo l'Ilisso, era allor delle Dee sacerdotessa 75 e intento al suono Socrate libava sorridente a quell'ara, e col pensiero quasi a' sereni dell'Olimpo alzossi. Quinci il veglio mirò volgersi obliqua affettando or la via su per le nubi or ne' gorghi Letei precipitarsi di Fortuna la rapida quadriga da' viventi inseguita; e quel pietoso gridò invano dall'alto: A cieca duce siete seguaci o miseri, e vi scorge dove in bando è pietà, dove il Tonante più adirate le folgori abbandona 73-90. I versi sono compresi tra due tratti di penna. 8o 85 LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE SECONDA 525 su la timida terra. O nati al pianto e alla fatica, se virtù vi è guida dalla fonte del duol sorge il conforto. 90 Ah ma nemico è un altro Dio di pace più che Fortuna, e gl'innocenti assale. Ve' come l'arpa di costei sen duole! Duolsi che a tante verginette il seno sfiori e di pianti in mezzo alle carole 95 invidioso Amor bagni i lor occhi. Già del pie' delle dita e dell'errante estro, e degli occhi vigili alle corde ispirata sollecita le note che pingon come [...] 100 agli astri all'onda eterea e alla natante Terra per l'Oceano, e come franse l'uniforme creato in mille volti co' raggi e l'ombre e il ricongiunse in uno e i suoni all'acre, e die' i colori al sole 105 e all'eterno continuo tenore alla fortuna agitatrice e al tempo sì che le cose dissonanti insieme rendan concento d'armonia divina e innalzino le menti oltre la terra. 110 Come quando più gaio Euro provoca su l'alba il queto Lario, e a quel sussurro canta il nocchiero, e allegransi i propinqui liuti, e molle il flauto si duole d'innamorati giovani e di ninfe 115 su le gondole erranti; e dalle sponde risponde il pastorel con la sua piva. Per entro i colli rintronano i corni terror del cavriol, mentre in cadenza di Lecco il malleo domator del bronzo 120 tuona dagli antri ardenti; stupefatto perde le reti il pescatore ed ode. Tal dell'arpa diffuso erra il concento per la nostra convalle, e mentre posa la sonatrice, ancora odono i colli. 125 POESIE Or le recate o vergini i canestri e le rose e gli allori a cui materni nell'ombrifero Pitti irrigatori fur gli etruschi silvani, a far più vago il giovin seno alle mortali etrusche emule d'avvenenza e di ghirlande: soave affanno al pellegrin se innoltra improvviso ne' lucidi teatri e quell'intenta voluttà del canto ed errar un desio dolce di amore mira ne' volti femminili, e l'aura pregna di fiori gli confonde il core. Recate insieme o vergini le conche dell'alabastro provvido di fresca linfa, e di vita ahi breve a' montanini gelsomini, e alla mammola dogliosa di non morir nel seno alla fuggiasca ninfa di Pratolino, o sospirata dal solitario venticel notturno. Date il rustico giglio, e se men alte ha le forme fraterne, il manto veste degli amaranti inviolato; unite aurei giacinti e azzurri alle giunchiglie di Bellosguardo che all'amante suo coglie Pomona, e a' garofani alteri della prole diversa e delle pompe, e a' fiori che dagli orti dell'Aurora novella preda a' nostri liti addussero vittoriosi i Zefiri su l'aie, e or fra cedri al suo talamo imminenti d'ospite Amore e di tepori industri questa gentil sacerdotessa educa. Spira indistinto e armonioso agli occhi 130 135 140 145 155 :r53-63. Nella terza colonna il passo è cosl rifatto: «Novella preda a' nostri liti addusser / vittorioso i Zefiri su raie / e or fra cedri nl suo talamo imminenti / d'ospite Amore, e di tepori industri / questa gentil sacerdotessa educa. / >Spiran soavi, e armoniosi agli occhi / come all'anima il suon, splendono i serti / che di tanti color tesse e d'odori. / Ma i fiori che altero del lor nome han fatto / dodici Dei, ne scevra; e il dono [•.•]<». LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE SECONDA 527 quanto agli orecchi il suon splende il concento che di tanti color mesce e d'odori 16o e il fior che altero del lor nome han fatto dodici Dei ne scevra, e su l'altare vel reca o Dive, e in cor tacita prega. Che di que' fiori ond'è nudrice, alcuno mescer ven piaccia alle rose celesti 165 che il dì sesto d'Aprile in val di Sorga voi tutti gli anni o belle Dee cogliete a recarle alla Madre. - Ora all'alata Polinnia che ha più lire, e più dell'altre Muse possiede il vario canto, esulti 170 ch'io de' suoi fiori ornerò l'inno. Or viene sacerdotessa al rito mio seconda bella una donna, e reca all'ara un favo per memoria del mele onde alle Grazie con perenne ronzio fanno tesoro 175 l'eterne api di Vesta, e chi ne assaggia parla caro a' mortali. Indarno Imeto le richiama dal di che a fior dell'onda Egea beate volatrici il coro Eliconio seguieno obbedienti 180 all'Elegia del fuggitivo Apollo. Però che quando [nell'] Ascrea convalle 171-3. Nella terza colonna il passo è così rifatto: • E il fior che altero del lor nome han fatto / dodici Dei ne scevra, e all'ara vostra / il dona; e l'arpa sua tesse ghirlande. ( ?) / Spiran soavi, e armoniosi agli occhi / come all'anima il suon, splendono i serti / che di tanti color mesce e d'odori. / Ora Polinnia alata Dea che molte / lire a un tempo percote, e più dcll'altre / Muse possiede orti celesti esulti. / >Veggio recar alle mie Dive un favo / dall'avvenente giovine che viene / d'altri fiori, e perenni,< [.s'interrompe]•· 172-6. Nella terza colonna il passo è cosl rifatto: • [..•] / [...] ascolti / anche le lodi de' suoi fiori; or quando / la bella Donna che seconda ali'ara / veggio ministra, vien recondo un favo / rimembrandomi il mele onde alle Grazie / con perenne ronzio fanno tesoro / !'eterne api di Vesta [•..] •· 182. Nel ms. si legge •negli• che accompagnava• Achei giardini•, cassato. 182-96. Nella seconda colonna il passo è così rifatto: •Perché quando Fortuna alla sua rete / aggiogando le tartare cavalle / le disfrenò sovra la Grecia, e sire / del terren sacro incoronò un nepote / barbaro d'Otomano, allor l'Italia / die' alle Muse 528 POESIE disfrenando le tartare cavalle Marte afflisse ogni pianta, e le sacrate ossa de' vati profanò un superbo 185 nepote d'Otomano, allor l'Italia fu giardino a que' fiori, e qui lo stuolo fabro dell'aureo mel pose a sua prole il felice alvear. Né le Febee api (sebben le altre api abbia crudeli) 190 fuggono i lai dell'invisibil Ninfa che ognor delusa d'amorosa speme pur geme per le quete aure diffusa e il suo altero nemico ama e richiama; tanta dolcezza infusero le Grazie 195 per pietà della Ninfa alle sue voci che le lor Api immemori dell'opra oziose in Italia odono l'eco che al par de' carmi fe' dolce la rima. >Febo a' vati lo spirto, e l'armonia 200 le Muse danno, ma le Grazie il mele deh sole, voi narrate o Grazie al mondo, presenti a tutto e Dee tutto sapete mortali noi di tutto ignari appena n'udiam la Fama. [.•.]< 205 O giovinette Dee, gioia dell'inno per la dolce memoria di quel giorno la bella donna [. • .] imita, e le terrene api lusinga nel felsineo pendio donde il pastore 210 mira Astrea che or del ciel gode e de' tardi ricetto, e fu giardino / a' trapiantati fiori; e qui lo stuolo / fabro dell'aureo mcl pose a sua prole / il felice alveare. Né le divine / api (scbben le altre api abbia crudeli) / fuggono i lai dell'invisibil Ninfa / che ognor delusa d'amorosa speme / pur geme per le quete aure diffuse / e il suo altero nemico ama e richiama; / tanta dolcezza infusero le Grazie / per pietà della N [.•.],. Dei vv. 182-7 è data anche un'altra variante: •Peri> che quando su la Grecia inerte / Marte sfrenò le tartare cavalle / depredatrici, e coronò la schiatta / barbara d'Ottomano, allor l'Italia / fu giardino alle Muse, e qui lo stuolo / fabro dell'aureo mel pose a sua prole•· LE GRAZIE (1803-1822) • APPENDICE SECONDA 529 alberghi di Nereo; d'indiche piante e di Catalpe onde i suoi Lari ombreggia sedi appresta e sollazzi alla vagante schiera [...] 215 d'armonioso speco inviolate dal gelo, e dall'estiva ira e da nembi. La bella donna di sua mano i lattei calici del limone, e la pudica delle viole, e il timo amor dell'api 220 innafia, e il fior della rugiada invoca dalle stelle tranquille, e impetra i favi che vi consacra e in cor tacita prega. Con lei pregate, donzellette, e meco voi, garzoni miratela. Il segreto 22s sospiro, il riso del suo labbro, il dolce foco esultante nelle sue pupille faccianvi accorti di che preghi e come l'ascoltino le Dee: e certo implora che delle Dee l'amabile consiglio 230 da lei s'adempia. I pregi che dal Cielo per pietà de' mortali han le divine vergini caste, non a voi li danno, giovani vati e artefici eleganti, bensi a qual più gentil donna le imita. 235 A lei correte e di soavi affetti ispiratrici e immagini leggiadre sentirete le Grazie. Ah vi rimembri che inverecondo le spaventa Amorel Torna deh torna al suon donna dell'arpa guarda la tua bella compagna; e viene ultima al rito a tesser danze all'ara. Pur la città cui Pale empie di paschi con l'urne industri e tanta valle, e pingui di mille pioppe aeree al sussurro Z4S ombrano i buoi le chiuse, or la richiama alla festa notturna, e fra quegli orti zz4-39. I versi sono compresi in una parentesi tonda. 53° POESIE freschi di fronde e intorno aurei di cocchi lungo i rivi d'Olona. E già tornava questa gentile al suo molle paese, 250 cosi [...] che al Tebro al[l]'Arno ov'è più sacra Italia non un'ara trovò dove alle Grazie rendere il voto d'una regia sposa; che udi il canto udi l'arpa e a noi ( ?) si volse 255 agile come in cielo Ebe succinta. Sostien del braccio un giovinetto cigno e togliesi di fronte una catena vaga di perle, a cingerne l'augello; quei lento al collo suo del flessuoso 26o collo s'attorce, e di lei sente a ciocche neri su le sue lattee piume i crini scorrer disciolti, e più lieto la mira mentr'ella scioglie a questi detti il labbro: GRATA AGLI DEI DEL REDUCE MARITO 265 DA• FIUMI ALGENTI OV'HANNO PATRIA I CIGNI ALLE VIRGINEE DEITÀ CONSACRA L'ALTA REGINA MIA CANDIDO UN CIGNO. Accogliete, garzoni, e su le chiare acque. vaganti intorno all'ara e al solco 270 deponete l'Augello, e sia del nostro fonte signor; e i suoi atti venusti gli rendan l'onde e il suo candore e goda di sé quasi dicendo a chi lo mira simbol son io della Beltà. Sfrondate 275 ilari carolando o verginette il mirteto e i rosai lu[n]go i meandri del ruscello, versate sul ruscello versateli, e al fuggente nuotatore che veleggia con pure ali di neve 28o fate inciampi di fiori, e qual più ameno fior a voi sceglia ( ?) col puniceo rostro vel ponete nel seno. A quanti alati godon l'erbe del par l'aere e i laghi amabil sire è il cigno, e con l'impero 285 modesto della grazia i suoi vassalli LE GRAZIE (1803-l822) • APPENDICE SECONDA 531 regge, ed agli altri volator sorride e lieto le sdegnose aquile ammira. Sovra l'omero suo guizzan securi gli argentei pesci, ed ospite leale 290 il vagheggiano s'ei visita all'alba le lor ime correnti desioso di più freschi lavacri, onde rifulga sovra le piume sue nitido il sole. Fioritelo di gigli. Al vago rito 295 donna l'invia che nella villa amena de' tigli (amabil pianta! e a molli orezzi propizia e al santo coniugale Amore) nudrialo afflitta; e a lei dal pelaghetto lieto accorrea agitandole l'acque 300 sotto i lauri tranquille. Oh di clementi virtù ornamento nella reggia insubre! Finché piacque agli Dei, o agl'infelici cara tutela, e di tre regie Grazie genitrice gentil; bella fra tutte 305 figlie di regi, e agl'immortali amicai Tutto il Cielo t'udia quando al Marito guerreggiante a impedir l'Elba a' nemici pregavi lenta l'invisibil Parca che accompagna gli Eroi vaticinando 310 l'inno funereo e l'alto avello e l'armi più terse e giunti alla quadriga i bianchi destrieri eterni a correre l'Eliso. Sdegnan chi a' fasti di fortuna applaude le Dive mie, e sol fan belle il lauro 315 quando Sventura ne corona i prenci. Ma più alle Dive mie piace quel carme che d'egregia beltà l'alma e le forme con la pittrice melodia ravviva; spesso per l'altre età se l'idioma 320 d'Italia correrà puro a' Nepoti (è vostro e voi dehl lo serbate o Graziel) tentai ritrar ne' versi miei l'imago; [s'i11terrompe] 532 POESIE LE GRAZIE CARME AD ANTONIO CANOVA INNO TERZO PALLADE Pari al numero lor volino gPinni alle vergini sacre, armoniosi del peregrino suono uno e diverso di tre favelle. Intento odi, Canova: ch1 io mi veggio d'intorno errar l'incenso qual si spandea su l'are a1 versi arcani d'Anfione: presente ecco il nitrito de1 corsieri Dircei; benché Ippocrenc Ii dissetasse, e li pascea dell'aure Eolo, e prenunzia un'aquila volava e de' suoi freni li adornava il Sole. Pur que' vaganti Pindaro contenne presso il Cefiso, ed adorb le Grazie. Fanciulle, udite udite, un Lazio carme vien danzando imenei dall'isoletta di Sirmione per l'argenteo Garda sonante con altera onda marina da che le nozze di Peleo cantate nella reggia del mar, l'aureo Catullo al suo Garda cantb. Sacri poeti a me date voi l'arte a me de' vostri idiomi gli spirti, e co' toscani modi seguaci adornerò più ;udito le note istorie, e quelle [...] [s'interrompe] 5 10 IS 20 PROSE [FRAMMENTI DI UN ROMANZO AUTOBIOGRAFICO] (1799-1800) NOTA INTRODUTTIVA L,autografo che Niccolò Tommaseo, in lettera ad Emilio de Tipaldo, che aveva in animo di scrivere una biografia foscoliana, definiva •giovanile ms. del Foscolo, dov'egli deponeva i suoi sentimenti ancora acerbi, le sue idee ancora indigeste, e qualche sentenza raccolta da antico scrittore,, (vedi R. C1AMPINI, Studi e ricerche su Niccolò Tommaseo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1944, pp. 230-1), e dal quale Luigi Carrer, direttamente o indirettamente, grazie alle copie tommaseiane passate nelle sue mani da quelle del de Tipaldo, insieme a parte del materiale raccolto con l'ausilio di familiari e di amici del Foscolo, quando quello abbandonò la progettata impresa biografica, attingeva «non poche notizie• per la sua Vita di Ugo Foscolo (vedi Prose e Poesie edite ed inedite di UGO FOSCOLO, ordinate da Lu101 CARRER, e corredate della vita dell'Autore, Venezia, Co' Tipi del Gondoliere, 1842, p. cxvi), veniva parzialmente edito da Giuseppe Chiarini nel volume xu delle Opere edite e postume di Uoo FoscoLo, Firenze, Le Monnier, 1890, con il titolo di Frammenti di un romanzo autobiografico. Alla stessa dizione si attenne anche Severo Peri, pubblicando due carte del naufragato romanzo foscoliano, rinvenute nella Biblioteca Municipale di Reggio Emilia, nel recto della prima delle quali si leggono i passi dell'«Avvertimento • (qui alle pp. 543-7), riprodotti da L. CARRER nella Vita di Ugo Foscolo, cit., pp. 16sgg., passim, evidentemente cadute dall'inserto E dei manoscritti foscoliani della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, quando il Chiarini ne allestì l'edizione (vedi S. PERI, Nuovi.frammenti di un« Romanzo autobiografico,, di Ugo Foscolo, in« Giornale Storico della Letteratura Italiana», LVI, 1910, pp. 361-9). Non diversamente dal Peri si comportò Vittorio Cian, curando per gli« Scrittori d'Italia» tre volumi di scritti foscoliani, il secondo dei quali (1912) conteneva l'autografo fiorentino, e le due carte reggiane, recentemente venute alla luce. Parve invece a Mario Fubini che le indicazioni circa il titolo autentico fossero reperibili nell'«Avvertimento», e cosi ne scrisse: «Titolo non può essere se non quello che l'Avvertimento ci suggerisce: cc Il libro che sta fra le mani del candido lettore è il sesto tomo dell'Io, opera annunziata nel paragrafo precedente che ne è il proemio universale", vale a dire Sesto tomo del/'lo, e soggetto, la narrazione di un anno della sua vita, sesto anno dalla fine della sua adolescenza: cc Comprende questo tomo il mio anno ventesimoterzo dai 4 maggio 1799 sino a' 4 maggio 1800,, • (M:FuBINI, in Edizione Nazionale, v, p.xxu). Cesare Federico Goffis, per il quale il Foscolo, oltre a derivare l'idea originale dell'interrotto romanzo dal Voyage du jeune A11acharsis en Grèce vers le milieu du 538 PROSE • FRAMMENTI DI UN ROMANZO quatrième siècle ava11t fère vulgaire (1788) di Jean-Jacques Barthélemy, avrebbe anche inteso «modellare la propria cronologia su quella di Anacarsi » (C. F. GoFFIS, Il cc Sesto Tomo» e la formazione letteraria del Foscolo, in « Atti della Accademia delle Scienze di Torino », vol. 88, 1953-1954, pp. 335-99) ha poi creduto di provare l'autenticità foscoliana del titolo inaugurato dal Fubini, osservando: e, Più avanti (p. 39) Anacarsi scriverà: "j'arrivais alors de Perse; je le trouvais [Lisi] dans sa dixhuitième année. C'est a cette age que les enfants des Athéniens passent dans la classe des ephèbes, et sont enrolés dans la milice". Anche Anacarsi ha la stessa età. Ed ecco finalmente spiegata la ragione del titolo "Sesto Tomo dell'lo!" Il ventitreesimo anno, età che il Foscolo dichiara di avere nell'Avvertimento, è il sesto della classe degli efebi» (C. F. GOFFIS, art. cit., p. 348). Tutto ciò viene tuttavia infirmato dal fatto che Anacarsi è uno scita, non un ateniese cui, come a Lisi, possa convenire l'appellativo di efebo, nel Voyage impiegato tecnicamente, a designare un'istituzione civile per cui il giovane ateniese che entrava nel suo diciottesimo anno d'età, era tenuto a una preparazione militare che, iniziata legalmente nel diciottesimo, aveva termine con il ventesimo anno. Che il ventitreesimo anno sia il sesto di efebia, appare dunque doppiamente insostenibile, e perché l'efebia non si estendeva oltre i vent'anni e perché Anacarsi, com~ scita, non poteva prestare servizio nella milizia ateniese, ed essere quindi ritenuto un efebo. Rilevato che nell'autografo il privilegio del titolo sembra tipograficamente competere solo all'Io (1< Il libro che sta fra le mani del candido Lettore è il sesto tomo dell'lo»), qualche ulteriore, se pur non rilevante, indicazione, può venire qui allegata, sulla scorta del seguente abbozzo del terzo periodo dell'«Avvertimento » («Comprende [...] porta»), che si legge alla p. 9 dell'autografo fiorentino: «Questo contiene il mio anno ventesimo terzo;/ incominciando dal 4 maggio 1799, sino ai / 4 maggio I 800. >Ed ecco< >Ecco perché porta/ nel frontispizio un anno< >data<». Il rapporto di dipendenza sottolineato dal Nostro («Ecco perché,, ecc.), tra il contenuto del frontespizio e il periodo di tempo oggetto del libro, sussiste infatti solo ove il frontespizio, unitamente all'eponimo pronome personale, presenti un «anno,, (specificato, sotto cassatura, «data»), e non invece qualora rechi Sesto tomo dell'Io. La ragione del legame esplicativo uEcco perché», è infatti solo quella di rimandare alla rappresentazione del frontespizio contenuta nel periodo precedente (a Questo [...] 1800 »). Quanto alla tradizione di simile titolo si segnala inoltre che nelle Avventure letterarie di un gi.orno (1816), un antico amico del Foscolo, Pietro Borsieri, intitolava il capitolo primo: lo. Circa la datazione dei frammenti del romanzo autobiografico, as- AUTOBIOGRAFICO (1799-1800) • NOTA INTRODOTTI.VA 539 sunti come termini ante quem l'Ortis 1802 (per le tracce dell'«Avvertimento >> che si rinvengono nell'episodio pariniano), e le lettere ad Antonietta Fagnani Arese (per la cui seriorità nei confronti dei frammenti vedi C. F. GoFFIS, art. cit., pp. 394-5), il limite cronologico così fissato può essere ulteriormente rialzato sulla scorta della citazione ortisiana che si legge alla p. 21 dell'autografo fiorentino. Di seguito sono riportati i passi, rispettivamente tratti dall'Ortis 1798 (A), dall'autografo fiorentino (B), dall'Ortis 1801 (C), al cui interno, e in parentesi tonda, vengono registrate le varianti dell'Ortis 1802 (D). A a: Ad onta che questo mese non sia amico ai bagni, ho voluto spogliarmi ed immergermi in quel laghetto che pareva accogliermi con voluttà! Il mio cuore cantava un inno alla natura, e la mia fantasia s'illudeva invocando le ninfe amabili custodi delle fontane. Illusioni! grida il filosofo. E non è tutto illusione? tutto! - Beati gli antichi che si credevano degni de' baci di Venere, che sacrificavano alla bellezza e· alle grazie, che diffondevano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell'uomo, e che trovavano il bello ed il vero accarezzando gl'idoli della loro immaginazione• (Edizione Nazionale, 1v, p. 7). B «Immergendomi in quel laghetto >il mio cuore< io cantava un inno alla natura ed invocava le ninfe amabili custodi delle fontane. Illusioni/ grida il filosofo. E non è tutto illusione? tutto! Beati gli antichi che si credevano [degni] degli abbracciamenti delle dive, che sacrificavano alla bellezza e alle grazie, che diffondevano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell'uomo, e che accarezzando gl'ldoli della lor fantasia trovavano il bello cd il vero•· C « Lo credi tu ? io delirando deliziosamente mi veggo dinanzi le ninfe ignude, saltanti, inghirlandate di rose, e invoco in lor compagnia le muse e l'amore; e fuor dei rivi che cascano sonanti e spumosi, vedo uscir sino al petto con le chiome stillanti sparse sulle spalle rugiadose, e con gli occhi ridenti le naiadi (D Naiadi), amabili custodi delle fontane. Illusioni/ grida il filosofo. E non è tutto illusione? tuttoI Beati gli antichi che si credeano degni de1 baci delle immortali dive del cielo, che sacrificavano alla bellezza e alle grazie, che diffondevano (D diffondeano) lo splendore della divinità sulle imperfezioni dell'uomo, e che trovavano il Bello ed il Vero accarezzando gli idoli della lor fantasia» (Edizione Nazionale, 1v, p. 202, e vedi qui alle pp. 619-20). Che B derivi da A, è provato da una cassatura che in B copre la lezione di A. In B infatti, inizialmente, si leggeva: «Immergendomi in quel laghetto il mio cuore »; successivamente «il mio cuore » (lezione di A), veniva cancellato e sostituito da a io», conservato poi in C-D. Se, di per sé, tale dato potrebbe riuscire insufficiente a dimostrare l'anteriorità di B nei confronti di C-D, non altro attestando che la sua derivazione da A (il Foscolo potrebbe essersi rifatto ad A S4° PROSE • FRAMMENTI DI UN ROMANZO indipendentemente, e posteriormente alla redazione di C), quanto ci convince del contrario è invece la presenza di una lezione nen>altra, nel progressivo e graduale evolversi del testo da A a C-D. A presenta, e B conserva, «credevano» e «diffondevano». C è invece oscillante: accanto a «diffondevano» (poi unificato in «diffondeano » in D), riscontriamo «credeano >>. Analogamente ugl'idoli » di A e B, diventa 11 gli idoli» di C e D, «il bello ed il vero,, di A e B, «il Bello ed il Vero» di Ce D. Che Ce D non discendano meccanicamente da B è testimoniato dal fatto che non in ogni caso tali stampe si rifanno a B, ma, talvolta, contro B stesso, risalgono ad A. È il caso di: •e che trovavano il bello ed il vero accarezzando gl'idoli della loro immaginazione!» di A, che così muta in B: «e che accarezzando gl'Idoli della lor fantasia trovavano il bello ed il vero». C e D ritornano per la struttura del periodo ad A: «e che trovavano il Bello ed il Vero accarezzando gli idoli della lor fantasia! ,,, ma nello stesso tempo la presenza di «fantasia,, in luogo di «immaginazione ,, di A, attesta il passaggio per B, così che i piani cronologici rimangono quelli stessi che progressivamente possono essere schematizzati dalla successione: A, B, C, D. Solo nel caso in cui C non fosse, come è invece inequivocabilmente, un termine di mediazione tra A-B e D, potremmo supporre un parallelismo cronologico tra B e C. Analogamente B è termine medio tra C-D e A. Tanto B che C sono dunque autonomi tramiti del trapasso da A sino a D, così che l'ipotesi della loro coincidenza temporale sfuma, ove si consideri il diverso articolarsi delle varianti in B e in C. Al 4 maggio 1800, dichiarato nell'11Avvertimento », non pare poi doversi accordare eccessiva fiducia quale termine post quem, avvalorando per converso il sospetto della sua istituzione a priori, in parallelo alla data del 4 maggio 1799 originalmente assunta, sulla base di quanto si leg~e a p. 22 dell'autografo fiorentino, là dove il Foscolo afferma di avere trascorso al'infanzia fra gli Egizi:ani ; la fanciullezza nell'Illiria; la giovinezza su e giù per l'Italia; la prima virilità in Francia, come vedete; e il resto di vita ... Dio sa! ». Come è noto il Nostro si trasferi da Genova a Nizza sulla fine di novembre del 1799, trattenendovisi sino a quando non fece ritorno nel capoluogo ligure, dopo il 10 e prima del 15 marzo del 1800. Ma neppure è da e,scludersi che il soggiorno francese di cui è cenno nel frammento sopra citato, non possa convenire al trasferimento del poeta, unitamente agli esuli genovesi, ad Antibes, dopo la resa di Genové (4 giugno), cosi che, grazie anche alla menzione dei «due genovesi» della penultima riga di p. 4 dell'autografo fiorentino, è da presumersi che all'Io il Foscolo abbia lavorato dopo il suo arrivo a Genova (dopo il 10 luglio 1799), e prima della ripresa ortisiana che, con ogni probabilità, risale al pe- AUTOBIOGRAFICO (1799·18C0) • NOTA INTRODUTTIVA 541 riodo trascorso dal poeta in Firenze, dal dicembre 1800 sino alla metà marzo del 1801 (e vedi Edizione Nazionale, 1v, p. xxxvi). Considerata generalmente quale preludio del successivo registro sterniano, originalmente cristallizzatosi nella Notizia didimea, la prosa dei frammenti del romanzo autobiografico, lasciato probabilmente in tronco dal Foscolo per rimpellente necessità di tacitare con il nuovo Ortis la circolante contraffazione sassoliana (vedi la nota introduttiva alle Ultime lettere diJacopo Ortis, alle pp. 559-60)1 ambiziosamente associa, unificandoli grazie al filtro autobiografico, gli archetipi remoti e prossimi delle più celebrate e caratteristiche tradizioni romanzesche del Settecento, dalla specie erotica rappresent::ita da Le tempie de Gnide (1725) di Montesquieu, a quella satirica, costituita dai Gulliver's Travels (1726) di Swift, in traduzione francese, al massimo esempio di romanzo di costume del secolo XVIII, il Voyage du jeune Anacharsis en Grèce ecc. del Barthélemy, riproposto, di lì a qualche anno, con non grande fortuna, dal Platone in Italia (1804-1806) di Vincenzo Cuoco. L'esclusivo orizzonte linguistico entro cui si dispongono le scelte foscoliane non deve stupire, poiché oltre che il francese era certo l'unica lingua moderna cui il Nostro, a quella data, potesse direttamente adire, e pur non trascurando robiettivo prestigio delle opere del Montesquieu e del Barthélcmy, ancora assente dalle scene la Vita alfieriana, va rilevato che la situazione nazionale, per quanto concerne la prosa, non offriva punti di riferimento paragonabili a quelli rappresentati, nell'ambito lirico e drammatico, da Parini, Monti ed Alfieri. E, del resto, già con l'Ortis del 1 98 il Foscolo, sulla falsariga della Nouvelle HéloCse e del Werther, aveva tentato l'acquisizione ai ranghi della letteratura italiana del romanzo epistolare. È lecito supporre che in un torno di tempo carat• terizzato da una grande incertezza politica, quando, pur nella precarietà del quadro generale, e nonostante il campanello d'allarme del trattato di Campoformio (1797), poteva sembrare che le sorti dell'auspicata unità nazionale fossero ancora in gioco, la dominante di personaggi quali Saint-Prewc e Werther, apparisse al Foscolo insufficiente a dar voce all'intreccio di reazioni, spesso in stridente contrasto, suscitate dalla complessità del momento storico, cosi da obbligarlo a gettare nello stesso crogiolo materiali di differente estrazione stilistica, onde forgiare un genere nel quale alla pessimistica sfiducia nella ragione della contemporanea società umana, e alla materialistica delusione del piacere potesse contrapporsi l'utopistica esemplarità della saggezza degli antichi. DAI [« FRAMMENTI DI UN ROMANZO AUTOBIOGRAFICO»] [I) Rispetto alla dedica del libro, io la offro a me stesso. Ed è questo, dacché mi son posto a cucire la mia Odissea, l'unico pensiero veramente commodo, e pronto. Non mi costa un minuto di si di no di ma; e mi risparmia la fatica e il rossore di scrivere una dedicatoria. Ond'io posso dal mio canto risparmiare e al mecenate, e al lettore due pagine per lo meno di noia. Le cose tra me e me si passano in confidenza. D'altronde de' miei avi, bisavi, e proavi non saprei che mi dire; non li conosco. Potrei rimediare a questa ignoranza, e al vuoto della carta col mio panegirico: ma non si può né si deve e ripocrisia lo proscrive assolutamente; e poi ... chi crederebbe? Biasimiamoci. Progetto nuovo e in salvo dalle mentite. - Ecco per altro violate le regole, e la mia dedicatoria non sarebbe più una dedicatoria. Nondimeno bisogna confessare che il libro è mutilato. Vittoria, Lettore! m'alzo a mezzo il pranzo per non lasciarmi scappare il più bel pensiero del mondo. La dedica sarà scritta o dall'editore, o dallo stampatore, o dal libraio, o da un amico, o da qualche letterato, o da ... - Odore di rancidume! E l'impostura farà sempre mercato di voi, vergini muse? Non è poco se la richezza offre, sprezzatamente un tozzo di pane al vostro sacerdote. Lettore finiamola; tu m'hai fatto tastare una certa corda ... - ed io non ci vo più pensare. Non ci pensar nemmen tu. Ma lo stampatore per non caricarsi la conscienza del pentimento de' compratori che crederanno di portarsi a casa il libro con tutte le adiacenze e pertinenze, aggiunga nel frontispizio a lettere maiuscole: Vi sarà l'epigrafe; non la dedica. Chi la vuole se la scriva. [II] E n'abbiamo ragionato sovente, io e ramico mio Diogene; il quale non è poi come si pretende, l'uomo il più villano del mondo. Né tutta la sua eloquenza, né il suo esempio, che vale assai più, FRAMMENTI DI UN ROMANZO AUTOBIOGRAFICO (1799·1800) 543 mi hanno potuto mai fare cosmopolita nel cuore .•• - non posso. La mia ragione presa alle strette dagli argomenti, e dalla trista verità dell'esperienza ha detto scuotendo appena la testa di sì; ma il cuore - e Diogene che lo sa ve ne attesti - è restato da quel di malinconico, e non ha risposto neppure un et. Ho dormito più volte i miei sonni pacifici su la paglia, e ho cenato allegramente sul desco della povertà. Nelle mie meditazioni ho congedato la vita col disdegnoso sorriso di tutti gli antichi e moderni sprezzatori di morte; non eccettuato il buon Seneca che sia detto fra noi - si accarezzava tremando un fiato di vita con l'acqua ora di uno ora di un altro ruscello, e coi legumi piantati sospettosamente dalla propria mano ne' suoi lussureggianti giardini.1 Ma la patria ... ? Il cielo non me ne ha conceduto; anzi ordinò alla fortuna di gettarmi nel mondo come un dado. Dai precedenti tomi dell'lo che voi, madama, avete già letto, o leggerete, o sarete per non leggerli mai - non sono ancora scritti -, saprete ch'io nacqui in Grecia; che io trascorsi l'infanzia fra gli Egiziani; la fanciullezza nell'Illiria; la giovinezza su e giù per l'Italia; la prima virilità in Francia, come vedete; e il resto di . 0· Ivita . . . 10 sa. Aggiungete che mio padre mi lasciò erede del suo genio ambulatorio, ed io mi struggo di cercar nuove terre per notomizzare sempre più gli uomini, ed adorare la madre natura. - Ma se voi, madama, leggendo sin qui le poche pagine del mio libro vi siete affezionata all'autore, che [s'interrompe] (111] Avvertimento. Il libro che sta fra le mani del candido Lettore è il sesto tomo dell'lo, opera annunziata nel paragrafo precedente che n'è il proemio universale. Mando innanzi il sesto perché gli antecedenti volumi stanno ancora nel mio calamaio, e i futuri nel non leggibile scartafaccio del fato. 1. e coi legumi ..• giardini: vedi J.-J. BARTHtLEMY, Voyage dt1 je,me Anachars.is en Grèce vers le milieu dll quatrième siècle avant l'ère vulgaire, Paris, Didot, L'on scptième [1798-1799'], 7 volt., 111, p. 71: «Nous passames dans un petit jardin que Philotine cultivait lui-m~me, et qui lui fournissait des fruits et dcs légumes [..•] ». 544 PROSE Comprende questo tomo il mio anno ventesimo terzo, dai 4 maggio del 1799 sino a' 4 maggio del 1800. Unito che sia al corpo dellIopera lascerà il frontispizio che porta. Né si sospetti ch'io stampi un tomo alla volta per tastare il giudizio del pubblico. Con pace della critica e del disprezzo proseguirò sempre a scrivere ed a stampare. Ma perché scrivi ? - A ciò ho risposto nel proemio, inseritovi ad hoc. Che se poi non avete né voluto né saputo valutare le mie ragioni, eccomi presto a darvi la risposta che di pieno iure vi si spetta. = Poiché lasciate suonare il piffero a chi volendo ingannar la sua noia sturb_a i vicini, non v'adirate s'io che non so suonare alcuno strumento, tento d'ingannare scrivendo i miei giorni perseguitati ed afflittiI E perché stampi? E perché compri? - D'altronde si può comprare e non leggere: e qui avrei voluto chiamare in testimonio le biblioteche de' frati e de' Vescovi ma poiché sono state saccheggiate dagli Agenti nazionali, mi trovo forzato a far citare quelle de' commissarii dei finanzieri, dei generali dei nobili ... e di qualche letterato. Vuoi più? Tutta questa rispetta[bi]le ciurma potrà persuadervi ab experto che si può comprare, leggere, [e] non intendere. Fuor di scherzo. - Vedimi ginocchione per confessarmi a' tuoi piedi o tollerante Conoscitore dell'uomo. Il proponimento di mostrarmi come la madre natura e la fortuna mi han fatto sa un po' d1ambizione.1 Lo so ... ma .•. ti giuro ch'io non sono stato mai ambizioso. Ho sentito ... Io dico arrossendo ... ho sentito e sento - lascia prima ch'io mi copra con le mani la faccia - una febbre di gloria che m'ubbriaca perpetuamente la testa.2 Nella mia adolescenza le ho sacrificato la quiete della casa paterna, e la certezza del pranzo giornaliero. I miei piacieri, i miei vizii, le mie passioni il mio onore, e perfino le mie speranze ... ora non ho altro ..• - sono quand'ella il voglia sue vittime. È vero ch'io spoglio talvolta questo fantasma della porpora e della tromba; e allora vedo in lui uno scheletro che traballa su le ossa ammucchiate de' cimiterii ... casca si dissolve e si confonde3 1. Il proponimento ... d'ambi::ione: vedi Ortis (1798): • Lettera XVIII. [•••] ho la generosità o di' pure la sfrontatezza di presentarmi nudo, e quasi quasi come la madre natura mi ha fatto 11 (Edizione Nazionale, JV, p. 31). z. Ho sentito . •• testa: vedi Ortis (1802), la nota I a p. 650. 3. È vero. , • confonde: vedi Ortis (1802), la nota 4 a p. 650. FRAMMENTI DI UN ROMANZO AUTOBIOGRAFICO (1799-1800) 545 fra le altre reliquie della morte. Ma poi? torna a lusingarmi con la sua voce che passa tra il fremito delle tarde generazioni1 e rompe co' suoi raggi che a me sembrano eterni la profonda caligine de' secoli remoti. Tutte le mie potenze, e i bisogni stessi della vita non parlano allora in me che con un rispettoso mormorio. Il solo pensiero che il mio nome sarebbe sepolto col mio cadavere mi distoglieva due volte dal mio vecchio proponimento di ingannare la fortuna, di liberarmi dalla noia del mondo e di contentare la umana malignità rendendo questa misera vita alla terra.2 L'ambizioso ha l'anima gonfia, non elevata. Non ho mai brigato il fumo della letteratura, né i ricamati vestimenti de' nostri magistrati. E più che l'amore della virtù il timore dell'avvilimento mi ha ratenuto sovente da quelle azioni che la società chiama delitti. Ma s'io ... - >non forza< umana, non prepotenza divina mi >faranno rappresentare< su questo mortale teatro la parte del piccolo briccone.3 Bensl ..• - Lo dirò? Sogno talvolta di nuotare alla gloria per un mare di sangue.4 Or tu puoi desumere ciò ch'io non posso dire. Un pari accesso avea non ha guari abbattute le mie facoltà. Io aveva esiliato dal mio ingegno le vergini muse, e dal mio cuore il dolce spirito dell'amore: Addio patria, addio madre, addio cara e soave corrispondenza di pacifici affetti. Pareami di consacrare alla Libertà un pugnale fumante ancora nelle viscere de' miei congiunti, e di piantar la bandiera della vittoria sopra un monte di cadaveri:5 La mi[a] fantasia scriveva frattanto il mio nome sulle volte dei cieli. l\1a io mi sentiva rodere a un tempo dalla fame di gloria, l'ulcera sorda del supremo potere.6 Sennonché la disperazione di conseguirli prostrò l'anima mia la quale giaceva aspettando il soffio distruttore della morte. 1. Ma poi? ••. generazioni: vedi Ortis (1802), la nota 2 a p. 670. 2. Il solo . .. terra: vedi Ortis (1802), la nota I a p. 651. 3. E più .•. briccone: vedi Ortis (1802), la nota I a p. 592. 4. Sogno . .. sangue: vedi Ortis (1798): • Lettera v. [...] si sono abituati a cercare la gloria anche per mezzo della scellcraggine, simili a que' [...] principi che nuotano al trono per un mare di sangue» (Edizione Nazionale, IV, p. 11), a sua volta derivato dal v. 106 della traduzione cesarottiana dell'Elegy written in a Country Church-Yard di THOMAS GnAY: a per mar di sangue andar nuotando al trono» (Elegia inglese del signor TOMMASO GRAY sopra un cimitero di campagna trasportata in tJerso italiano da/I'A[bate] M[ELCHIORRE] C[ESAROTTI], Padova, Comino, 1772). 5. e di piantar •.. cadaTJeri: vedi Ortis (1798): a Lettera v. [••.] simili a que' conquistatori che s,innalzano un trofeo di cadaveri [..•] » (Edizione Nazionale, 1v, p. 11). 6. Ma io • •. potere: vedi Ortis (1802), la nota 7 a p. 654. 3) PROSE Una notte nell'agonia della infermità, mi sono sentito asciugare il sudore dal volto. Schiudendo gli occhi languenti vidi al debile raggio di una lucerna un vecchio scarno, e coperto di un saio sdruscito; il capo calvo, la barba canuta e divisa in due liste. Non conosci me più, mi disse sedendo presso al mio capezzale, il caro amico Diogene? >La mia pallida mano gli accennò di andarsene< [ • • . • . • . . . . • . • . . . • . . • • • • • . • • • • . • • . . . .. . . ... . . . . . . . . . . . . . ... . . . . . . . . . . ] Mi stringeva anzi affettuosamente questa stessa mano [ . . . . . ] il mio sonno. (( Non dormo no ... diss'io sospirando profondamente e volgendomi dal suo lato, non dormo: ... aspetto qui il sonno eternoI Ma tu che cerchi da me ?» Ed egli: «O mio figliuolo! tu hai negletto la fortuna, perdute le scarse delizie della vita; consumata la gioventù, e invece di pentirti ti vai divorando quel poco d'ingegno che ti resta1 e che può solo acquistarti la gloria il di cui cieco desiderio ti ha ridotto a questo deplorabile statoi» - Il mio volto si rasserenava al suo dire, ma quest'ultime parole destandomi pietà di me stesso mi trassero una lagrima: ei l'asciugò col lembo del suo saio. Avvedutosi ch'io mi forzava d'alzarmi su le braccia rizzossi per aiutarmi; s'assise poscia, e sostenendomi il capo con la palma della sua mano proseguì : (>4 «Oh in questa età, proruppe abbracciandomi, in questa età noi respiriamo per un momento l'incenso dilicato della fedeltàl ma ••• un momento. lo, proseguì, stava tra il si e il no sul pensiero di offrire io medesima il tuo primo sacrificio alla natura. Temeva di aprire al tuo cuore innocente ed impetuoso la via del dissipamento. Io sentiva il rimorso di sviarti dalle utili discipline, e di rapirti agli amabili vaneggiamenti di un amore non ancora conosciuto. Ma d'altra parte mi parca di vederti strascinato dalla prepotenza del tuo naturale a comprare i baci da una bocca affamata guastando la tua salute e il tuo cuore. Talvolta ti vedeva a' piedi di una superba maledire l'amore e sospirare sprezzato. Le donne fastose della loro I. gli occhi ••• seno: vedi Ortis (1802), la nota 4 a p. 584. 2. Eterno Iddio! ••. sempre: vedi Ortis (1798): •Lettera XXXI. Eterno lddiol [.••]perché mi ha fatto conoscere la felicità se doveva dcsidernrla sl ardentemente e ••• perderne la speranza per sempre [?]•(Edizione Nazionale, 1v, p. 50). 3. Temira • .• per lei: vedi MONTESQUIEU, Le tempie de G11ide, cit., p. 39: •J'entends louer Camillc par tous ceux qui la connoissent [...] et j'cn suis plus ftatté qu'elle-mcme •· 4. Ebbene • •• t'amo: vedi MONTESQUIEU, Le tempie de Gnide, cit., p. 39: •Aime-moi. Oui, je t'aime. Mais conunent m'aimestu? Hélasl lui dis-je, je t'aime comme je t'aimois [•.•] •· 552 PROSE virtù non altro alimentano nei gemiti de' loro amanti infelici tranne una perfida compiacenza! Vien dunque vieni.2 Gli abbracciamenti di una donna che ti vuol bene davvero t'ammaestrino nella via del piacere e t'allontanino dalle passioni e dal vizio. Bada, non innamorarti ... ». 55 Avessi creduto a Temira! Non avrei tentato di offrire a' tuoi piedi, o Teresa, il mio cadavere senza neppure la speme di una lagrima. Ma ... I ho dovuto bevere sempre la saviezza nel calice della sventura. lo ti sarò amico sino all'ultimo fiato. Quest'avvanzo di vita, e tutto quello che può ancor mantenerlo, è tuo: - ma amarti? non più mai! lo fuggo le rimembranze della tua bellezza, e del mio misero amore, simile a un'ombra lamentosa3 ••• - 56 Siegue a parlare Temira - cc Cogli i favori delle belle come i fiori delle stagioni. Se il cielo ti darà una sposa dividi con essa tutta la tua felicità. Dividi con essa, nelle disgrazie, il pane e le lagrin1e.4 Amatevi. E se vi fosse concesso amatevi eternamente. Ma questo amore perfetto se lo hanno pur troppo riserbato i numi.5 Ancor non è poco 1. Le donne •.• compiacenza: vedi Ortis (1798): cr Lettera XXXIII.[...] quante donne nelle sventure de' loro amanti sfortunati non altro alimentano che una compiacenza orgogliosa!• (Edizione Nazionale, IV, p. 50). 2. Vien dunque TJieni: vedi MONTESQUIEU, Le tempie de Gnide, cit., p. 53: • Viens donc avec moi, viens [...] ». 3. lofuggo ... lamentosa: vedi MONTESQUIEU, Le tempie de Gnide, cit., p. 15: •[...] ils te fuiront comme une ombre plaintive [...] •. 4. Dividi ... /agrime: vedi Ortis (I 798): cr Lettera xxx. [...] Ma io t'offriva, o Lauretta, le mie lagrime e questa capanna dove tu avresti mangiato del mio pane» (Edizione Nazionale, IV, p. 48). Successivamente in lettera all'Arese: 11 Divideremo il pane e le lagrime • (Epistolario, I, p. J 12; vedi C. F. GoFFIS, art. cit., pp. 396-7). I passi sopra citati derivano, a loro volta, dallo sterniano Viaggio sentimentale: • [...] tu mangicresti del mio pane e berresti nella mia tazza 11 (qui a p. 892), a sua volta mutuato dal passo biblico: • [...] dc pane illius comedcns et non forza< umana, non prepotenza divina mi >faranno rappresentare< su questo mortale teatro la parte del piccolo briccone». 2. Per ... libertinaggio: vedi in lettera ali'Arese: • [.•.] io so che mi sarebbero utili le arti del libertinaggio per farmi amare di più: [...] i miei passati amori hanno avuto o i caratteri romanzeschi, o con qualche donna del gran mondo quei del libertinaggio• (EpiJtolario, 1, p. 229). 3. che tutto ••. mai: vedi in lettera all'Arese: • Tutto dipende dal cuore, mia buona amica, dal cuore che né il cielo né gli uomini né la fortuna possono cambiar mai ... 11 (Epistolario, J, p. 404). 4. ma .•. belle: vedi Sepolcri, 142, a p. 311: • Già il dotto e il ricco cd il patrizio vulgo •· 5. ho cercato .•. mortale: vedi in lettera ali'Arese: • [•..] io non mi posso vedere in mezzo al bel mondo. Ciance, vituperii e noie• (Epistolario, 1, p. 278). UJ..TIME LETTERE DI JACOPO ORTI$ (1802) 593 rovinare, io stimo miglior partito la ritirata. E chi mi affida dal- 1'odio di questa razza d'uomini tanto da me diversa? né giova disputare onde scoprire per chi stia la ragione: non lo so; né la pretendo tutta per me. Quel che importa, si è (e tu in ciò sei d'accordo), che questa indole mia schietta, ferma, leale, o piuttosto ineducata, caparbia, imprudente, e la religiosa etichetta che veste d'una stessa divisa tutti gli esterni costumi di costoro, non si confanno; e davvero io non mi sento in umore di cangiar d'abito. Per me dunque è disperata perfino la tregua, anz'io sono in aperta guerra, e la sconfitta è imminente; poiché non so neppure combattere con la maschera della dissimulazione, virtù d'assai credito e di maggiore profitto.1 Ve' la gran presunzioneI io mi reputo meno brutto degli altri e sdegno perciò di contraffarmi; anzi buono o reo ch'io mi sia, ho la generosità, o di' pure la sfrontatezza, di presentarmi nudo, e quasi quasi come la madre natura mi ha fatto. Che se talvolta io dico a me stesso: pensi tu che la verità in bocca tua sia men temeraria? io da ciò ne desumo che sarei matto se avendo trovato nella mia solitudine la tranquillità de' beati i quali s'imparadisano nella contemplazione del sommo bene, io per •.• per efJÌ.tare il pericolo d'innamorarmi (ecco la tua stessa espressione) mi commettessi alla discrezione di questa ciurma cerimoniosa e maligna. Padova, 3 dicembre.2 QUESTO scomunicato paese m'addormenta l'anima, noiata della vita: tu puoi garrirmi a tua posta, in Padova non so che farmi: se tu mi vedessi con che faccia sguaiata sto qui scioperando e durando fatica a incominciarti questa meschina letteral - Il padre di Teresa è tornato a' colli Euganei, e mi ha scritto: gli ho risposto annunziandogli il mio ritorno; e mi pare mill'anni. Questa università (come saranno, pur troppo, tutte le università della terrai) è per lo più composta di professori orgogliosi e nemici 1. poiché • •• profitto: vedi i Frammenti di un romanzo a,,tobiografico: • I popoli illuminati non hanno [...] Oserei definire la civiltà: la perfetta [arte] di fingere. E la virtù - Il secreto di mascarare tutti i volti 11 (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, mss. Foscoliani, voi. 11, lns. E, p. 10), a sua volta traduzione da J.-J. BARTHÉLEMY, op. cit., 1v, p. 522: •J'ose le dire, les peuples éclairés n'ont sur nous d'autre superiorité, que d'nvoir perfectionné l'art de feindre, et le secret d'attacher un masque sur tous les visages • (e vedi C. F. GoFFIS, art. cit., p. 345). z. Vedi Ortis (1798),. Lettera XIX (Edizione Nazionale, 1v, pp. 32-3). 38 S94 PROSE fra loro, e di scolari dissipatissimi. Sai tu perché fra la turba de' dotti gli uomini sommi son cosi rari? Quelristinto ispirato dall'alto che costituisce il GENIO non vive che nella indipendenza e nella solitudine, quando i tempi vietandogli d'operare, non gli lasciano che Io scrivere.1 Nella società si legge molto, non si medita, e si copia: parlando sempre, si svapora quella bile generosa che fa sentire, pensare, e scrivere fortemente: per balbettar molte lingue, si balbetta anche la propria, ridicoli a un tempo agli stranieri e a noi stessi: dipendenti dagl'interessi, dai pregiudizii, e dai vizii degli uomini fra i quali si vive, e guidati da una catena di doveri e di bisogni, si commette alla moltitudine la nostra gloria, e la nostra felicità: si palpa la ricchezza e la possanza, e si paventa perfino di essere grandi perché la fama aizza i persecutori, e la altezza di animo fa sospettare i governi; e i principi vogliono gli uomini tali da non riuscire né eroi, né incliti scellerati mai. E però chi in tempi schiavi è pagato per istruire, rado o non mai si sacrifica al vero e al suo sacrosanto istituto; quindi quell'apparato delle lezioni cattedratiche le quali ti fanno difficile la ragione e sospetta la verità. - Se non ch'io d'altronde sospetto che gli uomini tutti sieno altrettanti ciechi che viaggino al buio, alcuni de' quali si schiudano le palpebre a fatica immaginando di distinguere le tenebre fra le quali denno pur camminar brancolando. Ma questo sia per non detto ... e' ci sono certe opinioni che andrebbero disputate con que' pochi soltanto che guardano le scienze col sogghigno con cui Omero guardava le gagliardie delle rane e de' topi. A questo proposito: vuoi tu darmi retta una volta? poiché v'ha il compratore, vendi in corpo e in anima tutti i miei libri. Che ho a fare di quattro migliaia e più di volumi ch'io non so né voglio leggere? Preservami que' pochissimi che tu vedrai ne' margini postillati di mia mano. O come un tempo io m'affannava profon- 1. Quell'istinto ... scrivere: vedi il sonetto Che stai?già il secol l'orma ultima lascia, 13-4, a p. 250: •a chi altamente oprar non è concesso/ fama tentino almen libere carte11; e in lettera all'Arese: «Conviene insomma ch'io studi ... : poiché non si può diventar grandi con i fatti, tentiamolo con gli scritti• (vedi nel tomo II la lettera 27), che rimaneggia il concetto alfieriano esposto nel libro n, cap. s del Principe e delle lettere: • Tanto può più, presso al comune degli uomini, il fare che il dire. Non pensano essi, che il dire altamente alte cose, è un farle in gran parte; e che per lo più chi ben disse [...] di tanto avrebbe superato chi ben fece, di quanto dovea il dicitore aver avuto un ben maggior impulso per darsi interamente od esaminare, conoscere, innovare, o rettificare una cosa, da cui [...] niuno altro frutto per allora sperava, che la semplice gloria dell'averla ben ideata, e ben detta ». ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 595 dendo co' librai tutto il mio! ma questa pazzia non m'è passata se non per cedere forse il luogo ad un'altra. Il danaro dàllo a mia madre. Cercando di rifarla di tante spese - io non so come, ma, a dirtela, darei fondo a un tesoro - questo ripiego mi è sembrato il più acconcio. I tempi diventano sempre più calamitosi, e non è giusto che quella povera donna meni per me disagiata la poca vita che ancora le avanza. Addio. Da' colli Euganei, 3 gennaio I 798.1 PERDONA; ti credeva più saggio. - Il genere umano è questo branco di ciechi che tu vedi urtarsi, spingersi, battersi, e incontrare o strascinarsi dietro la inesorabile fatalità. A che dunque seguire, o temere ciò che ti deve succedere? M'inganno? l'umana prudenza può rompere questa catena invisibile di casi e d'infiniti minimi accidenti che noi chiamiamo destino? sia: ma può ella per questo mettere sicuro lo sguardo fra l'ombre dell'avvenire? O! tu nuovamente mi esorti a fuggire Teresa; e non è lo stesso che dirmi: abbandona ciò che ti fa cara la vita; trema del male, e ... t'imbatti nel peggio? l\'Ia poniamo ch'io paventando prudentemente il pericolo dovessi chiudere l'anima mia a ogni barlume di felicità, tutta la mia vita non somiglierebbe forse le austere giornate di questa nebbiosa stagione, le quali ci fanno desiderare di poter non-esistere fin tanto ch'esse infestano la natura? Or dì il vero, Lorenzo; quanto sarebbe meglio che parte almen del mattino fosse confortata dal raggio del sole a costo ancora che la notte rapisse il dì innanzi sera? Che s'io dovessi far sempre la guardia a questo mio cuore prepotente, sarei con me stesso in eterna guerra, e senza pro. Mi butto a corpo morto e vada come sa andare. - Intanto io Sento l'aura mia antica, e i dolci colli veggo apparirI• 10 gennaio.2 ODOARDO spera distrigato il suo affare tra un mese; cosi egli scrive: tornerà dunque, al più tardi a primavera. - Allora si, verso i primi d'aprile, crederò ragionevole d'andarmene ... allora. • Petrarca.3 1. Vedi Ortis (1798), Lettera xx (Edizione Nazionale, IV, pp. 33-4). 2. Vedi Ortis(1798), Lettera XXI (Edizione Nazionale, IV, p. 34). 3. Rime,cccxx, 1-2,. PROSE 19 gennaio.1 UMANA vita? sogno; ingannevole sogno al quale noi pur diam si gran prezzo, siccome le donnicciuole ripongono la loro ventura nelle superstizioni e ne, presagi! Bada: ciò cui tu stendi avidamente la mano è un,ombra forse, che mentre è a te cara, a tal altro è noiosa. Sta dunque tutta la mia felicità nella vota apparenza delle cose che mi circondano; e s'io cerco alcun ché di reale, o torno a ingannarmi, o spazio attonito e spaventato nel nulla! Io non lo so ..• ma, per me, temo che la natura abbia costituita la nostra specie quasi minimo anello passivo dell'incomprensibile suo si·stema,2 dotandone di cotanto amor proprio, perché il sommo timore e la somma speranza creandoci nella immaginazione una infinita serie di mali e di beni, ci tenessero pur sempre occupati di questa esistenza breve, dubbia, infelice. E mentre noi serviamo ciecamente al suo fine, ride ella frattanto del nostro orgoglio che ci fa reputare l'universo creato solo per noi, e noi soli degni e capaci di dar leggi a tutto quello ch'esiste. Andava dianzi perdendomi per le campagne, inferraiuolato sino agli occhi, osservando lo squallore della terra tutta sepolta sotto le nevi senza erba né fronda che attestasse le sue passate dovizie. Né potevano gli occhi miei lungamente fissarsi su le spalle de' monti, il vertice de' quali era immerso in una negra nube di gelida nebbia che piombava ad accrescere il lutto dell'acre freddo ed ottenebrato. E mi parea di veder quelle nevi disciogliersi e precipitare a torrenti che innondavano il piano, strascinandosi impetuosamente piante, armenti, capanne, e sterminando in un giorno le fatiche di tanti anni e le speranze di tante famiglie. Trapelava di quando in quando un raggio di sole il quale quantunque restasse poi vinto dalla caligine, lasciava pur divedere che sua mercé soltanto il mondo non era dominato da una perpetua notte profonda. Ed io rivolgendomi a quella parte di cielo che albeggiando manteneva ancora le tracce del suo splendore: o Sole, diss'io, tutto can- 1. Vedi Orti.s (1798), Lettera XXII (Edizione Nazionale, IV, pp. 34-6). 2. ttmo ... sistema: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico: 11La catena che cinge l'universalità degli esseri» (Biblioteca Nazionale Centrale di Fi4 renze, mss. Foscoliani, voi. II, ins. E, p. 7), n sua volta derivato da J.-J. BARTHÉLEMY, op. cit., 111, p. 176: 11[•••] on voulut mesurer l'espace, sonder l'infini, et suivre les contours dcs cette chaine qui dans l'immcnsité de ses replis embrasse l'universalité des @tres » (vedi G. C. GOFFIS, art. cit., p. 3S1). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 597 gia quaggiù! ma tu giammai, eterna lampa, non ti cangi? mail Pur verrà dì che Dio ritirerà il suo sguardo da te, e tu pure cadrai nel vano antico del caos: né più allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti; né più l'alba inghirlandata di celesti rose verrà cinta di un tuo raggio su l'oriente ad annunziar che tu sorgi! Godi intanto della tua carriera. L'uomo solo non gode de' suoi giorni, e se talvolta gli è dato di passeggiare per li fiorenti prati d'aprile, dee pur sempre temere l'infocato aere dell'estate, e il ghiaccio mortale del verno. 22 gennaio.2 Così va, caro amico: - stavami al mio focolare dove alcuni villani de' contorni s'adunano in cerchio per riscaldarsi, raccontandosi a vicenda le loro novelle e le antiche avventure. Entrò una fanciulla scalza, assiderata, e voltasi all'ortolano, lo richiese della limosina per la povera vecchia. Mentre ella stava rifocillandosi al fuoco, egli le preparava due fasci di legne e due pani bigi. La villanella se li prese, e salutandoci se ne andò. Usciva io pure, e senz'avvedermi, la seguitava calcando dietro le sue peste la neve. Giunta a un mucchio di ghiaccio si fermò cercando con gli occhi un altro sentiero, ed io raggiungendola: - andate lontano, buona ragazza? - Niente più di mezzo miglio, signore. - Parmi che i fasci vi pesino troppo; lasciate che ne porti uno anch'io. - I fasci tanto non mi sarebbero di sì gran peso, se potessi sostenermeli su le spalle con tutte due le braccia; ma questi pani m'intrigano. - Or via, porterò i pani dunque. - Non rispose, ma si fe' tutta rossa e mi porse i pani ch'io mi riposi sotto il tabarro. Dopo breve ora entrammo in una capannuccia in mezzo la quale sedeva una vecchierella con un caldano fra i piedi pieno di brace sovra le quali stendeva le palme, appoggiando i polsi su le estremità de' ginocchi. - Buongiorno, buona madre. Buongiorno. - Come state, buona madre? - Né a questa né a dieci altre interrogazioni mi fu possibile di trarre risposta; perché essa attendeva a riscaldarsi le mani, alzando gli occhi di quando in quando per vedere se eravamo ancora partiti. Posammo trattanto quelle poche provvisioni; e a' nostri saluti e alle promesse di 1. o Sole . .• sorgi: vedi gli sciolti Al Sole, 49-58, a p. 122, e la relativa nota, e il sonetto Forse perché della fatal qufete, 3-4, a p. 200: • [•••] E quando ti corteggian liete / le nubi estive e i zeffiri sereni». 2. Vedi Ortis (1798), Lettera XXIII (Edizione Nazionale, 1v, pp. 36-8). 598 PROSE ritornare domani la vecchia non rispose se non se un'altra volta quasi per forza: Buongiorno. Tornando a casa, la villanella mi raccontava, che quella donna ad onta di forse ottanta anni e più, e di una difficilissima vita, perché talvolta avveniva che i temporali vietavano a' contadini di recarle la limosina che raccoglievano, in guisa che vedevasi sul punto di perire di fame, tuttavia tremava ognor di morire e borbottava sempre sue preci perché il cielo la tenesse ancor viva. Ho poi udito dire a' vecchi del contado, che da molti anni le morì di un'archibugiata il marito dal quale ebl::e figliuoli e figliuole, e quindi generi, nuore e nepoti ch'ella vide tutti perire e cascarle l'un dopo l'altro a' piedi nell'anno memorabile della fame. - Eppur, caro amico, né i passati né i presenti mali la uccidono, e brama ancora una vita che nuota sempre in un mar di dolore. Ahi dunque! tanti affanni assediano la nostra vita, che per mantenerla vuolsi non meno che un cieco istinto prepotente per cui (quantunque la natura ci porga i mezzi di liberarcene) siamo spesso forzati a comperarla coll'avvilimento, col pianto, e talvolta ancor col delitto! A TERESA' 9 febbraro. ECCOMI sempre con te: sono ornai cinque giorni, ch'io non posso vederti, e tutti i miei pensieri sono consecrati a te sola, a te consolatrice del mio cuore. È vero; io non ti posso fare felice. Quel mio Genio, di cui spesso ti parlo, mi condurrà al sepolcro per la via delle lagrime. Io non posso farti felice ... e lo diceva stamattina a tuo padre, che sedea presso al mio letto e sorrideva delle mie malinconie: ed io gli confessava, che fuori di te nulla di lusinghiero, e di caro mi resta in questa povera vita. Tutto è follia, mia dolce amica; tutto pur troppo! E quando questo mio sogno soave terminerà, quando gli uomini, e la fortuna ti rapiranno a questi occhi, io calerò il sipario: la gloria, il sapere, la gioventù, le ricchezze tutti fantasmi, che hanno recitato fino ad ora nella mia commedia, non fanno più per me: io calerò il sipario, e lascierò che gli uomini s'affannino per fuggire i dolori di una vita che ad 1. Questa lettera manca nelle successive edizioni di Zurigo e di Londra, sostituita con una datata 17 marzo (qui in Appendice alle pp. 697 sgg.). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 599 ogni minuto si accorcia, e che pure que' meschini se la vorrebbero persuadere immortale. Addio addio.1 Suona mezzanotte: a dispetto della mia infreddatura io m'era posto tutto impellicciato presso al caminetto che mandava ancora le ultime fiamme,2 per rispondere due righe a mia madre, e senza avvedermene ho scritto una lettera lunga lunga e tutta malinconica come questa. Quanta diversità dal mio biglietto di ieri che era gaio come la lsabellina quando sorridei• E adesso, s'io proseguissi, tenterei invano di distormi dalle mie solite prediche. Buona notte dunque. O! io sono intirizzito; il fuoco ha lasciato me, poiché s'avvedeva ch'io non mi preparava a lasciarlo.3 3 aprile.4 QUANDO l'anima è tutta assorta in una specie di beatitudine, le nostre deboli facoltà oppresse dalla somma del piacere diventano quasi stupide, mute, e incapaci di fatica. Che s'io non menassi una vita da santo, ti scriverei con un po' più di frequenza. Se le sventure aggravano il carico della vita, noi corriamo a farne parte a qualche infelice; ed egli tragge conforto dal sapere che non è il solo condannato alle lagrime. Ma se lampeggia qualche momento di felicità, noi ci concentriamo tutti in noi stessi, temendo che la nostra ventura possa, partecipandosi, diminuirsi, o l'orgoglio nostro soltanto ci consiglia a menarne trionfo. E poi sen• Questo biglietto non si trova pir}, come pure parecchie altre lettere. L'Editore. 1. Eccomi ••• addio: in lettera alPArese: • Eccomi sempre con te: sono stato tutt'oggi in casa, e tutti i miei pensieri sono con la mia Antonietta; ho incominciato a studiare più volte, ma mi pare perduto ogni momento che non sia consecrato a te sola, a te, amica del mio cuore [...] io sono [...] infelice perché possedo un cuore che mi rende la vita tempestosa e dolente, e che mi condurrà ol sepolcro per la via delle lagrime ..• è vero; non ti posso fare felice, ma io ti do tutto quello che ho; io t'nmo [••.] perché fuori di te, cosa mi resta di lusinghiero e di dolce in questa misera vita? .•• Tutto è follia, mia tenera amante, tutto purtroppo! e quando anche il soave sogno de' nostri amori terminerà, credimi, io calerò il sipario[.•.]. lo calerò il sipario, e lascerò che gli uomini si affannino per fuggire i dolori di un'esistenza che non sanno troncare• (vedi nel tomo Il la lettera 25). 2. io m'era posto . •. fiamme: in lettera all'Arese: a Eccomi impellicciato ed inferraiuolato al camino che ancora monda le ultime fiamme» (vedi nel tomo II la lettera 42). 3. O/ ... lasciarlo: in lettera all'Arese: • Diavolo! sono intirizzito di freddo; il foco ha lasciato me perché si è avveduto che non mi disponevo di lasciarlo» (vedi nel tomo II la lettera 42). 4. Vedi Ortis (1798), Lettera XXIV (Edizione Nazionale, IV, p. 38). 6oo PROSE te assai poco la propria passione, o lieta o trista che sia, chi sa troppo minutamente descriverla. Frattanto tutta la natura ritorna bella ... bella così quale dev'essere stata quando nascendo per la prima volta dall'informe abisso del caos, mandò foriera la ridente aurora d'aprile; ed ella abbandonando i suoi biondi capelli su l'oriente, e cingendo poi a poco a poco runiverso del roseo suo manto, diffuse benefica le fresche rugiade, e destò l'alito vergine de' venticelli per annunziare ai fiori, alle nuvole, alle onde e agli esseri tutti che la salutavano, la comparsa del Sole: del Sole! sublime immagine di Dio, luce, anima, vita di tutto il creato. 6 aprile.1 È vero; troppo! questa mia fantasia mi dipinge così realmente la felicità ch'io desidero e me la pone dinanzi agli occhi e sto lì li per toccarla con mano e mi mancano ancor pochi passi ... e poi ? l'infelice mio cuore se la vede svanire e piange quasi perdesse un bene posseduto da lungo tempo. Ma tuttavia ... - egli le scrive che la cabala forense gli fu da prima cagion di ritardo, e che poi la rivoluzione ha interrotto per qualche giorno il corso de' tribunali: aggiungi l'interesse che soffoca tutte le altre passioni, un nuovo amore forse . . . - ma tu dirai; e tutto ciò cosa importa? Nulla, caro Lorenzo: a Dio non piaccia ch'io mi prevalga della freddezza d'Odoardo .•• ma non so come si possa starle lontano un sol giorno di più! - Andrò dunque ognor più lusingandomi per tracannarmi poscia la mortale bevanda che mi sarò io medesimo preparata? 11 aprile.3 ELLA sedeva sopra un sofà rimpetto la finestra delle colline, osservando le nuvole che passeggiavano per l'ampiezza del cielo. Vedi, mi disse, quell'azzurro profondo! Io le stava accanto muto muto con gli occhi fissi su la sua mano che tenea socchiuso un libricciuolo. - Io non so come ... ma non mi avvidi che la tempesta cominciava a muggire, e il settentrione atterrava le piante più giovani. Poveri arbuscellil esclamò Teresa. Mi scossi. S'addensavano 1. Vedi O,tis (1798), Lettera xxv (Edizione Nazionale, IV, p. 39). 2. Vedi O,tis (1798), Lettera XXVI (Edizione Nazionale, JV, pp. 39-40). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 6oI le tenebre della notte che i lampi rendeano più negre. Diluviava ... tuonava. - Poco dopo vidi le finestre chiuse, e i lumi nella stanza. Il ragazzo per far ciò ch'ei solea fare tutte le sere e temendo del mal-tempo, venne a rapirci lo spettacolo della natura adirata; e Teresa che stava sopra pensiero, non se ne accorse e lo lasciò fare. Le tolsi di mano il libro e aprendolo a caso, lessi: «La tenera Gliceria lasciò su queste mie labbra l'estremo sospiroI Con Gliceria ho perduto tutto quello ch'io poteva mai perdere. La sua fossa è il solo palmo di terra ch'io degni di chiamar mio. Niuno, fuori di me, ne sa il luogo. L'ho coperta di folti rosai i quali fioriscono come un giorno fioriva il suo volto, e diffondono la fragranza soave che spirava il suo seno. Ogni anno nel mese delle rose io visito il sacro boschetto. Siedo su quel cumulo di terra che serba le sue ossa; colgo una rosa, e ... sto meditando: tal tu fiorivi un dì! - E sfoglio quella rosa, e la sparpaglio ... e mi rammento quel dolce sogno de' nostri amori. O mia Gliceria, ove sei tu ?••• una lagrima cade su l'erba che spunta su la sua sepoltura, e appaga l'ombra amorosa».1 Tacqui. - Perché non leggete? diss'ella sospirando e guardandomi. Io rileggeva: e tornando a proferir nuovamente: tal tu fion·vi un dì! .•• la mia voce soffocata si arresta; una lagrima di Teresa gronda su la mia mano che stringe la sua ... 17 aprile.=' TI risovviene di quella giovinetta che quattro anni fa villeggiava appie' di queste colline? Era ella innamorata del nostro Olivo p•••, e tu sai ch'egli, impoverito, non poté più averla in isposa. Oggi io l'ho riveduta maritata a un nobile, parente della famiglia T•••. Passando per le sue possessioni, venne a visitare Teresa. 1. • La tenera ... amorosa•: il passo deriva dal Socrate delirante ecc., cit., p. 64: • La tenera Gliceria più non è; - seco perdei tutto quel ch'io potea mai perdere. La sua tomba, è l'unico palmo di terra in questo mondo, ch'io degno di chiamar mio. Nessun altro fuor di me, ne sa il luogo. Io l'ò coperto di folte piante di rose, le quali fioriscono rigogliose al par del suo seno, né in altro luogo tramandano odor sì soave. Ognanno nel mese delle rose fo visita al sacro luogo. - M'assido sulla sua tomba, colgo una rosa, e sto meditando, - tal tu fioristi un dì; - prendo a spicciolar la rosa, e ne spargo le foglie sulla sua tomba. - Poscia mi rammento quel dolce sogno della mia gioventù, ed una lagrima che stilla giù sulla sua tomba, appaga Pombra diletta» (e vedi W. BINNI, art. cit., pp. 222-3). 2. Vedi Ortis (1798), Lettere xxvu e xxv111 (Edizione Nazionale, 1v, pp. 40-4, 45). 602 PROSE lo sedeva per terra attento all'esemplare della mia Isabellina che scriveva l'abbicì sopra una sedia. Com'io la vidi, m'alzai correndole incontro quasi quasi per abbracciarla: - quanto diversa! contegnosa, affettata, stentò pria di conoscermi, e poi fece le meraviglie masticando un complimentuccio mezzo a me, mezzo a Teresa ... ed io scommetto ch'ella lo aveva imparato a memoria, e che la mia vista non preveduta l'ha sconcertata. Cinguettò e di gioielli e di nastri e di vezzi e di cuffie. Nauseato io di sì fatte frascherie, tentai il suo cuore rammentandole queste campagne e que' giorni beati ..• Ah, ah, rispose sbadatamente, e prosegui ad anatomizzare l'oltramontano travaglio de' suoi orecchini. Il marito frattanto (perché egli fra il Popolone de' pigmei. ha scroccato fama di savant come l'Algarotti1 e il•••) gemmando il suo pretto parlare toscano di mille frasi francesi, magnificava il prezzo di quelle inezie, e il buon gusto della sua sposa. Stava io per prendere il mio cappello, ma un'occhiata di Teresa mi fe' star cheto. La conversazione venne di mano in mano a cadere su' libri che noi leggevamo in campagna. Allora tu avresti udito Messere tesserci il panegirico della prodigiosa biblioteca de' suoi maggiori, e della collezione di tutte !'edizioni degli antichi storici eh'ei ne' suoi viaggi si prese la cura di completare. Io rideva, ed ei proseguiva la sua lezione di frontespizi. Quando Gesù volle, tornò un servo ch'era ito in traccia del signore T••• ad avvertire Teresa che non l'avea potuto trovare, perché egli era uscito a caccia per le montagne; e la lezione fu interrotta. Chiesi alla sposa novelle di Olivo ch'io dopo le sue disgrazie non avea più veduto. Immagina com'io restassi quando m'intesi freddamente rispondere dall'antica sua amante: egli è morto: - È morto! sciamai balzando in piedi, e guatandola stupidito. Descrissi quindi a Teresa l'egregia indole di quel giovine senza pari, e la sua nemica fortuna che lo astrinse a combattere con la povertà e con la infamia; e mori nondimeno scevro di taccia e di colpa. Il marito allora prese a narrarci la morte del padre di Olivo, le pretensioni di suo fratello primogenito, le liti sempre più accanite, e la sentenza de' tribunali che giudici fra due figli di uno stesso padre, per arricchire l'uno, spogliarono l'altro; divoratosi il povero I. Francesco Algarotti (Venezia Il dicembre 1712 - Pisa 3 maggio 1764), dal Foscolo citato anche nel saggio sulla Traduzione de' due primi canti dell'Odissea ecc. del Pindemonte (qui nel tomo u), relativamente alle sue opere, fra le quali il Nervtonia,rismo per le dame (1757) e il Saggio sopra la Pittura (1762). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) OOJ Olivo fra le cabale del foro anche quel poco che gli rimanea. Moralizzava su questo giovine stravagante che ricusò i soccorsi di suo fratello, e invece di placarselo, lo inasprì sempre più .•. - Sì sì, lo interruppi: se suo fratello non ha potuto essere giusto, Olivo non doveva essere vile. Tristo colui che ritira il suo cuore dai consigli e dal compianto dell'amicizia, e sdegna i mutui sospiri della pietà e rifiuta il parco soccorso che la mano dell'amico gli porge. Ma ben mille volte più tristo chi confida nell'amicizia del ricco e presumendo virtù in chi non fu mai sciagurato, accoglie quel beneficio che dovrà poscia scontare con altrettanta onestà. La felicità non si collega con la sventura che per comperare la gratitudine e tiranneggiare la virtù. L'uomo smanioso di opprimere, profitta dei capricci della fortuna per acquistare un diritto di prepotenza. I soli infelici sanno vendicare gli oltraggi della sorte, consolandosi scambievolmente; ma colui che giunse a sedere alla mensa del ricco, tosto, benché tardi s'avvede come sa di sale lo pane altrui.• E per questo, oh quanto è men doloroso andar accattando di porta in porta la vita, anziché umiliarsi, o esecrare l'indiscreto benefattore che ostentando il suo beneficio, esige in ricompensa il tuo rossore e la tua libertà! l\1a voi, mi rispose i1 marito, non mi avete lasciato finire. Se Olivo uscì dalla casa paterna, rinunziando tutti gli interessi al primogenito, perché poi volle pagare i debiti di suo padre? Non andò incontro egli stesso alla indigenza ipotecando per questa sciocca delicatezza anche la sua porzione della dote materna? - Perché? ... se l'erede defraudò i creditori co' sutterfugi forensi, Olivo non potea comportare che le ossa di suo padre fossero maladette da coloro che nelle avversità lo aveano soccorso con le loro sostanze; e ch'ei fosse mostrato a dito per le strade come il figliuolo di un fal1ito. Questa generosità diffamò il primogenito· il quale dopo avere invano tentato il fratello co' beneficii, gli giurò poscia inimicizia mortale e veramente fraterna. Olivo intanto perdé l'aiuto di quelli che lo lodavano forse nel loro secreto, perché • Dante.1 1. Par., xvn, 58-9. PROSE restò soverchiato dagli scellerati, essendo più agevole approvar la virtù, che sostenerla a spada tratta e seguirla. Per questo l'uomo dabbene in mezzo a' malvagi rovina sempre; e noi siam soliti ad associarci al più forte, a calpestare chi giace, e a giudicar dall'evento.1 Io invece di piangere Olivo ringrazio il sommo lddio che lo ha chiamato lontano da tante ribalderie, e dalle nostre imbecillità. Vi son certi uomini che hanno bisogno della morte perché non sanno assuefarsi alla feccia de' nostri delitti. La sposa parea intenerita. Oh pur troppo! esclamò con un sospiro affettato. Ma ... chi per altro ha bisogno di pane non deve assottigliarsi tanto su l'onore. Inaudita bestemmia! proruppi: voi dunque perché favoriti dalla fortuna vorreste essere virtuosi voi soli; anzi perché la virtù su la oscura vostr'anima non risplende, vorreste reprimerla anche nei petti degl'infelici, che pure non hanno altro conforto, e illudere in questa maniera la vostra coscienza? - Gli occhi di Teresa mi davano ragione ed io proseguiva. - Coloro che non furono mai sventurati, non sono degni della loro felicità. Orgogliosi! guardano la miseria per insultarla: pretendono che tutto debba offrirsi in tributo alla ricchezza e al piacere. Ma l'infelice che serba la sua dignità è uno spettacolo di coraggio a' buoni, e di rimbrotto a' malvagi. lo gridava come un indiavolato ... e sono uscito cacciandomi le mani ne' capelli. Grazie a' primi casi della mia vita che mi costituirono sventuratoI Lorenzo mioI io non sarei forse tuo amico; io non sarei amico di questa fanciulla. - Mi sta sempre davanti l'avvenimento di stamattina. Qui ... dove siedo solo, tutto solo, mi guardo intorno e temo di rivedere alcuno de' miei conoscenti. Chi l'avrebbe mai detto? Il cuore di colei non ha palpitato al nome del suo primo amorel ella anzi ha osato turbare le ceneri di lui che le ha per la prima volta ispirato l'universale sentimento della vita. Né un solo sospiro? ... ma che stravaganzaI affliggersi perché non si trova fra gli uomini quella virtù che forse, ahiI forse non è che voto nome .•• Io non ho l'anima negra; e tu il sai, mio Lorenzo; nella mia prima gioventù avrei sparso fiori su le teste di tutti i viventi: chi, chi mi ha fatto cosi rigido e ombroso·verso la più parte degli uomini se non la loro perfidia? Perdonerei tutti i torti che mi 1. e noi ... dalrevento: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, la nota J a p. 546. ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 605 hanno fatto. Ma quando mi passa dinanzi la venerabile povertà che mentre s'affatica, mostra le sue vene succhiate dalla onnipotente opulenza; e quando io vedo tanti uomini, infermi, imprigionati, affamati, e tutti supplichevoli sotto il terribile flagello di certe leggi ... ah no, io non mi posso riconciliare. lo grido allora vendetta con quella turba di tapini co' quali divido il pane e le lagrime; e ardisco ridomandare in lor nome la porzione che hanno ereditato dalla natura, madre benefica ed imparziale. Sì, Teresa, io vivrò teco; ma teco soltanto. Tu sei uno di que' pochi angioli sparsi qua e là su la faccia della terra per accreditare la virtù, ed infondere negli animi perseguitati ed afflitti l'amore dell'umanità. Ma s'io ti perdessi, quale scampo si aprirebbe a questo giovine infastidito di tutto il resto del mondo? Se poco fa tu l'avessi veduta! mi stringeva la mano, dicendomi siate discreto; in verità quelle due oneste persone mi parcano compunte: e se Olivo non fosse stato infelice, avrebbe avuto anche oltre la tomba un amico? Ahi! proseguì dopo un lungo silenzio: per amar la virtù conviene dunque vivere nel dolore? - Lorenzo, Lorenzo! l'anima sua celeste risplendeva ne' lineamenti del viso ..• 29 aprile.1 VICINO a lei io sono sl pieno della esistenza che appena sento di esistere. Cosi quand'io mi desto dopo un pacifico sonno, se il raggio del sole mi riflette su gli occhi, la mia vista si abbaglia e si perde in un torrente di luce. Da gran tempo mi lagno della inerzia in cui vivo. Al riaprirsi della primavera mi proponeva di studiare botanica; e in due settimane io aveva raccolte alcune centinaia di piante che adesso non so più dove sieno. Mi sono assai volte dimenticato il mio Linneo2 sopra i sedili del giardino, o appiè di qualche albero: l'ho finalmente perduto. Ieri Michele me ne ha recati due fogli tutti umidi di rugiada; e stamattina mi raccontava che il rimanente era stato mal concio dal cane dell'ortolano. Teresa mi sgrida: per contentarla mi pongo a scrivere; ma 1. Vedi Ortis (1798), Lettera XX."< (Edizione Nazionale, 1v, pp. 45-6). 2. il mio Linneo: cioè Cori von Linné (Rashult 13 maggio 1707 - Upsala 10 gennaio 1778) nella fattispecie citato dal Foscolo o per il Systema Natura, (1735), o per i Genera Plantarum (1737),0 per la Philosophia Botanica (1751). 6o6 PROSE sebbene incominci con la più bella vocazione che mai, non so andar innanzi per più di tre righe. Mi propongo mille argomenti; mi s'affacciano mille idee; scelgo, rigetto, poi torno a scegliere; scrivo finalmente, straccio, cancello, e perdo qualche volta una intera giornata; la mente si stanca, le dita abbandonano la penna,1 e mi avveggo d'avere gittato il tempo e la fatica. La pazza figura ch'io fo quand'ella siede lavorando, ed io leggo!2 M'interrompo a ogni tratto, ed ella: proseguite! Torno a leggere; dopo due carte la mia pronunzia diventa più rapida e termina borbottando in cadenza: Teresa s'affanna: leggete un po' meglio: - io continuo; ma gli occhi miei, non so come, si sviano insensibilmente dal libro, e si trovano frattanto immobili su quell'angelico viso. Divento muto; cade il libro e si chiude; perdo il segno, né so più ritrovarlo. Ma pure ... se potessi afferrare tutti i pensieri che mi passano per la mente! ne vo tratto tratto segnando su i cartoni e su i margini del mio Plutarco. - Ho incominciata la storia di Lauretta per mostrare al mondo in quella sfortunata lo specchio della/atale infelicità de1 mortali. T'includo quel po' che ho scritto. E viviti lieto. FRAMMENTO DELLA STORIA DI LAURETTA3 «NON so se il cielo badi alla terra. Ma se ci ha qualche volta badato {o almeno il primo giorno che la umana razza ha incominciato a formicolare) io credo ch'egli abbia scritto negli eterni libri: L'UOMO SARÀ INFELICE. Né oso appellarmi di questa sentenza, perché non saprei forse a che tribunale, tanto più che mi giova crederla utile alle tante 1. per contentarla . .. la penna: vedi il Viaggio sentimentale, a p. 820: • [...] non ho potuto non pigliare la penna. Cominciai, ricominciai [...] n'é v'era verso ch'io m'appagassi. [...] Scrissi, riscrissi, cassai, stracciai, arsi, riscrissi [...] e gittai disperato la penna 11, 2. La pazza .•. leggo: vedi la citata traduzione di Michicl Salom del Wertlier di GOETHE, I, p. 67: • Tu dovresti vedere la pazza figura ch'io fo in compagnia d'altri, quando si parla di lei,, (M. MARTELLI, La parte del Sasso/i, in a Studi di Filologia Italiana•, xxvn, 1970, p. 228). 3. Vedi Ortis (1798)t Lettera xxx (Edizione Nazio• nale, 1v, pp. 47-9). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 6o7 altre razze viventi ne' mondi innumerabili. Ringrazio nondimeno quella MENTE che mescendosi nell'immenso mondo degli esseri, li fa sempre rivivere, agitandoli; perché con le miserie, ci ha dato almeno il dono del pianto, ed ha punito coloro che con una insolente filosofia si vogliono ribellare dalla umana sorte, negando loro gl'inesausti piaceri della compassione. - Se vedi alcuno addolorato e piangente non piangere.• Stoicot non sai tu che le lagrime di un uomo compassionevole sono per gl'infelici più dolci della rugiada su l'erbe appassite? O Lauretta! io piansi con te sul sepolcro del tuo povero amante, e mi ricordo che la mia compassione temprava l'amarezza del tuo dolore. T'abbandonavi sul mio seno, e i tuoi biondi capelli mi coprivano il volto, e il tuo pianto bagnava le mie guance; poi traevi un fazzoletto e m'asciugavi, ed asciugavi le tue lagrime che tornavano a sgorgarti dagli occhi e scorrerti su le labbra:1 - abbandonata da tutti! ... ma io no; non ti ho abbandonata mai. Quando tu erravi fuor di te stessa per le romite spiagge del mare, io seguiva furtivamente i tuoi passi per poterti salvare dalla disperazione del tuo dolore. Poi ti chiamava a nome, e tu mi stendevi la mano, e sedevi al mio fianco. Saliva in cielo la luna, e tu • Epitteto,· manuale, XXll.2 1. T'abbandonavi . .. labbra: vedi Viaggio sentimentale, a p. 891: «M'assisi accanto a lei; e Maria mi lasciava che mentre le cadeano le lagrime io le asciugassi col mio fazzoletto - e lo bagnai delle mie - e nelle sue - poi nelle mie - e rasciugai poscia le sue[...]•. 2. Enchiridion EPICTETI, in Dis.tertationes ab A"iano digestae ecc., Lipsiae, in aedibus Teubneri, 1894, cap. 16, p. 436: "OTCXV xlcdoVTcx (8nç 't't\lCÌ l:v Tttv&t:L ii cbto81)µ.0u\l't'Ot; TiX\IOU il à:1toÀwÀa6Tcx 't'.(~et ou TÒ ouµ'31:'37Jx6ç («Ì.Àov yà:p où &À(~EL), illà: 'tÒ 86yµ, xciv OUT(&) -ruxn, xcxl CJU\IEmattvcx~cxL· 1tp601:XE µ.éVTOt µ~ xrd low0cv CJ"t'EVCX~TI<; (•Se vedi qualcuno che piange per un dolore, o perché gli è partito un figlio in viaggio, o perché ha perduto la sua proprietà, cerca di non farti trascinare dall'impressione che l'uomo sia in mezzo a dolori esteriori, ma tienti sempre davanti agli occhi questo pensiero: "Non è ciò che è successo che angustia quest'uomo (dato che non angustia un altro), ma il suo giudizio su ciò". Nondimeno, non esitare a compatirlo a parole e, all'occasione, perfino la~ mentati insieme a lui; ma bada di non piangere anche nel profondo del tuo essere•). Nell'Avvertimento dell'editore tedesco premesso all'edizione veneziana del Socrate delirante, cit., pp. x1-x11, si legge: • L'uno è Am'ano [•..] discepolo ed amico del savio Epitteto: [•••] que' Lettori [•••] leggano i capitoli 22. e 24. del suo Epitteto [•..] •· 608 PROSE guardandola cantavi pietosamente ... taluno avrebbe osato deriderti: ma il Consolatore de' disgraziati che guarda con un occhio stesso e la pazzia e la saviezza degli uomini, e che compiange e i loro delitti e le loro virtù ... udiva forse le tue meste voci, e t'ispirava qualche conforto: le preci del mio cuore t'accompagnavano: a Dio sono accetti i voti, e i sacrificii delle anime addolorateI - I flutti gemeano con flebile fiotto, e i venti che gl'increspavano gli spingeano a lambir quasi la riva dove noi stavamo seduti. E tu alzandoti appoggiata al mio braccio1 t'indirizzavi a quel sasso ove ti parea di vedere ancora il tuo Eugenio, e sentir la sua voce, e la sua mano, e i suoi ..• baci. - Or che mi resta ? esclamavi; la guerra mi allontana i fratelli, e la morte mi ha rapito il padre e l'amante; abbandonata da tutti! ... O bellezza, genio benefico della natura! Ove mostri l'amabile tuo sorriso scherza la gioia, e si diffonde la voiuttà per eternare la vita dell'universo: chi non ti conosce e non ti sente incresca al mondo e a sé stesso. Ma quando la virtù ti rende più vereconda e più cara, e le sventure, togliendoti la baldanza e la invidia della felicità, ti mostrano ai mortali coi crini sparsi e privi delle allegre ghirlande .•. chi è colui che può passarti davanti e non altro offrirti che un'inutile occhiata di compassione? Ma io t'offriva, o Lauretta, le mie lagrime, e questa capanna dove tu avresti mangiato del mio pane, e bevuto nella mia tazza:3. Tutto quello ch'io aveva! e meco forse la tua vita sebbene non lieta, sarebbe stata libera almeno e pacifica. Il cuore nella solitudine e nella pace va a poco a poco obbliando i suoi affanni; perché la libertà regna soltanto in grembo alla semplice e solitaria natura. E dove tu sei, libertà, le petrose rupi s'ornano d'arbuscelli, e borea frena i suoi turbini. Una sera d'autunno la luna appena si mostrava alla terra rifrangendo i suoi raggi su le nuvole trasparenti, che accompagnandola l'andavano tratto tratto coprendo, e che sparse per l'ampiezza del cielo rapiano al mondo le stelle. Noi stavamo intenti ai lontani fuochi de' pescatori, e al canto del gondoliere che col suo remo rompea il silenzio e la calma dell'oscura laguna. Ma Lauretta volgendosi, cercò con gli occhi intorno il suo cagnuolino ed errò lunga :r. E tu .•. braccio: vedi il Viaggio sentimentale, a p. 893: «Appoggiò il suo braccio sul mio [...] li, 2. Ma io ... tazza: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, la nota 2 a p. 552. ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 6o9 pezza chiamandolo: stanca finalmente tornò dov'io sedeva e guardandomi parea che volesse dirmi: anch'egli mi ha già abbandonato; e tu forse? ..• lo? - Chi l'avrebbe mai detto che quella dovesse essere l'ultima sera ch'io la vedeva. Ella era vestita di bianco; un nastro cilestro raccogliea le sue chiome,1 e tre mammole appassite spuntavano in mezzo al lino che copriva il suo seno. - Io l'ho accompagnata fino alla porta della sua casa; e sua madre che venne ad aprirci mi ringraziava della cura ch'io mi prendeva per la sua disgraziata figliuola. Quando fui solo m'accorsi che m'era rimasto fra le mani il suo fazzoletto: lo renderò domani, diss'io. I suoi mali incominciavano già a mitigarsi, ed io forse ... - è vero; io non poteva darti il tuo Eugenio; ma ti sarei stato sposo, padre, fratello.2 La persecuzione de' tiranni proscrisse improvvisamente il mio nome, né ho potuto, o Lauretta, lasciarti neppur l'ultimo addio. Quand'io penso alravvenire e mi chiudo gli occhi per non conoscerlo e tremo e mi abbandono colla memoria a' giorni passati, io vo per lungo tratto vagando sotto gli alberi di queste valli, e mi ricordo le sponde del mare, e i fuochi lontani, e il canto del gondoliere. M'appoggio ad un tronco ... sto pensando; il cielo me l'avea conceduta; ma l'avversa fortuna me l'ha rapita! traggo il suo fazzoletto : in/elice chi ama per ambizione/3 ma il tuo cuore, o Lauretta, è fatto per la schietta natura: m'asciugo gli occhi, e torno sul far della notte alla mia casa. Che fai tu frattanto ? torni errando lungo le spiagge e porgendo inni e lagrime a Dio? - Vienil tu corrai le frutta del mio giardino; tu berrai nella mia tazza, tu mangerai del mio pane: se tornerà il tuo cagnuolino, io ne prenderò cura perché non vada smarrito per le campagne. Quando si risveglierà il tuo martirio, e lo spirito sarà.vinto dalla passione, io ti verrò dietro per sostenerti in mezzo al cammino, e per guidarti, se ti smarrissi, alla mia casa; ma ti verrò dietro tacitamente per lasciarti libero almeno il conforto del I. Ella . •. chiome: vedi il Viaggio sentimentale, a p. 891: et Essa era vestita di bianco [...] se non che le sue chiome raccolte allora in una rete di seta, cascavano, quand'io la vidi, abbandonate [...] •· 2. ma ti sarei .•• fratello: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, a p. S53: 1 Tu l'ami come fratello, tu l'onori come Padre, tu l'accarezzi come sposo [...] •· 3. infelice ••• ambizione: in lettera all'Arese: • [••.] non ti ho mai amato né per interesse, né per ambizione• (vedi nel tomo II la lettera 39). 30 610 PROSE pianto.1 Io ti sarò padre, fratello ._ .. ma, il mio cuore ... se tu sapessi, il mio cuorel - una lagrima bagna la carta e cancella ciò che vado scrivendo. lo l'ho veduta con i fiori della gioventù e della bellezza; e poi tradita, raminga, orfana. Io l'ho veduta baciare le labbra morenti del suo unico consolatore ... e poscia inginocchiarsi con pietosa superstizione davanti a sua madre lagrimando e pregandola acciocché ritirasse la maledizione che ne' giorni del furore quella madre infelice aveva fulminata contro la sua figliuola. - Così la povera Lauretta mi lasciò nel cuore per sempre la compassione delle sue sventure. Preziosa eredità ch'io ora dividerò con voi, uomini sventurati .•. con voi a• quali non resta altro conforto che di amare la virtù e di compiangerla. Voi non mi conoscete, ma io, chiunque voi siate, sono sempre il vostro amico. Un giorno forse, un giorno, se questi pochi fogli ch'io dal mio romitorio consacro alle tue disgrazie, cadranno sotto gli occhi di colui che senza avere pietà alla tua bellezza e alla tua gioventù, ti trasse dalla casa paterna e ti rapì il fiore della innocenza, ah sì ... egli verserà fra i rimorsi una Iagrima su la tua virtù che, pur troppo! ti ha ridotta più misera. E che può mai la virtù quando il destino domanda la vittima? - Ma tu no, Lauretta, benché la tua smarrita ragione abbia abbandonato il tuo cuore, tu non amerai più l'uomo che ti ha tradito. Nella tua umiliazione, sdegnerai di essere sollevata da quella mano che ti ha guidato su la via del dolore. I suoi beneficii potrebbero insanguinarti più de' suoi delitti. L'unico che ti potea consolare era Eugenio ... ma Eugenio .•. ,,. 4 maggio.2 HAI tu veduto dopo i giorni della tempesta prorompere fra l'auree nuvole dell'oriente il vivo raggio del sole e riconsolar la natura? Tale per me è la vista di costei. Discaccio i miei desiderii, condanno le mie speranze, piango i miei inganni : no; io non la vedrò più; io non l'amerò. Odo una voce che mi chiama traditore; I. Vieni! ... del pianto: vedi il Viaggio sentimentale, a p. 892: e[•..] ma se tu fossi nella terra de' miei padri dove ho un abituro, io ti raccorrei meco per ricovrarti: tu mangieresti del mio pane e berresti nella mia tazza - sarei buono col tuo Silvio - a te debole e vagabonda, io verrei sempre dietro per ravviarti [...] ». 2. Vedi Ortis (1798), Lettera XXXII (Edizione Nazionale, IV, p. 50). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 611 la voce di suo padre! M'adiro contro me stesso, e sento risorgere nel mio cuore una virtù sanatrice, un pentimento ... Eccomi dunque fermo nella mia risoluzione; fermo più che mai: ma poi ?- Ali'apparir del suo volto ritornano le mie illusioni, e l'anima mia si trasforma, e obblia sé medesima, e s'imparadisa nella contemplazione della bellezza. 8 maggio.1 ELLA non t'ama e se pure volesse amarti nol può. È vero, Lorenzo: ma s'io consentissi a strapparmi il velo dagli occhi, dovrei subito chiuderli in sonno eterno; poiché senza questo angelico lume, la vita mi sarebbe terrore, il mondo caos, la natura notte e deserto. Anziché spegnere le faci che rischiarano la prospettiva teatrale e disingannare villanamente gli spettatori, non è assai meglio calar del tutto il sipario, e lasciarli nella loro illusione? Ma se l'i"nganno ti nuoce: - che monta? se il disinganno mi uccide! Una domenica intesi il parroco che sgridava i villani perché s'ubbriacavano. Egli frattanto non s'accorgeva che avvelenava a que' meschini il conforto di addormentare nell'ebbrietà della sera le fatiche del giorno, di non sentir l'amarezza del loro pane bagnato di sudore e di lagrime, e di non pensare al rigore e alla fame che il vicino verno minaccia. 11 maggio.2 CONVIENE dire che la natura abbia pur d'uopo di questo globo, e della specie di viventi litigiosi che lo stanno abitando. E per provvedere alla conservazione di tutti, anziché legarci in reciproca fratellanza, ha costituito ciascun uomo così amico di sé medesimo che volentieri aspirerebbe all'esterminio dell'universo per vivere più sicuro della propria esistenza e rimanersi despota solitario di tutto il creato. Niuna generazione ha mai veduto per tutto il suo corso la dolce pace; la guerra fu sempre l'arbitra de' diritti, e la forza ha dominato tutti i secoli. Così l'uomo or aperto, or secreto, e sempre implacabile nemico della umanità, conservandosi con ogni mezzo, cospira all'intento della natura che ha d'uopo della esistenza di tutti: e l'uman genere, quantunque divori perpetuamente sé stesso, vive, e si propaga. - Odi. 1. Vedi Ortìs(1798), Lettera XXXIV (Edizione Nazionale, IV, p. 51). 2. Vedi Ortis (1798), Lettera xxxvi (Edizione Nazionale, IV, pp. 56-8). 612 PROSE Di buon'ora ho accompagnato Teresa e sua sorellina in casa di una lor conoscente venuta a villeggiare. Credeva di desinare in lor compagnia, ma per mia disgrazia aveva fin dalla settimana passata promesso al chirurgo di andare a pranzo con lui, e se Teresa non me ne facea sovvenire, io, a dirti la verità, me n'era dimenticato. Mi vi sono dunque avviato un'oretta innanzi il mezzogiorno; ma affannato dal caldo, mi sono alla metà della strada coricato sotto un ulivo: al vento di ieri fuor di stagione, oggi è succeduta un'arsura noiosissima; e me ne stava lì al fresco spensieratamente come se avessi già desinato. Voltando la testa mi sono avveduto di un contadino che guardavami bruscamente: - Che fate voi qui? - Sto, come vedete, riposando. - Avete voi possessioni ?- percotendo la terra col calcio del suo schioppo. -Perché? - Perché? ••. perché? sdraiatevi su i vostri prati, se ne avete, e non venite a pestare l'erba degli altri: - e partendo - fate ch'io tornando, vi trovi! Io non mi era mosso, ed egli se n'era ito. A bella prima, io non aveva badato alle sue bravate; ma ... ripensandoci; se ne avete! e se la fortuna non avesse conceduto a' miei padri due passi di terreno, tu m'avresti negato anche nella parte più sterile del tuo prato l'estrema pietà del sepolcrol - ma osservando che l'ombra dell'ulivo diventava più lunga, mi sono ricordato del pranzo. Poco fa tornandomi a casa ho trovato su la mia porta l'uomo stesso di stamattina: - Signore, vi stava aspettando; se mai ..• vi foste adirato meco; vi domando perdono. - Riponete il cappello; io non me ne sono già offeso. - Perché mai questo mio cuore nelle stesse occasioni ora è pace pace, ora è tutto tempesta ? Diceva quel viaggiatore; il flusso e riflusso de' miei umori governa tutta la mia tJita.1 Forse un minuto prima il mio sdegno sarebbe stato assai più grave dell'insultò. Perché dunque abbandonarci al capriccio del primo che ne offende, permettendo eh'egli ci possa turbare con una ingiuria non 1. il flusso . •. vita: vedi il Viaggio sentimentale, a p. 776: a[.•.] da che non si può logicamente discorrere sul flusso e riflusso de' nostri umori, il quale, a quanto io so, obbedirà alle medesime cause influenti nelle maree [...] •· ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTI$ (1802) 613 meritata? Vedi come l'amor proprio adulatore tenta con questa pomposa sentenza di ascrivermi a merito un'azione che è derivata forse da ... chi lo sa? In pari occasioni non ho usato di eguale moderazione: è vero che passata un'ora ho filosofato contro di me; ma la ragione è venuta zoppicando; e il pentimento, per chi aspira alla saviezza, è sempre tardo: ma ... né io v'aspiro: io non sono che un di que' tanti figliuoli della terra, non altro; e porto meco tutte le passioni e le miserie della mia specie. Il contadino proseguiva: - Vi ho fatto villania, ma io non vi conosceva; que' lavoratori che segavano il fieno ne' prati vicini mi hanno dopo avvertito. - Non importava, buon uomo: come va il grano quest'anno? - Bene .•. ma vi prego, caro signore, scusatemi; non vi cono- sceva. - Buon uomo; o conoscendo o non conoscendo non offendete nessuno, perché correte sempre pericolo o di provocare il potente, o di maltrattare il debole: per me, potete starvene in pace. - Dice bene il signore; Dio gliene rimeriti. - E se ne andò. Intanto? crescono ogni giorno i martiri perseguitati dal nuovo usurpatore della mia patria. Quanti andranno tapinando e profughi ed esiliati, senza il letto di poca erba o l'ombra di un ulivo ..• Dio lo sai Lo straniero infelice è cacciato perfino dalla balza dove le pecore pascono tranquillamente. 12 maggio.1 NON ho osato no, non ho osato.2 - lo poteva abbracciarla e stringerla qui, a questo cuore. L'ho veduta addormentata: il sonno le tenea chiusi que' grandi occhi neri, ma le rose del suo sembiante si spargeano allora più vive che mai su le sue guance rugiadose. Giacca il suo bel corpo abbandonato sopra un sofà. Un braccio le sosteneva la testa e l'altro pendea mollemente. Io l'ho più volte veduta a passeggiare e a danzare, mi sono sentito sin dentro l'anima e la sua arpa e la sua voce, e l'ho adorata pien di spavento come se l'avessi veduta discendere dal paradiso ... ma cosi bella come oggi, io non l'ho veduta mai, mai. Le sue vesti mi lasciavano travedere i contorni di quelle angeliche forme; e l'anima mia le contemplava 1. Vedi Ortis (1798), Lettera XXIX (Edizione Nazionale, IV, p. 45). 2. Non ••• osato: in lettera a Eleonora Nencini: •[•.•] e non ho osato io stesso ier sera? ... • (vedi nel tomo II la lettera 14). PROSE e ... che posso dirti? tutto il furore e l'estasi dell'amore mi aveano infiammato e rapito fuori di me. Io toccava come un divoto e le sue vesti e le sue chiome odorose1 e il mazzetto di fiori ch'ella aveva in mezzo al suo seno .•. sì si, sotto questa mano divenuta sacra ho sentito palpitare il suo cuore. Io respirava gli aneliti della sua bocca socchiusa ... io stava per succhiare tutta la voluttà di quelle labbra celesti ... un suo bacio! e avrei benedette le lagrime che da tanto tempo bevo per lei .. _.,, - Ma allora allora io l'ho sentita sospirare fra il sonno: mi sono arretrato respinto quasi da una mano divina. T'ho insegnato io forse ad amare, ed a piangere? e cerchi tu un breve istante di sonno perché ti ho turbate le tue notti innocenti e tranquille? a questo pensiero me le sono prostrato davanti immobile immobile rattenendo il sospiro: - e sono fuggito per non ridestarla alla vita angosciosa in cui geme. Non si querela e questo mi strazia ancor più: ma quel suo viso sempre più mesto, e quel guardarmi con tanta pietà, e tremare sempre al nome di Odoardo, e sospirare sua madre ... ah! il cielo non ce l'avrebbe conceduta se non dovesse anch'ella partecipare del sentimento del dolore. Eterno Iddio! esisti tu per noi mortali? o sei tu padre snaturato verso le tue creature? So che quando hai mandato sulla terra la virtù tua figliuola primogenita le hai data per guida la sventura. Ma perché poi lasciasti la giovinezza e la beltà così deboli da non poter sostenere le discipline di sì austera istitutrice? In tutte le mie afflizioni ho alzato le braccia sino a te, ma non ho osato né mormorare né piangere: ahi adesso! e perché farmi conoscere la felicità s'io doveva bramarla sì fieramente, e perderne la speranza per sempre? - per sempre! no no, Teresa è mia, tutta; tu me l'hai conceduta perché mi creasti un cuore capace di amarla immensamente, eternamente. 1. Giacea ... odorose: vedi Montesquieu, Arsace et lsménie: «Elle étoit sur un lit[...] elle y paroissoit languissement couchéc. [...] Je voyois la forme dc son beau corps. Une simple toile qui se mouvoit sur elle mc faisoit tour-à-tour perdre et trouver des beautés ravissantes. [...] Jc fut tout hors dc moi [...]. Déja f avois porté mcs mains sur son scin; ellcs couroient nipidement par-tout: l'amour ne se montroit que par sa fureur [...] 11 ( (Epistolario, 1, pp. 213-4), e vedi la nota 3 a p. 624. ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 615 14 maggio.1 S'10 fossi pittore! quale ampia materia al mio pennello! l'artista immerso nella idea deliziosa del bello addormenta o mitiga almeno tutte le altre passioni. - Ma ..• se anche fossi pittore? ho veduto ne' pittori e ne' poeti la bella e talvolta anche la schietta natura, ma la natura somma, immensa, inimitabile non l'ho veduta dipinta mai. Omero, Dante, e Shakespeare, i tre maestri di tutti gl'ingegni sovrumani, hanno investito la mia immaginazione ed infiammato il mio cuore: ho bagnato di caldissime lagrime i loro versi; e ho adorato le loro ombre divine come se le vedessi assise su le volte eccelse che sovrastano l'universo a dominare l'eternità. Pure gli originali che mi vedo davanti mi riempiono tutte le potenze dell'anima, e non oserei, Lorenzo ... non oserei, se anche si trasfondesse in me Michelangelo, tirarne le prime linee. Sommo lddiol quando tu miri una sera di primavera ti compiaci forse della tua creazione ? tu mi hai versato per consolarmi una fonte inesausta di piacere, ed io l'ho guardata sovente con indifferenza. - Su la cima del monte indorato dai pacifici raggi del sole che va mancando, io mi vedo accerchiato da una catena di colli su i quali ondeggiano le messi, e si scuotono le viti sostenute in ricchi festoni dagli ulivi e dagli olmi: le balze e i gioghi lontani van sempre crescendo come se gli uni fossero imposti su gli altri. Di sotto a me le coste del monte sono spaccate in burroni infecondi fra i quali si vedono offuscarsi le ombre della sera che a poco a poco si innalzano; il fondo oscuro e orribile sembra la bocca di una voragine. Nella falda del mezzogiorno l'aria è signoreggiata dal bosco che sovrasta e offusca la valle dove pascono al fresco le pecore, e pendono dall'erta le capre sbrancate. Cantano flebilmente gli uccelli come se piangessero il giorno che muore, mugghiano le giovenche, e il vento pare che si compiaccia del susurrar delle fronde. Ma da settentrione si dividono i colli, e s'apre all,occhio una interminabile pianura: si distinguono ne, campi vicini i buoi che tornano a casa; lo stanco agricoltore li siegue appoggiato al suo bastone; e mentre le madri e le mogli apparecchiano la cena all'affaticata famiglia, fumano le lontane ville ancor biancicanti, e le capanne disperse per la campagna. I pastori mungono il gregge, e la vecchierella che stava filando su la porta dell'ovile, abbandona il lavoro 1. Vedi Ortis (1798), Lettera XXXVII (Edizione Nazionale, IV, pp. 58-62). 616 PROSE e va carezzando e fregando il torello, e gli agneletti che belano intorno alle loro madri. La vista intanto si va dilungando, e dopo lunghissime file di alberi e di campi termina nell'orizzonte dove tutto si minora e si confonde: lancia il sole partendo pochi raggi, come se quelli fossero gli estremi addio che dà alla natura; le nuvole rosseggiano, poi vanno languendo, e pallide finalmente si abbuiano: allora la pianura si perde, !'ombre si diffondono su la faccia della terra, ed io, quasi in mezzo all'oceano, da quella parte non vedo che il cielo. Ieri sera appunto io scendeva a passo a passo dal monte. Il mondo era in cura alla notte, ed io non sentiva che il canto della villanella, e non vedeva che i fuochi de' pastori. Scintillavano tutte le stelle, e mentr'io salutava ad una ad una le costellazioni, la mia mente contraeva un non so che di celeste, ed il mio cuore s'innalzava come se aspirasse ad una regione più sublime assai della terra. Mi sono trovato su la montagnuola presso la chiesa: suonava la campana de' morti, e un senso d'umanità trasse i miei sguardi sul cimiterio dove ne' loro cumuli coperti di erba dormono gli antichi padri della villa:1 - Abbiate pace, o nude reliquie: la mate... ria è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce2 ••• umana sortel men infelice degli altri chi non la teme. - Spossato mi sdraiai boccone sotto il boschetto de' pini, e in quella muta oscurità, mi sfilavano dinanzi alla mente tutte le mie sventure e tutte le mie speranze. Da qualunque parte io corressi anelando alla felicità, dopo un aspro viaggio pieno di errori e di tormenti, mi vedeva spalancata la sepoltura dove io m'andava a perdere con tutti i mali e tutti i beni di questa inutile vita. E mi sentiva avvilito e piangeva perché avea bisogno di consolazione •.. e ne' miei singhiozzi io invocava Teresa. Udii un calpestio fra gli alberi, e mi parea d'intendere bi... sbigliare alcune voci. Mi sembrò poi di vedere Teresa con sua sorella. Impaurite a prima vista fuggivano. Io le chiamai per nome, e la lsabellina riconosciutomi mi si gittò addosso con mille baci. M'alzai. Teresa s'appoggiò al mio braccio, e noi passeggiammo taciturni lungo la riva del fiumicello sino al lago de' cinque fonti. E là ci siamo quasi di consenso fermati a mirar l'astro di venere che ci 1. sul cimiterio ..• villa: vedi il passo dcli'Elegia inglese del signor TOMMASO GRAY ecc., citato nella nota 2 alle pp. 575-6; e V. Rossi, Su/l'« Ortis» del Foscolo, in • Giornale Storico della Letteratura Italiana», LXIX ( 1917) p. 49. 2. la materia ••. riproduce: vedi Sepolcri, 17-22, alle pp. 294-51 e la relativa nota. ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 617 lampeggiava su gli occhi. - Oh! diss'ella con quel dolce entusiasmo tutto suo, credi tu che il Petrarca non abbia anch'egli visitato sovente queste solitudini, sospirando fra le ombre pacifiche della notte la sua perduta amica? Quando leggo i suoi versi io me lo dipingo qui ... malinconico ... errante ... seduto sul tronco di un albero, pascersi de' suoi mesti pensieri, e volgersi al cielo cercando con gli occhi lagrimosi lo spirito di Laura. Io non so come quell'anima tutta celeste abbia potuto sopravvivere in tanto dolore, e fermarsi fra le miserie de' mortali: oh dolce amico! quando s'ama davvero! ... - ella mi stringeva la mano ed io mi sentiva il cuore che non voleva starmi più in petto. Sì angelo tu sei nato per me, ed io ..• - non so come ho potuto soffocare queste parole che mi scoppiavano dalle labbra. Ella saliva la collina ed io la seguitava. Le mie facoltà erano tutte di Teresa; ma la t~mpesta che le aveva agitate era alquanto cessata. - Tutto è amore, diss'io; l'universo non è che amore! E chi lo ha mai più sentito o meglio dipinto del Petrarca? Adoro, come divinità, que' pochi genii che si sono innalzati sopra gli altri mortali; ma il Petrarca io ... l'amo: e mentre il mio intelletto gli sacrifica come a nume, il mio cuore lo invoca padre e amico consolatore. Teresa mi rispose con un sospiro. La salita l'aveva stancata: riposiamo, diss'ella: l'erba era umida, ed io le mostrai un gelso poco lontano. Il più bel gelso che mai. È alto, solitario, frondoso: fra' suoi rami v'ha un nido di cardellini; e noi lo chiamiamo sempre il nostro albero favorito. La ragazzina intanto ci aveva lasciati saltando su e giù, cogliendo fioretti e gettandoli dietro le lucciole che andavano aleggiando: Teresa giaceva sotto il gelso ed io seduto vicino a lei con la testa appoggiata al tronco le recitava le odi di Saffo; sorgeva la luna .•. ohi ... Perché mentre scrivo il mio cuore batte si forte? beata seraI .14 maggio, ore 11. Sl, Lorenzol odilo. La mia bocca è umida ancora di un bacio di Teresa,1 e le mie guance sono state innondate dalle sue lagrime. Mi ama si ... mi amai - lasciami, Lorenzo, lasciami in tutta l'estasi di questo momento di paradiso. 1. La mia bocca . . . Teresa: vedi in lettera ali'Arese: «[•••] quel bacio .•• (o anima mia! io mi sento ancora le labbra umide e odorose) .•. • (Epistolario, 1, p. 23 x). 618 PROSE .14 maggio, a sera. O quante volte ho ripigliata la penna, e non ho potuto continuare ... mi sento un po' calmato e torno a scriverti. - Teresa giacea sotto il gelso ... io le recitava le odi di Saffo ... ma come poss'io dipingerti quell'istante divino? Ella mi ama sì ... mi ama. A queste parole tutto ciò ch'io vedeva mi sembrava un riso dell'universo: io mirava con occhi di riconoscenza il cielo e mi parea ch'egli si spalancasse per accoglierci: deh! a che non venne la morte? e l'ho invocata.1 Si, ho baciato Teresa; i fiori e le piante esalavano in quel momento un odore soave; le aure erano tutte armonìa; i rivi risuonavano da lontano; e tutte le cose s'abbellivano allo splendore della luna che era tutta piena della luce infinita della divinità. Gli elementi e gli esseri esultavano nella gioia di due cuori ebbri di amore. - Ho baciata e ribaciata quella mano ... e Teresa mi abbracciava tutta tremante, e trasfondea i suoi sospiri nella mia bocca,2 e il suo cuore palpitava su questo petto: mirandomi co' suoi grandi occhi languenti, mi baciava, e le sue labbra umide, socchiuse mormoravano su le mie ... - ahi! che ad un tratto mi si è staccata dal seno quasi atterrita: chiamò sua sorella e s'alzò correndole incontro. Io me le sono prostrato, e tendeva le braccia come per afferrar le sue vesti ... ma non ho osato né chiamarla né scongiurarla ... la sua virtù mi avea spaventato, e Teresa mi sembrava sacra. Me le sono accostato tremando. - Non posso essere vostra mai! ... ella pronunciò queste parole dal cuore profondo e con una occhiata con cui parea rimproverarmi e compiangermi. Accompagnandola lungo la via, non mi guardò più, né io avea più coraggio di dirle una parola. Giunta alla porta del giardino mi prese di mano la Isabellina e lasciandomi: addio, diss'ella, e rivolgendosi dopo pochi passi ... addio. Io rimasi estatico: avrei baciate l'orme de' suoi piedi: pendeva un suo braccio, e i suoi capelli rilucenti al raggio della luna svolazzavano mollemente: ma poi •.• appena appena il lungo viale e la fosca ombra degli alberi mi concedevano di travedere le ondeg- 1. A queste .•. invocata: vedi Le Rimembranze, 55-8, a p. u8: •E quanto io vidi allor sembrommi un riso/ de l'universo, e le candide porte / disserrarsi vid'io del Paradiso ..• / Dchl a che non venne, e l'invocai, la morte?•. 2. e Teresa •.. bocca: in lettera all'Arese: •... quando i tuoi sospiri si trasfondono nella mia bocca, e mi sento stretto dalle tue braccia ••• » (vedi nel tomo II la lettera 23). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 619 gianti sue vesti che da lontano ancor biancheggiavano; e poiché l'ebbi perduta tendeva l'orecchio sperando di udir la sua voce •.• Partendo, mi volsi con le braccia aperte, quasi per consolarmi, all'astro di Venere; era anch'egli sparito. 15 maggio. DOPO quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più subii.. mi e ridenti, il mio aspetto più gaio, il mio cuore più compassio.. nevole. Mi pare che tutto s'abbellisca a' miei sguardi; il lamentar degli augelli, e il bisbiglio de' zefiri fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a' miei piedi; non fuggo più gli uomini e tutta la natura mi sembra mia. Il mio ingegno è tutto bellezza e armonia. Se dovessi scolpire o dipingere la stessa beltà, io sdegnando ogni modello terreno la troverei nella mia immaginazione. O amore! le arti belle sono tue figlie; tu primo hai guidato su la terra la sacra poesia solo alimento degli animi generosi che tramandano dalla solitudine i loro canti sovrun1ani sino alle più tarde generazioni, spronandole con le voci e con i pensieri spirati dai numi ad altissime imprese: tu raccendi ne, nostri petti la sola vera virtù utile a' mortali, la pietà, per cui sorride talvolta il labbro dell'infelice condannato ai sospiri: e per te rivive sempre il piacere fecondatore degli esseri senza del quale tutto sarebbe caos e morte. Se tu fuggissi, la terra diverrebbe ingrata, gli animali nemici fra loro, il sole stesso malefico, e il mondo pianto, terrore e distruzione universale. Adesso che l'anima mia risplende di un tuo raggio, io dimentico le mie sventure; io rido delle minacce della fortuna, e rinunzio alle lusinghe dell'avvenire ... - O Lorenzo! sto spesso sdraiato su la riva del lago de' cinque fonti: io mi sento vezzeggiare la faccia e le chiome dai venticelli che alitando sommovono rerba, e allegrano i fiori, e increspano le limpide acque del lago. Lo credi tu? io delirando deliziosamente mi veggo dinanzi le ninfe ignude, saltanti, inghirlandate di rose, e invoco in lor compagnia le muse e l'amore; e fuor dei rivi che cascano sonanti e spumosi, vedo uscir sino al petto con le chiome stillanti sparse su le spalle rugiadose, e con gli occhi ridenti le Naiadi, amabili custodi delle fontane. Illusioni! grida il filosofo: e non è tutto illusione? tutto! Beati gli antichi che si credeano degni de' baci delle immortali dive del cielo, che sacrificavano alla bellezza e alle grazie, che diffondeano lo splendore della divinità PROSE su le imperfezioni dell'uomo, e che trovavano il BELLO ed il VERO accarezzando gli idoli della lor fantasiaP Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore, o (che mi spaventa ancor più) nella rigida e noiosa indolenza: e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele. 21 maggio.a OHIMÈ che notti lunghe, angosciose!3 - il timore di non rivederla mi desta: divorato da un sentimento profondo, ardente, smanioso, sbalzo dal letto al balcone e non concedo riposo alle mie membra nude aggrezzate, se prima non discerno su l'oriente un raggio di giorno. Corro palpitando al suo fianco e ... stupido! soffoco le parole, e i sospiri; non concepisco, non odo: il tempo vola, e la notte mi strappa da quel soggiorno di paradiso. - Ahi lampoI tu rompi le tenebre, splendi, passi, ed accresci il terrore e l'oscurità ... 25 maggio.4 T1 ringrazio, eterno lddio, ti ringrazio! Tu hai dunque ritirato il tuo spirito, e Lauretta ha lasciato alla terra le sue infelicità: tu ascolti i gemiti che partono dalle viscere dell'anima, e mandi la morte per isciogliere dalle catene della vita le tue creature perseguitate ed afflitte. Mia cara amicai il tuo sepolcro beva almeno queste lagrime, solo tributo ch'io posso offrirti: le zolle che ti nascondono sieno coperte di poca erba: tu vivendo speravi da me qualche conforto; eppureI non ho potuto nemmeno prestarti gli ultimi ufficii; ma ... ci rivedremo ... sìl Quand'io, caro Lorenzo, mi ricordava di quella povera fanciulla, r. io delirando ... fantasia: vedi Ortis (1798), Lettera III (Edizione Nazionale; IV, p. 7); e anche i Frammenti di un romanzo autobiografico: • Immergendomi in quel laghetto io cantava un inno alla natura ed invocava le ninfe amabili custodi delle fontane. Illusioni! grida il filosofo. E non è tutto illusione? tuttoI Beati gli antichi che si credevano [degni] degli abbracciamenti delle dive, che sacrificavano alla bellezza e alle grazie, che diffondevano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell'uomo, e che accarezzando gl'ldoli della lor fantasia trovavano il bello ed il vero• (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, mss. Foscoliani, voi. n, ins. E, p. 21). 2. Vedi Ortis (1798), Lettera XXXVIII (Edizione Nazionale, IV, p. 63). 3. Ohimè ... angosciose: vedi in lettera all'Arese: •Tutte le mie notti furono d'allora in poi senza sonno» (Epistolario, 1, p. 314). 4. Vedi Ortis (1798), Lettera xxxv (Edizione Nazionale, IV, pp. S1-5). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 621 certi presentimenti mi gridavano dal cuore profondo: ella è mortai Pure se tu non me ne avessi scritto, io certo non lo avrei saputo mai; perché ... e chi si cura della virtù quand'ella è avvolta nella povertà? Spesso mi sono posto a scriverle. M'è caduta la penna, e ho bagnata la carta di lagrime: temeva eh'ella mi raccontasse i suoi martirii, e mi destasse nel cuore una corda la cui vibrazione non sarebbe cessata si tosto. Pur troppo! noi sfuggiamo d'intendere i mali de' nostri amici; le loro miserie ci sono gravi, e il nostro orgoglio sdegna di porgere il conforto delle parole, si caro agli infelici, quando non si può unire un soccorso vero e reale. Ma •.• fors'ella mi annoverava fra la turba di coloro che ubbriacati dalla prosperità abbandonano gli sventurati. Lo sa il cielo! ... Frattanto Dio ha conosciuto ch'ella non poteva reggere più: egli tempera i venti in favore dell'agnello recentemente tosato; e ..• tosato al vivoIl Tornerò, Lorenzo: conviene ch'io esca; il mio cuore si gonfia e geme come se non volesse starmi più in petto: su la cima di un monte mi sembra d'essere alquanto più libero: ma qui ..• nella mia stanza ... sto quasi sotterrato in un sepolcro. Sono salito su la più alta montagna: i venti imperversavano; io vedeva le querce ondeggiar sotto a' miei piedi; la selva fremeva come mar burrascoso, e la valle ne rimbombava; su le rupi dell'erta sedeano le nuvole ... - Nella terribile maestà della natura la mia anima attonita e sbalordita ha dimenticati i suoi mali, ed è tornata per alcun poco in pace con sé medesima. Vorrei dirti di grandi cose: mi passano per la mente; vi sto pensando! ... m'ingombrano il cuore, s'affollano, si confondono; non so più da quale io mi debba incominciare; poi tutto ad un tratto mi sfuggono, ed io prorompo in un pianto dirotto. Vado correndo come un pazzo senza saper dove, e perché: non m'accorgo, e i miei piedi mi strascinano fra i precipizii. Io domino le valli e le campagne soggette: magnifica ed inesausta natura! I miei sguardi e i miei pensieri si perdono nel lontano orizzonte: Vo' salendo, e sto ••. li ..• ritto .•• anelante: guardo all'ingiù; ahi voragine! alzo gli occhi inorridito e scendo precipitoso appiè del colle dove la valle è più fosca. Un boschetto di giovani querce I. Frattanto Dio .•. al vivo: vedi il Viaggio sentimentale, a p. 892: • [...] ma Dio mitiga il vento, disse Maria, per l'agnello tosato. Tosato, e cornei e nel vivo, diss'io [.•.] ». PROSE mi protegge dai venti e dal sole: due rivi d'acqua mormorano qua e là sommessamente: i rami bisbigliano, e un rosignuolo ... - Ho sgridato un pastore che era venuto per rapire dal nido i suoi pargoletti: il pianto, la desolazione, la morte di quei deboli innocenti dovevano essere forse venduti per una meschina moneta; così va! ma io l'ho compensato del guadagno che sperava di trarne, ed egli mi ha promesso di non disturbare più i rosignuoli - e là ... io mi riposo: dove se' ito, o buon tempo di prima! la mia ragione è malata e non può fidarsi che nel sopore, e guai se sentisse tutta la sua infermità. Quasi quasi ... -povera Lauretta! tu forse mi chiami ... Tutto, tutto quello eh'esiste per gli uomini non è che la lor fantasia. Caro amico! fra le rupi la morte mi era spavento; e all'ombra di quel boschetto, io avrei chiusi gli occhi volentieri in sonno eterno. Ci fabbrichiamo la realtà a nostro modo; i nostri desiderii si vanno moltiplicando con le nostre idee; sudiamo per quello che vestito diversamente ci annoia; e le nostre passioni non sono in fine del conto che gli effetti delle nostre illusioni. Quanto mi sta d'intorno richiama al mio cuore quel dolce sogno della mia fanciullezza. O! come io scorreva teco queste campagne aggrappandomi or a questo or a quell'arbuscello di frutta, immemore del passato, non curando che del presente, esultando di cose che la mia immaginazione ingrandiva e che dopo un'ora non erano più, e riponendo tutte le mie speranze ne' giuochi della prossima festa. Ma quel sogno è svanito! e chi m'assicura che in questo momento io non sogni? Ben tu, mio Dio, tu che creasti il mio cuore, sai che sonno spaventevole è questo ch'io dormo; sai che non altro m'avanza fuorché il pianto e la morte.1 Cosi vaneggiol cangio voti e pensieri,2 e quanto la natura è più bella, tanto più vorrei vederla vestita a lutto. E veramente pare che oggi m'abbia esaudito. Nel verno passato io era felice: quando la natura dormiva mortalmente, la mia anima era tranquilla tranquillal ..• ed ora? Eppur mi conforto nella speranza di essere compianto. Su l'aurora della vita io cercherò forse invano il resto della mia età che mi 1. sai ••• morte: vedi il sonetto Non son chi fui,· perì di noi gran parte. 2, a p. 205: a questo che avvanza è sol languore e pianto 11, 2. cangio ... pensieri: vedi il v. 38 deWEpistola di Elisa ad Abelardo di ALESSANDRO POPE tradotta liberamente dall'Inglese dalrAb. Antonio Conti: a cangio voti ed affetti in un istante» (in A. CONTI, Versioni poetiche, a cura di Giovanna Gronda, Bari. Laterza, 1966, pp. 11-21; e vedi M. MARTELLI, art. cit., p. 220). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 623 verrà rapita dalle mie passioni e dalle mie sventure; ma la mia sepoltura sarà bagnata dalle tue lagrime, dalle lagrime di quella fanciulla celeste. E chi mai cede a una eterna obblivione questa cara e travagliata esistenza? Chi mai vide per l'ultima volta i raggi del sole, chi salutò la natura per sempre, chi abbandonò i suoi diletti, le sue speranze, i suoi inganni, i suoi stessi dolori senza lasciar dietro a sé un desiderio, un sospiro, uno sguardo? Le persone a noi care che ci sopravvivono, sono parte di noi. I nostri occhi morenti chiedono altrui qualche stilla di pianto, e il nostro cuore ama che il recente cadavere sia sostenuto da braccia amorose e cerca un petto dove trasfondere l'ultimo nostro respiro. Geme la natura perfin nella tomba, e il suo gemito vince il silenzio e l'oscurità della morte.1 M'affaccio al balcone ora che la divina luce del sole si va spegnendo, e le tenebre rapiscono all'universo que' raggi languidi che balenano su l'orizzonte, e nella opacità del mondo malinconico e taciturno contemplo la immagine della Distruzione divoratrice di tutte le cose. Poi giro gli occhi sulle macchie de' pini piantati dal mio buon padre su quel colle presso la porta della parrocchia, e travedo biancheggiare fra le frondi agitate da' venti la pietra della mia fossa. Quivi ti vedo venir con mia madre e pregar pace all'ombra dell'infelice figliuolo.2 Allora dico a me stesso: Forse Teresa verrà solitaria su l'alba a rattristarsi dolcemente su le mie antiche memorie, e a dirmi un altro addio. No! la morte non è dolorosa. 1. E chi mai . •. della morte: vedi i vv. 133-44 dell'Elegia inglese del signor TOMMASO GRAY ecc., cit.: «Perché chi tutta mai cesse tranquillo/ in preda a muta obblivion vorace / questa esistenza travagliosa e cara? / Chi del vivido giorno i rai sereni / abbandonò, senza lasciarsi addietro / un suo languente e sospiroso sguardo ? / Ama posar su qualche petto amato / l'alma spirante, e i moribondi lumi. / Chieggono altrui qualche pietosa stilla: / fuor della tomba ancor grida la voce / della natura, e fin nel cener freddo / degli usati desir vivon le fiamme», a loro volta corrispondenti ai vv. 85-92 dell'Elegy ecc. del GRAv: mFor who, to dumb Forgetfulness a prey, / this pleasing anxious being e'er resigned, / left the warm precincts of the chearful day, / nor castone longing ling'ring look behind? / On some fond breast thc parting soul relies, / some pious drops the closing eye rcquires; / ev'n from the tomb the voice of Nature cries, / ev'n in our ashes live their wonted Fires 11 (si cita dall'originale posto a fronte della traduzione del Cesarotti). E vedi Sepolcri. 49-50, a p. 299: 11n~ passeggier solingo oda il sospiro/ che dal tumulo a noi manda Natura»; 283-4, a p. 326: «[•..] Gemeranno gli antri/ secreti [...J» (e V. Rossi, art. cit., p. 49). 2. Quivi ... figliuolo: vedi il sonetto Un di, s'io non andrò sempre fuggendo, 5-6, a p. 241: • La Madre or sol suo di tardo traendo/ parla di me col tuo cener muto•. PROSE Che se taluno metterà le mani nella mia sepoltura e scompiglierà il mio scheletro per trarre dalla notte in cui giaceranno, le mie ardenti passioni, le mie opinioni, i miei delitti ... forse; non mi difendere, Lorenzo; rispondi soltanto: egli era in/e/ice. 26 maggio.1 EGLI viene, Lorenzo ... ; egli viene. Scrive dalla Toscana dove si fermerà venti giorni; e la lettera è in data de' 18 maggio: fra due settimane al più .•. dunque! 27 maggio.2 E penso; ed è pur vero che questo angelo de' cieli esista qui, in questo basso mondo, fra noi? e sospetto d'essermi innamorato della creatura della mia fantasia. E chi non avrebbe voluto amarla anche infelicemente? e dov'è l'uomo così avventuroso col quale io degnassi di cangiare questo mio stato lagrimevole? ... ma come io posso d'altronde essere tanto inimico di me per tormentarmi, lo sa il cielo, senza niuna speranza? - forse! un certo orgoglio in costei della sua bellezza e delle mie sventure ... non mi ama, e la sua compassione coverà un tradimento. Ma quel suo bacio celeste che mi sta sempre su le labbra e che mi domina tutti i pensieri? e quel suo pianto? ... ahi che dopo quel momento ella mi sfugge; né osa guardarmi più in faccia. Seduttore! io? - e quando mi sento tuonare nell'anima quella tremenda sentenza: Non sarò vostra mai; io passo di furore in furore, e medito delitti di sangue ... - Non tu, divina fanciulla, io solo io solo ho tentato il tr~.:limento e l'avrei consumato ... OI un altro tuo bacio, e abbandonami poscia a' miei sogni e a' miei soavi delirii:3 io ti morrò a' piedi; ma tutto tuo, tutto. Tu se non potrai essermi sposa, mi sarai almeno compagna nel sepolcro. Ah no; la pena di questo amore fatale si rovesci sopra di me. Ch'io pianga per tutta un'eternità; ma che il cielo, o Teresa, non ti faccia per mia cagione infelicel4 - Ma intanto io ti ho perdu- 1. Vedi Ortis (1798), Lettera XL (Edizione Nazionale, 1v, p. 63). 2. Vedi Ortis (1798), Lettera XXXIX (Edizione Nazionale, IV, p. 63). 3. O! ••• delirii: in lettera all'Arese: «Io gridava ... O Antonietta, un tuo bacio/• (vedi nel tomo JI la lettera 39), e la nota 2 a p. 614. 4. Ch'io pianga • •• in/e/ice: in lettera a Eleonora Nencini: «[ •••] eh'io mora nel mio dolore, innanzi che io le sia cagione di una lagrima sola • (vedi nel tomo li la lettera 14). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTI$ (1802) 625 ta,1 e tu mi t'involi, tu stessa. Ah se tu mi amassi com'io t'amol ..• Eppure, o Lorenzo, in si fieri dubbii, e in tanti tormenti ogni volta ch'io domando consiglio alla mia ragione, ella mi conforta dicendomi: Tu non se' immortale. Or via, soffriamo dunque; e sino agli estremi. - Uscirò, uscirò dall'inferno della vita; e basto io solo: a questa idea rido e della fortuna, e degli uomini, e della stessa onnipotenza di Dio. 28 maggio. SPESSO io mi figuro tutto il mondo a soqquadro, e il cielo, e il sole, e l'oceano, e tutti i globi nelle fiamme e nel nulla; ma se anche in mezzo a tanta rovina io potessi stringere un'altra volta Teresa ... un'altra volta soltanto fra queste braccia, io invocherei la distruzione del creato. 29 maggio, all'alba.2 O illusione! perché quando ne' nue1 sogni quest'anima è un paradiso, e Teresa è al mio fianco, e mi sento sospirar su la bocca, e .•• perché mi trovo poi un vuoto, un vuoto di tomba? Almen que' beati momenti non fossero mai venuti, o non fossero fuggiti maiI - questa notte io cercava brancicando quella mano che me l'ha strappata dal seno: mi parca d'intendere da lontano un suo gemito; ma le coltri molli di pianto, i miei capelli sudati, il mio petto ansante, la fitta e muta oscurità ... tutto tutto mi gridava: in/elice tu deliri! Spaventato e languente mi sono buttato boccone sul letto abbracciando il guanciale, e cercando di tormentarmi nuovamente e d'illudermi. Se tu mi vedessi stanco, squallido, taciturno errar su e giù per le montagne e cercar di Teresa, e temer di trovarla; sovente brontolar fra me stesso, chiamare, pregarla, e rispondere alle mie voci: arso dal sole mi caccio sotto una macchia e m'addormento o vaneggio: - ahi che sovente la saluto come se la vedessi, e mi pare di stringerla e di baciarla ... poi tutto svanisce, ed io tengo gli occhi inchiodati su i precipizii di qualche dirupo. Sii conviene ch'io la finisca. 1. Ma intanto ••• perduta: in lettera a Eleonora Nencini: •[...] giacché l'ho perduta senza speranza• (vedi nel tomo 11 la lettera 14). 2. Vedi Orti, (1798), Lettera XLI (Edizione Nazionale, 1v, p. 64). PROSE 29 maggio, a sera.1 FUGGIR dunque, fuggire: ma dove? credimi: io mi sento malato; appena reggo questo misero corpo per potermelo strascinare sino alla villa, e confortarmi in quegli occhi divini, e bere un altro sorso di vita, forse ultimo! Ma senza di ciò vorrei più questo inferno? Oggi l'ho salutata per andarmene a desinare; sono partito, ma non poteva scostarmi dal suo giardino; e ... lo credi ? la sua vista mi dà soggezione: vedendola poi scendere con sua sorella ho tentato di tirarmi sotto una pergola e fuggirmene. La lsabellina ha gridato: Viscere mie, viscere mie, non ci avete vedute? Colpito quasi da un fulmine mi sono precipitato sopra un sedile; la ragazza mi s'è gettata al collo carezzandomi, e dicendomi all'orecchio: perché piangi? Non so se Teresa m'abbia guardato; sparì dentro un viale. Dopo mezz'ora tornò a chiamare la ragazza che stava ancora fra le mie ginocchia, e m'accorsi che le sue pupille erano rosse di pianto; non mi parlò, ma mi ammazzò con un'occhiata quasi volesse dirmi: tu mi hai ridotta così misera. .2 giugno. Ecco tutto ne' suoi veri sembianti. Ahi! non sapeva che in me s'annidasse questo furore che m'investe, m'arde, mi annienta, eppur non mi uccide. Dov'è la natura? Dov'è la sua immensa bellezza? Dov'è l'intreccio pittoresco de' colli ch'io contemplava dalla pianura innalzandomi con l'immaginazione nelle regioni dei cieli? mi sembrano rupi nude e non veggo che precipizii. Le loro falde coperte di ombre ospitali mi son fatte noiose: io vi passeggiava un tempo fra le ingannevoli meditazioni della nostra debole filosofia. A qual pro se ci fanno conoscere le nostre infermità, né porgono i rimedii da risanarle? - Oggi io sentiva gemere la foresta ai colpi delle scuri: i contadini atterravano i roveri di duecento anni ..• tutto pere quaggiù! tutto. Guardo le piante ch'una volta scansava di calpestare e mi arresto sovr'esse e le strappo e le sfioro gittandole fra la polvere rapita dai venti. Gemesse con me l'universoI Sono uscito assai prima del sole e correndo attraverso de1 solchi, cercava nella stanchezza del corpo qualche sopore a quest'anima 1. Vedi Ortis (1798), Lettera XLII (Edizione Nazionale, IV, pp. 64-5). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 627 tempestosa. La mia fronte era tutta sudore, e il mio petto ansava con difficile anelito. Soffia il vento della notte e mi scompiglia le chiome ed agghiaccia il sudore che grondavami dalle guance. Ohi da quell'ora mi sento per tutte le membra un brivido. Le mani fredde, le labbra livide, e gli occhi erranti fra le nuvole della morte.1 Almeno costei non mi perseguitasse con la sua immagine ovunque io vada a piantarmisi faccia a faccia: perch'ella o Lorenzo ... perch'ella mi move qui dentro un terrore, una disperazione, una rabbia, una gran guerra ... e medito talor di rapirla e di strascinarla con me nei deserti lungi dalla prepotenza degli uomini. - Ahi sciagurato! ... mi percuoto la fronte e bestemmio ... Partirò, partirò. LORENZO A CHI LEGGEZ Tu forse, o Lettore, sei divenuto amico dell'infelice Jacopo, e brami di sapere la storia della sua passi.one,· onde io per narrartela, andrò di qui innanzi interrompendo la serie di queste lettere. La morte di Lauretta accrebbe la sua malinconia fatta ancora più nera per l'imminente ritorno di Odoardo. Dimagrato, sparuto, con gli occhi incavati, ma spalancati e pensosi, la voce cupa, i passi tardi, andava per lo più in/erraiuolato, senza cappello, e con le chiome giù per la faccia; vegliava le notti intere girando per le campagne, e il gionio fu spesso veduto dormire sotto qualche albero. In questa tornò Odoardo in compagnia di un giO'IJine pittore che ri'patriava da Roma. Quel giorno stesso incontrarono Jacopo. Odoardo gli s,."fe' incontro abbracciandolo,· Jacopo quasi sbigottito s,.· arretrò. Il pittore gli disse che avendo udito a parlare di lui e de' suoi talenti, da gran tempo bramava di conoscerlo ... Ei lo interruppe: Io? sono un infelice ... si ra'l)'l)olse nel suo tabarro, si cacciò fra gli alber1.", e t. La miafronte ... morte: vedi in lettera all'Arese: a[...] veglio la notte[...] e sempre con un fiero dolore di capo, con una febbre lenta, e un sudore freddo ••• [.•.] Assalito ne' pochi momenti del mio sopore da tremendi fantasmi, io mi risveglio, e grido tal volta .•• e mi pare di vedermi sospese su gli occhi le nuvole della morte» (Epistolario, I, p. J16). 2. Vedi Ortis (1798)., Edizione Nazionale, 1v, p. 66-7. PROSE sparì. Odoardo si dolse di questo contegno col padre di Teresa, il quale già incominciava a travedere la passione di Jacopo. Teresa dotata di una indole meno risentita, ma passionata ed ingenua, propensa a una affettuosa malinconia, priva nella solitudine d'ogni altro amico di cuore, nell'età in cui parla in noi la dolce necessità di amare e di essere riamati,1 incominciò a confidare aJacopo tutta la sua anima e a poco a poco se ne innamorò; ma non osava confessarlo a sé stessa, e dopo la sera di quel bacio fatale viveva riservata, sfuggendo l'amante, e tremando alla presenza del padre. Allontanata da sua madre, senza consiglio e senza conforto, atterrita del suo stato futuro, e combattuta dalla virtù e dall'amore, divenne solitaria, non parlava quasi mai, leggeva sempre, trascurava e il disegno, e la sua arpa, e il suo abbigliamento, e fu spesso sorpresa dai famigliari con le lagrime agli occhi. Sfuggiva la compagnia delle giovinette sue amiche che a primavera villeggiavano a' colli Euganei,· e dileguandosi a tutti e alla sua stessa sorellina sedeva molte ore ne' luoghi più ombrosi del suo giardino. Regnava quindi in quella casa un silenzio e una certa diffidenza che turbarono lo sposo trafitto anche dai modi sdegnosi di Jacopo incapace di simulazione. Naturalmente parlava con enfasi, e sebbene conversando fosse taciturno, fra i suoi amici era loquace, pronto al riso, e ad una allegria schietta, eccessiva. Ma in que' giorni le sue parole ed ogni suo atto erano veementi e amari come la sua anima. lnstigato una sera da Odoardo che giustificava il trattato di Campo-Formio,2 si' pose a disputare, a gridare come un invasato, a minacciare, a percuotersi la testa, e a pi"angere d'ira. Avea sempre un'aria assoluta,· ma il signore T••• mi raccontava eh'egli allora o stava sepolto ne' suoi pensieri, o se discorreva, s'infiammava d'improvviso, i suoi occhi metteano paura e talvolta fra il discorso gli abbassava inondati di pianto. Odoardo si fe' più circospetto e sospettò la cagione del cangiamento di Jacopo. Con passò tutto giugno. Il povero giovine diveniva ognora più tetro ed infermo,· né scriveva più alla sua famiglia, né n·spondeva alle mie lettere. Spesso fu veduto da' contadini' cavalcare a briglia sciolta per luoghi scoscesi, e in mezzo alle fratte, e a traverso de' fossi', ed è maraviglia com'ei non si·a pericolato. Una mattina il pittore stando a ritra"e la prospettiva de' monti, udì la sua voce fra il bosco: 1. la dolce ••• riamati: vedi la nota z a p. 582. z. trattato di Campo-Formio: vedi la nota z a p. 569. ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 629 gli si accostò di soppiatto, e intese eh'ei declamava una scena del Saulle. Allora gli riusd di disegnare il ritratto dell'Ortis, che sta in fronte a questa edlzlone, appunto quand'ei si, soffermava pensoso dopo avere proferito que' versi dell'atto 11, scena I. . . . . . . . Precipitoso già mi sarei fra gl'inimici ferri scagliato io da gran tempo, avrei già tronca così la vita orribile ch'io vivo.1 Poi lo vi.de arrampicarsi slno alla cima della montagna, guardare all'ingiù risolutamente con le braccia aperte, e tutto ad un tratto rinculare sclama,zdo: O madre mia! Una domenica rimase a pranzo in casa T•••. Pregò Teresa perché suonasse, e le porse l'arpa egli stesso. Mentr'ella incominciava a suonare, entrò suo padre, e s'assise accanto a lei. Jacopo pareva inondato da una deliziosa mestiz1."a e il suo aspetto si, andava rianimando: ma poi a poco a poco chinò la testa, e ricadde in una malinconia più compassionevole di prima. Teresa lo sogguardava, e sforzavasi di repri'mere il pianto. Jacopo se n'aooide, né potendosi contenere s'alzò e partì. Il padre intenerito si volse a Teresa dicendole: o figlia mia, tu vuoi dunque precipitarti? A queste parole le sgorgarono d'improviso le lagrime,· si gettò fra le braccia di suo padre, e gli" confessò . .. - In questa entrava Odoardo a chiamare a tavola, e l'atteggiamento di Teresa e il turbamento del signore T••• lo raffermarono ne' suoi dubbii. Queste cose le ho udite dalla bocca di Teresa. 11 di seguente che fu la mattina de' 7 luglio, Jacopo andlJ da Teresa, e vi trovò lo sposo, e i'l pittore che le faceva il ritratto nuziale. Teresa confusa e tremante uscì in fretta come per badare a qualche cosa che si era dimenticata, ma passando davanti a Jacopo gli disse ansiosamente e sottovoce: mio padre sa tutto. Egli non fe' motto; ma passeggiò tre o quattro volte su e giù per la stanza, ed uscì. Per tutto quel giorno non si lasciò vedere ad anima vivente. Michele che lo aspettava a desi.nare lo cercò invano sino a sera. Non si ridusse a casa che a mezzanotte suonata. Si gettò vestito sul letto, e mandò a dormire il ragazzo. Poco dopo s'alzò e scrisse. 1. vv. 31-4. 630 PROSE mezzanotte.1 lo porgeva alla divinità i miei ringraziamenti, e i miei voti, ma io non l'ho mai temuta. Eppure adesso che sento tutto il flagello della sventura, io la temo e la supplico. Il mio intelletto è acciecato, la mia anima è prostrata, il mio corpo è sbattuto dal languore della morte. È veroI i disgraziati hanno bisogno di un altro mondo diverso da questo dove mangiano un pane amaro, e bevono l'acqua mescolata alle lagrime. La immaginazione lo crea, e il cuore si consola. La virtù sempre infelice quaggiù persevera con la speranza di un premio. - Ma sciagurati coloro che per non essere scellerati hanno bisogno della religioneI Mi sono prostrato in una chiesetta posta in Arquà, perché io sentiva che la mano di Dio pesava sopra il mio cuore. Son io debole forse, Lorenzo? Il cielo non ti faccia mai sentire la necessità della solitudine, delle lagrime, e di una chiesa1 ore 2. Il cielo è tempestoso: le stelle rare e pallide; e la luna mezza sepolta fra le nuvole batte con raggi lividi le mie finestre. all'alba. Lorenzo, non odi? t'invoca l'amico tuo: qual sonnoI spunta un raggio di giorno e forse per inasprire i miei mali. - Dio non mi ode. Mi condanna anzi ogn'istante all'agonia della morte; e mi costringe a maledire i miei giorni che pur non sono macchiati di alcun delitto. Che? se tu se' un Dio forte, prepotente, geloso, che rivedi le iniquità de' padri nei figli, e che flisiti nel tuo furore la terza e la quarta generazione,• dovrò io sperar di placarti ? No. Manda in me l'ira tua con la quale siedi nell'inferno soffiando le fiamme•• che dovranno • Esodo xx. 5.z •• Malachia 111. 3.3 I. Vedi Ortis (1798), Lettera XLIV (Edizione Nazionale, IV, pp. 67-8). 2. cr Ego sum Dominus Deus tuus, fortis, zelotes, visitans iniquitatem patrum in filios in tertiam et quartam generationem [...] •· 3. Ma Mal., 3, 2: cr Ipse enim quasi ignis conflans [...] ». ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 631 ardere milioni e milioni di popoli ai quali non ti se' fatto conoscere. Ahi! sento pure che ho bisogno di te. Ma spogliati degli attributi di cui gli uomini ti hanno vestito per farti simile a loro. Non sei tu il padre della natura e il consolatore degli afflitti ? Odimi dunque. Questo cuore ti sente; ma non t'offendere di queste lagrime che la natura dimanda all'uomo. Io non mormoro contro di te. Piangendo e invocandoti cerco soltanto di liberare quest'anima: di liberarla? oh non mai: ella è piena; ma non di te. Ecco, o Lorenzo, fuor delle mie labbra il delitto per cui Dio ha ritirato il suo sguardo da me. Io non t>ho adorato mai, come Teresa. - Bestemmia! pari a Dio costei che sarà a un soffio scheletro e nulla? Vedi l'uomo umiliato! Devo io anteporre Teresa a Dio stesso ? ... Ah da lei si spande beltà celeste ed immensa, beltà onnipotente! Io lancio uno sguardo su l'universo, e contemplo con occhio attonito l'eternità; tutto è caos, tutto sfuma e si annulla, Dio stesso mi diventa incomprensibile ... ma Teresa mi sta sempre davanti. Due giorni dopo ammalò,· il padre di Teresa andl, a ritrovarlo, e profittò di quel momento per persuaderlo ad allontanarsi da' colli Euganei. Discreto e generoso, stimava l'ingegno e l'alta anima diJacopo, e lo amava come il più caro amico eh'egli avesse mai avuto. Mi assicurò che forse in tempi diversi awehhe creduto di fare felice sua figlia sposandola ad un uomo che se partecipava di alcuni difetti del suo tempo, aveva, al suo dire, il cuore e le flirtù di un altro secolo. Ma Odoardo era ricco e di una f ami'glia sotto la cui parentela egli sfuggiva le insidie de' suoi nemici che lo accusavano di avere bramata la verace libertà del suo paese,· delitto capitale. Apparentandosi all'Ortis avrebbe accelerato e la rovina di lui e quella della propria famiglia. Oltrediché aveva impegnata la sua fede; e per mantenerla era giunto a dividersi da una mogl,"e a lui cara. Né i suoi affari domestici gli concedevano di accasare Teresa con una gran dote, necessaria alle mediocri sostanze dell'Ortis. Il signore r••• mi scrisse queste cose, e le disse a Jacopo che lo ascoltò pazientemente. Ma quando si udì parlare della dote: No, lo 1."nterruppe, esule, povero, oscuro a tutto il mondo1 mi vorrei sotterrar vivo anziché domandarvi vostra figlia in isposa: sono sfortunato ma non vile: io non rico- 1. esule ••• mondo: vedi in lettera all'Arese: •Esule dalla mia patria, straniero a tutto il mondo• (Epistolario, I, p. 291). PROSE noscerò mai la mia fortuna dalla dote di mia moglie. Vostra figlia è ricca e promessa.1 - Dunque? rispose il signore T•••. Jacopo non fiatò,· ma rivolse gli occhi al cielo,· e dopo molta ora: O Teresa, esclamò, sei pure infelice! - O amico mio, gli soggiunse allora amorevolmente il signore T•••, chi la fece infelice, chi, se non voi? ella per amor mio s'era rassegnata al suo destino, e sola poteva rappacificare una volta i suoi poveri genitori. Vi ha amato; e da quel tempo voi che pure l'amate con tanta delicatezza voi stesso rapite a lei uno sposo, e turbate la pace d'una famiglia che vi ha sempre guardato qual proprio figliuolo. Arrendetevi, allontanatevi per qualche tempo. Voi forse avreste temuto in me un padre severo; ma pur troppo sono stato anch'io sventurato; ho sentite le passioni e ho imparato a compatirle. Abbiate pietà e di me e della vostra gioventù e della fama di Teresa. La sua beltà e la sua salute vanno languendo; la sua anima geme nel dolore, e per voi solo, per voi. Io vi scongiuro in nome di Teresa, partite; sacrificate la vostra passione alla sua felicità; e non fate di me il padre più misero che sia mai nato}' Jacopo parea intenerito, ma non rispose. - Il suo male aggravava; ne' dì seguenti fu preso da una febbre ardentissima. Frattanto io sgomentato e dalle ultime lettere di Jacopo, e da quelle del padre di Teresa, tentava tutte le vie per accelerare la partenza del mio povero amico, solo rimedio alla sua violenta passione. Né ebbi cuore di parlarne a sua madre che conosceva l'indole di lui capace di eccessi, e le dissi soltanto eh'egli era un po' malato, e che il cangiamento d'aria gli gioverebbe. 3 In quel tempo stesso incominciavano a inferocire a Venezia le persecuzioni. Non vi eran leggi, ma tribunali onnipotenti; non accusatori, non difensori; benn spie di pensieri, delitti ignoti, pene subite, 1. mi vo"ei •.• promessa: in lettera a Eleonora Nencini : • Ella ~ sposa . . . - e se pur noi fosse, io non oserei mai offrir la mia mano ad una donna più ricca di me. La delicatezza in ciò supererebbe l'amore - ma non per altro che per gettarmi più presto nel sepolcro» (vedi nel tomo Il la lettera 14). 2. Mi assicurò ••. sia mai nato: vedi in lettera di Eleonora Nencini e Isabella Roncioni al Foscolo: «La mia cara amica non è meno infelice di voi [•••] dissemi, che il suo stato esigeva da voi rispetto e pietà; il di lei padre, già legato da una parola di onore, non poteva distogliere di eseguirla senza dei forti motivi; che se il Cielo la rendesse arbitra di sua sorte, forse voi sareste il preferito: ma ciò è un sogno, contentatevi della aua amicizia, che essa vi promette per mia bocca, non accrescete per carità le sue pene, né rendete più infelice una tenera fanciulla, che merita la maggior felicità• (Epistolario, 1, pp. 95-6). 3. Vedi Ortis (1798), Edizione Nazionale, IV, pp. 69-71. ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 633 inappellabili. I più sospetti gemeano in carcere,· gli altri, benché di antica ed onesta fama, tratti di notte dalle proprie case, manomessi dagli sgherri, strascinati a' confini, e abbandonati alla ventura, senza l'addio de' congiunti, e destituti di ogni umano soccorso. Per alcuni pochi l'esilio scevro da questi modi violenti ed in/ami fu somma clemenza. Ed io pure tardo, ma non ultimo. martire, vo' da più mesi profugo per l'ltal1."a volgendo senza niuna speranza gli occhi lagrimosi alle sponde della mia patria. Quind'io allora, tremante anche per la sicurezza di Jacopo, persuasi sua madre quantunque desolata a scrivergli perché sino a tempi migliori cercasse asilo in qualche altro paese, tanto più che quand'ei lasciò Pado'Va le si scusò allegando gli stessi timori. Fu affidata la lettera a un ser'Vo il quale giunse a' colli Euganei la sera de' IS luglio, e trovò Jacopo ancora a letto, sebbene migliorato d'assai. Gli sedea presso il padre di Teresa. Lesse la lettera sommessamente e la posò sul guanciale; poco dopo la rilesse assai commosso, ma non ne parlò. Il dì I9 s'alzò: in quel giorno stesso sua madre gli riscrisse inviandogli danari, due cambiali, e parecchie commendatizie, e scongiurandolo per le viscere di Dio perch'ei partisse. Quel dopo pranzo andò da Teresa, e non tro'VÒ che l'lsabellina la quale tutta intenerita contò eh'ei s'assise muto, s'alzò, la baciò, e discese. Tornò dopo un'ora, e salendo le scale la incontrò di nuo'Vo e se la strinse alpetto, la baciò più volte, e la bagnò di lagrime; si pose a scr1:vere, cangiò parecchi· fogli e li stracciò poi tutti. Si aggirò pensieroso per l'orto; un servo passandovi su l'imbrunire lo vide sdraiato: ripassa11do lo trovò n·tto su la porta in atto di uscire con la testa rivolta attentamente verso la casa eh'era battuta dalla luna. Tornato a casa rimandò il messo rispondendo a sua madre che domani all'alba partiva. Fece ordinare i cavalli alla posta più vicina,· prima di coricarsi scrisse la lettera seguente per Teresa e la consegnò all'ortolano. Ali'alba parti. ore 9. Perdonami, Teresa; io ho funestato i tuoi giorni, e la pace della tua famiglia; ma fuggirò ... siI lo non credeva di avere tanta costanza. Ti posso lasciare senza morir di dolore a' tuoi piedi, e non è poco: usiamo di questo momento sinché il cuore mi regge e la ragione non mi abbandona affatto. Ma la mia anima è tutta sepolta nel solo pensiero di amarti sempre sempre, e di piangerti. - Se 634 PROSE tu il vuoi io mi renderò sacro il dovere di non più scriverti; seppellirò nel mio cuore i miei gemiti ... ma io non ti vedrò, no, mai più ... oggi t'ho cercato invano per darti l'estremo addio. Ahi soffri soltanto, o mia Teresa, queste ultime righe ch'io bagno delle più amare lagrime. Mandami in qualunque tempo, in qualunque luogo il tuo ritratto. Se l'amicizia, se l'amore ... se la compassione ti parlano ancora per questo sconsolato, non negarmi il piacere che addolcirà tutti i miei mali. Tuo padre stesso me lo concederà, spero: egli egli che potrà vederti ed udirti e piangere con te, mentr'io nelle ore fantastiche del mio dolore e delle mie passioni, annoiato di tutto il mondo, diffidente di tutti, con un pie' su la sepoltura, mi conforterò sempre baciando di e notte la tua sacra immagine, e così tu m'infonderai da lontano costanza per sopportare ancora questa mia vita. Farò men angosciose le mie notti, e meno tristi i miei giorni solitari, que' pochi giorni ch'io potrò vivere senza di te. Morendo, io volgerò a te gli ultimi sguardi, io ti raccomanderò il mio ultimo sospiro, io verserò su te tutta l'anima mia, io ti porterò con me, nel mio sepolcro, attaccata al mio petto...1 O angiolo! tu mi hai assistito con tanto affetto nella mia breve malattia: te ne ringrazio di cuore, te ne ringrazio. Ho l'unica tua lettera che mi scrivesti quand'io era a Padova; 1. Se tu •.. al mio petto: in lettera a Isabella Roncioni: • M'era proposto di non più scriverti, e di non più vederti. Ma ..• - io non ti vedrò, no. Soffri soltanto queste due ultime righe che io bagno delle più calde lagrime. Fammi avere in qualunque tempo, in qualunque luogo il tuo ritratto. Se un sentimento di amicizia e di compassione ti parlano per questo sventurato ... non mi negare il piacere che compenserebbe tutti i miei dolori. Quel giovine felice che ti ama te lo consentirà egli medesimo. Egli è riamato, e piange. Da ciò potrà egli argomentare quanto io sono più infelice di lui, che potrà vederti cd udirti, e dividere teco il suo pianto; mentre io nelle fantastiche ore del mio cordoglio e delle mie passioni, annoiato di tutto il mondo, diffidente di tutti, malinconico, ramingo, con un piè sulla fossa, mi conforterò sempre baciando dl e notte la tua sacra immagine; e tu da lontano mi darai costanza per sopportare ancora questa mia vita. Morendo, io ti volgerò le ultime occhiate; io ti raccomanderò il mio estremo sospiro, io ti porterò con mc nella mia sepoltura, con me ... attaccata al mio petto ... -• (vedi nel tomo II la lettera 15); e in lettera all'Arcse: a[...] non mi abbandonare senza il tuo ritratto. [...] Dipende da te sola il darmi questa cara ed unica consolazione. Io avrò una compagnia nel mio dolore; io porterò in qualunque luogo mi strascinasse la sorte, io porterò con me una sacra e preziosa memoria; farò men angosciose le mie notti, e men tetri i miei giorni solitari: que' pochi giorni che io potrò sopravviverti ••., ma morendo m'illuderò baciandoti e versando su te tutta la mia anima (Epistolario, 1, pp. 338-9). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTJS (1802) 635 felice tempo! ma chi l'avrebbe mai detto? Solo e sacro testimonio del mio dolore e dell'amor mio non mi abbandonerà mai, mai. O mia Teresa; questi sono delirii; ma l'uomo sommamente misero non ha altra consolazione. Addio: perdonami, mia Teresa ... perdonami. - Ohimè, io mi credeva più forte! Scrivo male, e di un carattere appena leggibile. Ma ti scrivo arso dalla febbre, con l'anima lacerata, e il pianto su gli occhi. Per carità non mi negare il tuo ritratto. Consegnalo a Lorenzo. S'io morirò pria ch'egli possa farmelo giungere, lo custodirà come eredi~à santa e preziosa che gli ricorderà sempre e le tue virtù e la tua bellezza, e l'ultimo eterno infelicissimo amore del suo misero amico. Addio addio.1 Che se la mia languente salute, se le mie sventure, e la mia tristezza mi scavassero la fossa, concedimi ch'io mi renda cara la morte con la certezza che tu mi hai amato ...2 Ahi! adesso io sento tutto il dolore a cui ti lascio. Ohi potessi morirti vicino; oh! potessi almeno morire, ed essere sepolto nella terra che avrà le tue ossa.3 Addio, non posso più ... Addio.• Tutti quasi i framme,iti che sieguono erano scritti in diversi fogli. Rovigo, 20 luglio. Io la mirava, e diceva a me stesso: che sarebbe di me s'io non potessi vederla più ? e correva a piangere di consolazione sapendo ch'io le era vicino: e adesso? .•. io l'ho perduta. Cos'è più l'universo? qual parte della terra potrà sostenermi senza Teresa? e mi pare di esserle lontano sognando. Ho avuto io tanta costanza? e m'è bastato il cuore di partire cosi •.. senza 1. Ohimè ... addio: in lettera a Isabella Roncioni: •Oimè! io credeva d'essere più forte di quello ch,io sono. - Per carità non mi negare questo conforto. Consegnalo al Niccolini. L'amicizia troverà tutti i mezzi .•. S'io morirò, egli lo custodirà come cara e preziosa memoria della tua bellezza e delle tue virtù. Egli piangerà sempre l'ultimo, infelice, eterno amore del suo povero amico. Addio, addio• (vedi nel tomo II la lettera 15). 2. concedimi ... amato: vedi in lettera all'Arese: a [ •••] conforterò i miei tormenti con la celeste rimembranza de' pochissimi mesi che tu mi hai amato • (Epistolario, 1, pp. 322-3). 3. Oh! potessi . .. ossa: vedi MONTI, Galeotto Manfredi, atto 11, scena 111, 197-9: • Felice me, se di spirarti accanto/ mi concedean le stelle, e raccogliea / le nostre salme una medesma fossa•· 4. Addio ... Addio: vedi in lettera a Isabella Roncioni citata alla nota 1 : a Addio, addio. Non posso più•· PROSE vederla? né un bacio, né un solo addio! Tutti i momenti io credo di essere alla porta della sua casa, e di sedere al suo fianco. lo fuggo; e con che velocità ogni minuto mi porta ognor più lontano da lei. _E intanto? quante care illusioniI ma ... io Jtho perduta. Non so più obbedire né alla mia volontà, né alla mia ragione, né al mio cuore sbalordito: mi lascio strascinare dal braccio prepotente del mio destino. Addio addio, Lorenzo ... Ferrara 20 Luglio, a sera. Io passava il Po e guardava le immense sue acque, e più volte io fui per precipitarmi, e profondarmi, e perdermi per sempre. Tutto è un puntol - ah s'io non avessi una madre cara e sventurata a cui la mia morte costerebbe amarissime Iagrime!1 Né finirò cosi da codardo. Sosterrò tutta la mia sciagura; berrò fino alPultima lagrima il pianto che mi fu assegnato dal mio destino; e quando le difese saranno vane, disperate tutte le passioni, tutte le forze consunte; quando io avrò coraggio di mirare la morte in faccia, e ragionare tranquillamente con lei, ed assaporare l'amaro suo calice, allora ... Ma ora ch'io parlo non è forse tutto perduto? e non mi resta che la sola rimembranza e la certezza che tutto è perduto ? - hai tu provata mai quella piena di dolore quando ci abbandonano tutte le speranze ? Né un bacio? né un ultimo addio! - bensì le tue lagrime mi seguiranno nella mia sepoltura. La mia salute, la mia sorte, il mio cuore, tu ... tul - insomma tutto congiura, ed io vi obbedirò tutti.3 ore ..•. Ed ho avuto coraggio di abbandonarla? anzi ti ho abbandonata, o Teresa, in uno stato più deplorabile del mio. Chi sarà più il tuo 1. epiù volte . .• lagrime: vedi in lettera ali'Arese:«[.•.] la vita m'è cosi grave [...] ch'io la strascinerò nella noia e nel pianto fino che avrò una madre a cui la mia morte costerebbe amarissime lagrime • (Epistolario, I, p. 245); e in altra lettera alla stessa: a E s'io non avessi [...] una madre [...] e forse la più sventurata ... oh quante volte io me ne sarei andato [...] • (Epi. stolario, 1, p. 334). 2. le tue lagrime ••• tutti: vedi in lettera all'Arese: •Si; lasciami: le tue lagrime mi seguiranno nella mia sepoltura. - La mia infelice salute, la mia sorte, il mio cuore, tu, tu .•. tutto congiura; ed io vi obbe• dirò tutti D (Epistolario, I, p. 309). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 637 consolatore? e tremerai al solo mio nome poiché ho colmata la tua sventura. Non abbiamo più niun soccorso dagli uomini, niuna consolazione in noi stessi. Ornai non so che supplicare il sommo lddio, e supplicarlo co' miei gemiti, e cercare qualche aiuto fuori di questo mondo dove tutto ci perseguita o ci abbandona. E se gli spasimi, e le preghiere, e il rimorso eh'è fatto già mio carnefice, fossero offerte accolte dal cielo, ahl tu non saresti cosi infelice, ed io benedirei tutti i miei tormenti. Frattanto nella mia disperazione mortale chi sa in che pericoli tu sei! né io posso difenderti, né rasciugare il tuo pianto, né raccogliere nel mio petto i tuoi secreti, né partecipare delle tue afflizioni. Io non so né dove fuggo, né come ti lascio, né quando potrò più vederti ...1 Padre crudele ... Teresa è sangue tuoi quell'altare è profanato; la natura ed il cielo maledicono quei giuramenti; il ribrezzo, la gelosia, la discordia, ed il pentimento gireranno fremendo intorno a quel letto e insanguineranno forse quei nodi ...2 Teresa è figlia tua; placati. Ti pentirai forse amaramente, ma invano: fors'ella un giorno nell'orrore del suo stato maledirà i suoi giorni e i suoi genitori, e conturberà con le sue querele le tue ossa nel sepolcro quando tu non potrai soccorrerla più. Placati ... - Ohimèl tu non mi ascolti ... e dove la strascinate? ... la vittima è sacrificata! io odo il suo gemito ... il mio nome nel suo ultimo gemito! Barbari! tremate ... il vostro sangue, il mio sangue .•. e Teresa sarà vendicata! - ahi delirio ... 1. anzi ... più vederti: in lettera alPArese: • [...] non posso resistere al pensiero che tu sia inferma per me: io sento tutta tutta la mia sventura; e non ho niun soccorso negli uomini, niuna consolazione in me stesso. Ornai non so che ricorrere al Cielo, e pregarlo con le mie lagrime, e cercare qualche conforto fuori di questo mondo dove tutto ci perseguita o ci abbandona. Credimi, mia Antonietta, se il mio pianto, se le mie preghiere, se i miei rimorsi, se il dolore profondo che è fatto carnefice ormai di questo nùo povero cuore, fossero rimedi bastanti per te; tu saresti risanata, ed io ringrazierei i miei tormenti. E intanto? nella mia estrema afflizione sa il Cielo in che pericoli tu seiI né io posso soccorrerti. né giovarti con le mie lagrime, né accogliere nel mio petto i tuoi secreti, né dividere i tuoi dolori. Io non so frattanto né se parti, né dove sei, né in quale stato io ti lascio• (vedi nel tomo II la lettera 37). 2. il ribrezzo •. . nodi: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, a p. 552, e la relativa nota 2. PROSE Ma tu, Lorenzo mio, che non mi aiuti ?1 io non ti scriveva perché un'eterna tempesta d'ira, di gelosia, di vendetta, di amore infuriava dentro di me; e tante passioni mi si gonfiavano nel petto, e mi soffocavano, e mi strozzavano quasi ;2 io non poteva mandare parola, io sentiva il dolore impietrito dentro di me; ... e questo dolore regna ancora e mi chiude la voce e i sospiri, e m'inaridisce le lagrime; .•. mi sento mancata gran parte della vita, e quel poco che pure mi resta mi pare avvilito dal languore e dalla tristezza del sepolcro. E mi adiro sovente di essere partito, e mi accuso di viltà. Perché mai non hanno ardito insultare alla mia passione? Se taluno avesse comandato a quella infelice di non vedermi più, se me l'avessero a viva forza strappata, pensi tu ch'io l'avrei lasciata mai? Ma doveva io pagare d'ingratitudine un padre che mi chiamava amico, che tante volte commosso mi abbracciava dicendomi: e perché la sorte ti ha unito con questi disgraziati? Poteva io precipitare nel disonore e nella persecuzione una famiglia che in altre circostanze avrebbe diviso meco e la felicità e l'infortunio ? E che poteva io rispondergli quand'ei mi diceva sospirando e pregandomi: Teresa è mia figlia! - Sì! divorerò nel rimorso e nella solitudine tutti i miei giorni: ma io ringrazierò quella tremenda mano invisibile che mi rapì da quel precipizio donde io cadendo avrei strascinata meco nella voragine quella giovinetta innocente. Potessi anzi nascondermi a tutto l'universo e piangere le mie sciagure! ... ma piangere i mali di quella celeste creatura, e piangerli quando io gli ho esacerbati? .•.3 Niuno sa quale ·segreto sta sepolto qui dentro ... - e questo sudore freddo improvviso, e questo arretrarmi ... e il lamento che tutte le sere vien di sotterra, e mi chiama ... e quel cadavere ..• 1. Ma tu •.• aiuti?: vedi DANTE, lnf., XXXIII, 69: «[...]Padre mio, ché non m'aiuti? u (e vedi Le ultime lettere di Jacopo Orti1, revisione, introduzione e note a cura di Angelo Ottolini, Milano, Cogliati-Martelli, 1928, p. 138, nota 1). 2. un'eterna ... qua1i: vedi in lettera all'Arese: a[...] una perpetua tempesta d'ira, di gelosia, di delicatezza e di amore mi agitavano fieramente; e spesso tutti questi sentimenti si gonfiavano dentro di me, e mi strozzavano quasi [..•] >> (Epistolario, I, p. J14). J. Potessi •.. esacerbati: vedi in lettera all'Arese: «[•••] oh potessi vederti risanata e felice, e nascondermi poi per sempre e piangere le mie sventure! ma piangere le tue .•• e piangerle quand'io le ho amareggiate [•..] 11 (Epi1tolario, 1, p. 395). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 639 Spunta appena il giorno, ed io sto per partire. Da quanto tempo l'aurora mi trova sempre in un sonno da infermo! La notte non trovo mai posa. Poco fa io spalancava gli occhi urlando, guatandomi intorno come se mi vedessi sul capo il manigoldo. lo sento nello svegliarmi certi terrori,1 simile a quegli sciagurati che hanno le mani calde di delitto. - Addio addio. Parto, e ognor più lontano. Ti scriverò da Bologna dentr'oggi. Ringrazia mia madre. Pregala perché benedica il suo povero figliuolo. S'ella sapesse tutto il mio stato! ma taci; su le sue piaghe non aprire un'altra piaga. Bologna, 24 luglio, ore 10. Vuoi tu versare sul cuore del tuo amico, qualche stilla di balsamo? fa che Teresa ti dia il suo ritratto, e consegnalo a Michele ch'io ti rimando imponendogli di non ritornare senza tue risposte. Va a' colli Euganei tu stesso: forse quella disgraziata avrà bisogno di chi la compianga. Leggi alcuni frammenti di lettere che ne' miei affannosi delirii io tentava di scriverti. Addio. - Se tu vedrai l'lsabellina baciala mille volte per me. Quando nessuno si ricorderà più di me, fors'ella nominerà qualche volta il suo Jacopo. O mio carol avvolto in tante miserie, fatto diffidente dalla perfidia degli uomini, con un'anima ardente e che pur vuole amare ed essere amata, in chi poss'io confidarmi se non in una fanciullina non corrotta ancora dall'esperienza e dall'interesse, e che per una secreta e soave simpatia mi ha tante volte bagnato del suo pianto innocente? s'io un giorno sapessi ch'ella mi ha obbliato, io morrei di dolore. E tu, mio Lorenzo, m'abbandonerai tu? L'amicizia cara passione della gioventù ed unico conforto dell'infortunio langue nella prosperità. O gli amici, gli amiciI Tu non mi perderai se non quando io scenderò sotterra. Ed io cesso di querelarmi talvolta delle mie disgrazie perché senza di esse non sarei degno forse di un amico; né avrei un cuore capace di amarlo. Ma quando io non vivrò più, e tu avrai ereditato da me il calice delle lagrime ... ohi non cercare altro amico fuor di te stesso. 1. Spunta ••. terrori: vedi in lettera ali'Arese: «lo mi alzo, mia Antonietta, appena vedo un raggio di giorno, e m'alzo tutto bagnato di un sudore freddo, mortale. Tutte le più fiere sventure sono passate dinanzi la mia misera fantasia; [•.•] ma io sento sempre più tutta la miseria del mio stato• (Epistolario, 1, p. 387). PROSE Bologna, la notte de' 28 luglio. E mi parrebbe pure di star meno male s'io potessi dormire lungamente un gravissimo sonno. L'oppio non giova; mi desta dopo brevi letarghi pieni di visioni e di spasimi.1 E sono più nottil Mi sono alzato per tentare di scriverti ma non mi regge più né la testa né il polso. Tornerò a coricarmi. Pare che l'anima mia siegua lo stato negro e burrascoso della natura. Sento diluviare: e giaccio con gli occhi spalancati. Mio Dio, mio Diol2 Bologna, 12 agosto. ORMAI sono passati tredici giorni che Michele è ripartito per le poste, né torna ancora: e non veggo tue lettere. Tu pure mi lasci? Per dio, scrivimi almenoI aspetterò sino a lunedi, e poi prenderò la volta di Firenze. Qui tutto il giorno sto in casa perché non posso vedermi impacciato fra tanta gente; e la notte vo baloccone per città come una larva e mi sento sbranare l'anima da tanti indigenti che giacciono per le strade, e gridano pane;3 non so se per loro colpa, o d'altri ... so che l'umanità piange. Oggi tornandomi dalla posta mi sono abbattuto in due sciagurati tratti al patibolo: ne ho chiesto a quei che mi si affollavano addosso; e mi è stato risposto, che uno avea rubato una mula, e l'altro cinquantasei lire per fame.• Ahi società! E se non vi fossero leggi protettrici di coloro che per arricchire col sudore e col pianto de' proprii • Parevami prima esagerato questo racconto,· ma poi vidi che nello stato Cisalpino non vi era un codice criminale. Si giudicava con le leggi de' caduti governi,· e in Bologna con i decreti ferrei. de' Cardinali, che punivano di morte ogni furto qualificato eccedente le cinquantadue lire. Ma i Cardinali mitigavano quasi sempre la pena, il che non put, essere conceduto a' tribunali della Repubblica. L'Editore. 1. L'oppio ..• spasimi: vedi in lettera all'Arese: • [...]l'oppio non mi ha giovato; ho vegliato sino a giorno; e dopo un breve sopore mi sono svegliato alle nove tutto bagnato di un sudore freddo» (Epistolario, 1, p. 373). 2. E 10no ••. mio Dio!: vedi in lettera all'Arese: • [...]sono più notti! Pare che la mia anima siegua lo stato negro e burrascoso della natura. Sento diluviare ... ; e sto stupido, con gli occhi spalancati. Mio Dio, abbi pietà di questo infelice 11 (Epistolario, I, p. 339). 3. mi sento .•. pane: vedi nel tomo Il le Istruzioni politico-morali, VI: 11 [ •••] le ragioni naturali dei più, che si restano avviliti e affamati. Non si vede ogni giorno giganteggiar l'opulenza, appunto appresso a chi grida: Pane! •· ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 641 concittadini gli spingono al bisogno e al delitto, sarebbero poi si necessarie le prigioni e i carnefici ?lo non sono si matto da pretendere di riordinare i mortali; ma perché mi si contenderà di fremere su le loro miserie e più di tutto su la loro cecità? - E mi vien detto che non v1 ha settimana senza carnificina; e il popolo vi accorre come a solenne spettacolo. I delitti intanto crescono co' supplizii. No no; io non voglio più respirare quest'aria fumante sempre del sangue de' miseri. E dove ... ? Firenze, 27 agosto. DIANZI io adorava le sepolture del Galileo, del Machiavelli, e di Michelangelo;1 contemplandole io tremava preso da un brivido sacro. Coloro che hanno eretti que' mausolei sperano forse di scolparsi della povertà e delle carceri con le quali i loro avi punivano la grandezza di que' divini intelletti? Oh quanti perseguitati nel nostro secolo saranno venerati dai posteriI Ma le persecuzioni, e gli onori sono documenti della maligna ambizione che rode Pumano gregge. Presso a que' marmi mi parca di rivivere in quegli anni miei fervidi, quand'io vegliando su le opere de' grandi trapassati mi gittava con la immaginazione fra i plausi delle generazioni future. Ma ora troppo alte cose per mcl ... e pazze forse. La mia mente è cieca, le membra vacillanti, e il cuore guastoa qui, nel profondo. Ritienti le commendatizie di cui mi scrivi: quelle che mi mandasti io le ho bruciate. Non voglio più oltraggi, né favori da veruno degli uomini possenti. L'unico mortale ch'io desiderava conoscere era Vittorio Alfieri: ma odo dire ch'ei non accoglie persone nuove: né io presumo di fargli rompere questo suo proponimento che deriva forse dai tempi, da' suoi studii, e più ancora dalle sue alte passioni e dall'esperienza della società. E fosse anche una debolezza; le debolezze degli uomini sommi vanno rispettate: e chi n'è senza, scagl~ la prima pietra. 1. Dian:,i ••• Michelangelo: vedi Sepolcri, 154-64, alle pp. 311-3. 2. La mia mente ••• guasto: vedi il sonetto Non son chifui,· peri di noigran parte, 71 a p. 206: •cieca è la mente e guasto il core [•••] •· 41 PROSE Firenze, 7 settembre. SPALANCA le finestre, o Lorenzo, e saluta dalla mia stanza i miei colli. In un bel mattino di settembre saluta in mio nome il cielo, i laghi, le pianure, che si ricordano tutti della mia fanciullezza, e dove io per alcun tempo ho riposato dopo le ansietà della vita. Se passeggiando nelle notti serene i piedi ti conducessero verso i viali della parrocchia, io ti prego di salire sul monte dei pini che serba tante dolci e funeste mie rimembranze. Appiè del pendio, passata la macchia de' tigli che fanno l'aere sempre fresco e odorato, là dove que' rigagnoli adunano un pelaghetto, troverai il salice solitario sotto i cui rami piangenti io stava più ore prostrato parlando con le mie speranze.1 Giunto presso alla cima, tu pure udrai forse un cuculo il quale parea che ogni sera mi chiamasse col lugubre suo metro, e soltanto lo interrompea quando accorgeasi del mio borbottare o del calpestio de' miei piedi. Il pino dove allora stava nascosto fa ombra ai rottami di una cappelletta ove anticamente si ardeva una lampada a un crocifisso: il turbine la sfracellò; e quelle ruine mezzo sotterrate mi pareano nell'oscurità pietre sepolcrali, e più volte io mi pensava di erigere in quel luogo e fra quelle secrete ombre il mio avello. Ed ora? chi sa ov'io lascierò le mie ossa. - Consola tutti i contadini che ti chiederanno di me. Già tempo mi si affollavano intorno, ed io li chiamava miei amici, e mi chiamavano il loro benefattore. Io era il medico più accetto a' loro figliuoletti malati; io ascoltava amorevolmente le querele di que' meschini lavoratori, e componeva i loro dissidii; io filosofava con que' rozzi vecchi cadenti ingegnandomi di dileguare dalla lor fantasia i terrori della religione, e dipingendo i premii che il cielo riserba all'uomo stanco della povertà e del sudore. Ma or saranno dolenti, perché io in questi ultimi mesi passava muto e fantastico senza talvolta rispondere a' loro saluti, e scorgendoli da lontano mentre cantando tornavano da' lavori, o riconduceano gli armenti, io gli scansava imboscandomi dove la selva è più negra. E mi vedeano su l'alba saltare i fossi e sbadatamente urtar gli arboscelli, i quali crollando mi pioveano la brina su le chiome; e cosl affrettarmi per le praterie, e poi arrampicarmi sul monte più alto 1. là dofJe . •. speranze: vedi il sonetto Cosl gl'interi giorni in Ì11ngo incerto, 9-11, a p. 2.19: •Stanco mi appoggio or al troncon d'un pino,/ ed or prostrato ove strepitan l'onde, / con le speranze mie parlo e deliro». ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 643 d'onde io fermandomi ritto ed ansante, con le braccia stese all'oriente, aspettava il sole onde querelarmi con lui perché più non sorgeva allegro per me. Ti additeranno il ciglione della rupe sul quale mentre il mondo era addormentato io sedeva intento al lontano fragore delle acque,1 e al rombare dell'aria quando i venti ammassavano quasi su la mia testa le nuvole, e le spingevano a involvere la luna che tramontando, ad ora ad ora illuminava nella pianura co' suoi pallidi raggi le croci conficcate su i cumuli del cimiterio; e allora il villano de' vicini tugurii, per le mie grida destandosi sbigottito, s'affacciava alla porta e m'udiva in quel silenzio solenne mandare le mie preci, e piangere, e ululare, e guatare dall'alto le sepolture, e invocare la morte. O antica mia solitudine! Ove sei tu ? Non v'è gleba, non antro, non albero che non mi riviva nel cuore alimentandomi quel soave e patetico desiderio che sempre accompagna fuori delle sue case l'uomo esule, e sventurato.2 Parmi che i miei piaceri e i miei stessi dolori i quali talvolta in que' luoghi m'erano cari ... tutto insomma quello ch'è mio, sia rimasto tutto con te; e che qui non si strascini pellegrinando se non lo spettro del povero Jacopo. Ma tu, mio solo amico, perché appena mi scrivi due nude parole annunziandomi che tu sei con Teresa? e non mi dici né come vive, né se osa più nominarmi, né se Odoardo me l'ha rapita. Corro e ricorro alla posta, ma invano;3 e torno lento, smarrito, e mi si legge nel volto il presentimento di grave sciagura. E mi par d'ora in ora udirmi annunziare la mia sentenza mortale ... Teresa ha giurato. - Oimè! e quando mai cesserò da' miei funebri delirii, e dalle mie folli lusinghe? d'illusione in illusioneI ... Addio, addio. J. E mi vedeano ... delle acq"e: vedi i versi del GRAY citati in Ortis (1798), Lettera xxxv (Edizione Nazionale, 1v1 pp. 55-6). 2. Non v'è • •. sverrtllrato: vedi i Frammenti di un romanzo arltobiografico: • Beato colui che possiede in questa terra un rivo un antro una sposa e un raggio di fortuna! D (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, mss. Foscoliani, voi. II, ins. E, p. 19) a sua volta derivato dal sonetto di GALEAZZO 01 TARSIA, Già corsi l'Alpi gelide e canute, 9-11: «Oh felice colui che un breve e colto/ terren fra voi possiede, un antro, un rivo, / sua cara donna, e di fortuna un volto!•, dal FoscoLo pubblicato successivamente nei Vestigi della storia del sonetto italiano (lo si veda in Edizione Nazionale, v111, pp. 135-6). 3. perclré ... invano: in lettera all'Aresc: •Ma la più tremenda delle mie sventure è il non sapere né dove sei, né in che stato ti trovi, né come ti accolse il marito[...]. Corro e ricorro alla posta, ma invano• (vedi nel tomo n la lettera 43). PROSE Firenze, I 7 settembre. Tu mi hai inchiodata la disperazione nel cuore. Ornai vedo che Teresa tenta di obbliare questo infelice. Il suo ritratto Io aveva mandato a sua madre prima ch'io lo chiedessi? - tu me lo giuri ed io lo credo; ma .•. badai tu stesso per tentare di risanarmi, congiuri forse a contendermi l'unico balsamo alle mie viscere la- cerate. O mie speranze! si dileguano tutte;' ed io siedo qui abbandonato nella solitudine del mio dolore. In chi devo più confidare ? non mi tradire, Lorenzo: io non ti perderò mai dal mio petto, perché la tua memoria è necessaria all'amico tuo: in qualunque tua avversità tu non mi avresti perduto. Sono io dunque destinato a vedermi svanire tutto davanti? ..• anche l'unico avanzo di tante speranze? ma sia così! io non mi querelo né di lei, né di te • . . ma di me stesso e della mia for- tuna. Voi mi lascierete tutti, tutti: ma il mio cuore e il mio gemito vi seguirà in ogni luogo, e da ogni luogo vi richiamerò sospirando. Ecco le due sole righe di Teresa: «Abbiate rispetto a' vostri giorni; io ve lo comando ... ed alle nostre disgrazie. Non siete solo infelice.2 Avrete il mio ritratto quando potrò ... Mio padre vi piange con me ••. ma con le lagrime mi proibisce di più scrivervi; ed io piangendo lo prometto, e vi scrivo piangendo. Addio .•• addio per sempre». Tu sei dunque più forte di me? si; io ripeterò queste parole come se fossero le tue ultime voci: io parlerò teco un'altra volta, o Teresa; ma solo in quel giorno che avrò tutta la ragione e il coraggio di separarmi da te eternamente. Che se ora l'amarti di questo amore insoffribile immenso, e tacere, e seppellirmi agli occhi di tutti ti restituisse la pace ..• se la mia morte soltanto potesse espiare in faccia a' nostri persecutori la tua passione, e sopirla per sempre nel tuo petto; io supplico con tutto l'ardore e la verità dell'anima mia la natura ed il 1. O mie speranze ••• tutte: vedi in lettera all'Arese: •Tutte le mie speranze si dileguano 11 (Epistolario, 1, p. 391). 2. Abbiate • •• infelice: in calce alla lettera di Eleonora Nencini al Foscolo, la Roncioni, tra l'altro, scriveva: a Siate persuaso che non siete solo infelice ••• Vi prego di voler rispettare le circostanze ••• • (Epistolario, 1, p. 96). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTI$ (1802) 645 cielo perché mi tolgano finalmente dal mondo.1 Ma tu deh r vivi per quanto puoi felice ... per quanto puoi ancora.2 Il destino risparmi per te, mia dolce e sventurata amica, tutte le lagrime ch'io verso. Pur troppo tu, pur troppof partecipi del doloroso mio stato.3 Io ti ho fatta infelice ... e come ho ricompensato tuo padre delle amorose sue cure, della sua fiducia, de' suoi consigli, delle sue carezze? e tu in che precipizio ti trovavi per mef Ma io sono pronto a qualunque sacrificio; la mia vita, il mio amore .•. io ti consacro tutto tutto. Non posso incolpare che il nostro destino; ma l'esserti stato causa di affanni è il più grande delitto ch'io potessi commettere.4 Ohimè! Con chi parlo? ... Se questa lettera ti trova ancora a' miei colli, o Lorenzo, non la mostrare a Teresa. Non le parlare di me ... se te ne chiede, dille ch'io vivo, ch'io vivo ancora ... non le parlare insomma di me. Ma io te lo confesso; mi compiaccio delle mie infermità; io stesso palpo le mie ferite dove sono più mortali, e cerco d'inasprirle, e le contemplo insanguinate ... e mi pare che i miei martirii rechino qualche espiazione alle mie colpe,5 e un breve refrigerio ai mali di quella sventurata. - Addio, mio solo amico, addio. 1. Che se •.. mondo: vedi in lettera all'Arese: •Oh sll se la mia morte ti restituisce la tua pace e la tua salute, io prego con tutto l'ardore della mia anima il Cielo a troncare finalmente questa misera vita» (Epistolario, I, p. 349). 2. Ma tu ... ancora: vedi ALFIERI, Saul, atto v, scena 1, 32-4: • [...] Ma pure, / io no, non bramo il morir tuo: felice /vivi; vivi, se il puoi [...]». 3. Ma tu ... mio stato: in lettera all'Arese: ft$ono sventurato, e sventurato sommamente; e pur troppo tu, pur troppo, donna sensibile ed unica, partecipi della mia iniqua fortuna. Il cielo intanto risparmi a te le lagrimc ch,io verso incessantemente [...]. Vivi per quanto puoi felice, per quanto puoi ancora» (vedi nel tomo II la lettera 43). 4. lo ••• commettere: in lettera all'Arese: •[••.] sl io; io ti ho fatta infelice [.•.] e come ti ho mai ricompensata delle tue cure amorose, de' tuoi tanti beneficii, de' tuoi consigli, delle tue carezze? •.• anzi in che precipizio ti trovi per me I ma io sono pronto a qualunque sacrificio; la mia vita, il mio stesso onore .•. io ti consacro tutto tutto: io sono innocente; non posso accusare che il nostro destino; ma l'esserti stato cagione di affanni è il più grande delitto ch'io potessi commettere• (vedi nel tomo u la lettera 43). 5. Ma io • •• mie colpe: in lettera all'Arese: • Te lo confesso; mi compiaccio delle mie malattie; mi pare che rechino qualche espiazione della mia colpa» (vedi nel tomo u la lettera 43). PROSE Firenze, 25 settembre. IN queste terre beate si ridestarono dalla barbarie le sacre muse e le lettere. Dovunque io mi volga trovo le case ove nacquero, e le pie zolle dove riposano que' primi grandi Toscani: ad ogni passo pavento di calpestare le loro reliquie. La Toscana è un giardino; il popolo naturalmente gentile; il cielo sereno; e l'aria piena di vita e di salute.1 Ma l'amico tuo non trova requie: spero sempre ... domani, nel paese vicino ... e il domani giunge, ed eccomi di città in città, e mi sento sempre più infermo, e mi pesa ognor più questo stato di esilio e di solitudine. - Neppure mi è conceduto di proseguire il mio viaggio; avea decretato di andare a Roma a prostrarmi sugli avanzi della nostra grandezza. Mi negano il passaporto; quello già mandatomi da mia madre è per Milano: e qui, come s'io fossi venuto a congiurare, mi hanno circuito con mille interrogazioni: non avran torto; ma io ci risponderò domani partendo. - Cosi noi tutti Italiani siamo fuorusciti e stranieri in Italia, e lontani appena dal nostro territoriuccio, né ingegno, né fama, né illibati costumi ci sono di scudo; e guai se t'attenti di mostrare una dramma di sublime coraggio! Sbanditi appena dalle nostre porte, non troviamo chi ne raccolga: spogliati dagli uni, scherniti dagli altri, traditi sempre da tutti, abbandonati da' nostri medesimi concittadini i quali anziché compiangersi e soccorrersi nella comune calamità, guardano come barbari tutti quegl'italiani che non sono della loro provincia, e dalle cui membra non suonano le stesse catene ... di1nmi, Lorenzo, quale asilo ci resta? ... Le nostre messi hanno arricchiti i nostri dominatori, ma le nostre terre non porgono né tugurii né pane a tanti Italiani che la rivoluzione ha balestrati fuori del cielo natio, e che languenti di fame e di stanchezza han sempre al fianco il solo, il supremo consigliere dell'uomo destituto da tutta la natura, il delittol Per noi dunque quale asilo più resta fuorché il deserto, o la tomba? ... e la viltàI e chi più si avvilisce più vive forse, ma vituperoso a sé stesso, e deriso da quei tiranni medesimi a cui si vende, e da' quali sarà un dì trafficato. Ho corsa tutta Toscana. Tutti i monti e tutti i campi sono insigni per le fraterne battaglie di quattro secoli addietro; i cadaveri intanto d'infiniti Italiani ammazzatisi hanno fatte le fondamenta a' troni degl'imperadori e de' papi. Sono salito a Monteaperto dove 1. In queste ... salute: vedi Sepolcri, 1651 a p. 313: «Te beata[.•.]». ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 647 è infame ancor la memoria della sconfitta dei Guelfi.• Biancheggiava appena un crepuscolo di giorno, e in quel mesto silenzio e in quella oscurità fredda, con l'anima investita da tutte le antiche e fiere sventure che sbranano la nostra patria ..• o mio Lorenzo! io mi sono sentito abbrividare, e rizzare i capelli; io gridava dall'alto con una voce minacciosa e spaventata. E mi parea che salissero e scendessero dalle vie più dirupate della montagna le ombre di tutti que' Toscani che si erano uccisi, con le spade e le vesti insanguinate, guatarsi biechi, e fremere tempestosamente, e azzuffarsi e lacerarsi le antiche ferite' ..• Oh per chi quel sangue? Il figliuolo tronca il capo al padre e lo squassa per le chiome ... E per chi tanta scellerata carnificina? I re per cui vi trucidate si stringono nel bollor della zuffa le destre, e pacificamente si dividono le vostre vesti e il vostro terreno. - Urlando io fuggiva precipitosamente guatandomi dietro. E quelle orride fantasie mi seguitavano sempre ... e ancora quando io mi trovo solo di notte mi sento intorno quegli spettri, e con essi uno spettro più tremendo di tutti, e ch'io solo conosco ... - E perché io debbo dunque o mia patria accusarti sempre e compiangerti, senza niuna speranza di poterti emendare o di soccorrerti mai ? Milano, 27 ottobre. Tx scrissi da Parma; e poi da Milano il dl ch'io giunsi: la settimana addietro ti scrissi una lettera lunghissima. Come dunque la tua mi capita sl tarda, e per la via di Toscana donde partii sino da' 28 settembre? - mi morde un sospetto .•. le nostre lettere sono intercette. I governi millantano la sicurezza delle sostanze; ma invadono intanto il secreto, la preziosissima di tutte le proprietà: • Dante accenna divinamente q11esta battaglia nel x dell'lnferno;,. e qr,e' versi/orse suggerirono all'Ortisdivisitare Monteaperto. Ma il lettore pr,t, trar11e pi,, ampie notizie da' comenti del Landino3 e del Vellutello4 al canto citato, edalle croniche di Giova1111i Villani, Lib.1v. 83.5 L'Editore. J. Sono .•• ferite: vedi Sepolcri, 201-12, alle pp. 318-9. 2. vv. 85-93. 3. Cristoforo Landino (Firenze 1424 - ivi 24 settembre 1498). Il suo commento alla Commedia fu presentato manoscritto, e illustrato da Sandro Botticelli, nel 1481 alla Signoria fiorentina. 4. Alessandro Vellutello (Lucca, fra il XV e il XVI secolo). La sua edizione della Commedia, corredata di un discorso sulla topografia dell1 Jn/erno, vide la luce nel 1554. 5. Ma lib. vr, cap. LXXIX (Storia di G10VANNI, MAITEO, e FILIPPO VILLANI ecc., Milano- 1729, 1, coli. 209-11). PROSE vietano le tacite querele: e profanano l'asilo sacro che le sventure cercano nel petto dell'amicizia. Sia pure! io mcl dovea prevedere: ma que' loro manigoldi non andranno più a caccia delle nostre parole e de' nostri pensieri. Troverò compenso perché le nostre lettere d'ora in poi viaggino inviolate. Tu mi chiedi novelle di Giuseppe Parini: serba la sua generosa fierezza, ma parmi sgomentato dai tempi e dalla vecchiaia. Andandolo a visitare lo incontrai su la porta delle sue stanze mentr'egli strascinavasi per uscire. Mi ravvisò, e fermatosi sul suo bastone mi pose la mano sulla spalla, dicendomi: Tu vieni a rivedere quest'animoso cavallo che si sente nel cuore la superbia della sua bella gioventù, ma che ora stramazza fra via, e si rialza soltanto per le battiture della fortuna. Egli paventa di essere cacciato dalla sua cattedra e di trovarsi costretto dopo settanta anni di studii e di gloria ad agonizzare ele- mosinando. Milano, 11 novembre. CHIESI la vita di Benvenuto Cellini' a un libraio: - non l'abbiamo. Lo richiesi di un altro scrittore e allora quasi dispettoso mi disse, ch'ei non vendeva libri italiani. La gente civile parla elegantemente il francese, e appena intende lo schietto toscano.2 I pubblici atti e le leggi sono scritte in una cotal lingua bastarda che le ignude frasi suggellano la ignoranza e la servitù di chi le detta. I Demosteni Cisalpini disputarono caldamente nel loro senato per esiliare con sentenza -capitale dalla repubblica la lingua greca e la latina.3 S'è creata una legge che avea l'unico fine di sbandire da ogni impiego il matemati- 1. Chiesi . .. Cellini: all'altezza cronologica dell'Ortis una sola edizione completa era stata stampata della biografia celliniana e precisamente la Vita di BENVENUTO CELLINI orefice e scultore fiorentino da lui medesimo scritta ecc., Colonia, Pietro Martello, s. a. (ma 1728), a cura di Antonio Cocchi. Nel 179z ne veniva stampata un'altra a cura di Francesco Bartolini, ma si trattava di una contraffazione della precedente edizione (vedi Vita di BENVENUTO CELLINI, testo critico con introduzione e note storiche per cura di Orazio Bacci ecc., Firenze, Sansoni, 1901, pp.xxx111-xxxv1). 2. Lagente ... toscano: nota G. GAMBARIN: cc Già nell'Ortis del 1798 il nobile che ha sposato l'amica di Teresa e "nel cui cervello s'è fitto il capriccio di essere letterato", conversa ,.gemmando il suo pretto parlare toscano di mille frasi francesi" [Edizione Nazionale, IV, p. 41] • (Edizione Nazionale, IV, p. 235, nota 1). 3. I Demosteni . .. latina: sulla proposta di legge circa l'opportunità di abolire l'uso della lingua latina nelle scuole vedi nella nota introduttiva al &<;>netto Te nudrice alle Mwe, ospite e Dea, le pp. 209-10 e, a p. 211, la nota &I vv. 1-3. ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 649 co Gregorio Fontana, e Vincenzo Monti.• 1 Chiesi ov'erano le sale de' consigli legislativi; pochi m'intesero, pochissimi mi risposero, e niuno seppe insegnarmi. Milano, 4 dicembre. SIATI questa l'unica risposta a' tuoi consigli. In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorta: i pochi che comandano, l'universalità che serve, e i molti che brigano. Noi non possiam comandare né forse siam tanto scaltri, noi non siam ciechi né vogliamo ubbidire, noi non ci degniamo di brigare. E il meglio è vivere come que' cani senza padrone a' quali non toccano né tozzi né percosse. - Che vuoi tu ch'io accatti protezioni ed impieghi in uno stato ov'io sono reputato straniero, e d'onde il capriccio di ogni spia può farmi sfrattare ?Tu mi esalti sempre il mio ingegno: sai tu quanto io vaglio? né più né meno di ciò che vale la mia entrata: se per altro io non facessi il letterato di cOTte rintuzzando quel nobile ardire che irrita i potenti, e dissimulando la virtù e la scienza, per non rimproverarli della loro ignoranza, e delle loro scelleraggini. Letterati! ••• - O! tu dirai, cosi dappertutto. E sia cosi: lascio il mondo com'è; ma s'io dovessi impacciarmene vorrei o che gli uomini mutassero modo, o che mi facessero mozzare il capo sul palco; e questo mi pare più facile. Non che i tirannetti non si avvedano delle brighe; ma gli uomini balzati da' trivii al trono hanno d'uopo di faziosi che poi non possono contenere. Gonfi del presente, spensierati dell'avvenire, poveri di fama, di coraggio, e d'ingegno si armano di adulatori e di satelliti, da' quali, quantunque spesso traditi e derisi, non sanno più svilupparsi: perpetua ruota di servitù, di licenza, e di tirannia. Per essere padroni e ladri del popolo conviene prima lasciarsi opprimere depredare, e conviene leccare la spada grondante del tuo sangue. Cosl potrei forse procacciarmi una carica, • Uno matematico insigne; l'altro insigne poeta. L'Editore. 1. S 1 i creata .• . Monti: il 21 febbraio 1798 era stata promulgata una legge, già approvata dal Corpo legislativo, ad istigazione di Francesco Gianni e di Giuseppe Lattanzi che, con l'intento specifico di colpire il Monti, esplicitamente alludendo alla Bassvilliana, diceva: • Nessuno può essere impiegato, ritenuto in impiego, e in qualunque funzione, il quale dall'anno primo della libertà [1792] abbia composti e pubblicati libri diretti ad ispirare odio veno la democrazia• ecc. (la si veda in G. A. MARTINETrl, Delle guerre letterarie contro Ugo Foscolo, Roma-Torino-Milano-Firenze, Paravia, 1880, p. 2.4). La legge poi non fu mai applicata. E vedi nel tomo li lI Esame di Niccolò Ugo Foscolo su le accuse contro Vincenzo Monti. PROSE qualche migliaio di scudi ogni anno di più, rimorsi, ed infamia. Odilo un'altra volta. Non reciterò mai la parte del piccolo briccone.' Tanto e tanto so di essere calpestato; ma almen fra la turba immensa de1 miei conservi, simile a quegli insetti che sono sbadatamente schiacciati da chi passeggia. Non mi glorio come tanti altri della servitù, né i miei tiranni si pasceranno del mio avvilimento. Serbino ad altri le loro ingiurie e i lor· beneficii; e vi son tanti che pur vi agognano! Io fuggirò il vituperio morendo ignoto. E quando io fossi costretto ad uscire dalla mia oscurità, anziché mostrarmi fortunato stromento della licenza o della tirannide, torrei d'essere vittima illustre. Che se mi mancasse il pane e il fuoco, e questa che tu mi additi fosse l'unica sorgente di vita, - cessi il cielo ch'io insulti alla necessità di tanti altri che non potrebbero imitarmi - davvero, Lorenzo, io me n'andrei alla patria di tutti, dove non vi sono né delatori, né conquistatori, né letterati di corte, né principi, dove le ricchezze non coronano il delitto, dove il misero non è giustiziato non per altro se non perché è misero, dove un dì o l'altro verranno tutti ad abitare con me e a rimescolarsi nella materia, ... sotterra. Aggrappandomi sul dirupo della vita, sieguo un lume ch'io scorgo da lontano e che non posso raggiungere mai. Anzi mi pare che s1io fossi con tutto il corpo dentro la fossa, e che rimanessi sopra terra solamente col capo, mi vedrei sempre quel lume fiammeggiare sugli occhi. O Gloria! tu mi corri sempre dinanzi, e cosl mi lusinghi a un viaggio a cui le mie piante non reggono più.3 Ma dal giorno che tu più non sei la mia sola e prima passione, il tuo risplendente fantasma comincia a spegnersi3 e a barcollare ... cade e si risolve in un mucchio d'ossa e di ceneri fra le quali io veggo sfavillar tratto tratto alcuni languidi raggi; ma ben presto io passerò camminando sopra il tuo schcletro,4 e sorridendo della mia delusa ambizione. - Quante volte vergognando di morire ignoto al mio secolo ho accarezzate io medesimo le mie angosce 1. Non •.. briccone: vedi la nota 3 a p. 591. 2. O Gloria!••• pirì: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, a p. 544: a Ho sentito(...] una febbre di gloria che m'ubbriaca perpetuamente la testa». 3. O Gloria! • •• spegnersi: vedi in lettera all'Arese: a O Gloria, anche il tuo fantasma comincia a dileguarsi a' miei occhi che pur ti guardavano con tanta avidità 11 (Epistolario, 1, p. 284). 4. il tuo scheletro: vedi i Frammenti di un romamro ar,tobiografico, a p. 544: aÈ vero ch'io spoglio talvolta questo fantasma della porpora e della tromba; e allora vedo in lui uno scheletro che traballa su le ossa ammucchiate de' cimiterii .•• casca si dissolve e si confonde [•.•] ». ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 651 mentre mi sentiva tutto il bisogno, e il coraggio di terminarle. Né avrei forse sopravvissuto alla mia patria se non mi avesse rattenuto il folle timore che la pietra posta sopra il mio cadavere non seppellisca ad un tempo il mio nome.1 Lo confesso; sovente ho guardato con una specie di compiacenza le miserie d'Italia, poiché mi parea che la fortuna e il mio ardire riserbassero a me solo il merito di liberarla. Io lo diceva ier sera al Parini ... - addio. Ecco il messo del banchiere che viene a prendere questa lettera; e il foglio tutto pieno mi dice di finire; ma ho a dirti ancora assai cose: protrarrò di spedirtela sino a sabbato; e continuerò a scriverti. Dopo tanti anni di si affettuosa e leale amicizia, eccoci, e forse eternamente, disgiunti. A me non resta altro conforto che di piangere teco scrivendoti: e cosi mi libero alquanto da' miei pensieri, e la mia solitudine diventa assai meno spaventosa. Sai quante notti io mi risveglio, e m'alzo, e aggirandomi lentamente per le stanze t'invoco co' miei gemiti! siedo e ti scrivo: e quelle carte sono tutte macchiate di pianto e piene de' miei pietosi delirii2 e de' miei feroci proponimenti. Ma non mi dà il cuore d'inviartele. Ne serbo taluna, e molte ne brucio. Quando poi il cielo mi manda questi momenti di calma, io ti scrivo con quanto più di fermezza mi è possibile per non contristarti col mio immenso dolore.3 Né mi stancherò di scriverti; tutt'altro conforto è perduto; né tu, mio Lorenzo, ti stancherai di leggere queste carte ch'io senza vanità e senza rossore ti ho sempre scritto ne' sommi piaceri e ne' sommi dolori dell'anima mia.4 Serbale. Presento che un dì ti saranno necessarie per vivere, almeno come potrai, col tuo Jacopo. ler sera dunque io passeggiava con quel vecchio venerando nel sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli :5 egli si 1. Q"ante . •. nome: vedi i Frammenti di un romam:o autobiografico, a p. S4S: a Il solo pensiero che il mio nome sarebbe sepolto col mio cadavere mi distoglieva due volte dnl mio vecchio proponimento di ingannare la fortuna, di liberarmi dalla noia del mondo e di contentare la umana malignità rendendo questa misera vita alla terra u, e il sonetto Non son chifui; peri di noi gran parte, 9-11, a p. 207: • Che se pur sorge di morir consiglio, / a mia fiera ragion chiudon le porte/ furor di gloria, e carità di figlio•· 2. ti ••• delirii: vedi in lettera ali'Arese: a[.•.] ti ho scritto una lunghissima lettera tutta bagnata di pianto, e piena de' miei affettuosi delirii »(Epistolario, I, p.310), 3. Quando ..• dolore: vedi in lettera ali'Arese: « Il Cielo mi concede un momento di calma, cd io ti scrivo queste ultime parole con quanta fermezza mi è possibile per non affliggerti col mio immenso dolore» (Epistolario, I, pp.310-1). 4. Né . •• anima mia: in lettera ali'Arese: «[•••] non mi stancherò di scrivere anche se io sapessi che tu ti stancassi di leggere. Nella solitudine in cui vivo, solo, perfettamente solo, qual altro conforto mi resta che[...] scriverti» (vedi nel tomo n la lettera 39). 5. ler•.. tigli: vedi Sepolcri, 62-6, a p. 302. PROSE sosteneva da una parte sul mio braccio, dall'altra sul suo bastone: e talora guardava gli storpii suoi piedi e poi senza dire parola volgevasi a me, quasi si dolesse di quella sua infermità, e mi ringraziasse della pazienza con la quale io lo accompagnava. S'assise sopra uno di que' sedili ed io con lui: il suo servo ci stava poco discosto. Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch'io m'abbia mai conosciuto; e d'altronde un profondo, generoso, meditato dolore a chi non dà somma eloquenza? Mi parlò a lungo della sua patria: fremeva e per le antiche tirannidi e per la nuova licenza. Le lettere prostituite: tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione; non più la sacra ospitalità, non la benevolenza, non più l'amor figliale .•. e poi mi tesseva gli annali recenti e i delitti di tanti uomicciattoli ch'io degnerei di nominare se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d'animo non dirò di Silla e di Catilina ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque gli vedano presso il patibolo ••• Ma ladroncelli, tremanti, saccenti ... più onesto insomma è tacerne. - A quelle parole io m'infiammava di un sovrumano furore, e sorgeva gridando: ché non si tenta? morremo ? ma frutterà dal nostro sangue il vendicatore.1 - Egli mi guardò attonito: gli occhi miei in quel dubbio chiarore scintillavano spaventosi, e il mio dimesso e pallido aspetto si rialzò con un'aria minaccevole; io taceva, ma si sentiva ancora un fremito rumoreggiare cupamente dentro il mio petto. E ripresi: non avremo salute mai? ah se gli uomini si conducessero sempre al fianco la morte, servirebbero così vilmente ?2 - Il Parini non apria bocca, ma stringendomi il braccio mi guardava ogni ora più fisso. Poi mi trasse come accennandomi perch'io tornassi a sedermi: e pensi tu, proruppe, che s'io discernessi un barlume di libertà, mi perderei ad onta della mia inferma vecchiaia in questi vani lamenti? o giovine degno di un altro secolo, se non puoi spegnere quel tuo ardore fatale ché non lo volgi ad altre passioni? Allora io guardai nel passato •.• allora io mi volgeva avidamente al futuro, ma io errava sempre nel vano e le mie braccia tornavano 1. ma frutta-à • •. tJendicatore: vedi VIRGILIO, Aen., IV, 625: a Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor •(e vedi Poesie e Prose d'arte di Uco FoscoLo, a cura di E. Bottasso, Torino, U.T.E.T., 1968, p. 478, nota 169). 2,. se gli uomini ••• tJilmente1: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico: •La vita meditazione della morte• (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, mss. Foscoliani, vol. n, ins. E, p. 7), a sua volta traduzione da J.-J.BARTHfLEMY, op. cit., 111, pp.144-5: •La vie[...] ne doit étre que la méditation de la mort• (e vedi C. F. GOFFIS, art. cit., p. 351). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 653 deluse senza poter mai stringere nulla1 econobbi tutta tutta la disperazione del mio stato. Narrai a quel grande Italiano la storia delle mie passioni, e gli dipinsi Teresa come uno di que' genii celesti i quali par che discendano ad illuminare la stanza tenebrosa di questa vita. E alle mie parole e al mio pianto il vecchio pietoso più volte sospirò dal cuore profondo. No, io gli dissi, non veggo più che il sepolcro: ho una madre tenera e benefica; spesso mi sembrò di vederla calcare tremando le mie pedate e seguirmi fino a sommo il monte, donde io stava per diruparmi, e mentre era quasi con tutto il corpo abbandonato nell'aria ... ella afferravami per la falda delle vesti, e mi ritraeva, ed io volgendomi non udiva più che il suo pianto. Pure ... s'ella sapesse tutti i feroci miei mali implorerebbe ella stessa dal cielo il termine degli ansiosi miei giorni. Ma l'unica fiamma vitale che anima ancora questo travagliato mio corpo è la speranza di tentare la libertà della patria. - Egli sorrise mestamente, e poiché s'accorse che la mia voce infiochiva, e i miei sguardi si abbassavano immoti sul suolo, ricominciò: forse questo tuo furore di gloria potrebbe trarti a difficili imprese, ma •.. credimi, la fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia, due quarti alla sorte, e l'altro quarto ai loro delitti.2 Ma se ti reputi bastevolmente fortunato e crudele per aspirare a questa gloria, pensi tu che i tempi te ne porgano i mezzi ?3 i gemiti di tutte le età, e questo giogo della nostra patria non ti hanno per anco insegnato che non si dee aspettare libertà dallo straniero ?4 chiunque s'intrica nelle faccende di un paese conquistato non ritrae che il pubblico danno, e la propria infamia. Quando e doveri e diritti stanno sulla punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue e pretende il sacrificio della virtù.5 E allora? avrai tu la fama e il valore di Annibale che I.le mie.•. nulla: vedi VIRGILIO, Aen., VI, 700-2, e DANTE, Purg., 11, 80-1; e vedi il sonetto Un dì, s'io non andr~ semprefuggendo, 7, a p. 242: a mo io deluse a voi le palme tendo ». 2. credimi . •• delitti: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, a p. 546: a Credimi: La fama degli uomini grandi spetta per lo più tre quarti alla sorte, e un quarto ai loro delitti». 3. Ma se ... mezzi1: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, a p. 546: a Ma se pure ti senti bastevolmente scelerato per aspirare all'eroismo credi che la fortuna arriderà sempre alle tue intraprese?•· 4. i gemiti ..• straniero: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, a p. 547: 1t Perché le tante calamità della tua patria, e le tue presenti sventure non ti ànno ancora insegnato che non si deve aspettare libertà dallo straniero [.•.] ». 5. Quando ••. virtù: il passo, già neWOrtis (1798), Lettera I (Edizione Nazionale, IV, p. 6). E vedi anche nel tomo II le Istn,zioni politico-morali, 1: • Avvezzo alle rapine, al sangue, alla ferocità della guerra pone tutti i suoi diritti sulla punta della spada [•..] •· PROSE profugo cercava nell'universo un nemico al popolo Romano ?1 - Né ti sarà dato di essere giusto impunemente. Un giovine dritto e bollente di cuore, ma povero di ricchezze, ed incauto d'ingegno come sei tu, sarà sempre o l'ordigno del fazioso, o la vittima del potente. E dove tu nelle pubbliche cose possa preservarti incontaminato dalla comune bruttura, ohl tu sarai altamente laudato, ma spento poscia dal pugnale notturno della calunnia; la tua prigione sarà abbandonata da' tuoi amici, e il suo sepolcro degnato appena di un secreto sospiro.2 - Ma poniamo che tu superando e la prepotenza degli stranieri, e la malignità de' tuoi concittadini, e la corruzione de' tempi, potessi aspirare al tuo intento ... dì? spargerai tutto il sangue col quale conviene nutrire una nascente repubblica? arderai le tue case con le faci della guerra civile? unirai col terrore i partiti ?spegnerai con la morte le opinioni ?adeguerai con le stragi le fortune ?3 ma se tu cadi tra via vediti esecrato dagli uni come demagogo, dagli altri come tiranno. Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti:4 giudica, più che dall'intento, dalla fortuna5 chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l'onestà che le pare dannosa,6 e per avere i suoi plausi conviene o atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre. E ciò sia. Potrai tu allora inorgoglito dalla sterminata fortuna reprimere in te la passione del supremo potere7 che ti sarà fomentata e dal sentimento della tua superiorità, e dalla conoscenza del comune avvilimento ?8 I mortali 1. E allora •.• Romano: vedi i Frammenti di un romanzo autobio,qrafico, a p. 547: «E avrai tu la forza e il coraggio di Annibale che per l'universo cercava un nemico al popolo Romano ,,. 2. Né ti sarà ... sospiro: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, a p. 547: «Né ti sarà concesso d'essere giusto impunemente. Un giovine povero di richezze, ardente, ma inesperto di ingegno come sei tu sarà sempre o la vittima del forte o l'ordigno del fazioso: [...] Ohi tu sarai spento dall'arma secreta della calunnia, la tua prigione sarà abbandonata da' tuoi amici, e il tuo sepolcro segnato d'infamia"· 3. adeguerai . .. fortune?: vedi i Frammenti di r,n romanzo autobiografico, a p. 546: «Vedi le lodi che si sono date alle stragi ?». 4. ma se ... infar,sti: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, alle pp. 546-7: a Se tu cadessi tra via saresti deriso come un demagogo, se nel coronamento ( ?) dell'impresa esecrato forse come tiranno; [...] Aggiungi che gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti 11. s. giudica ... fortuna: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, a p. 546, la nota 3. 6. chiama . •. da,inosa: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, a p. 546: a[••.] la utilità fa passare in diritto la sceleraggine [...] ", e la relativa nota 4. 7. Potrai tu ... potere: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, a p. 545: «Ma io mi sentiva rodere a un tempo dalla fame di gloria, l'ulcera sorda del supremo potere». 8. Potrai ... avvilimento?: vedi a p. 143 nella dedica dell'ode Bonaparte Liberatore:• Quindi o il sentimento della tua superiorità, o la ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 655 sono naturalmente schiavi, naturalmente tiranni, naturalmente ciechi. Intento tu allora a puntellare il tuo trono, di filosofo saresti fatto tiranno, e per pochi anni di possanza e di tremore avresti perduta la tua pace, e confuso il tuo nome fra la immensa turba dei despoti. - Ti avanza ancora un seggio fra i capitani il quale si afferra per mezzo di un ardire feroce, di un'avidità che rapisce per profondere, e spesso di una viltà, per cui si lambe la mano che t'aita a salire. Ma •.. o figliuolo! l'umanità geme al nascere di un conquistatore e non ha per conforto se non la speme di sorridere su la sua bara.1 Tacque; ed io dopo un lunghissimo silenzio esclamai: O Cocceo Nerva! tu almeno sapevi morire incontaminato.• - Il vecchio mi guardò ... se tu né speri, né temi fuori di questo mondo .•. e mi stringeva la mano - ma io ... - Alzò gli occhi al cielo, e quella severa sua fisonomia si raddolciva di un soave conforto come s'ei lassù contemplasse tutte le sue speranze. - Intesi un calpestio che s'avvanzava verso di noi; e poi travidi gente fra i tigli; ci rizzammo, ed io l'accompagnai sino alle sue stanze. Ah s'io non mi sentissi ornai spento quel fuoco celeste che nel caro tempo della fresca mia gioventù spargeva raggi su tutte le cose che mi stavano intorno, mentre ora vo' brancolando in una • Questa esclamazio11e dell'Ortis dee mirare a quel passo di Tacito «Cocceo Nerva assiduo col principe, in tutta umana e divina ragione dottissimo, florido di fortuna e di vita, si pose in ciior di morire. Tiberio il seppe, e instò interrogandolo, pregandolo, si'no a confessare che gli sarebbe di rimorso e di macchia se il suo f amigliarissimo amico fuggisse senza ragioni la vita. Nerva sdegnò il discorso, a11zi s'astenne d'ogni alimento. Chi sapea la sua mente, diceva, eh'ei più dappresso veggendo i mali della repubblica, per ira e sospetto volle, finché era illibato e non cimentato, onestamente finire». Annali VI. 26.2 L'Editore. conoscenza del comune avvilimento potrebbero trarti forse a cosa che tu stesso abborri 11. 1. ofigli"olo! ••. bara: vedi i Frammenti di rm romanzo autobiografico: • O mio figlio ILa natura geme al nascere di un eroe, e sorride su la sua tomba» (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, mss. Foscoliani, voi. n, ins. E, p. 2). 2. • Cocceius Nerva, continuus principi, omnis divini humaniquc iuris sciens, integro statu, corpore inlacso, moriendi consilium cepit. Quod ut Tiberio cognitum, adsidere, causns-requirerc, addere preces, fateri postremo grave conscientiae, grave famae suae, si proximus amicorum nullis moriendi rationibus vitam fugeret. Aversatus sermonem Nerva abstinentinm cibi coniumcit. Ferebant gnari cogitationum eius, quanto propius mala rei publicae viseret, ira et metu, dum integer, dum intemptatus, honestum finem voluisse •· PROSE vota oscuritàl s'io potessi avere un tetto ove dormire sicuro; se non mi fosse conteso di rinselvarmi fra le ombre del mio romitorio; se un amore disperato che la mia ragione combatte sempre, e che non può vincere mai ••• questo amore ch'io celo a me stesso, ma che riarde ogni giorno e che è ornai fatto onnipotente, immortale •.•1 ahiI la natura ci ha dotati di questa passione che è indomabile in noi forse più dell'istinto fatale della vita •.. se io potessi insomma impetrare un anno solo di calma, il tuo povero amico vorrebbe sciogliere ancora un voto e poi morire. lo odo la mia patria che grida: = SCRIVI CIÒ CHE VEDESTI. MANDERÒ LA MIA VOCE DALLE ROVINE, E TI DETI'ERÒ LA MIA STORIA. PIANGERANNO I SECOLI SU LA MIA SOLITUDINE; E LE GENTI S'AMMAESTRERANNO NELLE MIE DISAVVENTURE. IL TEMPO ABBATTE IL FORTE: E I DELITTI DI SANGUE SONO LAVATI NEL SANGUE. = E tu lo sai, Lorenzo; avrei il coraggio di scrivere, ma l'ingegno va morendo con le mie forze,2 e vedo che fra pochi mesi io avrò fornito3 questo mio angoscioso pellegrinaggio. Ma voi pochi sublimi animi che solitari o perseguitati su le antiche sciagure della nostra patria fremete, se i cieli vi contendono di lottar con la forza, perché almeno non raccontate alla posterità i nostri mali? Alzate la voce in nome di tutti, e dite al mondo, che siamo sfortunati, ma né ciechi né vili; che non ci manca il coraggio ma la possanza. - Se avete le braccia in catene, perché inceppate da voi stessi anche il vostro intelletto di cui né i tiranni né la fortuna, arbitri d'ogni cosa, possono essere arbitri mai? Scrivete. Perseguitate con la verità i vostri persecutori. E poiché non potete opprimerli, mentre vivono, co' pugnali, opprimeteli almeno con l'obbrobrio per tutti i secoli futuri.4 Se ad alcuni di voi è rapita la patria, la tranquillità, e le sostanze; se niuno osa 1. questo amore . .. immortale: in lettera alPArese: • Io sento la passione onnipotente dentro di me ... eternai Sl io t'amo. [...] io ardo ognor più •.. • (vedi nel tomo II la lettera 24; e il sonetto Meritamente, peri> ch'io potei, 13-41 a p. 224: •Amor fra l'ombre infeme / seguirammi immortale, onnipotente •). 2. ma ... f or%e: vedi i Frammenti di un roman%o autobiografico, a p. 546: • [...] ti vai divorando quel poco d'ingegno che ti resta [...] •· 3.fomito: condotto a termine, compiuto. 4. Scrivete ... futuri: vedi nel tomo Il l'Esame di Niccolò Ugo Foscolo su le accuse contro Vincenzo Monti, I: • lo perseguiterò sempre con la verità tutti i persecutori del vero: andrò superbo della inimicizia de' malvagi; alle accuse comprate contrapporrò lo istituto della mia vita; e dove i potenti vincessero, su me ricadrebbe il danno, ma tutta sovr'essi la infamia•· ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 657 divenire marito; se tutti paventano il dolce nome di padre per non procreare nell'esilio e nel dolore nuovi schiavi e nuovi infelici, perché mai accarezzate cosi vilmente la vita ignuda di tutti i piaceri? Perché non la consecrate all'unico fantasma ch'è duce degli uomini generosi, la gloria? Giudicherete i vostri contemporanei, e la vostra sentenza illuminerà le genti avvenire. L'umana viltà vi mostra terrori e pericoli; ma voi siete forse immortali? fra l'avvilimento delle carceri e de' supplizii v'innalzerete sopra il potente, e il suo furore contro di voi accrescerà il suo vituperio e la vostra fama. Milano, 6 febbraro 1799. DIRIGGI le tue lettere a Nizza di Provenza perch'io domani parto verso Francia; e chi sa? forse assai più lontano ... certo che in Francia non mi starò lungamente. Non rammaricarti, o Lorenzo, di ciò; e consola quanto tu puoi la povera mia madre. Tu dirai forse ch'io dovrei fuggire prima me stesso, e che se non v'ha luogo dov'io trovi stanza, sarebbe ornai tempo ch'io m'acquetassi. È vero, non trovo stanza; ma qui peggio che altrove. La stagione, la nebbia perpetua, quest>aria morta, certe fisonomie ... e poi - forse m'inganno - ma parmi di trovar poco cuore: né posso incolparli; tutto si acquista; ma la compassione e la generosità, e molto più certa delicatezza di animo nascono sempre con noi, e non le cerca se non chi le sente. Insomma domani. E mi si è fitta in fantasia tale necessità di partire che queste ore d'indugio mi paiono anni di carcere. Mal augurato! perché mai tutti i tuoi sensi si risentono soltanto nel dolore, simili a quelle membra scorticate che all'alito più blando dell'aria si ritirano? goditi il mondo com'è, e tu vivrai più riposato e men pazzo. Ma se a chi mi declama siffatti sermoni io dicessi: quando ti salta la febbre, fa che il polso ti batta più lento, e sarai sano; non avrebbe egli ragione di credermi farneticante di peggior febbre? come dunque poss'io dar leggi al mio sangue che fluttua rapidissimo? ... e quando urta nel cuore io sento che vi si ammassa bollendo, e poi sgorga impetuosamente; e spesso all'improvviso e talora fra il sonno par che voglia spaccarmisi il petto. - O Ulissi! eccomi ad obbedire alla vostra saviezza a patti ch'io, quando vi veggo dissimulatori, agghiacciati, incapaci di soccorrere la povertà senza insultarla, e di difendere il debole dalla ingiustizia, quando vi veggo per isfamare le vostre plebee passion- PROSE celle prostrati appiè del potente che odiate e che vi disprezza, allora io possa trasfondere in voi una stilla di questa mia fervida bile che pure armò spesso la mia voce e il mio braccio contro la prepotenza, che non mi lascia mai gli occhi asciutti né chiusa la mano alla vista della miseria, e che mi salverà sempre dalla bassezza. Voi vi credete saggi, e il mondo vi predica onesti .•. ma toglietevi la paura ... non vi affannate dunque; le parti sono pari: Dio vi preservi dalle mie pazzie, ed io lo prego con tutta l'espansione dell'anima perché mi preservi dalla vostra saviezza. - E s'io scorgo costoro anche quando passano senza vedermi, io corro subitamente a cercare rifugio nel tuo petto, o Lorenzo. Tu rispetti amorosamente le mie passioni, quantunque tu abbia sovente veduto questo leone ammansarsi alla sola tua voce.1 Ma ora! ... tu il vedi; ogni consiglio e ogni ragione è funesta per me. Guai s'io non obbedissi al mio cuore! ... la ragione? - è come il vento; ammorza le faci, ed anima gl'incendii.2 Addio frattanto. ore I o della mattina. Ripenso .•. e sarà meglio che tu non mi scriva finché tu non .abbia mie lettere. Prendo il cammino delle alpi liguri per evitare i ghiacci del Moncenis: sai quanto micidiale m'è il freddo. ore 1. Nuovo inciampo: hanno a passare ancora due giorni prima ch'io m'abbia il passaporto. Consegnerò questa lettera nel punto ·ch'io sarò per montare in calesse. 8 febbraro, ore 1 ½EccoMI con le lagrime su le tue lettere. Riordinando le mie ·carte mi sono venuti sott'occhio questi pochi versi che tu mi scrivesti sotto una lettera di mia madre due giorni innanzi ch'io abbandonassi i miei colli. - «T'accompagnano tutti i miei pensieri, o mio Jacopo: t'accompagnano i miei voti, e la mia amicizia che vivrà ·eterna per te. Io sarò sempre il tuo amico e il tuo fratello d'amore; e dividerò teco anche l'anima mia».3 1. quantunque • •• voce: vedi in lettera all'Arese: a[.•.] la mia indole fiera e veemente non s'è ammansata ad una tua parola? 11 (Epistolario, 1, p. 244). 2. Guai . .• gl'incendii: vedi il sonetto Solcata ho fronte, occhi incavati intenti, 12-3, a p. 229: «di vizi ricco e di virtù, do lode / alla ragion, ma corro ove al cor piace n. 3. T'accompagnano . .• l'anima mia: vedi in lettere ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 659 Sai tu ch'io vo ripetendo queste parole e mi sento sl fieramente percosso che sono in procinto di venire a gettarmiti al collo e a spirare fra le tue braccia? Addio addio. Tornerò. ore 3. Sono andato a dire addio al Parini. - Addio, mi disse, o giovine sfortunato. Tu porterai da per tutto e sempre con te le tue generose passioni a cui non potrai soddisfare giammai. Tu sarai sempre infelice.1 Io non posso consolarti co' miei consigli, perché neppur giovano alle mie sventure derivanti dal medesimo fonte. Il freddo dell'età ha intorpidite le mie membra, ma il mio cuore ... arde ancora. Il solo conforto che posso darti è la mia pietà ... e tu la porti tutta con te. Frappoco io non vivrò più: ma se le mie ceneri serberanno alcun sentimento ... se troverai qualche sollievo querelandoti su la mia sepoltura, vieni ...2 - io proruppi in dirottissimo pianto, e lo lasciai: ed egli uscì seguendomi con gli occhi mentr'io fuggiva per quel lunghissimo corridore, e intesi ch'egli tuttavia mi diceva con voce piangente ... addio. ore 9 della sera. Tutto è in punto. I cavalli sono ordinati per la mezzanotte. lo vado a coricarmi cosl vestito sino a che giungano: mi sento si straccoI Addio frattanto; addio, Lorenzo. Io scrivo il tuo nome e ti saluto con tenerezza e con certa superstizione ch'io non ho provato mai mai.3 Ci rivedremo ... se dovessil ... morrei senza vederti e senza ringraziarti per sempre? e te mia Teresa ... sì odilo, t'amo. Ma poiché il mio infelicissimo amore costerebbe la tua pace ed il pianto della tua famiglia, io fuggo senza sapere dove mi strascinerà il mio destino! ... l'alpi e l'oceano e un mondo intero, s'è possibile, ci divida. all'Arese: •T'accompagna il mio cuore, e t'accompagnano tutti i miei pensieri, o mia Antonietta• e: a Ti accompagneranno le mie lagrime, il mio amore immenso, insoffribile, e un'eterna amicizia; qualunque sventura ti succedesse, io sarò sempre il tuo amico; dividerò con te anche il mio cuore• (Epistolario, 1, pp. 277 e 388). 1. Tu ••• infelice: in lettera a Isabella Roncioni: •[•..] e sarò sempre infelice• (vedi nel tomo Il la lettera 15), in altra ali'Arese: • Si, sento ch'io sarò sempre infelice• (Epistolario, 1, p. 323), e il Frammento della storia di Lauretta, a p. 606: •L•UOMO SARÀ INFELICE•· z. Frappoco ••. vieni . .. : vedi Sepolcri, 62-6, a p. 302. 3. Addio .•• mai: in lettera ali'Arese: a Buona notte intanto. (, ••] io prego sempre il cielo per te, e con una certa superstizione, e con una tenerezza ch'io non ho mai provato in mia vita» (vedi nel tomo 11 la lettera 43). 660 PROSE Genova, 11 febbraro. Ecco il sole più bello11 Tutte le mie fibre sono in un tremito soave perché risentono la giocondità di questo cielo raggiante e salubre. Sono pure contento di essere partito! proseguirò fra poche ore; non so ancora dirti dove mi fermerò, né so quando finirà il mio viaggio; ma per li 16 sarò in Tolone. Dalla Pietra, 15 febbraro. STRADE alpestri, montagne orride dirupate, tutto il rigore del tempo, tutta la stanchezza e i fastidii del viaggio, e poi? .•. Nuovi tormenti e nuovi tormentati.• Scrivo da un paesetto appiè delle alpi marittime. E mi fu forza di sostare perché la posta è senza cavalcature; né so quando potrò partire. Eccomi dunque sempre con te, e sempre con nuove afflizioni: sono destinato a non muovere passo senza incontrare nel mio cammino il dolore. - In questi due giorni io usciva verso mezzodi un miglio forse lungi dall'abitato, passeggiando in certi oliveti che stanno verso la spiaggia del mare: io vado a consolarmi a' raggi del sole, e a bere di quel aere vivace; quantunque anche in questo tepido clima il verno di quest'anno è clemente meno assai dell'usato. E là mi pensava di essere solo, o almeno sconosciuto a tutti que' viventi che passavano: ma appena mi ridussi a casa, Michele il quale venne ad accendermi il fuoco mi andava raccontando, che un certo uomo quasi mendico capitato poc'anzi in questa balorda osteria gli chiese s'io era un giovine che avea già tempo studiato in Padova; non gli sapea dire il nome, ma porgeva assai contrassegni e di me e di que' tempi e nominava te pure .•. Davvero, segui a dire Michele, io mi trovava imbrogliato; gli risposi nonostante ch'ei s'apponeva: parlava veneziano; ed è pure la dolce cosa il trovare in queste solitudini un compatriota. E poi ..• è così stracciato! insomma io gli promisi ... forse può dispiacere al signore ... ma mi ha fatto tanta compassione ch'io gli promisi di • Dante.2 1. Ecco ••. bello: vedi in lettere all'Arese: • Fa il più bel sole che mai•, e: • Il sole è più bello che mai• (Epistolario, I, pp. 281 e 336). 2. Jn/., VI, 4. ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 661 farlo venire; anzi sta qui fuori. - E venga, io dissi a Michele; ed aspettando mi sentiva tutta la persona inondata d'una subitanea tristezza. Il ragazzo rientrò con un uomo alto, macilente; parea giovine e bello, ma il suo volto era contraffatto dalle rughe del dolore. FratelloI io era impellicciato e al fuoco; stava gittando oziosamente nella seggiola vicina il mio larghissimo tabarro; l'oste andava su e giù allestandomi il desinare ... e quell'infelice! era appena in farsetto di tela ed io intirizziva solo a guardarlo. Forse la mia mesta accoglienza e il meschino suo stato l'hanno disanimato da prima; ma poi da poche mie parole s'accorse che il tuo Jacopo non è nato per disanimare gl'infelici, e s'assise con me a riscaldarsi, narrandomi quest'ultimo lagrimevole anno della sua vita. Mi disse: io conobbi famigliarmente uno scolare che era dì e notte a Padova con voi - e ti nominò: - quanto tempo è ormai ch'io non !le odo novella! ma spero che la fortuna non gli sarà così iniqua. Io studiava allora ... - Non ti dirò, mio Lorenzo, chi egli è. Devo io rattristarti con le sventure di un uomo che era un giorno felice, e che tu forse ami ancora? è troppo anche se la sorte ti ha destinato ad affliggerti sempre per me. Ei proseguiva. Oggi venendo da Albenga, prima di arrivare nel paese v'ho scontrato lungo la marina. Voi non vi siete accorto ch'io mi voltava spesso a considerarvi, e mi parea di avervi ravvisato; ma non conoscendovi che di vista, e già essendo scorsi quattro anni, sospettava di sbagliare. Il vostro servo me ne accertò. Lo ringraziai perch'ei fosse venuto a vedermi, gli parlai di te; e voi mi siete anche più grato, gli dissi, perché m'avete recato il nome di Lorenzo. - Non ti ripeterò il suo doloroso racconto. Emigrò per la pace di Campo-Formio, e s'arruolò Tenente nell'artiglieria Cisalpina. Querelandosi un giorno delle fatiche e delle angarie che gli parea di sopportare, gli fu da un suo amico proferito un impiego. Abbandonò la milizia. Ma l'amico, l'impiego, e il tetto gli mancarono. Tapinò per l'Italia, e s'imbarcò a Livorno ..• Ma mentr'egli parlava io udiva nella camera contigua un rammarichio di bambino e un sommesso lamento; e m'avvidi ch'egli andavasi soffermando ed ascoltava con certa ansietà, e quando quel rammarichio taceva ei ripigliava ... Forse, gli diss'io, saranno passaggeri giunti pur ora. - No, mi rispose; è la mia figlioletta di tredici mesi che piange. E seguì a narrarmi ch'ei mentre era Tenente s'ammogliò a una 662 PROSE fanciulla di povero stato, e che le perpetue marcie a cui la giovinetta non potea reggere, e lo scarso stipendio lo stimolarono ancor più a confidare in colui che poi lo tradi. Da Livorno navigò a Marsiglia ... così alla ventura: e si strascinò per tutta Provenza, e poi nel Delfinato cercando d,insegnare l'Italiano, senza mai trovare né lavoro né pane; ed ora tornava d'Avignone a Milano. lo mi rivolgo addietro, continuò, e guardo il tempo passato, e non so come sia passato per me. Senza danaro, seguito sempre da una moglie estenuata, con i piedi laceri, con le braccia spossate dal continuo peso di una creatura innocente che domanda alimento all'esausto petto di sua madre, e che strazia colle sue strida le viscere degli sfortunati suoi genitori, mentre neppure possiamo acquetarla con la ragione delle nostre disgrazie. Quante giornate arsi, quante notti assiderati abbiamo dormito nelle stalle fra i giumenti, o come le bestie nelle caverne! cacciato di città in città da tutti i governi; perché la mia indigenza mi serrava la porta de' magistrati, o non mi concedeva di dar conto di me: e chi mi conoscea o non volle più conoscermi, o mi voltò le spalle.2 - E si, gli diss'io, so che a Milano e altrove molti de' nostri concittadini emigrati sono tenuti liberali. - Dunque, soggiunse, la mia fiera fortuna li ha fatti crudeli solo per me. Anche le persone di ottimo cuore si stancano di fare del bene; sono tanti i tapini! io non lo so ... ma il tale ... il tale ... (e i nomi di questi uomini ch'io scopriva cosi ipocriti mi erano, Lorenzo, tante coltellate nel cuore) chi mi ha fatto aspettare assai volte van.amente alla sua porta; chi dopo sviscerate promesse mi fe' camminare molte miglia sino al suo casino di diporto per farmi la limosina di poche lire; il più umano mi gittò un tozzo di pane senza volermi vedere; e il più magnifico mi fece cosi sdruscito passare fra un corteggio di famigli e di convitati, e dopo d'avermi rammemorata la scaduta prosperità della mia famiglia, e inculcatomi lo studio e la probità, mi disse amichevolmente di ritornare 1. cacciato ••. governi: nota G. GAMBARIN: «Nel Monitore Italiano (num. 7, febbraio 1798) si deplora che ai profughi rifugiatisi a Milano per sottrarsi alle persecuzioni sia fatta pessima accoglienza non senza minaccia di deportazione se protestano, onde "alla gioia succede il disgusto" • (Edizione Nazionale, IV, pp. 251-2, nota 1). 2. la mia indigenza • •. spalle: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico: • La venerabile povertà ... i tuoi conoscenti t'incontreranno, e torceranno gli occhi per non riconoscerti• (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, mss. Foscoliani, voi. 11, ins. E, p. 2; e C. F.. GoFFIS, art. cit., p. 388). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 663 domattina per tempo. Tornato, trovai nell'anticamera tre servidori uno de' quali mi disse che il padrone dormiva, e mi pose nelle mani due scudi ed una camicia. Ah signore! non so se voi siete ricco ... ma il vostro volto, e quei sospiri mi dicono che voi siete sventurato e pietoso. Credetemi; io vidi per prova che il danaro fa parere benefico anche l'usuraio, e che l'uomo splendido di rado si degna di locare il suo beneficio fra i cenci. - Io taceva, ed egli alzandosi per lasciarmi, riprese. I libri m'insegnavano ad amare gli uomini e la virtù; ma i libri, gli uomini, e la virtù mi hanno tradito. Ho dotta la testa, sdegnato il cuore, e le braccia inette ad ogni utile mestiere. Se mio padre udisse dalla terra ove sta seppellito con che gemito grave io lo accuso di non avere fatti i suoi cinque figliuoli legnaiuoli o sartoriI Per la misera vanità di serbare la nobiltà senza la fortuna ha sprecato per noi tutto quel poco che egli avea, nelle università e nel bel-mondo. E noi frattanto? ... Non ho mai saputo che si abbia fatto la fortuna degli altri miei fratelli. Scrissi molte lettere, ma non vidi risposta: o sono miseri, o sono snaturati. Ma per me ... ecco il frutto delle ambiziose speranze del padre mio. Quante volte io sono forzato o dalla notte, o dal freddo, o dalla fame a ricovrarmi in una osteria; ma entrandovi non so come pagherò la mattina imminente. Senza scarpe, senza vesti ... - Ah copritiI gli diss'io, rizzandomi, e lo coprii del mio tabarro. E Michele, che venuto già in camera per qualche faccenda vi s'era fermato poco discosto ascoltando, si avvicinò asciugandosi gli occhi col rovescio della mano, e gli aggiustava in dosso quel tabarro, ma con un certo rispetto come s'ei temesse d'insultare alla bassa fortuna di quella persona cosi ben nata. O Michele! io mi ricordo che tu potevi vivere libero sino dal di che tuo fratello maggiore aprendo una botteghetta ti chiamò seco, eppure scegliesti di rimanere con me, benché servo: io noto ramoroso rispetto per cui tu dissimuli gl'impeti miei fantastici, e taci anche le tue ragioni ne' momenti dell'ingiusta mia collera: e vedo con quanta ilarità te la passi fra le noie della mia solitudine; e vedo la fede con che sostieni i travagli di questo mio pellegrinaggio. Spesso col tuo gioviale sembiante mi rassereni; ma quando io taccio le intere giornate, vinto dal mio nerissimo umore, tu reprimi la gioia del tuo cuore contento per non farmi accorgere del mio stato ... Purel .•. questo atto gentile verso quel disgraziato ha PROSE colmata la mia riconoscenza per te. Tu se' il figliuolo della mia nutrice, tu se' allevato nella mia casa, né io fabbandonerò mai. Ma io t'amo ancor più poiché mi avvedo che il tuo stato servile avrebbe forse indurita la bella tua indole, se non ti fosse stata coltivata dalla mia tenera madre, da quella donna che con l'animo suo dilicato, e co' soavi suoi modi fa cortese e amoroso tutto quello che vive con lei. Quando fui solo diedi a Michele quel più che ho potuto, ed egli, mentre io desinava, lo recò a quel derelitto. Appena mi sono risparmiato tanto da giungere a Nizza dove negozierò le cambiali ch'io ne' banchi di Genova mi feci spedire per Tolone e Marsiglia. - Stammattina quando egli prima di andarsene è venuto con la sua moglie e con la sua creatura per ringraziarmi, ed io vedeva con quanto giubilo mi replicava: senza di voi io sarei oggi andato cercando il primo ospitale ... io non ho avuto animo di rispondergli; ma il mio cuore gli diceva: ora tu hai come vivere per quattro mesi ... per sei ... e poi? la bugiarda speranza ti guida intanto per mano, e l'ameno viale dove t'innoltri mette forse a un sentiero più disastroso. Tu cercavi il primo ospitale ... e t'era forse poco discosto l'asilo della fossa. Ma questo mio poco soccorso, né la sorte mi concede di aiutarti davvero, ti ridarà più vigore onde sostenere di nuovo e per più tempo que' mali che già t'aveano quasi consunto e liberato per sempre. Goditi intanto del presente ... ma quanti disastri hai pur dovuto sopportare perché questo tuo stato, che a molti pure sarebbe affannoso, a te paia sì lieto! Ah se tu non fossi padre e marito io ti darei forse un consiglio ... - e senza dirgli parola l'ho abbracciato, e mentre partivano, io li guardava stretto da un crepacuore mortale.1 1. li ragazzo ..• crepacuore mortale: l'episodio trova riscontro nel Tristram Shandy di LAURENCE STERNE, lib. v1, capp. v1-x, dove è narrato l'episodio del tenente Le Fèvre (vedi C. F. GoFFIS, art. cit., pp. 389-90). Nota G. A. Martinetti: • Il 3 di settembre del 1799 incominciò ad uscire in Genova un giornaletto: L'amico dell'ordine che s1 arrestò, credo, al n.0 26 (30 nov.). La data della sua origine [...] la conoscenza delle cose milanesi [...] mi fanno ritenere certo che il giornale fosse scritto da Cisalpini rifugiati, anzi sospetto che il Foscolo fosse tra essi (si noti che L'amico dell'ordine usciva dalla tipografia Frugoni e Lobcro, quella stessa che stampò il Discorso srl la Italia e l'Oda a Bonaparte). Ebbene nel n.0 11 (8 ott.) si legge: "Registrate, di grazia, Cittadino Redattore, il seguente anncdoto nel vostro giornale. Un bisognoso refugiato Cisalpino ebbe ricorso ad altro non molto più di lui fortunato. Questo, dopo averlo come poteva soccorso, fidando in una tal relazione che aveva con una delle prime Autorità del Governo Ligure, glie ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 665 •Iersera spogliandomi io pensava: perché mai quell'uomo emigrò dalla sua patria? perché s'ammogliò? perché lasciò un impiego sicuro ? e tutta la storia di lui mi pareva il romanzo di un pazzo; ed io sillogizzava cercando ciò ch'egli per non strascinarsi dietro tutte quelle sventure avrebbe potuto fare, o non fare. Ma siccome ho più volte udito infruttuosamente ripetere siffatti perché, ed ho veduto che tutti fanno da medici nelle altrui malattie •.. io sono andato a dormire borbottando: o mortali che giudicate inconsiderato tutto quello che non è prospero, mettetevi una mano sul petto e poi confessate ... siete più savii o più fortunati ? Or credi tu vero tutto ciò ch'ei narrava? - io? .•. credo ch'egli era mezzo nudo ed io vestito; ho veduto una moglie languente; ho udite le strida di una bambina. Mio Lorenzo, si vanno pure cercando con la lanterna ognora nuove ragioni contra il povero perché si sente nella coscienza il diritto che la natura gli ha dato su le sostanze del ricco. - Eh! le sciagure non derivano per lo più che da' vizii, e in costui forse derivarono da un delitto •.. Forse? per me non lo so, né lo indago. Io giudice condannerei tutti • Questo squarcio benché si trovi senza data, in diverso foglio, e per caso fuori della serie di tutte le lettere, nondimeno dal contesto apparisce scritto dallo stesso paese il dì dopo in aggiunta alla lettera precedente. L'Editore. lo diresse con una lettera dell•appresso tenore. Cittadino Ministro. Il presentatore di questa mia è un infelice. ed onesto rifugiato Cisalpino. Egli è nella desolante situazione di vedere sua moglie incinta circondata dalla miseria; le grazie di un•amabilc sposa offrirebbero risorsa alle anime corrotte, ma questa copia virtuosa sa bravare la fame per conservare Ponore. Il Governo Ligure sensibile alle disgrazie dei refugiati diffonde. mi si dice, per mezzo vostro pietoso soccorso ai medesimi. Eccovi Cittadino Ministro un oggetto degno veramente d'interessarvi. lo non ardisco raccomandarvelo, niun titolo mc lo permette, provo però la più soave compiacenza nel presentarvelo. e nelfimmnginare la sodisfazione. che voi gusterete nel soccorrerlo. Qual piacere infatti vi ha per un Repubblicano. che eguagli quello di assistere la virtù sfortunata? Voi felice che ne godete! Se le anime fredde e insensibili potessero una sol volta imitarvi, o non vi sarebbero più infelici nel mondo o i soccorsi volerebbero incontro aU•infelicità. Accogliete gli auspici sinceri. e le proteste di Salute, e Rispetto. Lesse appena il Ministro due righe della lettera. che voltò al portatore freddamente le spalle. Più sorpreso, che avvilito da tal procedura tornò poche ore dopo il Cisalpino chiedendo almeno risposta. Eccola la scriTJente ha lavorata sopra unfalsa supposto. Cittadino Redattore registrate. p:• • {Origine delle • Ultime lettere•, in Uco FoscoLo. Ultirne lettere di Jacopo Ortis, edizione critica, a cura di G. A. Martinetti e C. Antana-Traversi, Saluzzo 1887, pp. cxxn-cxx.1v). 666 PROSE i delinquenti, ma io uomo! ... ahi penso al ribrezzo che costa il solo pensiero del delitto; alla fame e alle passioni che strascinano a consumarlo; agli spasimi perpetui; al rimorso con cui si mangia il frutto insanguinato della colpa; alle carceri che il reo si mira sempre spalancate per seppellirlo ... e s'egli poi scampando dalla giustizia ne paga il fio col disonore e con l'indigenza, dovrò io abbandonarlo alla disperazione ed a nuovi delitti? è egli solo colpevole? la calunnia, il tradimento del secreto, la seduzione, la malignità, la nera ingratitudine sono delitti più atroci, ma sono eglino neppur minacciati? e chi dal delitto ha tratti campi ed onore! O legislatori, o giudici, punite: ma prima aggiratevi meco ne' tugurii della plebe e ne' sobborghi di tutte le capitali, e vedrete ogni giorno un quarto della popolazione che svegliandosi su la paglia non sa come soddisfare alle supreme necessità della vita. Conosco che non si può cangiare la società, e che l'inedia, le colpe, e i supplizii sono anch'essi elementi dell'ordine e della prosperità universale; però si crede che il mondo non può sussistere senza legislatori, e senza giudici; ed io lo credo poiché tutti lo credono. Ma io? non sarò né legislatore né giudice mai. In questa gran valle dove l'umana specie nasce, vive, muore, si riproduce, s'affanna, e poi torna a morire senza saper come né perché, io non distinguo che fortunati, e sfortunati. E se incontro un infelice, compiango la nostra sorte e verso quanto balsamo posso su le piaghe dell'uomo: ma lascio i suoi meriti e le sue colpe su la bilancia di Dio. Ventimiglia, 19 e 20 febbraro. Tu sei disperatamente infelice; tu vivi fra le agonie della morte e non hai la sua tranquillità: ma tu dei soffrirle per gli altri. - Cosi la filosofia domanda agli uomini un eroismo da cui la natura rifugge. Chi odia la propria vita può amare il minimo bene eh'egli è incerto di recare alla società, e sacrificare a questa lusinga molti anni di pianto? e come potrà sperare per gli altri colui, che non ha desiderii né speranze per sé, e che abbandonato da tutto, abbandona sé stesso? Non sei misero tu solo •.. - pur troppoI ma questa consolazione non è anzi argomento della invidia secreta che ogni uomo cova dell'altrui prosperità? La miseria degli altri non iscema la mia. Chi è tanto generoso da addossarsi le mie infermità, e chi, anche volendo, il potrebbe? avrebbe forse più coraggio da comportarle; ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1801) 667 ma cos'è il coraggio voto di forza? Non è vile quell'uomo che è travolto dal corso irresistibile di una fiumana, bensì chi ha le forze e non le adopra. Ora dov'è il sapiente che possa costituirsi giudice delle nostre intime forze? ..• chi può dare norma agli effetti delle passioni nelle varie tempre degli uomini e delle incalcolabili circostanze onde decidere questi è un vile perché soggiace, quegli che sopporta è un eroe? ... mentre l'amore della vita è cosi imperioso che più battaglia avrà fatto il primo per non cedere, che il secondo per sopportare. Ma i debiti i quali tu hai verso la società? - debiti? forse perché mi ha tratto dal libero grembo della natura quand'io non aveva né la ragione, né l'arbitrio di acconsentirvi, né la forza di oppormivi, e mi educò fra i suoi bisogni e fra i suoi pregiudizii ? - Lorenzo, perdona s'io calco troppo su questo discorso tanto da noi disputato. Non voglio smoverti dalla tua opinione sl avversa alla mia, ma bensì dileguare ogni dubbio da me stesso. Saresti convinto al pari di me se ti sentissi le piaghe del mio cuore; il cielo, o mio amico, te le risparmi! - Ho io contratto questi debiti spontaneamente ? la mia vita deve pagare, come uno schiavo, i mali che la società mi ha recato, solo perché gli intitola beneficii? e sieno beneficii : ne godo e li ricompenso fino che vivo: e se nel sepolcro non le sono io di vantaggio, qual bene ritraggo io da lei nel sepolcro ? O mio amico1ciascun individuo è nemico nato della società perché la società è necessaria nemica degli individui. Poni che tutti i mortali avessero bisogno di abbandonare la vita, credi tu che la sosterrebbero per me solo? e s'io commetto un'azione dannosa ai più, io sono punito, mentre non mi verrà fatto mai di vendicarmi delle loro azioni, quantunque ridondino in sommo mio danno. Possono ben essi pretendere ch'io sia figliuolo della grande famiglia, ma io rinunziando ed ai beni ed ai doveri comuni posso dire: io sono un mondo in me stesso; ed intendo d'emanciparmi perché mi manca la felicità che mi avete promessa. Che s'io dividendomi non trovo la mia porzione di libertà; se gli uomini me l'hanno invasa1 perché sono più forti, se mi puniscono perché la ridomando •.• non gli sciolgo io dalle loro bugiarde promesse e dalle mie impotenti querele cercando scampo sotterra? Ahi que' filosofi che hanno evangelizzate le umane virtù, la probità naturale, la reciproca bene- 1. Che ... invasa: vedi Sepolcri, 184, a p. 316: •armi e sostanze t1 invadeano ed are•· 668 PROSE volenza ... sono inavvedutamente apostoli degli astuti, ed adescano quelle poche anime ingenue e bollenti le quali amando schiettamente gli uomini per l'ardore di essere riamate, saranno sempre vittime tardi pentite della loro leale credulità. Eppur quante volte tutti questi argomenti della ragione hanno trovata chiusa la porta del mio cuore ... perch'io sperava ancora di consecrare i miei tormenti all'altrui felicità! Mal ... per il nome d'lddio ascolta e rispondimi. A che vivo? di che pro ti son io, io fuggitivo? fra queste cavernose montagne ?di che onore a me stesso, alla mia patria, a' miei cari? V'ha egli diversità da queste solitudini alla tomba? la mia morte sarebbe per me la meta de' guai, e per voi tutti la fine delle vostre ansietà sul mio stato. Invece di tante ambasce continue io vi darei un solo dolore ... tremendo, ma ultimo: e sareste certi della eterna mia pace. I mali non ricomprano la vita. E penso ogni giorno al dispendio di cui da più mesi sono causa a mia madre, né so come ella possa far tanto. S'io tornassi troverei forse la nostra casa vedova del suo splendore.1 E incominciava già ad oscurarsi molto pria ch'io partissi, per le pubbliche e private estorsioni le quali non restano di percuoterci. Né però quella madre benefica cessa dalle sue cure; trovai dell'altro denaro a Milano: ma queste affettuose liberalità le scemeranno certamente quegli agi fra' quali nacque. Pur troppo fu moglie mal avventurata! le sue sostanze sostengono la mia casa che rovinava per le prodigalità di mio padre ... e l'età di lei mi fa ancora più amari questi pensieri. - Se sapesse! tutto è vano per lo sfortunato suo figliuolo. E s'ella vedesse qui dentro ... se vedesse _le tenebre e la consunzione dell'anima mia! ... dehl non gliene parlare, o Lorenzo: ma vita è questa? - Ah sì! io vivo ancora, e l'unico spirito2 de' miei giorni è una sorda speranza che li anima sempre, e che forse s'asconde talora a me stesso. Il tuo giuramento, o Teresa, proferirà ad un tempo la mia sentenza ... ma fin che tu sei libera, e il nostro amore è ancora nell'arbitrio delle circostanze •.• dell'incerto avvenire ... e della morte; tu sarai sempre mia. Io ti parlo, e ti guardo, e ti abbraccio ..• e mi·pare che così da lontano 1. E penso ... splendore: vedi in lettera ali'Arese: «Malgrado le sue infelici circostanze, la mia cara Madre non mi lascia mancar nulla nulla 11 (Epistolario, 1, p. 376), e sempre alla stessa: « [. , ,] né devo, né posso ingolfarnù in tante spese che rapirebbero quel poco che resta a mia madre [...] », Epistolario, 1, p. 378. 2. l'rmico spirito: vedi Sepolcri, 12, a p. 293: • unico spirto a mia vita raminga r,. ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 669 tu senta l'impressione de' miei baci e delle mie lagrime. Ma quando tu sarai offerta da tuo padre come olocausto di riconciliazione su l'altare di Dio ... quando il tuo pianto avrà ridata la pace alla tua famiglia ... allora io scenderò nel nulla. E come può spegnersi mentre vivo il mio amore, e come non ti sedurranno sempre nel tuo secreto le sue dolci lusinghe ? ma allora più non saranno sante e innocenti. Io non amerò quando sarà d'altri la donna che fu mia ... amo immensamente Teresa, ma non la moglie d'Odoardo ... ohimè! tu forse mentre scrivo sei fra le sue braccia! - Lorenzo! ... Ahi Lorenzo! eccolo quel demonio mio persecutore; torna a incalzarmi, a premermi, ad investirmi, e m'accieca l'intelletto, e mi ferma perfino le palpitazioni del cuore, e mi fa tutto ferocia, e vorrebbe il mondo finito con me ... Piangete tutti! ... E perché mi caccia nelle mani un pugnale, e mi precede, e si volge guardando se io lo sieguo, e mi addita dov'io devo ferire? vieni tu dall'altissima vendetta del cielo? - E così nel mio furore e nelle mie superstizioni io mi prostendo su la polvere a scongiurare orrendamente un Dio che non conosco, ch'io non offesi, di cui dubito sempre ... e poi tremo, e l'adoro. Dov'io cerco aiuto? non in me, non negli uomini: la terra è insanguinata, e il Sole è negro. Alfine ... eccomi in pacd che pace? stanchezza, sopore di sepoltura. Ho vagato per queste montagne. Non v'è albero, non tugurio, non erba. Tutto è bronchi, aspri e lividi macigni, e qua e là molte croci che segnano il sito de' viandanti assassinati. Giù ... - Il Roia, un torrente che quando si disfanno i ghiacci precipita dalle viscere delle alpi, e per gran tratto ha spaccato in due queste immense montagne. V'è un ponte presso alla marina che ricongiunge il sentiero. Mi sono fermato su quel ponte e ho spinto gli occhi sin dove può giungere la vista ... e percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni cavernosi, appena si vedono imposte su le cervici dell'alpi altre alpi di neve che s'immergono nel cielo e tutto biancheggia e si confonde ..• - da quelle spalancate alpi scende e passeggia ondeggiando la tramontana e per quelle fauci invade il mediterraneo. La n~tura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi. I tuoi confini, o Italia, son questi; ma sono tutto dl sormontati d'ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli? Nulla ti manca se non la forza della concordia. PROSE Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? - Ov'è l'antico terrore della tua gloria ? Miseri! noi andiamo ognor memorando la libertà, e la gloria degli avi le quali quanto più splendono tanto più scoprono la nostra abbietta schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E verrà forse giorno che noi perdendo e le sostanze, e rintelletto, e la voce sarem fatti simili agli schiavi domestici degli antichi, o trafficati come i miseri Negri, e vedremo i nostri padroni schiudere le tombe e diseppellire, e disperdere al vento le ceneri di que' Grandi per annientarne fino le ignude memorie; poiché oggi i nostri fasti ci sono cagione di superbia, ma non eccitamento dal- 1'antico letargo. Cosi io grido quando io mi sento insuperbire nel petto il nome Italiano e rivolgendomi intorno io cerco né trovo più la mia patria. Ma poscia io dico: pare che gli uomini sieno i fabbri delle proprie sciagure, ma le sciagure derivano dall'ordine universale, e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente ai destini. Noi ragioniamo sugli eventi di pochi secoli: che sono eglino nell'immenso spazio del tempo? Pari alle stagioni della nostra vita mortale paiono talvolta gravi di straordinarie vicende, le quali pur sono comuni e necessarii effetti del tutto. L'universo si controbilancia. Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell'altra. Io guardando da queste alpi l'Italia piango e fremo, e invoco contro gl'invasori vendetta;1 ma la mia voce si perde tra il fremito di tanti popoli trapassati,2 quando i Romani rapivano il mondo, cercavano oltre i mari e i deserti nuovi imperi da devastare, manomettevano gl'Iddii de' vinti, incatenavano principi e popoli liberissimi, finché non trovando più dove insanguinare i lor ferri li ritorceano contro le proprie viscere. Cosi gli Israeliti trucidavano i pacifici abitatori di Canaan, e i Babilonesi poi strascinarono nella schiavitù i sacerdoti, le madri e i figliuoli del popolo di Giuda. Cosi Alessandro rovesciò l'impero di Babilonia, e dopo avere arsa passando tutta la terra, si crucciava che non vi fosse un altro universo. Cosi gli Spartani tre volte smantellarono lVlessene e tre r. I tuoi ••. tiendetta: vedi Sepolcri, r82, a p. 316: • da che le mal vietate Alpi [...] •· 2. ma la mia voce . .. trapassati: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, a p. 545: a Ma poi? torno a lusingarmi con la sua voce che passa tra il fremito delle tarde generazioni [•••] •· ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 671 volte cacciarono dalla Grecia i Messeni che pur Greci erano e della stessa religione e nipoti de, medesimi antenati. Così sbranavansi gli antichi Italiani finché furono ingoiati dalla fortuna di Roma. Ma in pochissimi secoli la regina del mondo divenne preda de' Cesari, de' Neroni, de' Costantini, de' Vandali, e dei Papi. Oh quanto fumo di umani roghi ingombrò il cielo dell,America, oh quanto sangue d'innumerabili popoli che né timore né invidia recavano agli Europei, fu dall'oceano portato a contaminare d'infamia le nostre spiagge! ma quel sangue sarà un dì vendicato e si rovescierà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno le loro età. Oggi sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dianzi vilmente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco.1 Il mondo è una foresta di belve.2 La fame, i diluvii, e la peste sono nella natura come la sterilità di un campo che prepara rabbondanza per l'anno vegnente: cosi forse le sciagure di questo globo apprestano la felicità di un altro. Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda, e alla paura di chi serve. I governi impongono giustizia; ma potrebbero eglino imporla se per regnare non l'avessero prima violata? Chi ha derubato per ambizione le intere provincie, manda solennemente alle forche chi per fame invola del pane. Onde quando la forza ha rotti tutti gli altrui diritti, per serbarli poscia a sé stessa, inganna i mortali con le apparenze del giusto fin che un'altra forza non la distrugga. Eccoti il mondo, e gli uomini. Sorgono frattanto d'ora in ora alcuni più arditi mortali; prima derisi come frenetici, e sovente come malfattori decapitati: che se poi vengono patrocinati dalla fortuna anch'essi credono lor propria, ma che in somma non è che il moto prepotente delle cose, allora sono obbediti e temuti, e dopo morte deificati. Questa è la razza degli eroi, de' capi-sette, e de' fondatori delle nazioni i quali dal loro orgoglio e dalla stupidità dei volghi si stimano saliti tant'altro per proprio valore; e sono cieche ruote dell'oriuolo. Quando una rivoluzione del globo è matura, necessariamente vi sono gli uomini che la incominciano, e che fanno de' loro teschi sgabello al trono di chi la com~ie. E perché l'umana 1. Tutte ••. fuoco: vedi Sepolcri, 182-3, a p. 316: •da che le mal vietate Alpi e l'alterna/ onnipotenza delle umane sorti•· :z. Il mondo • .• belve: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, a p. 547: •Tutto è guerra nell'universo•· PROSE schiatta non trova né felicità né giustizia su la terra, crea gli Dei protettori della debolezza e cerca premii futuri del pianto presente. Ma gli Dei si vestirono in tutti i secoli delle armi de' conquistatori, e opprimono le genti con le passioni, i furori, e le astuzie di chi vuole regnare. Lorenzo, sai tu dove vive ancora la vera virtù ? in noi pochi deboli e sventurati; in noi che dopo avere esperimentati tutti gli errori, e sentiti tutti i mali della vita, sappiamo compiangerli e soccorrerli. Tu, o compassione, sei la sola virtù! tutte le altre sono virtù usuraie. Ma mentre io guardo dall'alto le follie e le fatali sciagure della umanità, non mi sento forse tutte le passioni, e la debolezza ed il pianto, soli elementi dell'uomo ? Non sospiro ognor la mia patria? Non dico a me lagrimando: tu hai una madre e un amico; tu ami •.. te aspetta una schiera di miseri, dove fuggi ? Anche nelle terre straniere ti seguiranno la perfidia degli uomini e i dolori e la morte: qui cadrai forse, e niuno avrà compassione di te; e tu senti pure nel tuo misero petto il bisogno di essere compianto. Abbandonato da tutti non chiedi aiuto dal cielo? non t'ascolta; eppure nelle tue afflizioni il tuo cuore torna involontario a lui. O Natura! hai tu forse bisogno di noi sciagurati, e ci consideri come i vermi e gl'insetti che vediamo brulicare e moltiplicarsi senza sapere a che vivano? Ma se tu ci hai dotati del funesto istinto della vita onde il mortale non cada sotto la soma delle sue infermità ed ubbidisca fatalmente a tutte le tue leggi, perché poi darci questo dono ancor più funesto della ragione? Noi tocchiamo con mano tutte le nostre sciagure ignorando sempre il modo di ristorarle. Perché dunque io fuggo? e in quali lontane contrade io vado a perdermi? dove mai troverò gli uomini diversi dagli uomini? Conosco i disastri, le infermità, e la indigenza che fuori della mia patria mi aspettano? - Ah no! Io tornerò a voi, o sacre terre, che prime udiste i miei vagiti, dove tante volte ho riposato queste mie membra affaticate, dove ho trovato nella oscurità e nella pace i miei pochi piaceri, dove nel dolore ho confidati i miei pianti. Poiché tutto è vestito di tristezza per me, se null'altro posso ancora sperare che il sonno eterno della morte ... voi sole, o mie selve, udirete il mio ultimo lamento, e voi sole coprirete con le vostre ombre pacifiche il mio freddo cadavere. Mi piangeranno quegli infelici che sono compagni delle mie disgrazie; e se le passioni ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 673 vivono dopo il sepolcro, il mio spirito doloroso sarà confortato dai sospiri di quella celeste fanciulla ch'io credeva nata per me, ma che i pregiudizii degli uomini e il mio destino feroce mi hanno strappata dal petto. Alessandria, 29 febbraro. DA Nizza invece d'innoltrarmi in Francia ho preso la volta del Monferrato. Sta sera dormirò a Piacenza. Giovedì scriverò da Rimino. Ti dirò allora ... addio. Rimino, smarzo. Turro mi si dilegua. Io veniva a rivedere ansiosamente il Bertola;• 1 da gran tempo io non aveva sue lettere .•. È morto. ore I I della sera. Lo seppi: Teresa è maritata. Tu taci per non darmi l'ultima ferita ... ma l'infermo geme quando la morte il combatte, non quando lo ha vinto. Meglio così, da che tutto è deciso: ed ora anch'io sono tranquillo, perfettamente tranquillo. - Addio. Roma mi sta sempre sul cuore. Dal framme,ito seguente che ha la data della sera stessa, apparisce cheJacopo decretò in queldi di morire. Parecchialtriframmenti raccolti come questo dalle sue carte paiono gli ultimi pensieri che lo ra.ffermarono nel suo proponimento; e però li andrò Jrammettendo le loro date. e( Ecco la meta: ho già tutto fermo da gran tempo nel cuore .•.2 il modo, il luogo - né il giorno è lontano. Cos'è la vita per me? il tempo mi divorò i momenti felici: io • Autore di poene campestri. L'Editore. I. Aurelio de' Giorgi Bertola (Rimini 4 agosto 1753 - ivi 30 giugno 1798). Oltre alle Poesie campestri e marittime (1779), è soprattutto noto tra l'altro per Le notti Clementine (1776), le Faflole (1783), le Lettere Campestri (pubblicate per la prima volta nel 1785). Tra gli scritti critici, particolare importanza, per la conoscenza della poesia tedesca del secondo Settecento, ebbe l'Idea della bella Letteratura Alemanna (1784). Si segnala inoltre che il FOSCOLO con lettera II Dalla Motta 28 maggio 1795 • (Epistolan'o, I, pp. 14-5), inviava al Bertola l'ode La Campagna (la si veda in Edizione Nazionale, n, pp. 285-7). 2. Ecco .•. cuore: vedi ALFIERI, Saul, atto v, scena 1v, 199: e[. ..] Io da gran tempo/ nel cuor già tutto ho fermo• (vedi Edizione Nazionale, 1v, p. 264, nota 1). 43 PROSE non la conosco se non nel sentimento del dolore: ed ora anche l'illusione mi abbandona. Io medito sul passato, io m'affisso su i dì che verranno; e non veggo che pianto. Questi anni che appena giungono a segnare la mia giovinezza, come passarono lenti fra i timori, le speranze, i desiderii, gl'inganni, la noia! e s'io cerco la eredità che mi hanno lasciato, non mi trovo che la rimembranza di pochi piaceri che non sono più, e un m"are di sciagure che atterrano il mio coraggio, perché me ne fanno paventar di peggiori. Che se nella vita è il dolore, in che più sperare? nel nulla o in un'altra vita diversa sempre da questa. - Ho dunque deliberato: io non odio disperatamente me stesso; io non odio i viventi. Cerco da gran tempo la pace, e la ragione mi addita sempre la tomba. Quante volte immerso nella meditazione delle mie sventure io cominciava a disperare di me stesso! L'idea della morte dileguava la mia tristezza, ed io sorrideva per la speranza di non vivere più. Sono tranquillo, tranquillo imperturbabilmente. Le illusioni sono svanite; i desiderii son morti; le speranze e i timori hanno già liberato il mio cuore. Non più mille fantasmi ora giocondi ora tristi confondono e traviano la mia immaginazione: non più vani argomenti adulano la mia ragione; tutto è calma. - Pentimenti sul passato, noia del presente, e timor del futuro; ecco la vita. La sola morte, a cui è commesso il sacro cangiamento delle cose, mi offre pace». Da Ravenna non mi scrisse, ma da quest'altro squarcio si vede eh'egli vi andò in quella settimana. «Non temerariamente, ma con animo consigliato e securo. Quante tempeste pria che la morte potesse parlare così pacatamente con me .•• ed io cosi pacato con leiI Sull'urna tua, Padre Dantel •.• Abbracciandola mi sono prefisso ancor più nel mio consiglio. M'hai tu veduto? m'hai tu forse, Padre, ispirato tanta fortezza di senno e di cuore, mentr'io genuflesso, con la testa apoggiata a' tuoi marmi meditava e l'alto animo tuo, e il tuo amore, e l'ingrata tua patria, e l'esilio, e la povertà, e la tua mente divina? E mi sono scompagnato dall'ombra tua più deliberato e più lieto ». Su l'albeggiare de' IJ marzo smontò a' colli Euganei, e spedì a Venezia Michele gittandosi, stivalato com'era, subitamente a dor- ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 675 mire. Io mi stava appunto con la madre diJacopo quand'ella che prima di me si vide innanzi ,,"l ragazzo chiese spaventata: E mio figlio? - La lettera di Alessandria non era per anco arrivata, e Jacopo prevenne anche quella di Rimino: noi ci pensavamo eh'ei sifosse già in Francia; perciò l'inaspettato ritorno del servo ci fu presentimento di fiere novelle. Ei narrava: Il padrone è in campagna; non può scrivere perché abbiamo viaggiato tutta notte; dormiva quand'io montava a cavallo. Vengo per avvertirvi che noi ripartiremo, e credo da quel che gli ho udito dire ... per Roma ... se bene mi ricordo, per Roma: e poi per Ancona dove ci imbarcheremo ... - per altro il padrone sta bene; ed è quasi una settimana ch'io lo vedo più sollevato. Mi disse che prima di partire verrà a salutarvi, e questa è la ragione per cui mi manda; anzi verrà qui domani l'altro, e forse domani. Il servo pareva lieto, ma il suo dire confuso accrebbe i nostri sospetti; né si acquetarono se non ilgiorno dietro quando Jacopo scrisse, che rz"partiva per l'Isole già Venete,1 e che temendo di non n·tornare forse più, veniva a rivederci e a ricevere la benedizione di sua madre. - Questo biglietto andò smarn'to. Frattanto il giorno del suo arrivo megliatosi quattr'ore prima di sera, scese a passeggiare sino presso alla chiesa, tornò, si rivestì, ed andò a casa T• • •. Seppe da un f amigHare che da sei giorni erano tutti venuti da Padova, e che a momenti sarebbero tornati dal passeggio. Era quasi sera, e parti. Dopo alcuni passi scorse da lontano Teresa che veniva co,i l'lsabellina per mano: dietro era il signore T••• co,i Odoardo. Jacopo fu preso da un tremito, e s'accostava vacillando. Teresa appena il conobbe gridò: Eterno lddio! e dando indietro mezza tramortita si sostenne sul braccio del padre. Com'ei fu presso, e che venne raooisato da tutti, ella non gli disse più parola: appena il n"g,iore T• • • gZ,: stese la mano, ed Odoardo lo salutò freddamente. Sola l'Isabellina gli' corse addosso, e mentre ei se la prendea su le braccia, ella lo baciava, e lo chiamava il suo Jacopo, e si volgeva a Teresa, ed egli accompagnandoli parlava sempre con la ragazza: niuno aprì bocca: Odoardo soltanto gli chiese se andava a Venezia ..• Fra pochi giorni, rispose. Giunti alla porta, si accomiatò. Michele che a nessun patto accettò d,.' riposarsi in Venezia per non lasciare solo il padrone, n·tornò a' colli un'ora incirca dopo mez- 1. per . .. Venete: si tratta delle Isole Ionie che con il Trattato di Campoformio (1797) erano state cedute dalla Repubblica di Venezia alla Francia, insieme a tutti i possedimenti veneziani situati in Albania. PROSE %anotte, e lo trovò seduto allo scrittoio ripassando le sue carte. Moltissime ne bruciò, parecchie di minor conto le gettò stracciate sotto il tavolino. Il ragazzo si coricò, lasciando l'ortolano perché ci badasse; tanto più che Jacopo non avea in tutto quel dì desinato. Infatti poco di poi gli fu recata parte del suo desinare, ed ei ne mangiò attendendo sempre alle carte. Non le rivide tutte, ma passeggiò per la stanza, poi prese a leggere. L'ortolano che lo vedeva mi disse che sul finir della notte apri le finestre, e vi sifermò un pezzo: pare che subito dopo abbia scritto ,· due tratti che sieguono; sono in diverse pagine, ma in un medesimo foglio. «Or via: costanza. - Eccoti una bragera scintillante d'infiammati carboni. Ponvi dentro la mano; brucia le vive tue carni: bada ..• non t'avvilire con un gemito. A qual pro? - Ed a qual pro deggio affettare un eroismo che non mi giova ?» «È notte; alta, perfetta notte. A che veglio immoto su questi libril - lo non appresi che la scienza di ostentare saviezza quando le passioni non tiranneggiano l'anima. I precetti sono come la medicina, inutile quando l'infermità vince tutte le resistenze della natura. Alcuni sapienti si vantano d'avere domate le passioni che non hanno mai combattuto: l'origine è questa della loro baldanza. Amabile stella dell'alba( tu fiammeggi sull'oriente, e mandi su questi occhi il tuo raggio ... ultimo! Chi l'avria detto sei mesi addietro quando tu comparivi prima degli altri pianeti a rallegrare la notte, e ad accogliere i nostri saluti? Spuntasse almeno l'aurora! - Forse Teresa si ricorda in questo momento di me ... pensiero consolatore! Oh come la beatitudine d'essere amato raddolcisce qualunque dolore!' Ahi notturno delirioI va ... tu cominci a sedurmi: passò stagione: ho disingannato me stesso; un partito solo mi resta». La mattina mandò per una Bibbia ad Odoardo il quale non l'aveva: mandò al parroco, e quando glifu recata, si chiuse. A mez!lodi suonato usd a spedire la seguente lettera, e tornò a chiudersi. 1. Oh come ••• dolore!: in lettera a Eleonora Nencini: «Oh, come la beatitudine di essere amato raddolcisce qualunque dolore! • (vedi nel tomo li la lettera 14). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTI$ (1802) 677 14 marzo. LORENZO ••• un secreto : da più mesi mi sta confitto nel cuore: ma l'ora della partenza sta per suonare; ed è tempo ch'io lo deponga nel tuo petto. Questo amico tuo ••. ha sempre davanti un cadavere. - Ho fatto quanto io doveva; quella famiglia è da quel giorno men povera ... ma il padre loro rivive più? In uno di que• giorni del mio forsennato dolore, sono ornai dieci mesi, io cavalcando m'allontanai più miglia. Era la sera; io vedeva sorgere un tempo nero, e tornando affrettavami: il cavallo divorava la via, e nondimeno i miei sproni lo insanguinavano, e gli abbandonai tutte le briglie sul collo, invocando quasi ch'ei rovinasse e si seppellisse con me. Entrando in un viale tutto alberi, stretto, lunghissimo vidi una persona .•. ripresi le briglie, ma il cavallo più s'irritava e più impetuosamente lanciavasi. Tienti a sinistra, gridai, a sinistra! Quell'infelice m'intese; corse a sinistra, ma sentendo più imminente lo scalpito, e in quello stretto sentiero credendosi addosso il cavallo, ritornava sgomentato a diritta, e fu investito, rovesciato, e le zampe gli frantumarono le cervella. In quel tremendo urto il cavallo stramazzò, balzandomi di sella più passi ... Perché rimasi vivo ed illeso? - Corsi ove intendeva un lamento di moribondo .•• quell'uomo agonizzava boccone in una palude di sangue: lo scossi: ma non aveva né voce né sentimento; dopo minuti spirò.1 Tornai a casa. Quella notte fu anche burrascosa per tutta la natura; la grandine desolò le campagne; le folgori arsero molti alberi; e il turbine fracassò la cappella di un crocefisso: ed io uscii a perdermi tutta notte per le montagne con le vesti e l'anima insanguinata, cercando in quello sterminio la pena della mia colpa. Che notte! Credi tu che quel terribile spettro mi abbia perdonato mai? Il giorno dopo ..• - assai se ne parlò : si trovò il morto in quel viale, mezzo miglio più lontano, sotto un mucchio di sassi fra due castagni schiantati che attraversano il cammino; la pioggia che sino all'alba cascò dalle alture a torrenti ve lo strascinò con que' sassi; avea le membra e la faccia a brani; e fu conosciuto per le 1. In uno •.• spirò: per la relazione dell'episodio qui narrato con la biografia foscoliana, vedi la lettera a Quìrina Mocenni Magiotti del 20 marzo 1816 (Epistolario, VI, pp. 341-2). PROSE strida della moglie che lo cercava. Nessuno fu imputato. Ma mi accusavano le benedizioni di quella vedova perché ho subitamente collocata la sua figlia col nipote del gastaldo, ed assegnato un patrimonio al figliuolo che si volle far prete. E ier sera vennero a ringraziarmi di nuovo dicendomi, ch'io gli ho liberati dalla miseria in cui da tanti anni languiva la famiglia di quel povero lavoratore. Ahi vi sono pure tant'altri miseri come voi ... ma hanno un marito ed un padre che li consola con l'amor suo, e che essi non cangierebbero per tutte le ricchezze della terra ... e voi! Cosi gli uomini devono struggersi scambievolmente! Fuggono da quel viale tutti i villani, e tornando dai lavori, per iscansarlo, passano per le praterie. Si dice che le notti vi si sentono spiriti; che l'uccello del mal-augurio siede fra quelle arbori e dopo la mezzanotte urla tre volte; che qualche sera si è veduta passare una persona morta . . • - né io ardisco disingannarli, né ridere di tali prestigii. Ma tu svelerai tutto dopo la mia morte. Il viaggio è rischioso, la mia salute incerta; non posso allontanarmi con questo rimorso sepolto. Que' due figliuoli in ogni loro disgrazia e quella vedova sieno sacri nella mia casa. Addio. Per entro la Bibbia si trovarono, assai giorni dopo, le traduzio11i zeppe di cassature e quasi non leggibili di alcuni versi del libro di Job, del secondo capo dell'Ecclesiaste, e di tutto il cantico di Ezechia. - Alle quattro dopo il mezzodì si trovò a casa T•••. Aveano finito di desinare; e Teresa era già discesa sola in giardino. Il padre di lei lo accolse affabllmente. Odoardo si fe' a leggere presso a u11 balcone, e dopo non molto posò il libro: ne aprì un altro, e leggendo s'a'lJ'lJÌiJ alle sue stanze. Allora Jacopo prese il primo libro cosi come fu lasciato aperto da Odoardo,· era il IV volume delle tragedie dell'Alfieri:1 ne scorse alcune pagi11e; poi lesse forte Chi sete voi? .•. Chi d'aura aperta e pura qui favellò ?••• Questa ? è caligin densa; tenebre sono; ombra di morte ... Oh mira; più mi t'accosta; il vedi? il Sol dintorno cinto ha di sangue ghirlanda funesta ... 1. era . .. dell'Alfieri: dell'edizione Didot (Parigi 1788). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 679 Odi tu canto di sinistri augelli ? Lugubre un pianto sull'aere si spande che me percuote, e a lagrimar mi sforza •.• Ma che? Voi pur, voi pur piangete? .. .I Il padre di Teresa guardandolo gli diceva: O mio figlio! Jacopo seguitò a leggere sommessamente: aprì a caso quello stesso volume e tosto posandolo esclamò: ..... Non diedi a voi per anco del mio coraggio prova: ei pur fia pari al dolor mio2 A questi versi. Odoardo tornava, egli udì proferire così efficacemente che si ristette su la porta pensoso. Mi narrava poi il signore T••• c/ze gli parve in quel momento di leggere la morte sul volto del nostro amico infeli'ce, e che in que' giorni tutte le parole di lui inspiravano riverenza e pietà. Favellarono poi del suo viaggio; e quando Odoardo gli" chiese se starebbe di molto a tornare: Sì, rispose, sono certo che non ci rivedremo più. Ridottosi a casa su l'imbrunire, desi"nò; né comparve fuori di stanza che la mattina seguente assai tardi. Porrò qui alcuni frammenti ch'io credo di quella notte, quantunque io non sappia assegnare veramente l'ora in cui furono scn·tti. «Viltà? - e tu che gridi viltà non se' un di quegl'infiniti mortali che infingardi guardano le loro catene, e non osano piangere, e baciano la mano che li flagella? Che è mai l'uomo? il coraggio fu sempre dominatore dell'universo perché tutto è debolezza e paura. Tu m'imputi di viltà, e ti vendi intanto ranima e l'onore. Vieni ... mirami agonizzare boccheggiando nel mio sangue: non tremi tu ? or chi è il vile? ma trammi questo coltello dal petto; impugnalo; e di a te stesso: Dovrò vivere eterno? Dolore sommo forte, ma breve e generoso .•• Chi sai la fortuna ti prepara una morte più dolorosa e più infame. Confessa. Or che tu tieni quell'arma appuntata deliberatamente sopra il tuo cuore, non ti senti forse capace di ogni alta impresa, e non ti vedi libero padrone de' tuoi tiranni?>> 1. Saul, atto 111, scena IV, 144-52. 2. Sofonisha, atto IV, scena IV, 78-80•. 680 PROSE «lo contemplo la campagna: guarda che notte serena e pacificai Ecco la luna che sorge dietro la montagna. O lunai amica lunai Mandi ora tu forse su la faccia di Teresa un patetico raggio simile a quello che tu diffondi nell'anima mia? Ti ho sempre salutata mentre apparivi a consolare la muta solitudine della terra: sovente uscendo dalla casa di Teresa ho parlato con te, e tu fosti il testimonio de, miei delirii: questi occhi molli di lagrime ti hanno sovente accompagnata in seno alle nubi che ti ascondevano: ti hanno cercata nelle notti cieche della tua luce. Tu risorgerai, tu risorgerai sempre più bella; ma l'amico tuo cadrà deforme e abbandonato cadavere senza risorgere più. Io ti prego di un ultimo beneficio: quando Teresa mi cercherà fra i cipressi e i pini del monte, illumina co, tuoi raggi la mia sepoltura». 11 Bell'albal ..• è pur gran tempo ch,io non m'alzo da un sonno così riposato, e ch'io non ti vedo, o mattino, cosi rilucente! - ma gli occhi miei erano sempre nel pianto; e tutti i miei sentimenti nella oscurità; e l'anima mia nuotava nel dolore. Splendi su splendi, o Natura, e riconforta le cure de, mortali ... Tu non risplenderai più per me. Ho già sentita tutta la tua bellezza, e t,ho adorata, e mi sono alimentato della tua gioia ... e finché io ti vedeva bella e benefica, tu mi dicevi con una voce divina: vivi. Ma •.. nella mia disperazione ti ho poi veduta con le mani grondanti di sangue; la fragranza de' tuoi fiori mi fu pregna di veleno, amari i tuoi frutti .•. e mi apparivi divoratrice de' tuoi figli, adescandoli con la tua bellezza e con i tuoi doni al dolore.1 Sarò io dunque ingrato con te? protrarrò la vita per vederti si terribile, e bestemmiarti? ... No, no. Trasformandoti, e acciecandomi alla tua luce non mi abbandoni tu stessa, e non mi comandi ad un tempo di abbandonarti? - Ahl ora ti guardo e sospiro ... ma io ti vagheggio ancora per la rimembranza delle passate dolcezze, per la certezza ch'io non dovrò più temerti, e perché sto per perderti • • • Né io credo di ribellarmi da te fuggendo la vita. La vita e la 1. Splendi .•. dolore: vedi i Frammenti di rm romanzo autobiografico, a p. 554: «O natural Accogli quest'inno de' tuoi figli. I mortali dovrebbero maladirti e renderti questa vita. Pianto speranza terrore e morte ecco i nostri elementi. Ma tu hai creato la Bellezza! E noi adorandola ti rendiamo grazie anche per i nostri mali». ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 681 morte sono del pari tue leggi; anzi una strada concedi al nascere, mille al morire.1 Se non ci imputi la infermità che ne uccide, vorrai forse imputarne le passioni che hanno gli stessi effetti e la stessa sorgente perché derivano da te, né potrebbero opprimerci se da te non avessero ricevuta la forza? Né tu hai prefisso una età certa per tutti. Gli uomini denno nascere, vivere, morire: ecco le tue leggi: che rileva il tempo e il modo? Nulla io ti sottraggo di ciò che mi hai dato. Il mio corpo, questa infinitesima parte, ti starà sempre congiunta sotto altre forme. Il mio spirito ... se morrà con me, si modificherà con me nella massa immensa delle cose: e s'egli èimmortale! ... la sua essenza rimarrà illesa. - Ohi a che più lusingo la mia ragione? Non odo la solenne voce della natura? Io ti feci nascere perché anelando alla tua felicità cospirassi alla felicità universale; e quindi per istinto ti diedi l'amor della vita, e l'orror della morte. Ma se la piena del dolore vince l'istinto, non devi forse giovarti delle vie che ti schiudo per fuggir da' tuoi mali? Quale riconoscenza più t'obbliga meco se la vita ch'io ti diedi per beneficio, ti si è convertita in un peso?2 Che arroganza! credermi necessario! - i miei anni sono nello incircoscritto spazio del tempo un attimo impercettibile. Ecco fiumi di sangue che portano tra i fumanti lor flutti recenti mucchi d1 umani cadaveri; e sono questi milioni d'uomini sacrificati a mille pertiche di terreno e a mezzo secolo di fama che due conquistatori si contrastano con la vita de' popoli. E temerò di consecrare a me stesso que' dì pochi e dolenti che mi saranno forse rapiti dalle persecuzioni degli uomini, o contaminati dalle colpe ?» 1. La vita ... morire: nota G. GAMBARIN: •Echeggia un passo di Montaigne (Essais, libro n, cap. 111): "Le présent que nature nous ait fait le plus favorable, et qui nous oste tout moyen dc nous plaindre de notre condition, c'est de nous avoir laissé la clef des champs: elle n'à ordonné qu'une entrée à la vie, e cent mille issues • (Edizione Nazionale, IV, p. 272, nota 1). 2. Io ti feci .•• peso?: vedi le Lettres de dertx amans, habitans d'une petite Ville au pied des Alpes, recueil/iées et publiées par J.J. ROUSSEAU, Amsterdam, Rey, 1763, voi. 11, parte terza, lettera XXI, p. 129: 1Tant qu'il nous est bon de vivre nous le desirons fortement, et il n'y a que le sentiment des maux extremes qui puisse vaincre en nous ce desir: car nous avons reçu de la nature une très grande horreur de la mort, et cette horreur déguise à nos yeux les misères de la condition humaine. On supporte longtemps une vie pénible et douloureuse avant de se resoudre à la quitter; mais quand une fois l'ennui de vivre l'emporte sur l'horreur de mourir, alors la vie est évidemment un grande mal, et l'on ne peut s'en délivrer trop tot n (e vedi V. Rossi, art. cit., p. 71, nota 1). PROSE Cercai quasi con religione tutti i 'Vestigi dell'amico mio nelle sue ore supreme, e con pari reHgione io scri'Vo quelle cose che ho potuto sapere: però non ti dico, o Lettore, se non ciò ch'io vidi, o ciò che mi fu, da chi il 'Vide, narrato. - Per 'P.'anto io m'abbia indagato non seppi che abbia egli fatto ne' dì I6, I7, e I8 marzo. Fu più 'Volte a casa r••• ma non vi si fermò mai. Usciva tutti que' giorni quasi prima del sole, e si ritirava assai tardi: cenava senza dire parola; e Michele mi accerta, che avea notti assai riposate. La lettera che siegue non ha data, ma fu scritta il giorno I9. Parmi? o Teresa mi sfugge ... ella stessa mi sfugge? Tutti .•. e le sta sempre al fianco Odoardo. Vorrei vederla solo una volta; e sappi ch'io sarei già partito ... tu pure m'affretti ognor più I ... ma sarei partito se avessi potuto lasciarle le ultime lagrime. Gran silenzio in tutta quella famiglia! Salendo le scale temo d'incontrare Odoardo ... parlandomi, non mi nomina mai Teresa. Ed è pur poco discreto; sempre, anche poc'anzi m'interroga quando ecome partirò. Mi sono arretrato improvvisamente da lui perché •.. davvero mi parea ch'ei sogghignasse; e l'ho fuggito fremendo. Torna a spaventarmi quella terribile verità ch'io già svelava con raccapriccio ... e che mi sono poscia assuefatto a meditare con rassegnazione: Tutti siamo nemici. Se tu potessi fare il processo de' pensieri di chiunque ti si para davanti, vedresti ch'ei ruota a cerchio una spada per allontanare tutti dal proprio bene, e per rapire l'altrui. - Mio Lorenzo; comincio a vacillar nuovamente. Ma conviene disporsi ... e lasciarli in pace. P. S. Torno da quella donna decrepita di cui parmi d'averti narrato una volta. La disgraziata vive ancoraI sola, abbandonata, spesso gl'interi giorni, da tutti che si stancano di aiutarla, vive ancora; ma tutti i suoi sensi sono da più mesi nell'orrore e nella battaglia della morte. Questi due ultimi frammenti sembrano di quella notte. «Strappiamo la maschera a questa larva che vuole atterrirci.1 Ho veduto i fanciulli raccapricciare e nascondersi all'aspetto tra- 1. Strappiamo ... atterrirci: vedi nell'Estratto del poema intitolato La Rassegnazione, § 11: a L'uomo, che è fornito di coraggiot strappa alla calamità ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 683 visato della loro nutrice. O morte! io ti guardo e t>interrogo ... non le cose ma le loro apparenze ci turbano: infiniti uomini che non osano chiamarti ti affrontano nondimeno intrepidamente! Tu pure sei necessario elemento della natura ... per me già tutto l'orror tuo si dilegua, e mi rassembri simile al sonno della sera, quiete dell'apre. Ecco le spalle di quella sterile rupe che fraudano le sottoposte valli del raggio fecondatore dell'anno. - A che mi sto? S'io devo cooperare all'altrui felicità, io invece la turbo; s'io devo consumare la parte di calamità assegnata ad ogni uomo, io già in ventiquattro anni ho vuotato il calice che avria potuto bastarmi per una lunghissima vita. E la speranza? - che monta? conosco io forse l'avvenire per fidargli i miei giorni? Ahi! che appunto questa fatale ignoranza accarezza le nostre passioni, ed alimenta l'umana in- felicità. Il tempo vola; e col tempo ho perduto nel dolore quella parte di vita che due mesi addietro lusingavasi di conforto. Questa piaga invecchiata è ornai divenuta natura: io la sento nel mio cuore, nel mio cervello, in tutto me stesso; gronda sangue, e sospira come se fosse aperta di fresco. - Or basta, Teresa, basta: non ti par di vedere in me un infermo strascinato a lenti passi alla tomba fra la disperazione e i tormenti, e non sa prevenire con un sol colpo gli strazii del suo destino inevitabile?» u Tento la punta di questo pugnale: io lo stringo, e sorrido: qui; in mezzo a questo cuor palpitante ... e sarà tutto compiuto. Ma questo ferro mi sta sempre davanti: - chi chi osa amarti, o Teresa? chi osò rapirti? 01 mi vado stropicciando le mani per lavare la macchia dell'omicidio ... le fiuto come se fumassero di delitto. Frattanto eccole immacolate, e in tempo di togliermi in un tratto dal pericolo di vivere un giorno di più ... un giorno solo; un momento •.• sciaguratoI avresti vissuto troppo». quelln maschera spaventevole, con cui essa ci atterrisce» (Le Notti di YouNG, tradotte dal fratrcese, dal Signor Abate Alberti, Marsiglia, Mossy, 1770, 1111 p. 3601 e vedi Prose e Poesie di Uco FoscoLO scelte ed illwtrate da E. Ma,inoni, l\1ilano, Hoepl.i, 1926, p. J1). PROSE 20 marzo, a sera. lo era forte: ma questo fu l'ultimo colpo che ha quasi prostrata la mia fermezza! nondimeno quello ch'è decretato è decretato. Ma tu, mio Dio, che miri nel profondo, tu vedi che questo è sacrificio di sangue. Ella era, o Lorenzo, con la sua sorellina; e parca che volesse sfuggirmi; ma poi s'assise, e l'Isabellina tutta compunta se le posò su le ginocchia. Teresa ... !e diss'io accostandomi e prendendole la mano: ella mi guardò: quella innocente gettando il suo braccio sul collo di Teresa, e alzando il viso, le parlava sottovoce ... Jacopo non mi ama più: io l'intesi: S'io t'amo? e abbassandomi e abbracciandola; t'amo, io le diceva, t'amo teneramente; ma tu non mi vedrai più. O mio fratellol Teresa mi riguardò lagrimando, e stringeva l'Isabellina, e rivolgea gli occhi verso di me ..• Tu ci lascierai, mi disse, e questa fanciulletta sarà compagna de' miei giorni, e sollievo de' miei dolori: io le parlerò sempre del suo amico ... e le insegnerò a piangerti e a benedirti ...1 - e a queste ultime parole le lagrime le pioveano dagli occhi; ed io ti scrivo con le mani calde ancor del suo pianto. Addio, soggiunse, addio eternamente; eccoti adempiuta la mia promessa - e si trasse dal seno il suo ritratto - eccoti adempiuta la mia promessa; addio per sempre; va, fuggi, e porta con te la memoria di questa sfortunata ... è bagnato delle mie lagrime e delle lagrime di mia madre. - E con le sue mani lo appendeva al mio collo, e lo nascondeva nel mio petto •.. io stesi le braccia, e me la strinsi sul cuore, e i suoi sospiri confortavano le arse mie labbra, e già la mia bocca ... Un pallore di morte si sparse su la sua faccia e, mentre mi respingeva, io toccandole la mano la sentii fredda, tremante, e con voce soffocata e languente mi disse .•. Abbi pietàI addio; e si abbandonò sul sofà stringendosi presso quanto potea l'Isabellina che piangeva con noi. - Entrava suo padre, e il nostro misero stato avvelenò forse i suoi rimorsi. Ritornò quella sera tanto costernato che Michele stesso sospettò qualche fiero accidente. Ripigliò l'esame delle sue carte e le faceva 1. sarà compagna ..• benedirti: vedi in lettera all'Arese: «Sarà compagno de' miei giorni, e conforto de' miei dolori. Io gli parlerò sempre di sua madre ..• e gl'insegnerò a piangerti e a benediriti 11 (Epistolario, 1, p. 311). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTI$ (1802) 685 ardere senza leggerle. Innanzi alla rivoluzione avea scritto un commentario intorno al governo Veneto in uno stile antiquato, assoluto, con quel motto di Lucano per epigrafe: Iusque datum sceleri.1 Una sera dell'anno addietro lesse a Teresa la storia di Lauretta,· e Teresa mi disse poi, che quei pensieri scuciti ch'ei m'inviò con la lettera de' 29 aprile non n'erano il cominciamento, ma bensì tutti sparsi dentro quell'operetta ch'egli aveva finita.2 Non perdonò né a questi né a verun altro suo scritto. Leggeva pochisnmi libri, pensava molto, dal bollente tumulto del mondo fuggiva a un tratto nella solitudine, e quindi avea necessità di scrivere. Ma a me non resta se non un suo Plutarco zeppo di postille con varii quinterni frammessi, ove sono alcuni discorsi, ed uno assai lungo su la morte di Nicia: ed un Tacito Bodoniano,3 con molti squarci, e fra gli altri l'intero libro secondo degli annali e gran parte del secondo delle storie, da lui con sommo studio tradotti, e con carattere minutissimo pazientemente ricopiati ne' margini. Que' frammenti qui inseriti gli ho scelti dalle molte carte stracciate, eh'egli avea come di poco momento gittate sotto il suo tavolino. Alle ore II congedò l'ortolano e Michele. Pare che abbia vegliato tutta notte, poiché allora scrisse la lettera precedente e sull'alba andò vestito a risvegliare il ragaz:zo commettendogli di cercare un messo per Venezia. Poi si sdraiò sul letto, ma per poco: dopo le otto della matti"na fu incontrato da un contadino su la strada di Arquà. A mezzodì entrò Michele aooertendolo che il messo era pronto, e lo trovò seduto immobilmente e come sepolto in tristissime cure: sif e' presso al tavolino e scrisse in piedi sotto la stessa lettera. Le mie labbra sono arse; il petto soffocato; un'amarezza •.• uno stringimento ... potessi almen sospir~rel4 1. Innanzi ... sceleri: nel Piano di Studii (1796), alla voce PTose originali, si legge: «La repr1blica. Osservazioni col motto Jusque datum sceleri » (c. 2,.). 2. Una sera . •. finita: nel Piano di Studii (1796), alla voce Prose originali, si legge: «Laura - Lettere. Questo libro non è interamente compiuto, ma l'Autore è costretto a dargli 1•u1tima mano quando anche ei noi volesse» (c. 2r.). 3. un Tacito Bodoniano: si tratta della stampa C. CORNELII TACITI Opera, Parmae, in Aedibus Palatinis. typis Bodonianis, 1795. Nel Piano di Studii (1 796), alla voce Prose tradotte, si legge: • I primi tre libri degli Annali di Tacito. L'Autore va compiendo l'i~tera versione di questo istorico per imprimerla rimpetto a quella del Davanzati • (c. 2r.). 4. Le mie labbra .•. sospirare!: in lettera all'Arese: «[...] non posso reggere più in questo stato tempestoso: [...] non ho più nemmeno il conforto delle lagrime. Non posso piùl ho nel cuore uno stringimento, un'amarezza per tutta l'anima, un'angoscia [••.] • (vedi nel tomo Il la lettera 30). 686 PROSE Davvero; un gruppo dentro le fauci, e una mano che mi preme e mi affanna il cuore. Lorenzo, ma che posso dirti ? sono uomo ..• Mio Dio, mio Dio, concedimi il refrigerio del pianto. Sigillò questo fogl,,'o e lo consegnò senza soprascritta. S'assise, e incrociate le braccia su lo scrittoio vi posò la fronte: più volte il servo gli chi"ese se abbi"sognava d'altro; ei senza rivolgersi gli f e' cenno con la testa, che no. Quelgiorno 1.'ncominciò la seguente lettera per Teresa. mercoledì, ore 5. RASSEGNATI a' voleri del cielo, e cerca la tua felicità nella pace domestica, e nella concordia con quello sposo che la sorte ti ha destinato. Tu hai un padre generoso e infelice; tu dei riunirlo a tua madre la quale solitaria e piangente forse chiama te sola: tu devi la tua vita alla tua fama. Io solo ... io solo morendo troverò pace, e la lascerò alla tua famiglia: ma tu povera sfortunata ... Quanti giorni sono ch'io prendo a scriverti e non posso continuare! O sommo lddio vedo che tu non mi abbandoni nell'ora suprema; e questa costanza è il maggiore de' tuoi beneficii. Io morirò quando avrò ricevuta la benedizione di mia madre, e gli ultimi abbracciamenti dal mio solo amico. Da lui tuo padre avrà le tue lettere, e tu pure gli darai le mie: saranno testimonio della tua virtù, e della santità del nostro amore. No, mia Teresa; non sei tu cagione della mia morte. Tutte le mie passioni disperate, le disavventure delle persone più care al mio cuore, gli umani delitti, la sicurezza della mia perpetua schiavitù, e dell'obbrobrio perpetuo della mia patria venduta ..• tutto insomma da gran tempo era scritto; e tu, donna celeste, potevi soltanto raddolcire il mio destino; ma placarlo, oh! non mai. Ho veduto in te sola il ristoro di tutti i miei mali; ed osai lusingarmi; e poiché per una irresistibile forza tu mi hai amato, il mio cuore ti ha creduta tutta sua; tu mi hai amato, e tu m'ami .•. ed ora che ti perdo io chiamo in aiuto la morte. Prega tuo padre di non dimenticarsi di me; non per affliggersi, ma per mitigare con la sua compassione il tuo dolore, e per ricordarsi sempre ch'egli ha un'altra figlia ... Ma tu no, sola amica di questo sfortunato, tu non a~rai cuore di obbliarmi. Rileggi sempre queste mie ultime parole ch,io pos- ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 687 so dire di scriverti col sangue del mio cuore. La mia memoria ti preserverà forse dalle sciagure del vizio. La tua bellezza, la tua gioventù, e lo splendore della tua fortuna saranno sprone e per gli altri e per te, onde contaminare quella innocenza alla quale tu hai sacrificato la tua prima e più cara passione ... e che pure ne' tuoi martirii fu sempre il tuo solo conforto. Tutto ciò che v'è di lusinghiero nel mondo congiurerà a perderti, a rapirti la stima di te stessa, a confonderti fra la schiera di tant'altre donne le quali dopo avere abbandonato il pudore, fanno traffico dell'amore e dell'amicizia, ed ostentano come trionfi le vittime della loro perfidia ... Tu no mia Teresa ... la tua virtù risplende nel tuo viso celeste, ed io l'ho rispettata •.. e tu sai ch'io t'ho amato adorandoti come cosa sacra. - O divina immagine delramica mia! o ultimo dono prezioso ch'io contemplo, e che m'infonde più vigore, e mi narra tutta la storia de' nostri amori! Tu stavi facendo questo ritratto il primo di ch'io ti vidi: ripassano ad uno ad uno dinanzi a me tutti que' giorni che furono i più affannosi e i più cari della mia vita. E tu l'hai consecrato questo ritratto attaccandolo bagnato del tuo pianto al mio petto ... e cosi attaccato al mio petto verrà con me nel sepolcro. Ti ricordi, o Teresa, le lagrime con cui lo raccolsi? .•• ohi io torno a versarle, e sollevano la trista mia anima. Che se alcuna vita resta dopo l'ultimo spirito, io la sacrerò sempre a te sola, e l'amor mio vivrà immortale con me. -Ascolta intanto una estrema, unica, sacrosanta raccomandazione: io te ne scongiuro per il nostro amore infelice, per le lagrime che abbiamo sparse, per la tenerezza che tu senti per i tuoi genitori,1 per i quali ti sei immolata vittima volontaria ••• non lasciare senza consolazione la mia povera madre; fors'ella verrà a piangermi teco in questa solitudine dove cercherà riparo dalle tempeste della vita. Tu sola sei degna di compiangerla e di consolarla. Chi le resta più se tu l'abbandoni? Nel suo dolore, in tutte le sue sventure, nelle infermità della sua vecchiaia ricordati sempre ch'ella è mia madre. Dopo la mezzanotte partì per le poste da' colli Euganei, ed arrivato su la marina alle 8 del giorno seguente, si fe' traghettare da 1. Ascolta ••. genitori: vedi in lettera ali'Arese: •Ascolta intanto un'estrema, unica sacrosanta raccomandazione: io te ne scongiuro per il nostro amore infelice, per le lagrime che abbiamo versato, io te ne scongiuro per la tenerezza che tu devi a tua figlia [...] • (Epistolario, 1, p. 311). 688 PROSE una gondola a Venezia sino alla sua casa. Quand'io vigiunsi lo trovai addormentato sopra un so/à e di un sonno tranquillo. Come fu desto mi pregò perché io spicciassi, alcune sue faccende, e saldassi, un suo vecchio debito a certo libraio: Non posso, mi diss'egli, fermarmi qui che tutt'oggi. Benché fossero quasi due anni ch'io noi vedeva, la sua fisonomia non mi parve tanto alterata quant'io m'aspettava; ma poi m'accorsi. ch'egli andava lento e come strascinandosi; la sua voce, un tempo pronta e maschia, usciva a fatica e dal petto profondo. Sforzavasi nondimeno di parlare, e rispondendo a sua madre intorno al suo viaggio spesso so"idea di un mesto sorriso tutto suo: ma aveva un'aria riservata, insolita in lui. Avendogli io detto che certi suoi amici sarebbero venuti quel dì a salutarlo, rispose, che non vorrebbe rivedere persona del mondo, anzi scese egli stesso ad a'l}'l}ertire alla porta perché si dicesse eh'ei non era tornato. E rientrando, soggiunse: Spesso ho pensato di non dare né a te né a mia madre tanto dolore; ma io aveva bisogno di rivedervi ... e questo, credimi, è l'esperimento più forte del mio coraggio. Poche ore prima di sera egli si alzò, come per partire, ma non gli soffriva il cuore di dirlo. Sua madre gli si accostò: Hai dunque risoluto, mio caro figliuolo ? Sì, sì; abbracciandola e frenando a stento le lagrime. Chi sa se potrò più rivederti ? io sono ormai vecchia e stanca. Ci rivedremo, forse ... mia cara madre, consolatevi, ci rivedremo .•. per non lasciarci mai più: ma adesso .•. adesso: - ne può far fede Lorenzo. Ella si, volse impaurita verso di me, ed io Pur troppo! k dissi. E le narrai le persecuzioni che tornavano a incrudelire per la guerra imminente, ed il pericolo che sovrastava a me pure, massi.me dopo quelle lettere che ci furono intercette: (né erano f aln i miei sospetti perché dopo pochi men fui costretto ad abbandonare la patria). Ed ella allora esclamò: Vivi mio figliuolo, benché lontano da me. Dopo la morte di tuo padre non ho più avuta un'ora di bene: sperava di passar teco la mia vecchiezzat ••• ma sia fatta la volontà del Signore. Vivi! io scelgo di piangere senza di te piuttosto che vederti .•. imprigionato ... morto. J si.nghioz:zi le soffocavano la parola. Jacopo le strinse la mano e la guardava come se volesse affidarle un secreto,· ma ben tosto si, ricompose, e le chiese la sua benedizi"o~. Ed ella alzando le mani al cielo: Ti benedico ... ti benedico; e piaccia anche all'Onnipotente di benedirti. ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 689 Avvicinatasi alla scala s'abbracciarono. Quella donna sconsolata appoggiò la testa sul petto del suo figliuolo. Scesero, io li seguiva: la madre lo benedisse di nuow, ed ei le ribaciò la mano, e la baciò in volto. Io stava piangente: dopo avermi baciato mi promise di scrivermi e mi lasciò dicendomi: Sovvengati sempre della nostra amicizia. Poi rivoltosi alla madre la guardò un pezzo senza far motto e parti. Giunto in fondo alla strada si rivolse, e ci salutò con la mano, e ci mirò mestamente, come se volesse dirci che quello era l'ultimo sguardo. La povera madre si fermò su la porta quasi sperando eh'egli tornasse a risalutarla. Ma volgendo gli occhi lagrimosi dal luogo dond'ei se l'era dileguato, s'appoggiò al mio braccio e risali dicendomi: Caro Lorenzo, mi dice il cuore, che non lo rivedremo mai più. Un vecchio sacerdote di assidua famigliarità nella casa dell'Ortis, e che gli era stato maestro di greco, venne quella sera e ci narrò, che Jacopo era andato alla chiesa dooe Lauretta fu sotterrata. Trooatala chiusa, voleva farsi aprire a ogni patto dal campanaro,· e regalò un fanciullo del vicinato perché andasse a cercare del sagrestano che avea le chiavi. S'assise, aspettando, sopra un sasso nel cortile. Poi si levò ed appoggiò la testa su la porta della chiesa. Era quasi sera, quando accorgendosi di gente nel cortile senza più attendere si dileguò. Il vecchio sacerdote avea udite queste cose dal campanaro. Seppi alcuni giorni dopo, che Jacopo sulfar della notte era andato a trooare la madre di Lauretta. Era, mi diss'ella, assai tristo; non mi parlò mai della mia povera figliuola, né io l'ho nominata mai per non accorarlo di più: scendendo le scale mi disse: = andate, quando potrete, a consolare mia madre. Per acquetare sua madre e i miei funesti presentimenti deliberai di accompagnarlo sino ad Ancona. Egli frattanto torn(lf)a a Padooa e smontò in casa del professore e••• dooe nposò il resto della notte. La mattina accomiatandosi gli furono dal professore offerte kttere per certi gentiluomini delle isole già Venete i quali nel tempo addietro gli erano stati discepoli. Jacopo né le accettò, né le ricusò. Tornò a piedi a' colli Euganei, e si pose subito a scn·vere. venerdl, ore I. E tu mio Lorenzo, mio leale ed unico amico .•• perdona. Non ti raccomando mia madre •.. io so che avrà in te un altro figliuolo. O madre mia! ma tu non avrai più il figlio sul seno di cui speravi 44 690 PROSB di riposare il tuo capo canuto ... né avrai potuto riscaldare queste labbra morenti co' tuoi baci? e forse ..• tu mi seguiraiI - Io vacillava o Lorenzo ... È questa la ricompensa dopo ventiquattro anni di speranze e di cure? •.• Ma sia cosil .•. il cielo che ha tutto destinato non l'abbandonerà ... né tul Lorenzo; finché io non bramava che un amico fedele, io vissi felice. Il cielo te ne rimeriti! Ma t'aspettavi ch'io ti pagassi di lagrime? ••. or via, ti consola ... ti consola. La mia vita ti sarebbe più dolorosa della mia morte. Queste carte le darai al padre di Teresa. Raduna i miei libri e serbali per memoria del tuo Jacopo. Raccogli Michele a cui lascio il mio oriuolo, questi miei pochi arredi, e i danari che tu troverai nel cassettino del mio scrittoio ••. Vieni, devi aprirlo tu solo: v'è una lettera per Teresa; io ti prego di recargliela secretamente tu stesso. Addio addio. Poi continuò la lettera eh'egli aTJea incominciato a scriTJere a Teresa. Torno a te mia Teresa. Se mentre io viveva era colpa per te l'ascoltarmi ... ascoltami adesso •.• io ti consacro le poche ore che mi disgiungono della morte; e le consacro a te sola. Avrai questa lettera quando io sarò esangue sotterra; e da quel momento tutti forse incomincieranno ad obbliarmi, finché niuno più si ricorderà del mio nome ... ascoltami come una voce che vien dal sepolcro. Tu piangerai i miei giorni svaniti al pari di una visione notturna: tu piangerai il nostro amore che fu inutile e oscuro come le lampade che rischiarano le sepolture de' mortiI Oh sl, mia Teresa, dovevano pure una volta finir le mie pene: e la mia mano non trema nell'armarsi del ferro liberatore poiché abbandono la vita mentre tu m'ami ••• mentre sono ancora degno di te, e degno del tuo pianto, ed io posso sacrificarmi a te sola, ed alla tua virtù. No; allora non ti sarà colpa l'amarmi •.. ed io lo pretendo il tuo amore; io lo chiedo in vigore delle mie sventure, dell'amor mio, e del tremendo mio sacrificio. Ah se tu un giorno passassi senza gettare un'occhiata su la terra che coprirà questo giovine sconsolato ••. me miserol io avrb lasciata dietro di me l'eterna dimenticanza anche nel tuo cuorel Tu credi ch'io parta. Io? ... ti lascierò in nuovi contrasti con te medesima, ed in continua disperazione? E mentre tu m'ami, ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 691 ed io t'amo, e sento che t'amerò eternamente, ti 1ascierò per la speranza che la nostra passione s'estingua prima de' nostri giorni? No; la morte sola, la morte. Io mi scavo da gran tempo la fossa, e mi sono assuefatto a guardarla giorno e notte, e a misurarla freddamente ... e appena appena in questi estremi la natura rifugge e grida ... ma io ti perdo, ed io morrò. - Tu stessa, tu mi fuggivi; ci si contendeano le Iagrime ... E non t'avvedevi nella mia tremenda tranquillità ch'io prendeva da te gli ultimi congedi, e ch'io ti domandava l'eterno addio? Che se il Padre degli uomini mi chiamasse a rendimento di conti, io gli mostrerò le mie mani pure di sangue, e puro di delitti il mio cuore. lo dirò: non ho rapito il pane agli orfani ed alle vedove; non ho perseguitato l'infelice; non ho tradito; non ho abbandonato l'amico; non ho turbata la felicità degli amanti, né contaminata l'innocenza, né inimicati i fratelli, né prostrata la mia anima alle ricchezze ... Ho spartito il mio pane con l'indigente; ho confuse le mie lagrime con le lagrime dell'afflitto; ho pianto sempre su le miserie della umanità ... Se tu mi concedevi una patria io avrei speso il mio ingegno e il mio sangue tutto per lei; e nondimeno la mia debole voce ha gridato coraggiosamente la verità: corrotto quasi dal mondo, dopo avere sperimentati tutti i suoi vizii ... ah no! i suoi vizii mi hanno per brevi istanti forse contaminato, ma non mi hanno mai vinto ... ho cercato virtù nella solitudine. Ho amatoI ... tu stesso, tu mi hai presentata la felicità, tu l'hai abbellita de' raggi della infinita tua luce, tu mi hai creato un cuore capace di sentirla e di amarla ..• ma dopo mille speranze ho perduto tuttol ed inutile agli altri, e dannoso a me stesso, mi sono liberato dalla certezza di una perpetua miseria. Godi tu, Padre, de' gemiti della umanità; pretendi tu che ella sopporti le sventure quando sono più violenti delle sue forze? o forse hai conceduto al mortale il potere di troncare i suoi mali perché poi trascurasse il tuo dono strascinandosi scioperato tra il pianto e le colpe? Ed io sento in me stesso che gli estremi mali non hanno che la colpa o la morte. - Consolati, Teresa, quel Dio a cui tu ricorri con tanta pietà, se degna d'alcuna cura la vita e la morte di una umile creatura, non ritirerà il suo sguardo neppure da me. Egli sa ch'io non posso resistere più, egli ha veduto i combattimenti che ho sostenuto prima di giungere alla risoluzione fatale ... ed ha udito con quante preghiere l'ho supplicato, perché mi allontanasse 692 PROSE questo calice amaro. Addio dunque ... addio all'universo! - O amica miaI la sorgente delle lagrime è in me dunque inesausta? io torno a piangere e a tremare ... ma per poco; tutto in breve sarà finito. Ahil le mie passioni vivono, ed ardono, e mi possedono ancora: e quando la notte eterna rapirà il mondo a questi occhi, allora solo seppellirò meco i miei desiderii e il mio pianto. Ma gli occhi miei lagrimosi ti cercano ancora prima di chiudersi per sempre. Ti vedrò, ti vedrò per l'ultima volta, ti lascierò gli ultimi addio, e prenderò da te le tue lagrime, unico frutto di tanto amore! lo giungeva alle ore 5 da Venezia e lo incontrai pochi passi fuori della sua porta mentr'ei s'a'O'lJiafJa appunto per dire addio a Teresa. La mia fJenuta improvvisa lo costernò, e molto più il mio divisamento di accompagnarlo sino ad Ancona. Me ne ringraziava affettuosamente e tentò ogni via di distarmene; ma veggendo ch'io persisteva si tacque, e mi richiese di andare seco lui sino a casa T• ••. Lungo il cammino non disse mai nulla; andava lento, ed aveva in fJOlto una mestissima sicurezza: ahi doveva pure accorgermi che in quel momento egli rivolgeva nell'animo i supremi pensieri! Entrammo per la porta del giardino e quivi fermandosi alzò gli occhi al cielo, e dopo alcun tempo proruppe guardandomi: Pare anche a te che oggi la luce sia più bella che mai?' Avoicinandoci alle stanze di Teresa io intesi la tJoce di lei . .. Il cuore non si può cangiare: né so se Jacopo che mi seguiva abbia udite queste parole; non ne parlò. Noi fJi trovammo il marito che passeggiava, e il padre di Teresa seduto nel fondo della stanza presso ad un tatJolino con la fronte su la palma della mano. Restammo gran tempo tutti muti. Jacopo finalmente, Domattina, disse, non sarò più con voi; ed alzandosi si accostò a Teresa e le baciò la mano, ed ,·o vidi le lagrime su gli occhi di lei,· e Jacopo tenendola ancora per mano la pregava perché facesse chiamare la Isabellina. Le strida ed il pianto di quella fanciulletta furono cosi improvvise ed inconsolabili che ni·uno di noi poté frenare le lagrime. Appena ella udi ch'ei partiva gli si attaccò al collo e singhiozzando gli ripeteva: o mio Jacopo perché mi lasci? ... o mio Jacopo torna presto: né potendo egli resistere a tanta pietà, posò l'lsabellina fra le braccia di Teresa, e Addio, disse, addio ... ed usci. - Il signore T••• lo accompagnò sino al limitar, 1. la luce .•• mai: vedi la nota I a p. 660. ULTIME LETTERE DI JACOPO 0RTIS (1802) 693 della casa e lo abbracciò più volte, e lo baciò lagrimando, lasdandoci senza poter proferire parola: Odoardo che gli era dietro ne strinse la mano, augurandoci il buon viaggio. Era già notte: non sì tosto fummo a casa egli ordinò a Michele di allestire il forziere, e mi pregò instantemente perché io tornassi a Padova per prendere le lettere offertegli dal professore e•••. lo partii sul fatto. Allora sotto la lettera che la mattina avea scritta per me aggiunse questo poscritto. Poiché non ho potuto risparmiarti il cordoglio di prestarmi gli ufficii supremi ... e già m'era, prima che tu venissi, risolto di scriverne al parroco ... aggiungi anche questa ultima pietà ai tanti tuoi beneficii. Fa ch'io sia sepolto, così come sarò trovato, in un sito abbandonato, di notte, senza esequie, senza lapide, sotto i pini del colle che guarda la chiesa. Il ritratto di Teresa sia sotterrato col mio cadavere. 23 marzo, 1799. L'amico tuo JACOPO ORTIS. Uscì nuovamente: alle ore II appiè di un monte due miglia discosto dalla sua casa, bussò alla porta di un contadino e lo destò domandandogli deltacqua, e ne bevve molta. Ritor11ato a casa dopo la mezzanotte, usci tosto di stanza e porse al ragazzo u11a lettera sigillata per me, raccomandandogli di consegnarla a me solo. E stringendogli la mano: Addio Michelel amami; e lo mfrava affettuosamente ... poi lasciandolo a un tratto rientrò, serrandosi dietro la porta. Continuò la lettera per Teresa. ore 1. Ho visitate le mie montagne, ho visitato il lago de' cinque fonti, ho salutato per sempre le selve, i campi, il cielo. O mie solitudini! o rivo, che mi hai la prima volta insegnato la casa di quella donna celestel quante volte ho sparpagliati i fiori su le tue acque che passavano sotto le sue finestre! quante volte ho passeggiato con Teresa per le tue sponde,, mentr'io, inebriandomi della voluttà di adorarla, votava a gran sorsi il calice della morte. Sacro gelsoI ti ho pure adorato; ti ho pure lasciati gli ultimi ge- PROSE miti, e gli ultimi ringraziamenti. Mi sono prostrato, o mia Teresa, presso a quel tronco ... quell'erba ha bevute le mie lagrime; mi pareva ancora calda dell'orma del tuo corpo divino ... mi pareva ancora odorosa. Beata sera! come tu sei stampata nel mio petto! ... io stava seduto al tuo fianco o Teresa, e il raggio della luna penetrando fra i rami illuminava il tuo angelico visoI io vidi scorrere su le tue guance una lagrima e l'ho succhiata, e le nostre labbra ... e i nostri respiri si sono confusi, e l'anima mia si trasfondea nel tuo petto.X Era la sera de' 13 maggio, era giorno di giovedì. Da indi in qua non è passato momento ch'io non mi sia confortato con la memoria di quella sera: mi sono reputato persona sacra, e non ho degnata più alcuna donna di un guardo credendola immeritevole di me ... di me che ho sentita tutta la beatitudine di un tuo bacio. T'amai dunque t'amai, e ti amo ancor di un amore che non si può concepire che da me solo. È poco prezzo, o mio angelo, la morte per chi ha potuto udir che tu l'ami, e sentirsi scorrere in tutta l'anima la voluttà del tuo bacio, e piangere teco ... lo sto col piè nella fossa; eppure tu anche in questo momento torni, come solevi, davanti a questi occhi che morendo si fissano in te, in te che sacra risplendi di tutta la tua bellezza. E fra pocol .. . Tutto è preparato; la notte è già troppo avanzata .•. addio .. . fra poco saremo disgiunti dal nulla, o dalla incomprensibile eternità. Nel nulla? - Sì, si; poiché sarò senza di te, io prego il sommo Iddio, se non ci riserba alcun luogo ov'io possa riunirmi teco per sempre, lo prego dalle viscere dell'anima mia, e in questa tremenda ora della morte, perché egli m'abbandoni soltanto nel nulla. Ma io moro incontaminato, e padrone di me stesso, e pieno di te, e certo del tuo pianto! .•. Perdonami, Teresa, se mai ... Consolati, e vivi per la felicità de' nostri n1iseri genitori; la tua morte farebbe maledire le mie ceneri. Che se taluno ardisse incolparti del mio infelice destino, confondilo con questo mio giuramento solenne ch'io pronunzio gittandomi nella notte della morte: Teresa è innocente. Addio, addio ... accogli l'anima mia. I. Mi sono •.• petto: vedi in lettera all'Arese: a Mi sono gettato su quel letto, e mi sembrava ancora caldo dell'orma del tuo corpo divino .•• mi ·sembrava ancora odoroso. Oh primo giorno! come tu sei stampato nel mio pettoI• (Epistolario, 1, p. J19). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) 695 Il ragazzo, che dormiva nella camera contigua ali'appartamento di Jacopo, fu scosso come da un lungo gemito: tese l'orecchio per intendere s'ei lo chiamava,· aprl la finestra sospettando ch'io avessi gridato all'uscio, poiché stava avvertito ch'io sarei tornato sul fare del dì; ma chiaritosi che tutto era qui'ete e la notte ancora fitta, tornò a coricarsi e si addormentò. Mi disse poi che quelgemi'to gli avea fatto paura, ma che non vi pose mente perché il suo padrone soleva sempre agitarsi fra il sonno. La mattùia, Michele dopo avere bussato e chiamato invano alla porta, sforzò il chiavistello e non sentendosi rispondere nella prima stanza, s'innoltrò palpitando, ed al lume della candela che ancora ardea gli si affacciò Jacopo immerso nel proprio sangue. Spalancò le finestre chiamando gente; e poiché niuno accorreva, volò cercando il chirurgo, ma non lo trovò perché assisteva a un moribondo; volò al parroco, ed anch'egli era fuori per lo stesso motivo. Entrò ansante in casa T•• • pia,zgendo e raccontando a Teresa la quale fu prima ad abbattersi in lui, che il suo padrone s'era ferito, ma che gli parea che 1ion fosse ancora morto. Teresa dopo due passi tramorti, e restò per lunga ora s1mza sensi fra le braccia di Odoardo. Il signore T• • • accorse sperando di salvare la vita del nostro misero amico. Lo trovarono steso sopra un so/à con tutta quasi la faccia nascosta fra i cuscirii; immobile, se non che ad ora ad ora anelava. S'era piantato un pugnale sotto la mammella sinistra,· ma se l'era tratto dalla ferita, e gli era caduto a terra. Il suo abito nero e il suo fazzoletto da collo stavano gittati sopra una sedia vicina. Era vestito del gilé, de' calzoni lunghi, e degli stivali, e cinto di una fascia larghissima di seta di cui un capo pendeva insanguinato perché egli forse, morendo, tentò di svolgersela dal corpo. Il sig11ore T••• gli sollevava lievemente dalla ferita la camicia, che tutta inzuppata di sangue gli si era attaccata sul petto: Jacopo si rise11tì, ed alzò il viso verso di lui e guardandolo con gli occhi nuotanti nella morte stese un braccio per impedirlo, e tentava con l'altro di stringergli la ma110 ••. ma ricascando con la testa sui guanciali, levò gli occhi al cielo e spirò. La ferita era assai larga e profonda, e sebbene non avesse colpito nel cuore, egli si affrettò la morte perdendo il sangue che scorreva a n·'Vi per la stanza. Gli pende'I.Ja dal collo il ritratto di Teresa tutto nero di sangue rappreso se non che era alquanto polito nel mezzo,· e le labbra 696 PROSE insanguinate di Jacopo fanno congetturare eh'egli nell'agonia baciasse la immagine della ma amica. Stava su lo scrittoio la Bibbia chiusa, e sow'essa l'oriuolo; e presso van'i fogli bianchi, in uno de' quali era scritto: mia cara madre: e da poche linee cassate appena si potea rilevare, espiazione ..• e più sotto, di pianto eterno. In un altro foglio ti leggeva soltanto l'indirizzo a ma madre, come s'egli pentitosi della prima lettera ne afJesse incominciata un'altra che non gli basti, il cuore di terminare. Appena io giunsi da Padova ove fui costretto ad indugiare più ch'io non voleva, rimasi spaventato dalla calca de' contadini che piange'Oano sotto i portici del cortile; ed altri mi guardavano attoniti, e taluno mi pregava di non salire. Balzai tremando nella stanza e mi s'appresentò il padre di Teresa gettato disperatamente sopra il cadavere, e Michele ginocchione con la faccia per terra. lo non so come ebbi tanta forza d'fl'l)'l)icinarmi e di porgli una mano sul cuore presso la ferita .•. Era morto, freddo. Mi mancava il pianto e la voce .•• io stava guardando stupidamente quel sangue. Venne .finalmente il parroco e subito dopo il chirurgo, i quali con alcuni famigliari ci str•pparono a forza dal fiero spettacolo. Teresa visse in tutti que' giorni fra il lutto de' suoi in un mortale silenzio. - La notte mi strascinai dietro il cadavere che da tre lavoratori fu sotterrato ml monte de' pini. APPENDICE * 17 Marzo.• DA due mesi non ti do segno di vita, e tu ti se' sgomentato; e temi ch'io sia vinto oggimai dall'amore da dimenticarmi di te e della patria. Fratel mio Lorenzo, tu conosci pur poco me e il cuore umano ed il tuo, se presumi che il desiderio di patria possa temperarsi mai, non che spegnersi; se credi che ceda ad altre passioni - ben irrita le altre passioni, e n'è più irritato; ed è pur vero, e in questo hai detto pur benel L'amore in un'anima esulcerata, e dove le altre passioni sono disperate, riesce onnipotente - e io lo provo; ma che riesca funesto, t'inganni: senza Teresa, io sarei forse oggi sotterra. La Natura crea di propria autorità tali ingegni da non poter essere se non generosi; venti anni addietro si fatti ingegni si rimanevano inerti ed assiderati nel sopore universale d'Italia: ma i tempi d'oggi hanno ridestato in essi le virili e natie loro passioni; ed hanno acquistato tal tempra, che spezzarli puoi, piegarli non mai. E non è sentenza metafisica questa: la è verità che splende nella vita di molti antichi mortali gloriosamente infelici; verità di cui mi sono accertato convivendo fra molti nostri concittadini: e li compiango insieme e gli ammiro; da che, se Dio non ha pietà dell'Italia, dovranno chiudere nel loro secreto il desiderio di patria - funestissimoI perché o strugge, o addolora tutta la vita; e nondimeno anziché abbandonarlo, avranno cari i pericoli, e quel• Lettera ammessa in tutte le edizioni posteriori alla prima nella quale unicamente n legge: veggasi in fine della presente edizione la Notizia bibliografica, p. a.1 1. Nella Notizia bibliografica si legge: •Raffrontando questa del Genio tipografico con la precedente edizione, trovansi molti divarii; e di parecchi non è difficile il congetturarne i motivi. Cosl la lettera su la necessaria servitù dell'Italia non poteva essere pubblicamente letta, e che non provocasse lo sdegno e degl'italiani e de' francesi ad un tempo contro chi la avesse stampata» (Edizione Nazionale, 1v, p. 481). Relativamente al periodo in cui il Foscolo avrebbe composto questa lettera vedi M. Fus1N1, La lettera del z7 mar::o e l'edizione zurighese dell'•Ortù•, in Ortis e Didimo ecc., cit., pp. 223-52. 698 PROSE l'angoscia, e la morte. Ed io mi sono uno di questi;1 e tu, mio Lorenzo. Ma s'io scrivessi intorno a quello ch'io vidi, e so delle cose nostre, farei cosa superflua e crudele ridestando in voi tutti il furore che vorrei pur sopire dentro di me: piango, credimi, la patria - la piango secretamente, e desidero, che le lagrime mie si spargan sole.• Un'altra specie d'amatori d'Italia si quereli ad altissima voce a sua posta. Esclamano d'essere stati venduti e traditi: ma se si fossero armati sarebbero stati vinti forse, non mai traditi; e se si fossero difesi sino all'ultimo sangue, né i vincitori avrebbero potuto venderli, né i vinti si sarebbero attentati di comperarli. Se non che moltissimi de' nostri presumono che la libertà si possa comperare a danaro; presumono che le nazioni straniere vengano per amore dell'equità a trucidarsi scambievolmente su' nostri campi onde liberare l'Italia! Ma i francesi che hanno fatto parere esecrabile la divina teoria della pubblica libertà, faranno da Timoleoni in pro nostro ?2 - Moltissimi intanto si fidano nel Giovine Eroe nato di • Petrarca.3 I. La natura .•. uno di questi: vedi i discorsi Della seroit,ì del/'Italia, Ai Senatori del Regno d'Italia: •La natura crea di propria autorità tali ingegni da non potere se non essere generosi: ben vi sono tempi nei quali ingegni si fatti si rimangono miseramente inerti ed assiderati dalla servile stupidità universale: ma se tempi propizi ridestano in essi le virili e natie loro passioni, acquistano cotal tempra, che spezzarli puoi, piegarli non mai. E non è sentenza metafisica questa; la è verità che splende luminosissima nella vita di molti mortali gloriosamente infelici; verità di cui potrete con giornalieri esperimenti accertarvi nella gioventù nata o cresciuta da che ritalia ritornò a desiderare indipendenza, e leggi e costumi; se non che voi non avreste forse né occhi né vocazione da discernere, fra la moltitudine de' vostri conservi, que' giovani. Ben io li conosco, e li compiango insieme e gli ammiro: da che se Dio non ha pietà dell'Italia, dovranno chiudere nel loro petto il desiderio di Patria, funestissimo!, perché o strugge o addolora tutta la vita; e nondimeno, anziché abbandonarlo, avran cari i pericoli, e quell'angoscia, e la morte. Or io, sentendomi uno di questi, mi tengo d'assai più di voi; e vi parlo dall'alto• (Edizione Nazionale, v111, p. 236). 2. Ma i francesi ••• nostro?: per analogo giudizio, ma su Napoleone, vedi i discorsi Della servitù dell'Italia, Questioni intorno alla indipendenza italiana: u Or sia che, ravveduto, dopo d'avere nella sua prima tragicommedia sostenute le parti di Nadir Shah, ora reciti da Timoleone • (Edizione Nazionale, VIII, p. 264). 3. Rime, xv111, 14. ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) • APPENDICE 699 sangue italiano; nato dove si parla il nostro idioma. Io da un animo basso e crudele, non m'aspetterò mai cosa utile ed alta per noi.1 Che importa ch'abbia il vigore e il fremito del leone, se ha la mente volpina, e se ne compiace? Si; basso e crudele - né gli epiteti sono esagerati. A che non ha egli venduto Venezia con aperta e generosa ferocia? Selim I che fece scannare sul Nilo trenta mila guerrieri Circassi arresisi alla sua fede, e Nadir Schah che nel nostro secolo trucidò trecento mila Indiani, sono più atroci, bensi meno spregevoli.2 Vidi con gli occhi miei una costituzione democratica postillata dal Giovine Eroe, postillata di mano sua, e mandata da Passeriano a Venezia perché s'accettasse; e il trattato di Campo Formio era già da più giorni firmato e Venezia era trafficata; e la fiducia che l'Eroe nutriva in noi tutti ha riempito Pltalia di proscrizioni, d'emigrazioni, e d'esilii. - Non accuso la ragione di stato che vende come branchi di pecore le nazioni: così fu sempre, e così sarà: piango la patria mia, che mi fu tolta, e il modo ancor m'offende.• Nasce italiano, e soccorrerà un giorno alla patria: - altri sei creda; io risposi, e risponderò sempre: La Natura lo ha creato tiranno: e il tiranno non guarda a patria; e non l'ha. Alcuni altri de' nostri, veggendo le piaghe d'Italia, vanno pur predicando doversi sanarle co' rimedi estremi necessari alla libertà. Ben è vero, l'Italia ha preti e frati; non già sacerdoti: perché dove • Dante, b,f., canto v. [102]. J. Moltissimi . .. per noi: per analogo giudizio vedi i discorsi Della servit1ì dell'Italia, De• gi11ramenti: •Non io fiderò in chi, potendo redimere una volta l'Italia [...] tolse invece di atterrare in Italia la più venerabile fra le repubbliche; istigò gl•Italiani alla libertà, e fe• loro vieppiù sentire il servaggio; insanguinò di due milioni di cadaveri tutta l'Europa; disonorò le nuove istituzioni, e fece parere necessarie l'antiche inquisizioni, e i roghi frateschi; e lasciò la mia patria più serva, più disprcgevole. e più sciaguratamente smembrata che per l'addietro» (Edizione Nazionale. v111, p. 303). 2. Selim I ... spregevoli: vedi Sull'origine e i limiti della giwtizia: •E senza amare Nadir Shah, che fe• trucidare in un giorno trecentomila Indiani, né Selim I, che fe• annegare in poche ore un esercito di Circassi [...] • (Edizione Nazionale. vu. p. 179)1 e i discorsi Della servitù de/Cltalia, Ai Senatori del Regno d'Italia: «Onde io, abborrendo Nadir Shah che fe' trucidare in un giorno trecentomila. Indiani. e Selim I che fece affogare nel Nilo un esercito di Circassi arresisi alla sua fede [.•.] • (Edizione Nazionale, VIII, p. 203). 700 PROSE la religione non è inviscerata nelle leggi e ne• costumi d•un popolo, Pamministrazione del culto è bottega. L'Italia ha de' titolati quanti ne vuoi; ma non ha propriamente patrizii: da che i patrizii difen-- dono con una mano la repubblica in guerra, e con l'altra la governano in pace; e in Italia sommo fasto de' nobili è il non fare e il non sapere mai nulla. Finalmente abbiamo plebe; non già cittadini; o pochissimi. I medici, gli avvocati, i professori d'università, i letterati, i ricchi mercatanti, l'innumerabile schiera degl'impiegati fanno arti gentili, essi dicono, e cittadinesche; non però hanno nerbo e diritto cittadinesco. Chiunque si guadagna sia pane, sia gemme con l'industria sua personale, e non è padrone di terre, non è se non parte di plebe; meno misera, non già meno serva. Terra senza abitatori può stare; popolo senza terra, non mai: quindi i pochi signori delle terre in Italia, saranno pur sempre dominatori invisibili ed arbitri della nazione.1 Or di preti e frati facciamo de' sacerdoti; convertiamo i titolati in patrizii; i popolani tutti, o molti almeno, in cittadini abbienti, e possessori di terre - ma badiamo! senza carnificine; senza riforme sacrileghe di religione; senza fazioni; senza proscrizioni né esilii; senza aiuto e sangue e depredazioni d'armi straniere; senza divisione di terre; né leggi agrarie; né rapine di proprietà famigliari - da che se mai (a quanto 1. Ben~ vero . •. nazione: per analogo e più articolato giudizio vedi nei discorsi Della servitù dell'Italia, Questioni intorno alla indipendenza italiana: a Non v'è indipendenza mai senza popolo, senza nobili e senza sacerdoti. Nessuna di queste tre cose ha i-Italia[...]. E' vi parranno paradossi; ma udite, e le saranno patentissime verità. Ogni politica società è costituita non tanto dagli abitanti, quanto dal suolo: e' può darsi terra senza abitanti, non comunità d'uomini senza terra. E dove la più gran parte degli abitanti non possiede la terra, e dove tutti non possono secondo la loro industria, non dico nutrirsi, ma godere abbondantemente de' frutti della terra [.•.] ivi non può esservi popolo. lvi la universalità non è popolo, è plebe, a cui bisogna dare pane quanto basta, un altare qualunque, e un carnefice [...] », e più oltre: «Considerate l'Italia, e vedrete che non può avere libertà, perché non v'è libertà senza leggi; né leggi senza costumi, né costumi senzn religione, né religione senza sacerdoti; né patria insomma senza cittadini; non repubblica, perché non v'è popolo; non monarchia, perché non vi sono patrizi 1; più oltre ancora: cr Parrà a voi solennissimo paradosso che l'Italia non abbia né patrizi né sacerdoti? Così è. Chi son eglino i nobili? i princi• pali per sapere, e per valore, e per gentilezza [•..]. Or nobile in Italia [.•.] esprime un uomo che possiede per eredità titoli vani, e terre ch'ei, per giunta, lascia in mano d'agenti. Le sole terre costituiscono il diritto di cittadino: ma chi non si serve, né con l'armi né nel governo, di questo diritto, vedete a che lo riduce: a pagare una parte de' frutti ad un governo qualunque, e a divorarsi il rimanente in ogni modo qualunque» (Edizione Nazionale, VIII, pp. 277, 278 e 279). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) · APPENDICE 701 intesi ed intendo) se mai questi rimedi necessitassero a liberarne dal nostro infame perpetuo servaggio, io per me non so cosa mi piglierei - né infamia, né servitù : ma neppur essere esecutore di si crudeli e spesso inefficaci rimedi - se non che all'individuo restano molte vie di salute; non fosse altro il sepolcro: - ma una nazione non si può sotterrar tuttaquanta. E però, se scrivessi, esorterei l'Italia a pigliarsi in pace il suo stato presente,1 e a lasciare alla Francia la obbrobriosa sciagura di avere svenato tante vittime umane alla Libertà - su le quali la tirannide de' Cinque, o de' Cinquecento, o di Un solo - torna tutt'uno - hanno piantato e pianteranno i lor troni; e vacillanti di minuto in minuto, come tutti i troni che hanno per fondamenta i cadaveri. Il lungo tempo da che non ti scrivo non è corso perduto per me; credo invece d'avere guadagnato anche troppo - ma guadagni fatali! Il signore T••• ha moltissimi libri di filosofia politica, e i migliori storici del mondo moderno: e tra per non volermi trovare assai spesso vicino a Teresa, tra per noia e per curiosità, due vigili istigatrici del genere umano - mi son fatto mandare que' libri; e parte n'ho letto, parte ne ho scartabellato, e mi furono tristi compagni di questa vernata. Certo che più amabile compagnia mi parvero gli uccelletti i quali cacciati per disperazione dal freddo a cercarsi alimento vicino alle abitazioni degli uomini loro nemici, si posavano a famiglie e a tribù sul mio balcone dov'io apparecchiava loro da desinare e da cena - ma forse ora che va cessando il loro bisogno non mi visiteranno mai più.2 Intanto dalle mie lunghe letture ho raccolto: Che il non conoscere gli uomini è pur cosa pericolosa; ma il conoscerli quando non s'ha cuore da volerli in- 1. E però • .. presente: per analoga e più articolata motivazione vedi i discorsi Della servitù dell'Italia, De' giuramenti: • L'Italia adunque, in tale necessità, che può ella dal suo canto richiedere a Casa d'Austria? Questo: riposo; non altro: e si necessario è il riposo a' popoli che nelle sanguinose agitazioni non possono pervenire se non a condizione peggiore assai della prima, che io primo desidero per quella sciagurata nazione, io consiglio, io grido sempre uRiposo". Ma il rimedio necessario a un popolo che nella sua morte politica non muore, non è sempre onesto per gl'individui, a cui rimane ultimo porto [o/ondo] della ignominia il morire. Purtroppo io mi son uno di questi [..•] • (Edizione Nazionale, VIII, p~ 306). :z. Certo che ••• mai più: in lettera a Quirina Mocenni Magiotti: • Qui con questo freddo [...] chiuso nella mia stanza, non godo se non se della compagnia, numerosissima e graziosa, a dir vero, ma taciturna degli uccelli, a' quali apparecchio fuor delle invetriate da colazione, da desinare, da merenda e da cena ogni giorno [.•.] • (vedi nel tomo II la lettera 98). PROSE gannare è pur cosa funestai Ho raccolto: Che le molte opinioni de, molti libri, e le contraddizioni storiche, t>inducono al pirronismo e ti fanno errare nella confusione, e nel caos, e nel nulla: ond,io, a chi mi stringesse o di sempre leggere, o di non leggere mai, mi torrei di non leggere mai; e cosi forse farò.1 Ho raccolto: Che abbiamo tutti passioni vane com'è appunto la vanità della vita; e che nondimeno si fatta vanità è la sorgente de' nostri errori, del nostro pianto, e de' nostri delitti. Pur nondimeno io mi sento rinsanguinare più sempre nell'anima questo furore di patria: e quando penso a Teresa- e se sperorientro in un subito in me assai più costernato di prima; e ridico: Quand'anche l'amica mia fosse madre de' miei figliuoli, i miei figliuoli non avrebbero patria; e la cara compagna della mia vita se n'accorgerebbe gemendo. - Pur troppo! alle altre passioni che fanno alle giovinette sentire sulraurora del loro giorno fuggitivo i dolori, e più assai alle giovinette italiane, s'è aggiunto questo infelice amore di patria. Ho sviato il signore T•• • da' discorsi di politica, de' quali si appassiona - sua figlia non apriva mai bocca: ma io pur m'avvedeva come le angosce di suo padre e le mie si rovesciavano nelle viscere di quella fanciulla. Tu sai che non è femminetta volgare: e prescindendo anche da' suoi interessi - da che in altri tempi avrebbe potuto eleggersi altro marito - è dotata d'animo altero, e di signorili pensieri. E vede quanto m'è grave quest'ozio di oscuro e freddo egoista in cui logoro tutti i miei giorni - davvero, Lorenzo; anche tacendo, io paleso che sono misero e vile dinanzi a me stesso. La volontà forte e la nullità di potere in chi sente una passione politica lo fanno sciaguratissimo dentro di sé: e se non tace, lo fanno parere ridicolo al mondo; si fa la figura r. Intanto •.. f arlJ: vedi in lettera alla contessa d'Albany: • In que' mesi delle mie corse ho letto assai libri; e (dalle gazzette in fuori) tutti gli scartafacci che mi capitavano innanzi [...]. Intanto da mczz'Ottobre in qua mi sono ridotto in questo tugurio dove non ho più libri; e fra il leggerne troppi, o nessuno, non so cosa mi piglierei; credo nessuno. Vcdo che Baylc a forza di leggere, di esaminare e raffrontare, e pesare per trovare la verità, l'ha perduta; e non solo e' confessa, ma si gloria quasi d'averla perduta;[..•]. Dall'altra parte Cartesio gittò via, a quanto ci scrive di sé, tutti i libri; e cercò la verità meditando; [..•]. Chi de' due fu meno infelice nel mondo? A me pare Cartesio: che se Bayle non fu atterrito dn quel suo pirronismo, se trovò in tutte le cose discordia, e incertezza, ed errore, e notte perpetua, e nondimeno fu sl forte d'animo da tenere aperti ognissempre gli occhi in quel Caos, io lo giudicherei l'intelletto più eroico che abbia creato mai la Natura D (Epistolario, v1, p. 160). ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS (1802) • APPENDICE 703 di paladino da romanzo e d'innamorato impotente della propria città. Quando Catone s'uccise, un povero patrizio, chiamato Cozio, lo imitò: l'uno fu ammirato perché aveva prima tentato ogni via a non servire; l'altro fu deriso perché per amore della libertà non seppe far altro che uccidersi. Ma qui stando, non foss'altro co' miei pensieri, presso a Teresa - perch'io regno ancor tanto sopra di me, ch'io lascio passare tre e quattro giorni senza vederla - pur il solo ricordarmene mi fa provare un foco soave, un lume, una consolazione di vita - breve forse, ma divina dolcezza - e cosi mi preservo per ora dalla assoluta disperazione. E quando sto seco - ad altri forse noi crederesti, o Lorenzo, a me sì - allora non le parlo d'amore. È mezz'anno oramai da che l'anima sua s'è affratellata alla mia, e non ha mai inteso uscire fuor delle mie labbra la certezza ch'io l'amo. - Ma e come non può esserne certa? - Suo padre giuoca meco a scacchi le intere serate: essa lavora seduta accanto a quel tavolino, silenziosissima, se non quanto parlano gli occhi suoi; ma di rado: e chinandosi a un tratto non mi domandano che pietà. - E qual'altra pietà posso mai darle, da questa in fuori di tenerle, quanto avrò forza, tenerle occulte come più potrò tutte le mie passioni? Né io vivo se non per lei sola: e quando anche questo mio nuovo sogno soave terminerà, io calerò volentieri il sipario. La gloria, il sapere, la gioventù, le ricchezze, la patria, tutti fantasmi che hanno fino ad or recitato nella mia commedia, non fanno più per me. Calerò il sipario; e lascierò che gli altri mortali s'affannino per accrescere i piaceri e menomare i dolori d'una vita che ad ogni minuto s'accorcia, e che pure que' meschini se la vorrebbero persuadere immortale. Eccoti con l'usato disordine, ma con insolita pacatezza risposto alla tua lunga affettuosissima lettera: tu sai dire assai meglio le tue ragioni: - io le mie le sento troppo; però paio ostinato. - Ma s'io ascoltassi più gli altri che me, rincrescerei forse a me stesso: e nel non rincrescere a sé, sta quel po' di felicità che l'uomo pub sperar su la terra. RAGGUAGLIO D'UN'ADUNANZA DELL'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) NOTA INTRODUTTIVA Dopo che nel 1808 l'articolo, materialmente redatto da Pietro Borsieri, e probabilmente ispirato dal Foscolo, Sopra i versi. di Cesare Arici in morte di Giuseppe Trenti (lo si veda in Edizione Nazionale, vu, pp. 405-12), aveva suscitato lo sdegno interessato di Vincenzo Monti nei confronti del suo antico difensore, e recente e scomodo collaboratore, nuova, e questa volta decisiva, occasione al latente dissidio tra i due poeti era costituita dal saggio foscoliano sulla Traduzione de' due primi canti dell'Odissea del Pindemonte (qui nel tomo 11), e dalle polemiche che ad esso seguirono. Al Foscolo che gli aveva sottoposto, prima della pubblicazione, l'articolo sopra citato (vedi Epistolario, 111, p. 371), il Monti replicava seccamente: • Ho letto, poiché l'avete voluto, il vostro articolo intorno ad Omero. Una volta ve ne avrei detto il mio parere; ma ora mi veggo tolto da qualche tempo questo diritto, e mi astengo ben volentieri da ogni consiglio. Stampatelo pur dunque e state sano» (Epistolario di VINCENZO l\1oNTI raccolto ordinato e annotato da Alfonso Berto/di, Firenze, Le Monnier, III, 1929, p. 330). Era la spia di un'irritazione che, causata nella fattispecie dall'imbarazzante e coinvolgente anticonformismo foscoliano, doveva condurre il Monti ad allearsi, pur senza mai apparire pubblicamente, con quanti, suoi avversari di un tempo, come Urbano Lampredi, avevano da sempre ravvisato nel Nostro, un propagatore di «false, stravaganti, e perniciose dottrine letterarie», ergentesi, per giunta, a loro giudice, in guanto «cortigiani, delatori, o persone vendute ad un Governo oppressore• (vedi Delle guerre letterarie contro Ugo Foscolo. Ricerche di G. ANTONIO MARTINETrl, Roma-Torino-Milano-Firenze, Paravia, 1880, p. 45). Scriveva il Foscolo ad Isabella Teotochi Albrizzi, da Milano, il 14 maggio 1811: «E voi v'ingannate credendo ch'io mi compiaccia di guerricciuole letterarie; davvero, Isabella mia, v'ingannate. Io anzi mi pento e mi pentirò finché avrò vita, e come di colpa disonestissima, delle pagine inserite nel giornale del Rasori. [...] Or a me duole; non già delle basse calunnie che si sono vociferate da' letterati contro di me; gli odii e le calunnie covavano sino dal giorno dell'orazione da me recitata in Pavia ; si aspettava tempo, e si cercava pretesto; e senza quell'articolo su l'Odissea, credete voi che il pretesto non si sarebbe un di o l'altro trovato per pubblicare gue' vituperii? Ma né gue' sciagurati che scrivevano, né i maligni che leggevano, credevano a que' vituperii • (Epistolario, III, pp. 514-5). Il contributo foscoliano all'Eunucomacliia si ridusse infatti solo al Ragguaglio d'un'adunanza dell'Accademia de' Pitagorici. Inedito rimase PROSE l'Ultimato di Ugo Foscolo nella guerra contro i ciarlatani, gl'impostori letterariedi pedanti (lo si veda in Edizione Nazionale, VII, pp.296-316), e solo nel 1816 vide la luce l'Hypercalypseos liber singularis (qui alle pp. 921-1010), mentre il capofila della congiura antifoscoliana, Urbano Lampredi, autore dell'articolo che indusse il Nostro a scendere pubblicamente in campo (vedi la nota I a p. 712), prima che il Ragguaglio circolasse, aveva già dato fuori una serie di articoli contro il Foscolo traduttore, nei numeri XXIII, XXIV, xxv e XXVI, del 9-30 giugno 181o, del «Corriere delle Dame », in forma di lettera Altamico Nicoro Siderita [Vincenzo Monti ferrarese] Astico Murena [Urbano Lampredi] (la si veda in G. A. MARTINETrI, op. cit., pp. 53-6), e ancora doveva intervenire nei numeri 144-, 146 e 147 del «Corriere Milanese n, del 16- 20 giugno 1810 (vedi G. A. MARTINETTI, op. cit., pp. 35-7), provocando un violento contrasto tra il poeta e Francesco Pezzi, estensore del «Corriere Milanese», nel quale, in qualità di mediatore del dissidio giunto sino ad una sfida a duello, prestò la sua opera anche Carlo Giovanni Lafolie, addetto per conto del Governo alla vigilanza dei giornali milanesi. Frattanto alla querelle si era aggiunta la voce del tipografo Niccolò Bettoni, con l'opuscolo Alcune verità ad Ugo Foscolo, di cui il «Corriere Milanese» dava puntualmente notizia nel numero 142, del 14 giugno 1810. A tale data si può affermare che la rottura del Foscolo con l'ambiente milanese era completa, e destinata a non più ricomponi. L'anno successivo infatti, la parte antifoscoliana svolta dal • Corriere Milanese» e dal «Corriere delle Dame» era assolta dal •Poligrafo », redatto da Luigi Lamberti, Urbano Lampredi e Francesco Pezzi, e fruente della non casuale collaborazione di uomini della cerchia del Monti, quali Angelo Anelli, Cesare Arici, Andrea Mustoxidi e Giulio Perticari. Su tale foglio il Lampredi aveva modo di sfogare il proprio livore antifoscoliano nelle seguenti scritture, comprese tra il giugno e il settembre del 1811: Tutti gli Omenoni, Litandro e Poligrafo (n. XIII), Dialogo sopra i Giornali Letterarii. Scaligero e Tiraboschi (n. XIV), Il Genio e le regole (n. XVI), Orazio e l'Abate Cesarotti (n. xvn), Quintiliano e il Padre Soave (n. XXI), e Gl'Inspirati (n. XXII). L'insuccesso della tragedia Aiace, rappresentata al Teatro alla Scala il 9 dicembre 181 1, e le maligne insinuazioni politiche circa il presunto spirito antinapoleonico che ne avrebbe informato la trama, e che dovevano valerle il ritiro dalle scene, dopo la seconda rappresentazione, cosi come il riattizzarsi della canea degli addetti ali'Eunucomachia (nel «Poligrafo» il Lampredi prendeva acidamente di mira l'Aiace, nei nn. xxxvn, XXXVIII e XXXIX, del 15, 22, 29 dicembre 1811, e nel n. 1, anno 11, del s gennaio, e ancora nel n. XIX, del 10 maggio 1812), indussero finalmente il Nostro, stante l'impossibilità di un civile confronto con l'ambiente culturale della L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) • NOTA INTRODUTTIVA 709 capitale del Regno, e vista la pericolosità dei nuovi sospetti politici addensatisi sul suo capo, ad afferrare l'opportunità che gli veniva tacitamente offerta, prendendo la via della Toscana, e di Firenze. «L'articolo ch'ella ha letto [vedi la nota 3 a p. 71 x] », scriveva il Foscolo a Giambattista Giovio, da ~ilano, il 25 maggio 1810, umi ha per mille accidenti occorsi in pubblico ed in privato, confortato a scrivere un romanzo fratello dell'Ortis; ma con altre tinte - con la tavolozza di Swift, dell'amico mio Lorenzo Sterne, di Don Chisciotte, di Platone» (Epistolario, 111, p. 385). E ad Isabella Teotochi Albrizzi, anche ribadiva: «[•••] rido come ridevano Rabelais, Sterne, e Cervantes [...] » (Epistolario, III, p. 5r 5). L'ambizione era forse superiore all'occasione, così che il presente testo, generosamente volto a spersonalizzare il meschino contraddittorio con l'articolo lamprediano, in minima misura sembra tener conto delle autorità sopra elencate. Swiftiano è certo l'amaro pessimismo sociale dei Pitagorici, così come l'insistita cura al ricavo dello scarno orpello narrativo non può non ricordare la cifra caratteristica dello stile sterniano, e se quasi una battaglia contro i mulini a vento può forse apparire, nel suo tumultuoso dipanarsi, il dibattito delPadunanza, e platonico è il taglio di un'operetta che dal movente occasionale trae spunto per approfondire e discutere questioni d'ordine generale, difficile sarebbe poi sostenere che in essa le singole componenti abbiano da ultimo raggiunto un omogeneo grado di fusione. Ciò che solo si verificherà nel miracoloso equilibrio della Notizia intorno a Didimo Chierico (la si veda alle pp. 903-13). Qui, il registro satirico, alimentato da una indignatio di marca ortisiana, criticamente nutrita di convincimenti di ascendenza ancora alfieriana, e relativi alla morale letteraria, all9identificazione di letterato e cittadino, alla funzione sociale e civile delle lettere, anche appare arricchito di quanto nella prolusione pavese il Foscolo aveva originalmente espresso circa la funzione ricoperta dalla parola e dall'eloquenza nella creazione di una cultura nel cui segno, abbattuti i tradizionali compartimenti stagni tra le due culture, a letterati e scienziati fosse egualmente dato riconoscersi, concorrendo, con generale vantaggio, a definire una comune fisionomia linguistica. Che è quanto, più tardi, in sede lessicografica, sarà assunto dal Monti nella Proposta. RAGGUAGLIO D'UN'ADUNANZA DELL'ACCADEMIA DE' PITAGORICI FRAMMENTO d'un libro inedito intitolato= Ragguaglio d'un'adunanza dell'Accademia de' Pitagorici, con l'epigrafe = Quod audivimus, quod vidimus oculis nostris, quod perspeximiu et manus nostrae contrectaverunt ... testamur et annuntiamus vobis. = IOHANNF.S AP. ep. 1.1 Alla stamperia del presente giornale2 s'è dato da pubblicare il libro che annunziamo. Qualunque ne sia l'autore e lo scopo a cui possa tendere, noi, dopo avere con curiosità esaminato il manoscritto, per compiacere alla persona che lo portò allo stampatore, crediamo di poter dire che il libro, in pieno, è dettato con un ridicolo nuovo forse in Italia, e con lo scopo di svelare le ciarlatanerie, le imposture e le malignità letterarie, onde richiamare se fosse possibile gli studii all'onore che loro conviene e all'utilità che gl'Italiani possono conseguire nel coltivarli. Il libro è diviso in otto capi, ed il capo v contiene una digressione intorno a' ragionamenti occasionati in parte da un articolo della precedente puntata de' nostri Annali;3 digressione che non pertanto giova allo scopo dell'autore. Ottenuto quindi il consenso del possessore del manoscritto, stampiamo il capo v4 suddetto come opportunissimo all'occasione. Non si possono per altro gustare né intendere tutte le allusioni letterarie di questo capo v, perché gli antecedenti quattro capi, e i tre susseguenti contengono le ragioni del libro, Io stato dell'Accademia, l'interpretazione d'ogni sua legge, i caratteri d'ogni accademico ec., cose tutte necessarie al frammento che presentiamo. 1. 1, 1-2 (« [•••] quello che udimmo, quello che vedemmo cogli occhi nostri, e contemplammo, e colle nostre mani palpammo [.•.] attestiamo, e annunziamo a voi [.•.] »). 2. presente giornale: gli «Annali di Scienze e Lettere», nel cui numero 5, del sgiugno 1810, vide la luce il presente testo. 3. un articolo . .. Annali: si tratta del saggio foscoliano sulla Traduzione de• due primi canti dell!Odissea ecc. del Pindemonte, pubblicato nel n. 4 degli • Annali 11, aprile 1810 (lo si veda nel tomo 11). 4. capo V: il solo, di fatto, condotto a termine e pubblicato. 712 PROSE CAPO QUINTO Dove s'incontra un'altra digressione in discolpa dell'Accademia. Le parole del Segretario m'hanno (mentr'io poco fa le scriveva) confermato nell'opinione, che l'esperienza, l'ingegno e l'ardire congiunti insieme basterebbero a creare profeti; poiché una cosa occorsa più giorni dopo, mostrò che il Segretario perpetuo sapea profetare. Stavano gli accademici la sera del 15 maggio più concordi del solito discorrendo della miseria di buone traduzioni dal greco in Italia, e si nominavano alcuni grecisti viventi che saprebbero arricchire la lingua nostra, ma che per timore di critiche se la passano in pace indifferentissima, quando apparve l'Araldo, e _intimò tre volte SILENZIO. Aveva in mano un foglio, e come tutti tacquero intenti, egli nel Corriere Milanese uscito in quel giorno lesse ad altissima voce l'articolo Varietà.' Non mi sarei disviato in un nuovo episodio; ma poiché sino ad ora ho senza umani rispetti parlato dell'Accademia, mi credo anche in debito di narrare un avvenimento che sebbene succeduto più giorni dopo assolverà i Pitagorici da una imputazione de' gazzettieri. L'Araldo leggeva - Milano, martedi I5 maggio. Varietà. Gli accademici, Pitagorici. sedenti in Milano (vedi il num. IV del giornale intitolato Annali di scienze e lettere pag. 63) nella loro privata adunanza .•• Molti accad. - ,, Come? » L'Araldo - Nella loro privata adunanza de' IO maggio co"ente • •• Gli accad. - ,, Privata? E non sa tutto il mondo, e non fu egli -scritto2 appunto nel giornale letterario citato, il quale ove parla de' Pitagorici noi dichiariamo esattissimo e degno della pubblica fede, non fu egli scritto e stampato che l'Accademia siede PUBBLICA- MENTE?» 1. Aveva ••• Vari'età: si tratta dell'articolo di Urbano Lampredi, pubblicato nel n. 116 del «Corriere Milanese•, del I s maggio 181o, e riprodotto nel n. xx del • Corriere delle Dame », del 19 maggio 181o (lo si veda in G. A. MARTINBTTr, op. cit., pp. 25-6). E vedi la Clavis dell'Jpercalisse, caput primum. va. 1, e la nota relativa, alle pp. 993-4. 2. E non ..• scritto: nel citato saggio foscoliano sulla Traduzione de' due primi canti dell'Odissea. L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 713 Un accademico - «Date dell'ignorante all'autore». Il Capo d'opposizione con colore di voce d'uomo che già sapeva ogni cosa - << Non sembra ignorante». Un altro accademico - «Dategli del balordo». Il Capo d'opposizione - «Non è certamente balordo». L'accademico - «Dategli dunque dell'impostore». - E molte voci rispondeano «può darsi». E trattanto il Presidente ripeteva le sue teorie geometricamente provate, cioè: cc Che ogni compagnia d'uomini oziosi i quali vogliono vivere sotto la santa libertà delle leggi devono parlare, ridere, lamentarsi, sillogizzare, e pregare lddio sempre in pubblico per non dare sospetto a' governi, né pretesti d'esagerazione e di spionaggio a' bricconi, né speranza a verun malcontento». E andava innanzi con le sue prove, se non che il contro Presidente rompendogli la parola «Facciamo, gli disse, il nostro dovere». E gli uscieri spalancando porte e finestre, e chiamando (poiché l'Araldo facea da lettore) tutti quei che passavano per la strada, e il contro Presidente levandosi in piedi, e gli accademici tutti stando per la prima volta dopo tant'anni in religioso silenzio, il Presidente protestò: «Che l'Accademia de' Pitagorici non tenne, non tiene, non terrà private adunanze quand'anche dovesse andare raminga sulla superficie del globo terracqueo». L'Araldo leggeva - Nella loro privata adunanza de' IO maggio corrente hanno proposto due quesiti; il primo riguarda la morale pubblica, ed il secondo la storia letteraria del secolo XIX. E qui dopo che molti accademici ebbero a torto nuovamente chiamato ignorante l'autore delle Van·età, dopo che alcuni inesperti l'ebbero nuovamente chiamato balordo, dopo che quasi tutti l'ebbero creduto impostore, il Presidente dichiarò: «Che l'Accademia de' Pitagorici non solo (come si vede anche nelle sue costituzioni citate da quella gazzetta) non propone quesiti, ma che anzi le importa che i quesiti filosofici e letterari non siano trattati da quegli autori che scrivono per mercede o per premio». L'Araldo leggeva - Quesito I. Avendo i compilatori dei suddetti Annali promesso solennemente a tutte le culte ed onestepersone: rispetto a chicchessia nella critica, si domanda se fino al numero IV inclusivamente abbiano adempito alla loro promessa. II Presid. - cc Costui in nome della morale pubblica domanda l'adempimento d'una promessa di giornalista; e la domanda con PROSE una solenne impostura contro una pubblica adunanza di galan- tuomini». Il Capo d'opposizione - «I compilatori de' suddetti Annali ci .pensino». L'Araldo leggeva - Quesito 2. Nello stesso numero IY s'incontra alla pagina 25 un articolo sopra la traduzione de' due primi canti dell'Odissea ec. del si'g. Pindemonte,1 compilato con un ordine ammirabile d'idee e con saggia e moderata critica. Siccome la più tarda posterità sarà vaga di sapere il nome del celebr.e autore anonimo, si propone a' suoi contemporanei di scoprirlo con le note regole del confronto delle se1itenze, dei, giudizii, e della maniera di pronunciarli. A chi avrà sciolto adequatamente il primo quesito sarà dato in premio un libretto assai raro intitolato: De logomachiis eruditorum et de meteoris orationis di Samuele Vere11/elsio2 dottore di sacra teologia. Un accademico - «Ma se l'Accademia non ha biblioteca». L'accademico Bibliotecario - «Io l'ho questo libro; e non è poi tanto raro: una copia per altro in membrana e un'altra intonsa ... ». Il Tesoriere - «Ma se l'Accademia non ha cassa». Il Bibliot. - «Né io ve lo venderei: del rimanente questo gazzettiere mi darebbe di belle notizie perché pare anch'ei cacciatore di libri rari». Il Capo d'opposizione - «E' vi sono anche di quelli i quali parlano di quel che non sanno per parere quel che non sono». L'Araldo leggeva - Per ilsecondo quesito saranno date tutte le opere utili alla letteratura di Anton-Maria Salvini,3 se pure si potranno radunare tutte, e quando si trovassero tutte. Un accademico-« Bisogna dire che quest'Anton-Maria vaglia poco, da che le sue tante opere non sono state ancor radunate, e ci vuole ancora tempo a conoscerle tutte». L'Araldo leggeva - E per agevolare agli esteri ed anche ai nuionali questo lavoro (tanto più che de' suddetti Annali se ne stampano poche copie), il Segretario perpetuo ha compilato per ordine degli 1. Ippolito Pindnnonte (Verona 13 novembre 1753 - ivi 18 novembre 1828). 2. Samuele Verenfelsio: Samucl Wercnfels (Basel I marzo 1657 - ivi I giugno 1740). Teologo, docente di lingua greca, di eloquenza e teologia nell'Università di Basilea. L'opera citata dal Foscolo fu pubblicata per la prima volta ad Amsterdam nel 1692. 3. Anton Maria Salvini: vedi la nota 3 a p. 348. L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 715 accademici il seguente sommario delle mat~ie contenute nel suddetto articolo. E già tutti tenevano gli occhi fitti nel viso del Segretario, il quale per un pezzo rimase interdetto. Finalmente stringendo i denti sacramentò in visceribus, ch'ei non sapeva nulla di quel libello; e perché egli èuomo giovane ed arditissimo, dichiarò apocrifa calunniosa ed infamatoria la narrazione; e fin qui non e'era gran male: - ma maledisse come meritevole della berlina l'autore, il copiatore, lo stampatore, e quasi quasi il cartaio, e chiunque fida nelle novelle de' giornalisti. «Mancherebbero braccia a fabbricare tante berline», disse quel canuto accademico della storietta da Lione a Chalon.• - «Ma né l'autore di quell'articolo forse merita la berlina: chi dice a noi ch'egli non abbia pigliata la notizia della nostra Accademia come scherzo di fantasia?» «Eh sì! replicò il Segretario; quasiché dal teatro dell'opera alla nostra Accademia si dovesse venire a cavallo! e non siamo noi noti anche a ciechi ? e le nostre parole non sono elle riferite qua e là fin anche da' sordi e da' muti? e non siamo noi forse mostrati a dito dagli uomini gravi come precursori del finimondo? E i ruffiani degli uomini gravi non ci hanno forse trasfigurati in satirici delle giovani donne? ma per DioI che le donne sono più accorte di tutti gli innamorati furbissimi di Susanna; e molte, e le più belle non hanno dato retta a que' parasiti d'amore. E non andiamo noi da per tutto ? e non mangiamo, non beviamo, e forse ogni giorno, con questi ipocriti che ci accusano di tenere adunanze segrete e che si usurpano i nostri titoli? aspettassero almeno che fossimo morti; - ma no, continuò alteramente il Segretario recitando due versi di Dante no; Brancadoria non è morto unquanco, ma mangia, e beve, e dorme, e veste panni.1 E ch'io mi sappia fare ben altro che mangiare, bere, dormire, e vestirmi e bestemmiare contro que' tristi, v'è tale forse ... tale a) Vedi il capo 2, nella quistione del vino.3 1. In/., XXXIII, 140-1 (ma: •ché Branca Doria non mori unquanche, / e mangia[...]•· 2. Vedi ... vino: l'allusione riguarda Paneddoto narrato dal FoscoLo nell'interrotto capitolo II del Ragguaglio (lo si veda in Edizione Nazionale1 vu, p. 290), PROSE che un giorno o l'altro se n'avvedrà. Ma morto e sepolto, lo troverò all'altro mondo». «Bella cosa è la gioventù, ma più bella assai la prudenza!» disse il canuto accademico. L'Araldo leggeva - Il Segretari"o perpetuo ha compilato ec. dalla pag. 25 alla 36. L'autore nota come ignoranti, deride ironicamente, minaccia, insulta, attacca, investe, punge, sferza, bastona, calpesta ec. Sa/vini, Bacelli, il P. Soave, il signor Pindemonte, il Ceruti,1 Angelo di Costanzo, il Cas~ ec. ec. nominatamente ciascuno di questi individui per la loro porzione .•. L'accademico canuto - (( Ho letto anch'io quell'articolo su l'Odissea, e veramente pare di penna che accatti brighe. Gran che per altro che i letterati nel criticarsi si frodino come contrabbandieri! In quegli Annali si è detto poco bene ed assai male di molti; un po' di bene a ogni modo. Ma il sig. Pindemonte è trattato con onore nel molto bene che il suo libro può meritare, e con gentilezza in ciò eh'egli com'uomo può avere fatto sbagliando». Il contro Presidente - ((L'Araldo prosiegua; a duelli letterarii pensino Febo e Minerva». Un accademico-« Ma i dotti dovendo logorarsi più d'ogn'altr'uomo la sanità, si ristorano stando moltissimo in letto. E quando s'alzano devono riscuotere e pagare visite, rispondere lettere a' loro dotti corrispondenti, attendere al loro ufficio se sono impiegati, desinare invitati, scaldarsi al foco d'inverno, scappare a qualche villeggiatura la state, divertirsi un pochino tra le Grazie, e più di tutto studiar con le Muse. Or noi difendendoli ... ». Se non che il contro Presidente avvezzo a ostinarsi replicò interrompendo: «L'Araldo prosiegua. E se uno tocca i guanciali spriJ. Girolamo Bacelli (Firenze I sI s - ivi circa il 1581). Medico e umanista. È soprattutto noto per le sue traduzioni omeriche: l'Odissea che vide la luce postuma nel 1582, e l'Iliade rimasta in tronco al settimo libro. E vedi il citato saggio foscoliano sulla Traduzione de' due primi canti dell'Odissea. Francesco Soave (Lugano 10 giugno 1743 -Pavia 17 gennaio 1806)1 poligrafo di estesi interessi, tradusse anche da lingue classiche e moderne. Tra le versioni si segnalano quella dell'Odissea e della Batracomiomachia, dei poemi di Esiodo, degli Idilli di Salomon Gessncr, e del Saggio filosofico su l'Umano Intelletto di John Locke. E vedi il citato saggio sulla Traduzione de' due primi canti dell'Odissea. Giacinto Cer11ti: vedi le note 2 e 3 a p. 345. 2. Angelo di Costanzo (Napoli 1507 - ivi 1591 ?) ; Giovanni Della Casa (Mugello 28 giugno 1503 - Roma 14 novembre 1556). L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 717 macciati o il cuffiotto d'un letterato dormente, temete voi che a lui manchino orecchie, coraggio ed armi vicine contro il nemico?». «Iamque faces ·faecesque volant, furor arma ministrat»,1 esclamò il Segretario. cc Ma se l'olio rancido delle loro lucerne all'aria, continuò a dire pieno di collera, sporcasse taluno che passa ridendo per la sua strada, possano que' litiganti fare a sassate con le corna di tutti i mariti delle sgualdrine». Io scrittore confesso che non si può dire di peggio; e a stento l'imprecazione può perdonarsi alla collera d'un uomo giovine provocato, come fu il Segretario, dall'impostura della gazzetta. E ho riferito con mio rossore quelle parole per non tradire la professione di storico. Ma ove taluno si dilettasse di satiriche iperboli, le cerchi ne' crocchi de' vecchi malcontenti di tutto e delle donne ritirate piamente dal mondo; ma più che altrove da que' maestri di lettere che non avendo mai pubblicato una sillaba scritta, fecero dire ai maligni eh'essi non sapessero il loro mestiere. Io non di meno posso attestare ai dilettanti d'iperbole, che i suddetti maestri maneggiano le figure rettoriche egregiamente, e più nella satira verbale; e quando ei si trovano a veglia tra le pie donne, le maneggiano più che mai. L'Araldo leggeva - In massa poi tutti i bibliotecari, biblt"ografi, cherici regolan·, giornalisti, accademi.ci, grammatici, grecisti, naturalisti, fisici, professori di lettere, professori di scienze ec. ec. e ciascuna classe per la loro porzione. Intanto il Geografo ad ogni nome collettivo della litania sussurrava nel naso la parola imposton·, e ammonito dal Capo d'opposizione, rispose: «Ch'ei non sapeva d'Annali, ma che senza dubbio gli Annali di scienze e lettere avranno chiaramente parlato di que' tanti impostori che per vanità, per mendicità, o per non voler fare veruno de' tanti mestieri più laboriosi, si usurpano il titolo e la professione de' grand'ingegni; vizio, diceva il Geografo, che ho notato nelle geografie d'ogni terra». cc E forse, aggiunse il Segretario, l'autore delle Varietà chiama tutti i suoi fratelli in aiuto». Un accademico - ,. 9. accad. - «E le leggi provvederanno>>. IO. accad. - << Vi saranno inesperti, e noi li consiglieremo». II. accad. - << Vi saranno infermi, vecchi, e imbecilli, e i nostri cittadini cercheranno di soccorrerli come infermi, vecchi, e im- becilli». I2. accad. - << E chi segue a deriderli, e non comincia a soccorrerli mostrerà ch'egli odia, anzi che gli oziosissimi e inutilissimi cappucci de' frati, l'uomo che può tornare utile al mondo>,. L'Araldo leggeva - Dalla pagina 36 alla 44 è comendato Ugo Foscolo come inventore di teorie nuove o almeno nuovame11te dettate nelle quali sta la somma ragione per ben tradurre e si dice più temperato dalla natura a seguire Pindaro e Milton che Virgilio ed Omero. Un accademico - << Modestissimi letteratiI» Un altro accad. - «Seguire vuol dire andar dietro; se poi da presso o da lungi, non è spiegato ». L'accadmiico canuto - «Ma si tace che negli An11ali e in quella stessa pagina è scritto che l'autore temperato a seguire Pindaro e Milton aveva per opinione di molti uomini dell'arte sbagliato di pianta nella versione d'Omero. Onestissimi lettt:rati! soprattutto per l'esattezza con che citate i passi del vostro avversario, letterati onestissimiI» Il Segretario -«A non imitare né pure in fallo Ponestà di quest'anima di ser Ciappelletto1 trasmigrata per lungo ordine di velenosi 1. ser Ciappe/letto: vedi BoccAcc10, Decameron, 1, 1. L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) animali nel corpo d'un impostore, piaccia all'accademico Araldo di leggere in modo da far sentire tutti i passi scritti in corsivo e in maiuscolo di cui sarà seminato il rimanente di quel libello». A ciò, l'accademico Araldo (il quale senza avvedersene e senza intenzione di offendere la Crusca s'esprime sempre con frasi tutte sue proprie) rispose:« Ch'egli leggerebbe con voce rotonda, corsiva, maiuscola, maiuscoletta e minuscola secondo il caso; con pausa, semipausa, puntino, punto-fermo, e fermissimo senza preterire una virgola ». L'Araldo leggeva - Dalla pagina 44 sino alla 52 investe e processa l'abate Cesarotti' e pregia il fino giudizio d'Isabella Albrizzi.2 (E qui è da notarsi che questa coltissima signora ha fatto con altri bellissimi ritratti quello ancora di Ugo Foscolo, e per disegnarlo e colon"rlo ha posto in uso l'artificio di Zeusi nel dipingere Elena).3 Dalla pagina 53 sino alla 60 minaccia il Monti dell'imparziale sua censura; ripete con le stesse parole di Ugo Foscolo che Monti non sa il greco; deride e strapazza Valkenaer,4 bian"ma il n"g. Pindemonte ••• Il Presidente - «Ed ecco crescere di giorno in giorno le prove di ciò che vi ho detto. Gli uomini codardi e vendicativi non ardirebbero mai cimentarsi se non avessero l'arte di sedurre e di trarre alle loro parti gli animosi ed i forti. Poi, come hanno ben bene aizzati i due gladiatori, si rifuggono a passi lentissimi tra gli spettatori per vedere sbranante o sbranato il loro campione. Ardendo la zuffa ridono con gli astanti. Finita la zuffa alzano le mani per mostrarle 1. Melchiorre Cesarotti: vedi la nota I a p. 345. 2. Isabella Teotochi Albriz::i (Corfù 1760 - Venezia 27 settembre 1836). Oltre che del Foscolo, amica dei più celebri letterati cd artisti del suo tempo, da Ippolito Pindemonte (che la celebrò col nome di Temira) a Melchiorre Cesarotti, al- 1'Alfieri (di cui difese la Mirra contro la censura dell'Arteaga), al Monti, a Lord Byron, ad Antonio Canova di cui illustrò le Opere di scultura e di plastica (1831). Nel 1776 si era trasferita a Venezia, sposa dello storico del commercio veneziano Carlo Antonio Marin; annullato il matrimonio, nel 1796 si risposò segretamente con l'inquisitore Giuseppe Albrizzi (morto nel 1812). I Ritratti, galleria di illustri conoscenze della •saggia Isabella•, uscirono a Brescia, per i tipi del Bettoni, nel 1807. 3. l'artificio . .. Elena: Zeusi (Eraclea circa il 450 - prima del 394 a. C.) aveva dipinto nel tempio di Era Lacinia a Crotone, un'Elcna, ritraendo le parti perfette di cinque diverse fanciulle. 4. Ludwig Caspar Walkenaer (Leeuwarden 7 giugno 1715 - Leiden 14 marzo 1785). Professore dal 1741 a Praneker, e dal 1766 a Leida, è soprattutto noto per le sue edizioni euripidee: Fenisse (1755) e Ippolito (1768), e gli studi In Eu,ipidem pe,ditort1m dramat11m reliquias (1767), oltre che per numerose memorie filologiche e storiche, raccolte negli Op,ucula philologica critica et oratoria (Leipzig 1808-1809, in due volumi). E vedi anche, nel tomo 11, La chioma di Bere11ice. 720 PROSE plaudenti a chi vince. E perché la vittoria di queste liti di penna rimane spesso indecisa, e tutti i superstiti ad una battaglia bramano di tornare in pace tra loro, sapete voi chi sono i giudici corteggiati dalle due parti, e i benemeriti mediatori del trattato d'alleanza e di pace? Que' don Piloni' medesimi che stanno tuttavia macchinando un assalto contro un nuovo nemico più forte di loro». L'Araldo leggeva - Dalla pagina 60 alla 69 schernisce ed in/ama un tipografo suo AMICO.2 Assai bizzarie intorno agli obblighi veri dell'amicizia furono discusse nell'adunanza degli 8 maggio: e perché intendo di narrare anche la fine di quell'adunanza piaccia al lettore di cercarle nel capo v111.3 Frattanto per levargli ogni scrupolo su la mia storica fedeltà, mi basta di dirgli che alcune di quelle medesime bizzarie furono a' 15 di maggio ripetute in via di commento, poiché ebbe l'Araldo con voce maiuscola pronunziata la parola santissima AMICO. L'Araldo leggeva - Dalla pagina 69 all'ultima pren.de in aiuto Baretti per istaffilare Algarotti,4 e con esso i gesuiti, i giornalisti, i letterati esteri e nazionali, i cortigiani e i nobili del suo tempo - del suo tempo. Senza che voce né cenno dicesse ali'Araldo di ripetere le quattro ultime sillabe, l'Araldo dopo averle ripetute si ristette (quantunque non interrotto) dalla lettura, e guardò negli occhi gli altri accademici che si guardavano tutti tra loro. E senza che un sorriso solo spuntasse da tanti muscoli esercitati a ridere sempre, udii deplorare l'umano accanimento che cerca perpetuamente e con tutti i modi non tanto di vincere quanto di nuocere in ogni specie di gara. Quanti aveano letto l'articolo degli Annali intorno a' 1. don Piloni: allude al protagonista dell'omonima commedia Il don Pilone oooero Il bacchettone falso di Girolamo Gigli (Siena 14 ottobre 1660-Roma 4 gennaio 1722), condotta sulla falsariga del Tartuffe di Molière. La commedia del Gigli fu rappresentata nel 1711. 2. un tipografo suo amico: allude a Niccolò Bettoni (Portogruaro 24 aprile 1770 - Parigi 19 novembre 1842). Oltre all'attività editoriale, pubblicò alcuni scritti, generalmente in difesa delle proprie edizioni, fra i quali si ricordano le Lettere sull'Alceste seconda dell'Alfieri (1808), il Saggio di guerra tipografea (1820) e i Mémoires biographiques d'un typographe italien (1835). Vedi la Clavis dell'lpercalisse, caput duodecim, vs. 71 e la nota relativa, a p. 1002, oltre a quanto il Foscolo scrive sul tipografo nel citato saggio sulla Traduzione de' due primi canti dell'Odissea. 3. capo Ylll: vedi la nota 4 a p. 711, 4. Giuseppe Baretti (Torino 24 aprile 1719 - London 5 maggio 1789); Francesco Algarotti: vedi la nota a p. 602. L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 721 traduttori d'Omero sapevano, che l'autore non s'era inteso di staffilare i cortigiani e i nobili del suo tempo. Parlava dell'Algarotti al quale le sette accademiche, i letterati della corte di Prussia e il titolo di conte gli avevano tra i dotti, tra gli stranieri, e tra i nobili del 1750 procacciata la fama che gli Italiani del 1810 non gli concedono. Con questo esempio ha creduto di poter dire: e< Autori nostri concittadini (che non siamo tanto arroganti da chiamare col nome di confratelli) non siate ne' vostri libri né gesuiti, né accademici, né cortigiani, né nobili, né plebei, né pastori, né bifolchi arcadi, né caprari, ma cittadini. Tutte le nazioni, e più di tutte la nostra, hanno bisogno di nobili e grandi passioni, e di opinioni utili e giuste; ma i partiti a cui molti si legano si nutrono tutti di passioncelle e di pregiudizii. La verità fu ab antico sepolta, appunto quando i partiti cominciarono a dividere la sciagurata nostra specie; e i partiti vanno sempre gettando terra, massi, macerie di monasteri e di sinagoghe, cenci di divise e di livree d'ogni foggia e colore, urli, minaccie e calunnie per otturare sempre più e maledire la fossa. Ma la verità, benché disgraziata, è pur sempre divina ed eterna, ed ha una voce eh'esce dalle viscere di sotterra; e gli autori soli possono udirla e farla udire a' popoli, ed appassionarli per essa, e confortarli con essa e dirigerli. Né il modo di dirla è insegnato da' partiti, bensi dai grandissimi scrittori d'ogni tempo e paese: Immaginate che Demostene, Socrate e Omero leggano quanto scrivete».1 - Poiché dunque l'esortare i concittadini a coltivare generosamente e per decoro dell'Italia le lettere ti frutta una pubblica chiosa nelle gazzette, che se non fonda prove, semina pur sempre indizii di colpa e tende a consecrarti allo sdegno di molte persone del tuo tempo e paese, alle quali tu non miravi scrivendo, confesso ch'io benedico chi non sa leggere e gemo sopra ogni linea che scrivo. Qui lo storico ricomincia a parlare di sé: i lettori quindi possono saltare le facciate sino al punto ove l'Araldo ripiglia la sua lettura.• a) Queste linee in corsivo sono anch'esse dall'autore del libro poste nel testo, perch'ei pare nimicissimo delle note. Nel capitolo secondo si trovano queste parole: «Ora dirò la terza cosa da me 1. Autori . •. scrivete: il passo è tratto dal citato saggio sulla Traduzione de' due primi canti dell'Odissea. Il precetto (Immaginate . .• scrivete) deriva poi dal trattato De subi., xiv. 46 722 PROSE Né gemo per me; e che bisogno ho io di lodi carpite? e che timore d'uomini ingiustamente sdegnati? e che occasione d,adombrarmi d,insidie, io che chiamando sulla faccia e schiettissimamente bindolo1 chi mi par bindolo provato, e galantuomo chi mi par galantuomo, mi sono già accomodato al titolo di pazzo, e trattando le colpe, le difese e le accuse dinanzi al mondo, ho prevenute tutte le insidie dei bindoli? Il padre mio mi diè nelle mani, quand'io aveva sett'anni, una spada; quand'io aveva dieci anni, una penna; ed una tromba nel giorno ch'egli mori. Nella spada era scolpito: Difendi la patn·a, l'onore e f amico con ben altro che con parole. Con la penna m'insegnò a scrivere: Sostieni le tue opinioni con la forza sol della penna, e contro la sola forza dell,altrui penna. Quando poi mi diè la tromba mi disse con aspetto di moribondo: Dalle liti mute nascono l'odio e l'insidia, dalle liti palesi la vergogna ed i patti. Conobbi poi che chi adopera la tromba, è obbligato a dir vero, perché la sua falsità gli sarebbe subito rinfacciata dal popolo. Poi mi proposi di non adoperare la spada dove è bisogno di penna, né la penna dov'è bisogno di tromba. Nondimeno anche nell'adoperare questi tre doni di mio padre a dovere, vidi che si correvano molti pericoli. Ma dove e come non si corre pericoli ? Da che dopo molti libri e forti meditazioni non ho potuto conoscere mai perché vivo, m'importa poco del come, e pochissimo del quanto vivrò. Ma ho cercata l'umana felicità, e l'ho trovata, benché mista a qualche fastidio, nell'usare pienamente e liberamente delle facoltà che la natura ha dato variamente e in dose diversa a ciascuno de' suoi tanti figliuoli: ed ho lodato che chiunque ha buone e belle e giovani gambe le eserciti a correre ed a ballare; e biasimo chi avendole belle e buone, non balla; e rido di chi, non avendole né belle né buone, vuol farsi ammirar ballerino, dopo che molti gli hanno già detto: Vedi che tu m'annoi; siedi in tJece, e fa il sarto. E abborro chiunque con l'arte del ciarlatano ch'egli ha, sa farsi dau»infinito numero de' poveri di spirito e di esperienza venerare e nutrire per l'arte ch'egli non ha, con frode al mondo e con danno de' notata; questa Pho notata non per gli agronomi, né pei viaggiatori; bensl per me solo, e piaccia a chi legge di saltare una pagina, come bisogna pur fare ne, libri dove 1,autore parla di sé».2 Nota degli Edit. 1. bindolo: imbroglione. 2. «Ora ..• sé•: vedi Edizione Nazionale, vu, p. 290. L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 723 verecondi e veri maestri dell'arte. Onde, finché gli altri non si mostrino annoiati di me, userò delle mie facoltà, buone o triste che siano, senza scrupolo né timori, né pretesa veruna di pagamento; e leggo, scrivo e fantastico con l'intento, né più né meno, con che dormo, odoro i fiori, e cavalco. Ho anche misurata la terra e numerati quelli che la coltivano, e quelle che si piacciono di popolarla; e benché io non abbia trovato il conto preciso, mi sono confuso nell'abbondanza di tanto spazio e di tanti viventi e ho detto all'animo mio: Eccoti infinito numero di donne belle e d'uomini buoni da parlare, piangere e ridere insieme, senza bisogno di stare con chi non ti piace o d'accattar con usura la maschera che non hai: Eccoti terre lunghe e larghe dove tu possa a ogni fortuna trovare una stanza riscaldata dal sole, una collina da parlar con la luna e le stelle, e un cimiterio dove tu sia sotterrato a tuo modo, poiché non v'è luogo dove tu possa fuggir dalla morte. Ma la compassione di cui non ho per me stesso bisogno, benché la natura ne abbia data a me pure una porzioncella come facoltà da non lasciarsi inattiva, devo e voglio spenderla per tant'altri. Tant'altri avendo forse conosciuto perché vivono, tremano sempre del come e del quanto; o cercano l'umana felicità dove molti l'hanno infruttuosamente cercata, o credono troppo angusta la terra, e scarso il numero delle belle donne e degli uomini buoni. In queste ansietà lasciano invecchiare o morire le tante e sì belle doti che per loro bene e degli altri aveano portate nel mondo. Però gemo scrivendo. Gemo dello scoraggiamento in cui coloro che vogliono trarre usura delle facoltà che non hanno, faranno con la forza del loro numero languire i pochi ingegni che le possiedono. Gemo dell'abbiezione in cui gli studii contaminati dalle male arti dovranno un d1 o l'altro inevitabilmente prostrarsi. Gemo dell'arte pessima che va prevalendo ne' letterati di far sospettare come avverso alle leggi, ai principii e alla religione del popolo chiunque ride delle loro opinioni scientifiche, o dice di non sentire piacere ne' loro versi. Gemo della dignità de' governi avvilita da chi li ravvolge in si puerili contese; della costumatezza pubblica che con si fatti pubblici esempii andrà ognor più corrompendosi; della rovina in cui, per quell'arte pessima, e la più velenosa tra quante l'umana vendetta potesse inventare, vedrò forse un di piangere qualche giovine. E gemo perché so che gli uomini, i quali senza pudore versano in pubblico questo veleno, lo verseranno con più fiducia quando e do- PROSE ve sappiano che i loro avversarii non possano discolparsi, quando e dove non temano che la voce della verità esclami dalle viscere di tanti cittadini che non potranno guardare senza ribrezzo l'innocenza perseguitata e strozzata. Per quelle malie di Megera1 gli uomini più saggi, più giusti e più forti saranno a poco a poco sedotti a condannare, con loro infamia, e col rimorso che segue l'infamia, a condannare inavvedutamente i meno colpevoli tra mortali e sovente i loro medesimi amici. L'Araldo leggeva - Finalmente dopo aver data qualche morsicata al Brazzuolo,a traduttore d'alcuni idilii greci, si lagna di que' pessimi suoi fratelli letterati, i quali hanno sempre ragione appunto perché non danno mai torto a veruno. Or un accademico giovinotto che non aveva veduto l'articolo su l'Odissea criticato nel Corriere Milanese, s'era dal Geografo fatta prestare una delle copie degli Annali spettanti ad alcuni accademici, e senza attendere a' discorsi de' Pitagorici l'andava sotto alla lucerna leggendo. Così egli solea fare ogni sera con ogni libro che gli cadea sotto l'occhio. E poiché, leggendo sempre, non poteva ascoltare.gran fatto, non fu da veruno incolpato s'ei parlava pochissimo.• Ed era egli giunto al passo degli Annali citato dal gazzettiere, mentre appunto l'Araldo lo recitava, onde mettendo una voce di meraviglia: << State ad udire, esclamò, state tutti ad udire». E quando a Dio piacque che lo ascoltassero, lesse: «S'incontrano in questo mondo certi caratteri che sembrano gli originali da cui Molière trasse il Misantropo; sono ridicoli a un tempo e stimabili. E tra questi, quando non vanno agli estremi, si può vivere più lietamente e con più fiducia che tra tutti gli altri figliuoli d'Adamo». - «Parla di noi», dissero due o tre Pitagorici. - cc Ma, continuò a) Vedi la prima legge dell'Accademia de' Pitagorici nel num. IV di questi Annali.3 Nota degli Edit. 1. Megera: una delle Furie («la rabidaD); e vedi la nota sa p. 31. 2. Braz:molo: Paolo Brazolo Milizia (Padova 14 ottobre 1709 - Tribano [Padova] 27 luglio 1769). La versione dei poemi omerici, rifatta ben tre volte, fu, dallo stesso Brazolo, data alle fiamme. Tradusse inoltre Anncreonte ed Esiodo. E vedi quanto ne scrive il Foscolo stesso nel citato saggio sulla Traduzione de' due primi canti dell'Odissea. 3. Vedi . .. Annali: si veda la nota foscoliana nel saggio sulla Traduzione de' due primi canti dell'O- dissea. L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 725 l'accademico giovinotto leggendo, ma i pessimi tra nostri fratelli sono que' savii circospetti che hanno sempre ragione appunto perché non danno mai torto a veruno ». II contro Presidente - «E questa tiritera riffritta che c'entra?» L'accademico giovinotto - «Ma perché mai l'autore dell'articolo Van"età levò al testo eh'ei cita, le parole di savii circospetti, e ci pose l'altra di letterati?» Più Pitagorici- cc Perché l'autore delle Varietà avrà anch'egli detto: Parla di noi». «Vedi!» - disse l'accademico giovinotto, e seguitò a leggere. L'accademico canuto - e< Parmi che per maggior frutto o men danno di quella massima, per onore o disonore di chi la scrisse, la non doveva diventar privilegio de' letterati, bensl lasciarsi come stava nel testo, a tutti i fratelli in Adamo. Ma i letterati si frodano e si froderanno sempre citando». (< E perché?» - domandò l'accademico giovinotto che stava con gli occhi sul libro, e talvolta con l'orecchio al discorso ch'egli avea suscitato. II Segretario - <>. Il Presidente - «Né s'otterrà mai, finché i letterati si puntiglieranno nella rettorica del discorso; e gli scienziati nell'aritmetica del pensiero. Gl'Inglesi stimano Locke come modello di lingua, d'eloquenza, e di sapientissimo raziocinio. Quando gli scienziati del secolo di Luigi XIV in Francia si accorsero, che quelli che scrivevano bene adescavano più lettori di quanti pensavano meglio, cominciarono a parlare di giurisprudenza, di fisica, e metafisica come Platone, Cicerone e Lucrezio faceano a' loro tempi, con evidenza di lingua, con calore e con eleganza. E Fontenelle2 fu il primo a praticare nell'Accademia delle scienze questo espediente, perfezionato poi da d'Alembert, da Buffon3 e da molti altri grandi scrittori. Ma l'alleanza dell'eloquenza e delle scienze non pare conclusa in Italia. Da un lato avete chi vi scomunica con la Crusca alla mano: dall'altro, chi vi dà dell'ignorante perché non l'avete inteso adovere». Il contro Presi.dente - «O scienzati esattissimi, ove non vi piaccia per altro d'intendervi tra voi soli, udite un po' il cristianello fuggifatical Il latino barbaro, l'italiano semibarbaro, le formole ma- 1. È vero . .. Bonnet: Jean-Jacques Rousseau (Genève 28 giugno 1712Ennenonville [Oise] 2 luglio 1778), nella fattispecie citato dal Foscolo soprattutto per PEmile (1762). Claude-Adrien Helvétius (Paris gennaio 1715 ivi 26 dicembre 1771); il Foscolo qui lo cita soprattutto per il trattato De l'Esprit, pubblicato anonimo nel 1758, che suscitò violente critiche e condanne da parte delle autorità ecclesiastiche, politiche e accademiche, per cui Helvétius sconfessò in pubblico l'opera, riservando a pubblicazione postuma il Del'homme, de sesf acultés intellectuelles et de son éducation; Etienne Bonnot de Condillac (Grenoble 30 settembre 1714 - Flux 3 agosto 1780), qui citato dal Foscolo soprattutto per l'Essai n,r l'origine des connaissances humaines (1746); Charles Bonnet (Genève IJ marzo 1720-ivi 20 maggio 1793), qui citato dal Foscolo soprattutto per l'Essai analytique sur lts facultés de l'ame (1759). 2. Bernard le Bovier de Fontenelle (Rouen II febbraio 1657 - Paris 9 gennaio 1757). Fra le sue opere più importanti ricordiamo gli Entretiens sur la pluralité des mondes (1686), l'Histoire des oracles (1687), la Digression sur les anciens et les modernes (1688), gli Eléments de la géométrie de l'infini (1727), e il Traité sur la poésie en gbréral (1751). Tutte le sue opere vennero poi pubblicate postumè, per la prima volta, nel 1790, in otto volumi. 3. Jean-Baptiste Le Rond d'Alembert (Paris IO novembre 1717 - ivi 29 ottobre 1783). George-Louis Ledere conte di Buffon (Montbard 7 settembre 1707 - Paris 16 aprile 1788). L'Histoire naturelle gbrérale et particulière fu pubblicata tra il 1749 e il 1804. L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 733 tematiche, il caos d'un libro pieno di cioè, di citazioni, e di notl che non possono stare né col testo né senza il testo, sono come i carcioffi vecchi - spine di sopra - barbaccia irta di sotto - spicchi foglia per foglia. - Chi ha fame ne sfogli un migliaio. Per cosi poco io non uso di pigliarmi tanto fastidio». Il Bibliotecario - «Ma i cuochi francesi sono eccellenti a condire i nostri carcioffi». Il Presidente - «Dunque al cuoco una lira, e al giardiniere un soldo al carcioffo». Un accademico - «Noi! - Noi! - Noi primi inventori delle scienze! - Noi ristoratori delle lettere! Noi discendenti da' Romani! Noi da' Toscani! - Dante, Galileo, Michelangelo, Tasso, Maffei1 •.. Vi acciechi il diavolo e vi turi la bocca, o millantatori, con un pugno di vespe e di mosche! A che dunque non imitate que' grandi esempii ? A che non usate della vostra eredità con più sapienza che orgoglio? - Orgoglio? - No, per Dio vero e vivoI ma vanità dei vermi che stanno brulicando nel carcame di generosi cavalli, e che si milantano nepoti legittimi de' cavalli; anzi cavalli bardati ed armati. - Quanto più esalti i tuoi padri, che guerreggiando ti lasciarono il marchesato ed il feudo, tanto tu mostri la tua codardia, patrizietto ghiottone, che scioperi come servo d'anticamera tra' barattieri di ridotto, e le matrone di trivio. Cosi si canta con Orazio alla mano ai ragazzi in collegio; or uscite di collegio e udite anche me; ch'io senza testo canterò a' vostri maestri. - Oh se gli Italiani non bevessero l'ingegno nell'aria che li circonda, se una terra feconda benché mal coltivata non producesse pur sempre qualche buon frutto, questa nostra generazione che nelle scienze, ove tu eccettui pochi individui, si va strascinando, e alzando gli occhi alle glorie passate, sarebbe già istupidita, abbrutita, senza parola, senza memoria, senz'occhi. - Insomma le cose che voi tutti scienziati scrivete, sono elle vere e utilissime? - vere e utilissime, ma di misero pro al vostro nome, perché altri sa farle piacere ed intendere. A che dunque strillate al ladro! quand'uno, per utilità propria e degli altri, le piglia dove le trova, ed ha l'arte di farle sapere a tutta l'Europa? - E forse ha versato più danaro e sudore a ordinarle ed a scriverle, che non voi tutti carta ed inchiostro a scarabbocchiarle confusamente. - Tu non se, vero italiano. - lo? Anime di Ciceroni di piazzai - Porto ancora 1. Scipione Maffei: vedi la nota 1 a p. 354. 734 PROSE la spada, e le donne non mi vogliono più con quest'occhio solo, e bisognano anche a questo gli occhiali, perché sono italiano; e fo ancora il capitano del genio senza domandare la veteranza1 né la pensione del re. All'indole de' giovani, non ancora tutti snervati dall'ozio vostro, basta voce ardita ed esempio. E do spesso al diavolo la prudenza, vedendomi astretto a leggere ed a far leggere libri stranieri, e bestemmio voi tutti, più per eccitarvi che per palparvi,2 come altri fanno, ne' vostri sogni. Belle armi sono quelle corazze, quelle spade, e quegli elmi de' vostri padri; chi il niega? e v'è sopra l'alloro! - Lasciate star quell'alloro; volendo pulirlo della sua polvere sacra, lo Iasciereste forse cadere da mani effemminate nell'ozio. Ma se avete ancora braccia e Iena di petto, pigliate quegli elmi, quelle spade, tutte quante quell'armi: ponetevi alla fucina e all'incudine; sudate, convertite quell'acciaio, quel ferro, quella tempra immortale in armi che si usano a' vostri giorni, e i popoli vi manderanno allori tutti per voi, senza polvere, e tutti più cari a' vostri figliuoli. Gl'Italiani che hanno voluto corone da Marte, le raccolsero e ne raccolgono in lontani paesi. Su, voi tutti del reggimento di Minerva e di Febo; alzatevi una volta da letto; non importano viaggi; ma buoni fatti, e men'albagia ». Benché l'uffiziale dall'occhio solo provocasse molti Pitagorici alla contesa, e il canuto accademico si stesse com'uomo, che aspettando di dire le sue ragioni, udisse volentieri anche gli altri, tutti nulladimeno tornando a poco a poco nel primo silenzio volgevano gli occhi sul vecchio, compunti d'averlo interrotto. Ed ei volgendosi all'accademico giovinotto, che era tornato con gli occhi al suo libro, ricominciò. «La compiacenza dell'animo nello studio si minora e s'intorbida quanto più si congiunge a' fini secondi di celebrità e di guadagno: onde avvenne assai volte, che molti scrittori temendo non l'opinione,3 da cui la fama e i guadagni dipendono, disprezzasse le facoltà ch'essi avevano, si diedero ad imitare l'ingegno degli altri, e caddero inosservati o derisi; e se pure il mondo s'ingannò talvolta per essi, essi non si compiacquero intimamente di un premio, troppo forse alla loro pazzia, ma pochissimo a stenti si grandi. Che se alcun artefice immaginasse tal magistero di penne, che un 1. veteranza: dal francese vétérance, .,anzianità". 2. palparvi: lusingarvi. 3. temendo non l'opinione ecc.: ..temendo che l'opinione" ecc., secondo costrutto latino. L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 735 uomo volasse com'aquila, a patto però ch'ei perdesse per lunghissimo tempo l'uso de' piedi, pensi tu che molti pazzi di novità e d'ambizione non darebbero i piedi per l'ali, e che moltissimi non chiamerebbero beati ed illustri que' volatori? Ma i volatori in poc'ora maledirebbero e l'artefice e l'ali e l'applauso, poiché si sentirebbero impediti di quelle membra ch'essi avevano per camminare e per correre con poca fatica, con nessuna superbia, e con molto piacere sopra la terra. Così le facoltà di corpo, di cuore e di mente ti frutteranno voluttà limpida e piena, finché saranno secondate e nei gradi né più né meno del vigore che hanno naturalmente in sé stesse, e senza intento d'emolumenti e di applausi. Il grande ingegno troverà pari gloria senza affannarsene, e il mediocre sarà compatito, ma netto pur sempre d'ogni macchia e rimorso di venalità e d'impostura. Se Montaigne avesse aspirato alla celebrità di letterato e filosofo, anziché fantasticare sapientemente chiacchierando con sé medesimo, avrebbe preveduto ed evitato che gli uomini d'ingegno severo non lo accusassero d'arroganza e d'orgoglio, che i letterati non lo biasimassero di stile disordinato ed incolto, che i sacerdoti non lo dannassero come eretico, che Pascal non lo denigrasse, come pur fece con un tratto di penna, chiamandolo sciocco ed osceno.1 Ma quante cure, quante vigilie, quanti timori non avrebbero bisognato a schivare sì gravi, sì giuste e sì pericolose censure di personaggi celebri e sommi in letteratura? E quanto minore sarebbe stata la fama d'un uomo, che potendo scrivere semplicemente e filosofare a suo modo, avesse filosofato e scritto pomposamente al pari d'ogni altro! Un istinto, o figliuolo, uno spirito ingenito arcano, che ha un [non] so che d'immortale, vive e cresce e s'infiamma, quantunque né pari né simile, in ogni vivente. Cosa siasi, né parola sa esprimerlo, né mente umana distinguerlo mai. l\lla i fatti mostrano, che quand'è più vivo e più forte, governa con certe concitazioni ritrose alla ragione ed a' calcoli gli oratori, i poeti, i pittori, i filosofi, i sommi capitani, gli artefici; e tanto li signoreggia, che lascia dubitanti, affannosi, oziosi, infelici, sovente insani coloro, che o per timore I. che Pascal ... osceno: per quanto afferma il Foscolo si veda, ad esempio, quanto Pascal scrive: «Montai'gne. - Les défauts de Montaigne sont grands. Mots lascifs; cela ne vaut rien, malgré Mademoiselle de Goumay. Crédule, gens satis yeux. lgnorant, quadrature dr, cere/e, monde plus grand» (B. PASCAL, Pensées et opuscules ecc., Paris, Hachette, 1909, section 11, n.0 63, pp. 343-4). 736 PROSE o per casi non lo secondano. Cosi la natura ha creati noi tutti alramore, e all'incanto della beltà femminile, e ci permette mille gioie anche solo nel vagheggiarla; e ogni ostacolo ci dà lena; e ogni sazietà ci disgusta: né la ragione giusta e severa, né l'amicizia, né la pietà di noi stessi, né altra bellezza che scendesse dal cielo potrebbero liberarci da quella cura; e la privazione forzata dei nostri piaceri e fin'anche de' nostri martirii, ci fa smarrire spesso la mente, e ci mostra il sepolcro, come una porta per cui si va ad aspettare in un altro luogo la persona che abbiamo invano desiderata quaggiù. Di si fatta onnipotenza di passione ardono que' pochi mortali, nati ad avanzare tutti gli altri nelle scienze e nelle arti. E questi appunto essendo dotati d'acutissimo ingegno, ove una volta perdessero l'illusione de' loro studii, s'accorgerebbero dell'oscurità e della vanità della vita, e più per noia che per dolore la fuggirebbero. Ecco perché gli uomini maggiori dell'antichità sacrificavano sull'ara domestica al GENIO tra le ghirlande, i canti e le tazze: e Socrate gli aveva, perché era povero, consecrata un'ara nel proprio petto. Però deridendo i retori, parlò con tanta eloquenza; e confondendo gl'ipocriti ed i sofisti, morì per la verità; e bench'ei potesse fuggire il supplizio, pensò agli anni da lui passati nella gioia e nello studio della virtù, vide la gioventù ch'ei lasciava memore de' suoi beneficii, pensò che se la posterità l'avesse un giorno amato piangendo, alcuni forse avrebbero imitato il suo esempio, e rigettò quell'avanzo di vita che pochissimo e logoro gli poteva più ornai rimanere». Dal punto che il vecchio nominò Socrate, la sua voce usciva più lenta; e dopo le ultime parole chinava il capo come per raccogliersi e riposarsi. Ma io scrittore che gli stava vicino m'accorsi, ch'egli si lasciava asciugare sugli occhi una lagrima. Ho poi saputo da molti accademici, ch'egli un'altra sera, ridendo del libro del dottore Akakia,1 bruciato dal boia in Berlino, cangiò viso ad un tratto ed ammutoll quando intese nel discorso rammemorare Tito Labieno che vedendo le storie da lui scritte ardersi per ordine di Sciano, andò al sepolcro de' suoi maggiori, e vi si fe' chiudere vivo, mentre Cassio Severo gridava a' Romani: Gettate me pure 11el rogo, perché so que' libri a memoria.a Onde io per accertare con molta serie di esperimenti il fenomeno osservato nel vecchio, e indagarne 1. Akakia: in greco significa "innocenza", ..schiettezza". :i. Tito Labieno ••. memoria: vedi SENECA, Controo., x, Praej., 7 sgg. L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 737 un principio ed applicarlo alla storia universale delle accademie che sto apparecchiando, e all'influsso della stagione su gli studii ed umori presenti, vado in una tabella d'Effemeridi_ notando d'allora in poi le specie diverse e i gradi di calore e di gelo che, secondole circostanze di ore e di luoghi, si manifestano sul viso di ciaschedun letterato per tutto il tempo in cui si discorre d'uomini i quali sacrificarono pacificamente sé stessi all'onore delle lor arti e alle opinioni che credevano vere ed utili al loro paese. Per allora i Pitagorici parcano tutti commossi, chi più chi meno: unico l'accademico notomista di scrigni pareva addormentato a occhi aperti;• il vecchio lasciò andare sovr'esso un'occhiata, e prosegui sorridendo. << Tu vedi, o giovinetto, ch'io parlo lungamente e da vecchio; e forse chi mi ha conosciuto potrà convincermi di non avere seguitati i pareri che oggi ti do per verissimi. Mal - e a me pure bisognarono molte lezioni della sventura; e a me pure tocca oggi di mettere un obolo del mio nella nostra comunità; e voglio anche sbizzarrirmi del capriccio ch'io ebbi sempre di dire cose antiche assai più di me; ma nuove, o figliuolo, nuovissime in tutti i luoghi dove imparasti logica ed eloquenza. E spero anche che dalla mia cattedra senza onorario, potrò, se non altro, preservare un giovine solo da quelle altre più lunghe lezioni della sventura, le quali tornano inutili a chi per impararle ha bisogno di diventare canuto, buono solo a parlare come son'io. Però dico, che volendo tu darti all'arte di maestro, o facitore di libri, hai prima a considerare il maggiore vantaggio de' tuoi cittadini; poi quanto premio d'obbedienza e di fama consegue chi fa l'arte a dovere, e come, volendola fare altrimenti, si guadagni danaro e si carpiscano favori ed applausi ; finalmente devi distinguere chi sia letterato per artificio, chi per natura, e chi l'uomo felice tra libri, e chi l'infelice. Per imparare tante cose basta leggere le azioni e i costumi de' letterati a mensa, in chiesa, in piazza, tra le donne, tra' preti, tra' servi, e tra' ricchi de' quali i dotti sovente si fanno servi. Vedendo come i maestri a) Della Notonomia comparativa degli scrigni, e dell'accademico che n'è professore, il libro parla storicamente ne' capi che precedono questo che noi pubblichiamo. Nota degli Edit.1 1. D~lla ••• Edit.: vedi la nota 4 a p. 711. 47 738 PROSE tuoi si comportano in occasioni e tra genti così diverse, indovineresti in che modo, quando il loro conto ci stesse, ti tratterebbero, e se venderebbero o no l'amicizia che ti professano e la dignità delle loro arti e dell'uomo. Sapresti qual libro è più lungamente letto dalla città; perché la città ridendo spesso de' letterati che stima, e rispettando i potenti che talvolta non ama, vuole ad ogni modo e sa dare sentenze sì fatte, che sopravvivono alle debolezze ridicole de' grandi scrittori, ed al favore ed alle ire de' mecenati. Non dico che la compagnia de' potenti sia sempre pericolosa o disonorante; perché siccome il povero aiuta spesso i potenti posti dalla sorte in tale condizione da non fare più bene né male a veruno, così trovansi alcuni forti che sono i più nobili tra' mortali, poiché non usando se non al campo e sul tribunale della possanza imprestata ad essi dalla fortuna e dal principe, mettono in comunità e tra gli amici le sole bellissime doti dell'uomo né padrone né servo. Se dunque il grande amando ed onorando le lettere, onora ed ama chi le coltiva, il debito va pagato dai dotti con la stessa moneta; e la dignità del letterato sarà più bella quanto più si congiungerà alla riconoscenza, all'amicizia ed al frutto di dire il vero in luoghi ove molti temono d'ascoltarlo. Ma colui che non è onorato, bensì favorito come passattempo di mense e stromento più fino di adulazione, darà fortissimi indizii che egli, pagando vilissime usure, si faccia prestare lo splendore ch'egli non può avere dall'arte sua. Però dove il letterato non trova nobili amici, bensl mecenati fastosi, dica a sé stesso: "Se mi umiliano, corro pericolo d'umiliarli": poi ravvolgasi nel suo pallio che, quantunque forato, manderà raggi di virtù e di sapere». Un accademico - «Un signore pria di accettare la dedica d'un libro che si umilia con le solite frasi, la vostra Grandezza difenderà la mia Picciolezza, dovrebbe misurare per lungo e per largo la propria grandezza, poi la picciolezza del dedicante, e ciò gli riuscirebbe spesso difficile. Ognuno sa che il mecenate consente alla dedica; ed ognuno presume ch'egli abbia letto almeno a fior d'occhio quel manoscritto che deve proteggere. Or, se il libro è pieno di strambotti, il mecenate avrà porzione della censura». li contro Presidente - «Alto, accademici; poiché con le prove geometriche del nostro Presidente troviamo cose incredibili, troviamo anche una grandezza che s'alzi tanto da difendere con l'ali e con l'ombra una picciolezza di spropositi sparsa su tutto il terri- L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 739 torio della repubblica delle lettere. Allora dedicheremo noi pure il Trattato su le figure solari,,. Imploro dal candido lettore di perdonarmi s'io non ho registrata prima d'ora la quistione promossa da un accademico appunto nella sera de' 15 maggio mentr'io stava entrando nell'adunanza: - cc Quali r1.'voluzioni patirebbe la terra, dato che il sole si trasfigurasse in e/issi.?,,. -Ma forse tutti quegli accademici ignorano la figura presente del sole e vogliono tutti che la terra non patisca rivoluzioni, poiché non ho udito rispondere una sola parola al quesito; però me n'era dimenticato. Mentre il contro Presidente parlava, l'accademico giovinotto chiudeva il suo libro e cercava intorno il cappello; ed il vecchio, benché forse un po' stanco, volea pur dargli gli ultimi avvisi, quando il Capo d'opposizione cominciò quella sua cantilena cagnesca tal quale si vede per le note musicali da me poste sotto i versi citati al capo secondo,1 e cantò: cc A che gracidi, o rana, e gridi a l'orbo, bada al fosso a man ritta ? - Ode a man ritta suonar non lunge la lusinga e il soldo. Stassi; drizza l'orecchio: e incontro il suono con men cauto baston l'orme affrettando, tende la palma, e intona ave maria, fin che la terra, e il beneficio, e il suono scappandogli d'innanzi, tra la melma si dibatte. Pietoso il ladro salta, aiuta il cieco, gli dà il soldo: e il cieco col ladro e col baston chiede a le rane il trenta soldi aggrannellato in chiesa». L'accademico giovinotto si era soffermato su la porta attentissimo, e rientrando in mezzo alla sala diceva: «Che questi erano versi di stile satirico; e perch'ci desiderava notare i generi diversi di stile secondo le regole, pregava che gl'insegnassero in che bottega avrebbe potuto comperarsi quel libro». L'accademico canuto gli rispose: «Ch'ei glie n'avrebbe forse un di regalata una copia; e che anzi aveva quest'altro squarcio a .memoria: 1. capo secondo: vedi Edizione Nazionale, vn, pp. 285-95, dove non è traccia di quanto asserito dal Foscolo. 740 PROSE Scarni e nerbuti vi conobbi un tempo; or pingui, alteri, e gravi. A che sì gravi, maestri miei? Ne' visceri le vostre fibre adipose illusion dilata; però scoppiò la rana. Io voi desio vivi e gagliardi per amor d'Italia, né tacerò; se ben la carta ebrea1 parli santa parola: Il cor t'ingrasso perché dramma non v'entri d'intelletto.• Udite or me: forse ho tra detti un dardo, vola, va al core, e manda i fumi all'aura: né forse vi dorrà, poi che mel tinse l'ape d'Esopo nel suo favo ... Non ne so più, continuò quel canuto; ma tu, o figliuolo, viviti lieto e va, che Dio ti protegga. Solo pregoti d'attendere un poco e per l'amor tuo e per l'amor di noi tutti allo studio delle lettere come dianzi ti ho detto. Altrimenti, essendo allettato da que' letterati che sono impostori, t'ammaestrerai di tal fatta che non saprai più discernere la bella e virile dalla meretricia e volgare letteratura. Non saprai discernere il debito verso di te stesso e la patria, né le lettere dal danaro, né il danaro dalla gloria, né la gloria futura dai battimani che assordano e nulla più, né l'artificio ostinato degli scrittori dappoco dalla passione ardita del Genio, né i pregiudizii e la cecità de' credenti dal giudicio e dalla verità de' veggenti, e tutti i tuoi studii si confonderanno cogl'interessi di quegl'iinpostori. Così, senza avvedertene, t'educherai ciarlatano. E se le buone propensioni dell'uomo prevalgono in te alle cattive, logorerai ne' sonetti, nelle dissertazioni accademiche, nelle risse erudite, nelle vicendevoli lodi, e nelle apologie di gazzette l'ingegno e le forze che potevi spendere con più onore. Ma quando mai per tua disavventura e de' tuoi cittadini tu avessi sortita un'indole più trista che buona, la tristizia crescerà teco e con gli anni, e tu farai de' nostri figliuoli ciò che i tuoi letterati fanno di te: e se sarai povero, né i miei consiglii, né gli scherni del mondo, né i tuoi pena) lmpinguavit dominus cor eorum ut non intelligerent etc. etc. Ieremiae Proph. Nota degli Edit.2 1. carta ebrea: la Bibbia. 2. La citazione deriva dalla contaminazione di passi tratti da ]sai., 6, 9, e da Ier., 5, 28. L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 741 timenti gioveranno più per un uomo costretto a guadagnarsi la vita col solo ,nestiere che avrà per le mani. Quando dunque ne' circoli udrai sparlare altamente de' letterati, non imputarlo all'ignoranza e alrinvidia: l'ignoranza cinguetta, ma tace presto; e rinvidia, credimi, l'invidia procede più cauta. Noi compagnoni ridiamo dicendo bizzarrie, novelle, e strambotti, e cose vere e buone talvolta, perché ognuno qui parla secondo le teste e gli umori che abbiamo, ma con animo liberissimo dalla sete d'oro, e di fama: e forse si potrebbe da molti credere agli uomini gravi quando dicessero, che noi ridiamo per malignità umana e per ozio: e fors'anche ..• ». L'accademico dall'occhio solo - << Ridiamo perché i figliuoli d'Eva e d'Adamo sono nati or a piangere ed or a ridere: perché le persone eternamente composte sono spesso meno naturali delle altre: ridiamo - perdonami se interrompo - ridiamo perché le lagrime che ci hanno insegnata la verità hanno bisogno d'un sorriso che la consoli: ridiamo, dicendo schietto il nostro parere a chi viene; e chi vuol contraddire sia il benvenuto; e chi dice che ci raduniamo in segreto è bugiardo più di Tersite: ridiamo qui coram populo perché non sappiamo piangere e far piangere come i predicatori dal pulpito querelandoci sempre de' tempi, commiserando il prossimo, e raccomandando la carità per noi stessi, e taluni s'asciugano il sudore versato per sì bella fatica con un fazzoletto di fiandra: ridiae rideremo perché la serietà fu sempre amica degl'impostori ,,. L'accademico canuto - «Sia che può: di ciò ch'altri dice di noi, e noi dicessimo d'altri, non credere, o giovinetto. Non credere né alle parole de' letterati, né a me: ma non lasciarne cadere veruna. Ascolta, nota, attendi; oggi s'è parlato, e domani vedrai molti fatti da confrontarli coi detti, e da credere più a questo che a quello; e i fatti cresceranno ogni giorno; tieni a mente le nostre e l'altrui maldicenze; apri gli occhi sui fatti, e potrai subito esaminarli; stendi la mano, e li toccherai». L'accademico dall'occhio solo - «Questo voglio perb che tu dica a tutti: Che noi credendoci obbligati a noi stessi ed agli altri di guardarci dall'impostura, la quale, perché trama insidiosa, fu, da che mondo è mondo, per Dio! la più micidiale e la meno reparabile delle pesti, noi abbiamo sparlato, sparliamo e sparleremo. Altri si duole? Parli a sua posta; parli, ma non sotto voce; anzi non parli, ma taccia. Il tale letterato è impostore? - L'ho detto io. - Ma oggi pubblica un libro lodato da chi deve leggerlo ed impararvi. - Ba- 742 PROSE date che non lo lodino i soli confratelli! - Lo lodano anche molti altri: Cristo mi perdoni, perché gli uomini già mi castigano con le beffe: io per armi non avea che parole; ma quel letterato combatte a fatti. E forse ho tempestato tanto ch'egli, per ismentirmi, sfoderò finalmente la spada». L'accademico canuto - «Così è. Ma finché i letterati e gli scienziati si riducono a pochi degni di questo nome, mentre non s'incontrano se non professori di scienze, lettere ed arti: finché questa turba scrive pochissimo, male, e nulla nulla in Italia che conforti l'uomo, ed onori la patria, e trattanto suonano elogi in tutti i giornali e i licei, noi continueremo a schernirla, e loderemo soltanto i pochi grandi ed utili nostri scrittori. E sopra tutto finché vedremo che i letterati faranno da sacerdoti di Muse arcane, in teJl)pio a porte chiuse, chiamando ignoranti chi non vuole accostarsi, io, se mai gli altri per timore tacessero, o passassero indifferenti, io solo griderò a tutti e per tutti: - Non vi lasciate allettare a quel tempio; voi vi credete iniziati, udite la melodia del cantico misterioso; siete già coronati ; ma dentro v'è l'ara, il sacrificante, il coltello: non v'è ancora la vittima». L'accademico canuto pronunziò le ultime linee rizzandosi dalla sedia, e con occhi si arditi e con voce sì passionata, ch'ei parve a' Pitagorici un altro. A me, che con diligenza di storico lo mirai più da presso, parve che la pietà per la gioventù e l'onore della sua patria, dandogli opinioni che forse non sono credute vere o non piacciono, gli avessero dati ad un tempo que' risentimenti che la natura aveva esauriti per lui; poiché, come tacque, le sue guance, su le quali strisciò un rossore di foco, impallidirono in pochi minuti. Ma l'accademico giovinotto che stava sempre in forse di andarsene o di parlare, scorgendo la commozione dell'adunanza, rispose: «Ch'ei non avrebbe saputo difendere degnamente gli uomini dotti: ch'essi già gli avevano predetto, che chiunque vuol farsi luogo dirà male degli altri; e l'aveano scongiurato a lasciar dire, perché i pareri sono innumerabili come i vocaboli; però non se ne pigliasse, e non si aizzasse per amor loro, giovine com'egli era, controversie e vendette le quali avrebbero malignato il suo nome nascente e la fortuna ch'ei farebbe in Italia. Gli aveano anche provato che se in Italia non erano da certa gente stimati, aveano nondimeno corrispondenti ed amici in tutte le capitali d'Europa; ma niuno è pro-- feta nella sua terra. - Aggiugneva che le accademie sono tutte di L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 743 persone le quali per un verso o per l'altro conservano o promuovono le scienze, le lettere e le arti; di persone le quali tutte hanno scritto e stampato, o fatti doni ragguardevoli di libri, di macchine ec. ; e se ne dice male come la volpe dell'uva, e si sparla de' mecenati quasi che ve ne fosse gran numero, e non avesse Orazio medesimo detto: che l'aggradire agli uomini d'alto affare non è l'ultima tra le lodi;1 bensì que' grandi che favoriscono le belle arti e gli studii tengono lontani i saputi che vogliono fare da consiglieri». Voleva il giovinotto soggiugnere molte altre ragioni, ma gli mancava certa franchezza; e forse, perché s'era avvezzo a discorrere sempre a quattr'occhi, la voce non lo aiutava. Se non che alcuni Pitagorici lo aiutarono, e or l'uno or l'altro sostenevano insieme con lui: «Che le nuove opinioni, massime negli studii, sono cercate col lumiccino da chi vuol farsi credere qualche cosa; ma che, a conti fatti, tendono a rovinare quello che i giovani hanno imparato con tanta loro fatica e de' precettori, e dispendio del governo e delle famiglie». - << Che da tanti anni gli studii camminano a un modo, e, la Dio grazia, non siamo al viatico, né v'è bisogno di suonar campanelli; e se l'Italia possiede molti scrittori di conto lo mostra l'elenco dell'Accademia Italiana di Livorno;a e chi dice che non si studia, fa vista di non sapere che tre sole università danno da settecento lauree per anno; né già per uso, o per indolenza, o per grazia com'altre volte, ma dopo rigorosissimi esami». - «Che certi tali vanno predicando: fate meglio,· mirate a scopo più grande,· dilettate il popolo; scrivete, e che i cittadini v'intendano; ridano, e non si adirino de' guai della vita; piangano e non s'indurino nell'egoismo e nell'indolenza,· e ridendo e piangendo imparino le cose che voi già sapete: avvisi facili a darsi; ma come si fa? i cittadini, le donne, i signori non sono ancora educati a leggere con piacere; inoltre imparare e non affaticarsi è un bel direi» - «Che si allegano Inglesi, Francesi, Tedeschi, anche Tedeschi! e i prossimi al ghiaccio sono di moda; e si allegano come scrittori di molti libri; or que' libri sono poi di tal peso? storie politiche, storie d'arti e scienze, biblioteca britannica, viaggi, romanzi, tutti libri che corromperanno il buon gusto ed i buoni costumi». - «Che se que' libri di tramontana , . Epist., 1, 17, 35: «principibus placuisse viris non ultima laus est». 2. Accademia .. . Livorno: l'Accademia Livornese, di cui il Foscolo era socio, denominata anche Accademia Formale, fu istituita nel 1714 da Tommaso Balbiani, ed ebbe sede nel palazzo del Comune. Il Foscolo ne fu in corrispondenza col segretario Giovan Paolo Schultesius. 744 PROSE sono tradotti, è tutto capriccio di merci forestiere, e poco amore di patria; e chi li traduce è corrivo e ignorante, perché lo fa per commissioni e pochissimi scudi che gli danno i librai e gli stampatori; onde chi legge arricchisce i librai, e disimpara la lingua». - 1 Che la lingua non ha bisogno d'altro». - «Che si chiacchera contro i sonetti, i canzonieri, i poemetti e gl'idilii perché non si sa che la poesia è tutta cosa degl'Italiani; e che ogni nazione deve coltivare l'arte nella quale fa meglio; e v'è più studio a fare un bel canzoniere che un bel romanzo, e il poeta ha più ingegno e merito a mille doppi del prosatore». - cc Che se molti letterati non sudano a scrivere libri con gli studii, le diligenze ed il tempo che ci vuole, non per questo s'hanno a dire inutili al loro paese, essendo occupati ne' pubblici uffici, e forse con più profitto del pubblico». • Che le edizioni di libri, sui quali s'è consunta molta fatica, rovinano spesso gli autori; perché siamo avvezzati a romanzi, a storielle, a bellissime inezie; ma non abbiamo più stomachi per cose massicce, erudite, e di vera sostanza». L'accademico giovinotto rincorato da tanti aiuti, continuò finalmente a parlare da sé, e con tutta schiettezza concluse: - e, Ho letto e imparato tanto da sostenere, che i letterati non devono farsi scorgere dal mondo in rissa tra loro. Vivano in pace e lascino vivere; ed io porto rispetto perché voglio rispetto. Non mi dimenticherò mai d'una massima: non va mai detto, il tal non sa fare, o il tal libro è cattivo; ma sempre, il tale può fare, e nel tal libro vi è pure del buono; da che il gusto fu in tutti i secoli indefinito, e in tutti i libri s'impara. Se i letterati si calassero la visiera, come si fa sempre qui dentro, a chi appellarsi? a che giudice? I cittadinj, come vi ho detto, non vogliono sapere di libri; i grandi non devono intricarsene, e il popolo ... - Comunque sia, domando perdono; ma dichiaro ch'io non sono uomo da lasciarmi mettere paura, e non sarò né impostore né vittima». Il contro Presidente - «No in verità; e niuno ha parlato di te; e poi s'è detto in via di discorso: figura rettorica. - Ascolta per altro; aspetta -vedo in quell'altra camera apparecchiarsi i sorbetti. Quand'io stava in Napoli nel mio reggimento, conobbi un signore; faceva all'amore, era bello, giovine, ricco, cantava, ballava, e i suoi versi piacevano. Il vaiuolo lo fe' più cieco d'Omero ;1 ed ei se ne 1. Quand'io ••. d'Omero: nota E. SANTINI: • L'allusione evidente al conte Girolamo Murari dalla Corte (1747-1832) [•••] fu notata anche in una L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 74S consolava con la religione e coi versi. Aveva a mensa dotti d'ogni paese; ed io, non so come, mi sono un giorno veduto fra gl'invitati. Alle frutta un vecchiotto in occhiali disse ad un giovine in collarino: - Su, da par suo, signor segretario, ella che sa pur tante belle cose, e che ne scrive ogni giorno, faccia sentire anche a noi un po' di bella poesia. E tutti gli altri, da bravo, da bravo! - Il cieco si andava scusando con gli ospiti; - e m'accorsi che quello dal colJarino era suo segretario. Signor abate, dissegli il cieco, reciti in vece que' sonetti del Frugoni1 e que' versi sciolti del ... del .•• - non mi ricordo più il nome. - Fatto sta che il segretario recitò per più d'un'ora, e chi lodava e chi biasimava; e tutti attenti su quello del collarino. lntuonò finalmente un poemetto in ottava rima, e accennò più volte con gli occhi il padrone di casa, che solo non poteva intendere il cenno: - Bella ottava! - Che stile! - Che forza di f antasia! - dicevano molti; e davano quell'ottava or al Poliziano, or al Tasso: no; diceva qualcheduno e taceva: gli altri citavano grandi poeti: no; sì; ed erano quasi in lite per quelle ottave; ma, fuori di due che dicevano asciuttamente no, e di me che non dissi parola, tutti lodavano. Il cieco s'alzò e pregò i commensali che lo favorissero la domenica seguente in campagna. Lo rividi dopo molti anni; aveva già, in edizioni magnifiche di molti versi e poemi, logorata molta entrata e molta salute; i giornalisti lo lodarono; tutti gli altri ridevano. Le risa erano forti e pubbliche, ed egli non poteva dare de' pranzi a tutti i lettori. A dirla a modo, la saria lunga. Ma mentr'io cercava di consolarlo, egli prese con le sue mani magre e fredde la mia, se la strinse tutto tremante sul petto; e il cuor gli batteva, vecchio e quasi morente; ma gli batteva. Alzò al cielo quegli occhi che da tanto tempo non potevano più dir nulla; esausti fors'anche di pianto, perché la lagrima, che voleva spuntare, appena appena si fermava su le palpebre: ma dal tremito delle rughe intorno agli occhi, e dall'immobilità di tutta la testa, avrei giurato che domandava rassegnazione, fin al momento ch'egli potesse rivedere il cielo in un mondo diverso da questo. Dissem1 ... >>. Molti accademici in coro - << Lo sapevamo». lettera di C. Ugoni al Foscolo del 27 luglio 18101 edita nel Baretti, a. 1v1 1872. n° 40, p. 319 • (Edizione Nazionale, v111 p. 266, nota a). E vedi Epistolan·o, 111, p. 442, nota 2. 1. Carlo Innocenzo Frugoni (Genova 21 novembre 1692 - Parma 20 dicembre 1768). PROSE Il contro Presidente - (( Lasciate dire, per Dio! lasciate finire col vostro malanno! E per quali peccati miei son io dunque dannato nella babilonia di mille dottori? Fra tante baie che voi spacciate per nuove solo perché sono dette con nuovi spropositi e con analisi ed arzigogoli, e col diavolo che ammogli voi tutti ... per questo non potrò più dire nulla di buono? Mi sta bene perché mi sono sfiatato a insegnarvelo un'altra volta. - Quel povero signore cieco mi disse ... ». E continuava, volgendosi all'accademico giovinotto che unico avrebbe potuto udire la fine di quel racconto, da che gli altri tutti andavano lontani intorno a' sorbetti; ma il giovinotto gli disse buonanotte, e partì. Però il contro Presidente si piantò tutto nella sua scranna, strinse le labbra, chinò la testa, strinse le mani e incrocciò i pugni su le ginocchia, socchiuse gli occhi, e per certe sue ragioni lasciò eh'altri si godessero la scommessa. La pagava il Presidente il quale avea più sere addietro negato: Che gli Arabi toccandosi i genitali giurino pe' loro nepoti che nasceranno; e aveva sostenuto: Che gli Arabi toccandosi la barba giurino pe' loro padri che sono morti. La lite fu col P. Calmet1 e con la Decade Egiziantl' alla mano perduta dal Presidente per un sol voto. L'Araldo che vedeva Jtadunanza più seria del solito, s'era ricordato di quella scommessa ed usci ad ordinare i sorbetti al Geografo. Ma il contro Presidente che, per natura non poteva sostenere il silenzio, stava immobile tuttavia, e tendeva l'orecchio, finché intese uscire da un cantuccio lontano della sala la voce d'un accademico, il quale, alzando la testa da un tavolino, diceva al Geografo che gli presentava il sorbetto: << Dammi il caffè; tante dissertazioni sopra una gazzetta m'hanno fatto morire di sonno; dammi il caffè: se ricominciano m'addormento». «Ah ah! disse mandando a lui le parole il contro Presidente: E che t'ha mai fatto il Tipografo? Un giornale ha già ristampate le tue censure: sanno che tu se' Pitagorico; e il Corriere Milanese t'ha rimandata la palla». «Conforto del galantuomob> - dicea l'accademico a mezza voce, senza attendere al contro Presidente; ed assaporava trattanto col 1. Augustin Calmet (Mésnil-la-Horgne [Lorraine] 26 febbraio 1672- Senones 25 ottobre 1757). Benedettino, è soprattutto noto come commentatore della Bibbia. L'Histoire universelle vedeva la luce fra il I 735 e il I 747. 2. Decade Egiziana: di tale testo, che non mi è riuscito di reperire, è anche menzione nella Chioma di Berenice. L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 747 naso i vapori esalati dal caffè mentre il Geografo lo versava. Poi mirando con occhi amorosi la tazza piena e fumante, tornava a dire: «Conforto del galantuomo, fra poco non t'avrò più!».1 Il contro Presidente andava interrogandolo: (< Che mai gli avesse fatto il Tipografo?». - E l'accademico, ad ogni interrogazione, pigliava un sorso del suo caffè. << Rispondi una voltai» replicò per tre volte il contro Presidente: - e l'accademico posando la tazza votata, e guardandola mestamente: «Mi resterà almeno, diceva, mi resterà il conforto del pover'uomo». - E traendo di tasca la tabacchiera, l'aprì adagio, pigliò una presa e tornò ad esclamare sotto voce: «Conforto del pover'uomoI». - Poi voltò il viso al contro Presidente, che taceva indispettito, e gli disse: - «Il Tipografo? A me non ha fatto mai nulla». 1l contro Presidente - «Tu se' in lite, e tu l'hai deriso ». L'accademico - «S'io fossi in lite del tuo e del mio, o emulo d'onore, o rivale d'amore, non adoprerei scherni». Il contro Presidente - «Ma se tu dici ch'egli è tuo amico?» L'accademico - «Vi sono sette amicizie. 1. di cuore - 2. di mente - 3. di compagnia - 4. di gentilezza - 5. di conoscenza - 6. di diplomazia - 7. di cappello: e tutte le ultime sei si combinano in infinito tra loro per distruggere sempre la prima. Io non m'intendeva di divisioni e suddivisioni; ma il vocabolo Amico è divenuto si universale che senza la teoria delle idee accessorie ad ogni vocabolo d'ogni lingua letterata d'Europa, non avrei potuto sapere come spendere l'amiciz,:a, da che devo anch'io nominarla come usano tutti per non essere notato di barbarismo». 11 co11tro Presidente - «Dunque?» L'accademico - «Tranne la specie prima d'amicizia, che ho data tutta per pagare almen parte del debito a pochi; e la seconda, che senza sperarmi ricambio, do spesso a moltissimi morti ed a molti vivi; e la sesta, che non so dare né voglio ricevere, tu puoi combinare le altre quattro specie a tuo modo, e troverai l'amicizia che ho data al Tipografo in cambio d'altrettanta da lui ricevuta». Il contro Presidente - «Tu apri e chiudi la tabacchiera; temi ch'io ti faccia morire di sonno?» 1. fra poco . .. piri: a causa delle guerre con l'Inghilterra, il caffè scarseggiava in Europa. PROSE L,accademico - «Questa è scatola regalatami dal Tipografo; e vi pigliai molte prese nell,ora ch,io scriveva contro di lui.1 Egli ne ha un,altra, che lo pregai e lo prego di conservare per mia me- moria». «Sterne,2· Sterne! la scatola del Frate! »3 esclamò un accademico, mentre tutti gli altri tornavano dai sorbetti alle loro sedie: e mi parve la stessa voce di quell'accademico che aveva mosso il quesito dell'E/issi del sole. L'accademico - «Se tu avessi vista com'hai memoria, non saresti eco de' giornalisti che gridano sempre al ladro ed al plaggio.4 Vedresti che la natura riproduce sempre nasi e sempre occhi; e che l'arte deve sempre riprodurli con le varietà e gli accidenti co, quali la natura e la fortuna distinguono ad una ad una le stesse cose nell'universo. Una tabacchiera di corno fu donata a Lorenzo Sterne da un povero frate avvezzo a patire vivendo: e questa tabacchiera, che pare di tartaruga, mi fu donata da un Tipografo avvezzo a seccare scrivendo. - Non so se Sterne racconti il vero; ma questa scatola è vera e reale, nera, con un cerchio dorato sopra il coperchio: l'altra ch'io diedi al Tipografo è simile in tutto, se non che il cerchio è formato d'una serpe che si morde la coda: e chi non crede, domandine». Il contro Presidente - «A. ogni modo si vede ch'egli tenevati per .amico». L'accademico - cc Se tu fossi giudice, ed io fossi omicida, ed amico tuo, e t'avessi regalato, tu mi faresti un regalo, piangeresti, e mi manderesti al supplizio». Molti accademici - cc Che paragoneI» L'accademico - cc Alla parvità della colpa di un ciarlatano letterario, è debitamente proporzionata la parvità della pena d'una censura amarissima di giornale». 1. nell'ora ... di lui: vedi il citato saggio foscoliano sulla Trad"zione de' due primi canti dell1 Odissea. 2. Laurence Sterne (Clonmel [Irlanda] 24 novembre 1713 - London 18 marzo 1768). Autore oltre che del Se11timental Journey Through France and ltaly (1768), e del romanzo The L,fe and Opinions o/ Tristram Shandy (1759-1767), delle seguenti opere: The Case o/ El,j"ah, a Charity Sermon (1747); The Abuse o/ Conscience (1750); The Political Romance (1769); Sermons o/ Mr. Yorick (1760-1769); Letters /rom Yorick to Eliza (1775); Twefoe Letters to His Friends on Variolls Occasions ecc. (1775); Letters o/ the Late Reverend Laurence Sterne to His Most Intimate Friends ecc. (1775). 3. Sterne . .. Frate!: allude aWepisodio del cap. Xli del Viaggio sentimentale (qui alle pp. 792-4). 4. plaggio: inganno. L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 749 Il Bibliotecario - cc Ma le leggi devono essere giuste; e gli uomini, come dice Platone, compassionevoli ed equi ». L'accademico - cc E però prima di parlare in pubblico con la giustizia alla mano, ho per tre anni avvisato con amore e con equità chi tenevami per amico, acciocché si ristasse dalle ciarlatanerie letterarie, e facesse lo stampatore e il mercante. Non udi; ed io scrissi contro di lui la sentenza». Molti accademici - «Ma con che veste e con quali diritti?» L'accademico - C< Con la veste dell'arte mia, e col diritto e col comando della natura. Mi s'è cacciato in fantasia, che ogni uomo abbia un'arte, e una patria da onorare con l'arte. Ho veduto che l'infamia dell'arte è prodotta da' furbi che cercano il loro interesse, dagli sciocchi che non lo cercano, e dai conniventi che lasciano correre. Per difendere dunque l'arte mia, e con essa l'onore in ciò che posso, della mia città, non vedendo giudici contro i ciarlatani di lettere, ho radunate le prove, e scritta quella sentenza. Al tribunale d'Appello siedono per giudici tutti i cittadini. Se avrò mal giudicato, mi puniranno». Il Bibliotecario - > ,e Il consiglio merita gratitudine» - rispose l'accademico: però con la placidezza con che aveva sempre risposto, esibl a tutti in volta una presa del suo tabacco; chinò la testa sul tavolino; e credo eh'ei tornasse a dormire. Il Capo d'opposizione e il contro Presidente ascoltavano più attenti degli altri; e il primo nel pigliare tabacco, cantò versi con la solita musica, mentre l'altro lo interrompeva. E o fosse che tutti 1. se un altro ••. quel libro: nota E. SANTINI: «La prefazione al Dizio11ario domestico sistematico di Gaetano Arrivabene; stampato a Brescia dal Bcttoni nel 1809, è di Ferdinando Arrivabenc: vedi per quello che dice del tipografo a p. XXXIV in nota, e per le lodi al Foscolo a p. IV, n. I• (Edizione Nazionale, VII, p. 271, nota a). L•ACCADEMIA DE• PITAGORICI (1810) 751 e due sapessero a mente que' versi, o che il contro Presidente. il quale sin da ragazzo si dilettò di poesia improvvisasse felicemente, fatto sta che neWinterrompere serbò per due volte la misura del verso. Il Capo d'opposizione. Se dopo anni due mila e quattrocento hai più reliquia; e se uman priego a Dite piace per l'ombre di color che furo, riposa in pace, e il Diavolo sia pio a te, che queste a' greci auree parole vecchio cantavi! - E all'uomo unica gioia bella donna e pudica. Il contro Presidente. Oh terno al lotto! Il Capo d'opposizione. Odi l'altra sentenza: -Ad altri mieta fra schiavi l'uom che vede il furto e tace. Il contro Presidente. Angli, è qui la Guinea! Il Capo d'opposizione. Bada alla terza: Piova il cielo o non piova, havvi chi duolsi. Il contro Presidente - << E questa è sì vera da non dirsi in poesia. In un villaggio il parroco cantava un triduo, perché quei che avevano seminato formento volevano che non piovesse; e il curato ne cantava un altro nella cappella del feudatario, perché i padroni delle risaie volevano che piovesse». Ma già tutti erano tornati a' lor seggi, e l'Araldo tornava alla sua lettura. Fino dal tempo che il canuto accademico perorava, il Segretario e molti altri impazienti di curiosità aveano tumultuando chiamato l'Araldo perché finisse di leggere l'articolo Varietà, e chiedevano del Geografo acciocché almeno trovasse quella gazzetta. Ma l'Araldo era uscito, come s'è detto ad ordinare i sorbetti, e il Geografo gli stava apprestando. Or quando tutti ebbero ringraziato il vincitore della scommessa, e conceduto per consolazione al Pre- 752 PROSE sidente: Essere quasi geometricamente provato, che i più celebri cantanti d'Italia non possono giurare né pei loro padri che sono morti, né pei nepoti che nasceranno, il Geografo pigliò la gazzetta dal manico d'una caffettiera intorno al quale egli l'aveva ravvolta, la spiegò, la diede all'Araldo, e l'Araldo leggeva: - E termina, badino, disse il lettore, che si parla sempre dell'autore dell'articolo su l'Odissea E termina coll'assicurare (da buon fratello) che questo suo lavoro non gli costa fatica perché la PROVVIDENZA glielo ha mandato sotto la penna». Il contro Presidente - «A che mi assordi con quel vocione?» L'Araldo - «Veda; la ProfJ'lJidenza è maiuscolata». Il Segretario - << Per irritare i dotti contro l'avversario, il gazzettiere cangiò nel testo i fratelli savii drcospetti, in fratelli letterati. Sta a vedere che vorrebbe forse anche avvertire l'anime buone, che l'avversario, avendo nominata invano la provvidenza, sia fatalista». Il contro Presidente - << Destino destinato destinatissimo! » - E voleva nuovamente spiegare le teorie del fatalismo. I Pitagorici al capo II. di questo libro ne risero ;1 ma il lettore, spero, le avrà ponderate. Per ora il contro Presidente, toccavasi il polso esclamando: << La forza ed il numero delle battute di questo momento erano già registrati sin dal principio de' secoli». Il Presidente - «È fuori di dubbio che quanto più il numero delle persone offese ristringesi in ceti diversi e in partiti, tanto il desiderio ed i mezzi della vendetta sono più efficaci e più pronti». L'Araldo - «Ho finito ». Il Segretario - «Non v'è soscrizione?» L'Araldo - "Eccola: LU' Segretario dell'Accademia de' Pitago- rici».2 «Meno male» disse il Segretario; sorridendo com'uomo che si pentiva d'essersi corucciato per poco. - «M'aspettava che l'impostore si fosse anche appropriato il mio nome». Molti accademici un po' lontani dicevano ali'Araldo che leggesse un'altra volta quel nome. Ond'egli postosi nel mezzo della sala pronunziò fortemente: LU'. - UHI - suonò tutta in rima l'adunanza de' Pitagorici. L'Accademia fiorentina della Crusca decretò che la particella 1. J Pitagorici ... risero: vedi Edizione Nazionale, vn, pp. 292-3. 2. L'articolo del Lampredi era infatti sottoscritto LU', Segretario perpetuo dell'Accademia de' Pitagorici. L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 753 UH dinotasse dolore; e a me pure gioverebbe sempre di conformarmi ad ogni sua legge. Ma se il tenore della voce, e l'aspetto ed i gesti di quei che proferiscono una parola, le aggiungono, levano, cangiano tanti significati che tutti i vocabolarii di tutte le lingue di Babele non potrebbero mai definire, io devo invece per questa volta obbedire al decreto dell'Accademia milanese de' Pitagorici. L'interiezione monosillaba in rima, come fu pronunziata unanimemente dall'adunanza, avrebbe anche all'orecchie men letterate significato e dolore, e disprezzo, e dileggio, e quel noioso ribrezzo che ti piglia quando invece di ragioni ti vedi rispondere una fred- dura. Gli Accademici per altro diceano: «Che quell'articolo Varietà non pareva di gazzettiere; tanto era scritto con garbo e con esattezza di lingua». - Ma l'Araldo percorrendolo cogli occhi, sbadigliava nel mezzo della sala, e risbadigliava. Invitato dal Geografo a bere il caffè, egli, fatto un inchino di ringraziamento, rispose: «Ch'ei non s'intendeva di contraddire a quegli accademici, i quali avevano lodato lo stile dell'articolo Varietà; ma ch'ei rileggendolo vi sentiva pur sempre in quelle lodi al Salvini, in quelle ambiguità di discorso, in quella passione per le scuole de' Regolari, in quelle malignità letterarie, in quell'amicizia co' dottori di sacra teologia, e in quelle freddure da ingemmare gazzette, vi sentiva dentro certi modi, certe frasi, certe opinioni, certe malignità, certe menzioni di care amicizie Regolari e teologiche, certa compiacenza di freddure e d'indovinelli, udite e vedute da lui Araldo, quando studiava in collegio sotto un maestro di molte scienze, per le lezioni del quale, egli che non ha mai voluto· studiare, s'era addormentato sul banco della scuola più volte: che però pregava l'Accademia de' Pitagorici a perdonargli pochi sbadigli di pura reminiscenza ,,. E siccome un uomo sbadigliante nel mezzo di una stanza suole muovere allo sbadiglio i sedenti, il lettore che nel principio di questo libro avrà veduto l'elenco dell'Accademia, e il carattere più o meno svegliato di ciascheduno de' membri, potrà sapere a un di presso come e quanti accademici sbadigliavano. Onde l'Araldo in riparazione del male ch'egli avea fatto, can- tava: «Dimmi tu, che pur sei mezzo algebrista, come avvien questo? Tu se' mezzo critico, 754 PROSE mezzo sacro dottor, mezzo ellenista mezzo spartano, mezzo sibaritico, mezzo poeta, mezzo freddurista, mezzo frate, mezz'uom, mezzo politico: Come, in tante metà, nulla è d'intero? come, tutte sommate, fanno zero? ».1 «L'amore ti asperga di ambrosia con un mazzetto di viole mammole quando quella tua faccia rubiconda, e quelle tue membra da cacciatore appariranno al corso tra le fanciulle che ti vorrebbero per marito!, disse il contro Presidente ali'Araldo. - Araldo mio, questi versi mi ricordano una donna gentile che li intonava ridendo a quel Pitagorico quand'ei davasi a fare il susurrone di letteratura, come abbiam fatto noi tutti stassera, perdendo l'ozio che ci rimane a vivere un poco più allegri. E quel ciarlone si stava zitto; o parlava di cose più allegre. E poi tu m'hai fatta tornare a mente l'immagine di quella giovane. Ah se il dio d'amore invecchiasse, poiché dicono che invecchia anche il sole, sono sicuro eh'ei si porrà gli occhiali per contemplare nel suo quinternetto di disegni il ritratto di sì bella creatura! »Gli accademici avrebbero badato più attenti all'anacreontica in prosa, se il contro Presidente non l'avesse già recitata altre volte; onde il Segretario disse per cosa nuova: «Che nel[l']epigramma aveva notate molte varianti ». Il Capo d'opposizione - «E' le ci stanno a pennello». Da queste parole i Pitagorici s'accertarono nel parere che il Capo d'opposizione sapesse ogni cosa; tanto più che costumando egli sempre (come il lettore ha veduto) d'interrompere ed assordar l'adunanza con la prepotenza del suo polmone, e d'avviluppare qualunque argomento nelle nuvole della sua metafisica, questa volta aveva appena degnato con poche sillabe, o con quella cantilena enigmatica d'ingerirsi nelle lunghe quistioni su l'articolo Varietà. Molti adunque gli andarono attorno pregando, scongiurando, schiamazzando perch'egli manifestasse il nome dell'impostore. E stando egli sempre sul no, parecchi accademici nominarono invano il nome e i miracoli di molti illustri maligni; anzi il 1. Dimmi .• . %ero: allude a Urbano Lampredi. Per l'epigramma vedi Edizione Nazionale, II, pp. cxxiv e 446. L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 755 contro Presidente ci aggiungeva del suo la profezia fatale della morte di tutti. Molti accademie,·, or l'uno or l'altro - «Gli è forse ... quell'uomo vestito sempre ad un modo, corpo di marmo, faccia di bronzo ... - cuore di corno - piedi di feltro - mani di spugna - testa di zucca ... )). Il Capo d'opponzi'one - «Zitto». Gli accademi"ci. - «Gli è desso - Non può essere, no - Forse quell'altro che ha un occhialino dentro la testa fatto nella fucina di Momo1 - Perché? - Perché scopre le magagne di tutti - Dove? Alla mensa di Trimalcione e di Sofistilla2 - E a veglia - Ma sotto voce, perché è pauroso come coniglio, miserello e spilorcio come rospo, sospettoso come la vecchia in amore ... ». Il Capo d'opponzi"one - «Zitto». Un accademico bisbigliò un nome all'orecchio del Capo d'opposizione, e questi gridò: «I maldicenti addottorati, siccome è questo di cui v'intendete, non adoprano l'inchiostro mai con la penna. Lo versano a secchi, poi se ne tingono anch'essi tra gli altri negri perché niuno possa conoscerli». Il Segretario - «V'è anche tale che non tocca inchiostro, ma parla ;3 e se tu Io intendi e lo insegui; scappa come quell'altro animale; piscia di paura per via, e lascia un fetore che ti fa ritornare subito addietro». GU accademi'ci - «Forse sarà quel ... che parla forte - Anzi ha due orecchi e due occhi - E per questo? - Non guarda che con un occhio, e non empie se non una sola di quelle orecchie - Tu di' bene; dà sempre ragione e nel bene e nel male alla stessa persona. È vero, è vero; non può essere altri: e avrà scritto l'articolo perch'ei fa sempre a modo di chi gli parla ultimo>,. 1. Forse . .. Momo: nota G. A. MARTINE'M'I, op. cit., p. 34: «Tranne il Lampredi ed il Monti, non mi direi sicuro di non sbagliare nominando le persone n cui i frizzi sono diretti: parmi però che quello dell'occ/rialino dentro la testa/atto nellafucina di 1\tlo,no sia l'Anelli». Vedi la Clavis delt»Ipercalisse, caput duodccim, vs. 10, e la nota relativa, alle pp. 1002-3; Momo, dio maledico, figlio della Notte e del Sonno. 2. Alla mensa ... Sofisti/la: nota G. A. MARTINETI'I, op. cit., p. 34: «[...] Trimalcione e Sofistilla [parmi] sieno G. Paradisi e Annetta Vadori ». Vedi la Clavis dell'1percalisse, caput sextum, vs. 6, e la nota relati\'a, alle pp. 998-9; caput decimum, vs. 14, e la nota relativa, a p. 1001. 3. V'è anche .•. parla: nota G. A. MARTINETTI, op. cit., p. 34: «[...]e sia Filippo del Rosso quel che non tocca inchiostro, ma parla». Vedi la Clavis dell'Ipercalisse, caput dccimum, vs. 2 1 e la nota relativa, alle pp. 1000-1. PROSE Il Capo d'opposi:4ione - «Non è». Molti accademici - «È: non può esser altri ». Il Capo d'opposizione - «No». Gli accademici - «Scommettiamo». Il Capo d'opposizione·-« NO)) - e gridò. E perché il lettore possa almeno ideare il grido del Capo d'opposizione ricordisi il NO di Tamas-Kuli-Kan1 a' suoi capitani che imploravano in grazia parte almeno de' trecento mila Indiani ch'egli faceva scannare: si levi il feroce e il magnifico, si conservi il testardo e il poetico, e si avrà forse il NO rimbombato nelle sale dell'Accademia. Quando gli accademici si ridestarono dallo sbalordimento, continuavano a cercare l'autore dell'articolo Varietà. «Perdio! l'ho trovato - Chi? - Chi? - È uno che parla sommesso, presto, di tutto2 - Bravo! - porta un bastone da pellegrino ... ». Il Capo d'oppos.,-zione - «Zitto)>. - «Dice bene; s'ei fosse non porterebbe bastone - E perché? Non ti ricordi com'ei fu flagellato a sangue da quel poeta insidiato ?3 Corse grondante di sangue; lagrimò sul flagello, e il poeta gli accordò pace ». Il Capo d'oppos1.'zione canticchiando: «O uomo placabil sempre, e non tranquillo mai! fuggi questi Abner di Satan fratelli, che il magnanimo cor t'aprono a l'odio, che di sovran guerrier men che fanciullo ti fanno! ».4 Poi prosegui a mezza voce, e i Pitagorici stavano sempre più attenti: - cc Tu sei generoso, e pure molti ti temonoI tu se' schietto, e molti t'insidiano! tu non senti invidia, e tu ti sei di volta in volta adirato e rappacificato con tutti! Tu t'accorgi de' tristi e tu perdoni i loro vituperii, finché t'abbiano nuovamente contristato e 1. Nadir Scià (1688-1747), re di Persia, noto da generale con il nome di Tamas-Kuli-Kan. 2. È uno ... di tutto: allude a Urbano Lampredi. 3. Non ... insidiato: nota G. A. MARTINEITJ, op. cit., p. 34: 11 Con amara derisione vi si parla del Lampredi [...] e più chiaramente lo si svela, quando si dice che "fu flagellato a sangue dal poeta insidiato" (il Monti)•· 4. O uomo .../anno: allude a Vincenzo Monti, citando (fuggi ... /anno), modificate, le parole che nel Saul alfieriano (atto IV, scena IV, 227-30) Achimelech rivolge a Saul, del quale Abner è il malvagio consigliere. L'ACCADEMIA DE' PITAGORICI (1810) 757 macchiato nel mondo; e tu perdonerai nuovamentel Ma se tu ti compiaci d'ingrati, credi che il mondo te lo perdoniI Tu se' uomo, tu sbagli talvolta, ed ascolti l'amico; ma taluno ti adula per farti sospettar dell'amico. E non sai ch'ei ti lodano per carpirti lodi, beneficii, e favori? Non vedi che chiunque ti biasima non teme il tuo sdegno perché ti ama e ti stima come onore dell'arte? Se tu non lo ascolti, o dovrà tacere o dire il vero lontano da te. Ma la lode di chi dice il vero non ti frutterà forse più de' panegirici di mille uomini falsi? Non vedi che i maligni parlano sottovoce? Che gli invidiosi non si fanno mai scorgere ? Fuggi questi Abner di Satan fratelli!» Gli accademici continuavano - «Se fosse quell'impostore flagellato non porterebbe bastone - Ma qui fu dianzi nominato uno Chi? Non vo' dirlo - Parla, parla - Ma io non lo so di certo Parla - Dicono che sia ... non vo' dirlo - Dillo piano - Che sia . . . parla rado, sensato, gentilmente - Sì, sì; ed è dotto davvero; e scrive esattissimo - L'hanno detto anche a me - Anche a me - E ... ». Il Capo d'opposizione - cc L'hanno detto, e lo vanno dicendo per adirar l'uno e affliggere l'altro; e tutti voi, non volendolo, giovereste a' Creonti.1 Udite e tenetevi a mente, e riditelo; l'uomo che vi hanno nominato que' vili può far bene alle lettere e ne fece; s'ei tace, segue l'indole sua, e più forse la sua salute: ma s'altri l'accusa di troppa prudenza, niuno potrà senza costituirsi calunniatore accusarlo mai di malignità». Il Presidente - «Adisson2 narra che i letterati inglesi erano amici di cuore in vita e in morte; e nemici d'opinione in istampa: e che ifrancesi si odiavano cordialmente, e si lodavano a vicenda ne' loro libri. Ma gl'italiani non faranno progressi come gl'inglesi, né acquisteranno fama come i francesi, se la ciurma letteraria riescirà sempre a dividerli. Odiandosi nelle loro stanze per le maligne riferte3 de' I. Creonti: scrive il FoscoLo nell'incompiuto capo secondo del Ragguaglio: • Ma dove avete imparato quest'arte di dar torto in faccia a tutti nelle questioni? [...] Dalla tragedia d'EteocJe e Polinice, ove Creonte, dando secretamente ragione a tutti, fa che i fratelli si scannino l'uno su l'altro» (Edizione Nazionale, vn, p. 285, nota d). 2. Joseph Addison (Milstone I maggio 1672 - London 17 giugno 1719). Vedi, nel tomo 11, quanto il Foscolo scrive deIPAddison neWarticolo Antiquarii e critici di materiali ston·ci in Italia ecc. 3. riferte: delazioni. PROSE vili; tacendo in pubblico per meschini riguardi, le scienze non combatteranno più con le scienze, né le lettere con le lettere onde animarsi esercitarsi emularsi fra loro; ma il vero combatterà contro il vero, l'onore contro l'onore, i buoni cittadini ne piangeranno, gl'ignoranti si chiameranno beati nella loro ignoranza, gli sciocchi ne rideranno, e il merito forse e la fama spariranno da questo cielo più liberale d'ogni altro)). Molti accademici - cc Ma il nome? Certo bisogna conoscere il nome dell'autore di quell'articolo Varietà! - L'abbiamo lodato; s'è detto ch'è scritto bene - Bene o male, s'ha a conoscere l'im- postore». L'accademico canuto - «Ma non l'abbiamo rimeritato noi forse dall'impostura? Chi sa ch'egli o mal consigliato, o comandato, o pagato.non abbia tinta la penna nell'altrui fiele? Forse a quest'ora avrà paura e rimorso, da che cerca di rimanersi celato. Lasciamolo stare celato; altri non lo accappareranno per segretario; poiché sanno che l'Accademia non ne ha di sì fatti». Un accademico-« Dopo tanto, s'è trascurato quello che importa. Importa di far pubblicare nella stessa gazzetta: Che l'Accademia de' Pitagorici non tiene private adunanze; che di'chiara apocrifo quell'articolo; e che l'impostore ha usurpato il titolo di suo segretario». - E mi parve la voce che promosse il quesito su l'E/issi del sole, e fu la terza volta che in tutto il tempo dell'adunanza mi venne fatto d'udirla. L'Accademia decretò Che niuno de' suoi membri possa mai scrivere in nome suo; che sedendo in pubblico sempre, il pubblico può sapere ogni cosa,· e che non le importa di conoscere l'impostore. Non di meno alcuni accademici più curiosi andavano ridomandando il Corriere Milanese all'Araldo, per esaminare con più diligenza lo stile dell'articolo ed avverare l'indizio. Ma l'Araldo avea sbadatamente fatta a pezzi quella gazzetta, e ne distribuiva agli accademici, che andavano a casa, tanto da poter alluminare le loro lanterne: e col poco che gli rimase accendea la sua pippa, perch'ei si diletta a fumare fuor della porta. VIAGGIO SENTIMENTALE DI YORICK LUNGO LA FRANCIA E L'ITALIA (1813) NOTA INTRODUTTIVA Sebbene del nome dello Sterne non sia traccia nel Piano di Studii (1796), tra quanti nell'abbondante lista delle auctoritates antiche e moderne stanno a dimostrare l'ambizione di esaustività e selettività del giovanile enciclopedismo letterario foscoliano, certo si è che il Tristram Shandy e il Sentimental Journey Through France and ltaly, due anni più tardi, erano all'origine dell'ortisiano Frammento della storia di Lauretta, come del resto lo stesso autore confesserà nella Notizia bibliografica, pubblicata di seguito alla stampa zurighese delle Ultime lettere (vedine la nota introduttiva, a p. 559). Che l'impatto diretto con lo Sterne risalga originalmente al forzoso soggiorno francese, tra Calais e Valenciennes (oltre che rammemorato dalla data nel proemio della versione: Calais 21 settembre 1805), risulta da lettera indirizzata ad Amélie Bagien, probabilmente del gennaio del 1805 (vedi Epistolario, II, pp. 43-4); e anche da altra, alla medesima corrispondente, del settembre 1805, da Boulogne-sur-Mer, si evince che se al Foscolo non era stato possibile tradurre la «Storia della poor Maria», cioè il capitolo XXIV del libro IX del Tristram Shandy, stando a Calais, i «frammenti• relativi a quella, e contenuti nel Sentimental Journey, erano stati successivamente resi italiani, e solo aspettavano d'essere trascritti (Epistolario, II, p. 74). Tutto ciò non doveva poi ridursi ad un saggio di traduzione della porzione più accusatamente patetica del testo sterniano, se all'altezza del 25 ottobre 1805, sempre alla Bagien, e da Boulogne-sur-Mer, scriveva: •J'ai achevé Sterne; maintenant j'y fais des notes [...] • (Epistolario, 11, p. 86). Rientrato a Milano, il 20 marzo 1806, il poeta richiedeva infatti al Ministro della Guerra quattro mesi anticipati di soldo, onde procedere all'edizione dell'opera composta in Francia (Epistolario, II, p. 96), e a Ferdinando Arrivabene, probabilmente da Brescia, nell'aprile 1807, annunciava: • Sulla traduzione di Lorenzo Sterne eccoti l'ultimatum. La darò alla fine delranno I807 con untometto di note(...]• (Epistolario, 11, p. 195). È verosimile che l'Esperimento di traduzione della Iliade di Omero, i Sepolcri, l'incarico pavese prima, e la tumultuosa vicenda dell'Eunucomachia poi, facessero passare in sottordine la progettata stampa del Viaggio, della quale è menzione nuovamente solo in lettera da Firenze, del 19 e 20 agosto 1812, a Cornelia Martinetti, contenente l'offerta, amabilmente declinata dalla destinataria, della dedica della versione (vedi nel tomo n la lettera 75). Alla stessa il Foscolo, stabilitosi a Firenze, si rimise di lena, e cosi ne dava notizia a Giovan Paolo Schulthesius, il 13 settembre 1812: • I' mi sto appunto ritraducendo una versione PROSE del Viaggio di Sterne [cui si riferisce il manoscritto della Biblioteca Marucelliana di Firenze, D 119, composto di cc. 266, interfogliate alla stampa del Sentimental Journey ecc., Paris, Renouard, 1802] da me fatta sui margini del libro [della quale invece non è notizia] mentr'io viaggiava e viveva con gl'lnglesi [...]»(Epistolario, IV, p. 143). Incombenza rapidamente condotta a termine, se il 4 ottobre 1812, da Firenze, avvertiva Silvio Pellico: cc Ho anche finito sino all'ultima sillaba il Viaggio sentimentale di Sterne[...] »(Epistolario, IV, pp. 168-9), ma non si accordava con lo stampatore, probabilmente il Piatti (vedi Epistolario, IV, p. 197), tanto che ad Isabella Teotochi Albrizzi, il 1 s ottobre, ribadiva: «Ho ritradotta la traduzione del Viaggio sentimentale, perch'era troppo fedele, e sentiva ringlesismo nella lingua, e lo stento nello stile; ora la stamperei, ma i librai vogliono la• sciarmi tutta la gloria, e si contentano del solo guadagno dell'edizione» (vedi nel tomo II la lettera 79). In che consistesse lo «stento nello stile» è poi chiaramente espresso in lettera allo Schulthesius, del 31 ottobre 1812, da Firenze: cc Quand'io le scrissi d'avere ritradotto il Viaggio sentimentale di Sterne, non m'intendeva già d'essermi giovato dell'altrui traduzione. Trovandomi per occasione ad albergare nell'Hotel Dessein à Calais, e a convivere con gl'lnglesi, mi posi nuovamente alla grammatica per intendere quell'autore bizzarro; e per esperimentare l'arrendevolezza della nostra lingua, volli nella mia versione letteralissima innestare le frasi tutte ed i modi di quella lingua; e parevami d'avere fatto gran cosa. Ma dopo anni parecchi m'accorsi che quella mia versione era scritta in certo gergo anglotosco, e che il mondo l'avrebbe meritamente disprezzata come bastarda. Però la ritradussi,» (Epistolario, 1v, p. 191). Nella difficoltà di stabilire patti vantaggiosi con qualsivoglia stampatore, il Foscolo ivi anche aggiungeva: «Aspetterò dunque di tornarmene in Lombardia, e forse vedrò di farlo pubblicare dall'illustre Bodoni» (ibid.). Invece, da Firenze, il s dicembre 1812, comunicava al Pellico: «Il mio Sterne si stampa a Pisa[...]» (Epistolario, IV, p. 200), e così confermava allo Schulthesius, il 21 gennaio 1813 (vedi Epistolario, IV, p. 206), mentre al Pellico, il 30 dello stesso mese, specificava: «Lo Sterne è bello e ricopiato, ma s'aspetta l'imprimatur da Parigi [...] » (Epistolario, IV, p. 209). E ancora al Pellico, il 12 febbraio 1813, da Firenze: «Yorick è ito a farsi stampare a Pisa e mi sono tolta dinanzi quella seccaggine» (Epistolario, IV, p. 212). Con l'editore Molini di Pisa il Foscolo stipulava regolare contratto solo il 31 marzo 1813 (lo si veda in Epistolario, IV, pp. 480-1), prevedendo che il Viaggio avrebbe presumibilmente visto la luce «verso la fine di giugno » (cosi a Camillo Ugoni il 29 maggio 1813, in Epistolario, IV, p. 267). La ragione del successivo ritardo cui la stampa andò soggetta è quindi di- VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) • NOTA INTRODUTTIVA 763 chiarata in lettera all'Albrizzi dell'8 giugno 1813: «Lo Sterne non è per anche uscito; si stampa in Pisa, e si perde assai tempo nel mandare e ricevere le prove del torchio: inoltre s'è dovuto spedire a Parigi le mie note per l'imprimatur, e aspettarlo tre mesi. Per la fine di Giugno potrò forse mandarvelo: io ne sono contentissimo» (Epistolario, IV, p. 271). Ma due giorni più tardi confessava a Sigismondo Trechi di sperare nell'effettuazione della stampa «per mezzo luglio » (Epistolario, IV, pp. 275-6). Inciampi erano infatti nuovamente occorsi, in quanto, secondo si legge in lettera a Leopoldo Cicognara, del I s giugno 1813, «i disgraziati Molini che lo stampano [lo Sterne] stanno per fallire, se pur oggi non sono falliti: e quell'edizione sarà forse preda sepolta nel tribunale di commercio» (Epistolario, IV, p. 285). Ciò che non fu; così che il Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l'Italia era pubblicato tra la fine giugno e il luglio del 1813, a Pisa, presso il Molini, con i tipi di Firmin Didot (il termine ante quem è costituito dalla lettera alla contessa d'Albany, del 22 luglio 1813, in Epistolario, IV, p. 302). L'interesse foscoliano alla versione non ebbe tuttavia termine con la sua stampa. Già le varianti alternative presenti nell'errata corrige documentano la consistenza di un sia pur esiguo, ma sintomatico, margine di incertezza. Il 23 luglio 18141 da Milano, il Foscolo scriveva poi a Michele Leoni, recensore del Viaggio sul fiorentino «Giornale enciclopedico» (t. v, n. 55, luglio 1813): «Un viaggiatore inglese [William Stewart Rose per le cui intenzioni correttorie vedi Epistolario, v, pp. 208 e 246] [...] raffrontò Yorick e Didimo ad oncia ad oncia, e meravigliossi che il Chierico avesse indovinati parecchi passi ambigui anche agl,lnglesi; né trovò mal interpretata se non una parola di poco momento: io per altro rileggendo il libretto ho surrogato qua e là sopra i margini una cinquantina di vocaboli e modi più schiettamente italiani per la ristampa per quando il Molini vorrà rifarla» (Epistolario, v, p. 185). Tale esemplare postillato, oggi posseduto dalla Biblioteca di Storia Moderna di Roma, successivamente arricchito d'ulteriori varianti, fu alla base della revisione del testo operata nel saggio di traduzione del Viaggio (capitoli III-V [Il frate]; capitolo XII [La tabacchiera]; capitolo XXIV (Montreuil]; capitolo XLI [Il carcerato]; capitolo XLV [La spada]; capitoli LXIII-LXV [Maria]), pubblicato di seguito alttOrtis nella stampa londinese del 1817. Intanto, in appendice ali'Hypercalypseos liber singularis (1816), notevolmente rimaneggiata, aveva nuovamente visto la luce la Notizia intorno a Didimo Chierico, e ancora il 2 febbraio 1820, da Londra, proponendo a Giuseppe Molini una ristampa del Viaggio, il Nostro si riprometteva: «Alla traduzione poche novità rilevanti farei; bensi molte varianti di vocaboli e frasi, e PROSE alcuni cangiamenti qua e là nelle note,, (Epistolario, VIII, p. 137). «Intrapresi la versione del libricciuolo di Lorenzo Sterne», scriveva il Foscolo, probabilmente a Niccolò Bettoni, in lettera forse del maggio 1806, «1° per provare l'arrendevolezza della nostra lingua anche nella traduzione di un autore delicatissimo ne' concetti, strano nell'espressioni, e stringato nello stile. 2° per mostrare che i Francesi l'hanno tradotto male, come fanno per lo più de' libri stranieri, e più che mai negli scritti di bella letteratura; e per smentire la laida traduzione italiana fatta su la francese [Viaggio Sentimentale del signor Sterne sotto il nome di Yorick, Venezia 1792]. 3° per far gustare la satira finissima de' costumi francesi, di cui ogni parola di quel libro è pregna, sebbene pochi se ne sieno interamente avveduti» (Epistolario, II, p. 107). Propositi affini, relativi all'esclusivo privilegio culturale e linguistico nazionale, avevano già dettato le Poesie del 1803, e dovevano analogamente manifestarsi nel ricorso ad Omero, per dichiararsi a tutte lettere nei Sepolcri, e decantarsi nella tramatura storica del privilegio accordato dalle Grazie all'Italia, costituendo insomma la struttura portante del riconosciuto, e poi per tanti versi negativamente volgarizzato e incombente, carattere protorisorgimentale della letteratura foscoliana. Non tanto ai contenuti sembra infatti oggi inerire la sua rilevanza, quanto all'originalità del suo processo genetico, di un'aggregazione linguistica e stilistica realizzantesi nell'interazione con il contesto storico, e solo autenticamente espressiva, dentro una tradizione al Foscolo inizialmente estranea, perché di volta in volta perigliosamente bilanciata sul discrimine di retorica e occasione, al di fuori d'ogni consacrata professionalità. Se tutto ciò non va dimenticato anche nella circostanza complessivamente minore del Viaggio, innegabile è poi che al primo dei motivi addotti dal Foscolo, e sopra elencati, debba riconoscersi una preponderanza decisiva sopra i restanti. Nessun testo infatti, meglio del Sentimental Journey, poteva convenire allo sperimentalismo foscoliano, nessuna prosa apparendo tanto costituzionalmente lontana dagli istituti caratteristici della sintassi nostrana. Riprodurre l'anfrattuosità del labirintico periodare stemiano, coglierne per intero l'allusiva concinnitas, i frequenti giochi di parola, l'andamento spezzato nelle variegazioni di un umorismo sottilmente evanescente, cosi come la sfumatura sentenziosa connessa all'intarsio di citazioni bibliche, e di autocitazioni, comportò inizialmente che, per ricordare quanto il poeta stesso dichiarava nella lettera sopra riferita allo Schulthesius, del 31 ottobre 1812, onde «esperimentare l'arrendevolezza della nostra lingua », nella traduzione letterale venissero innestati • le frasi tutte ed i modi» della lingua inglese, sl da risultarne «certo gergo anglo-tosco» di dubbia cittadinanza. · VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) • NOTA INTRODUTTIVA 765 Dalla versione foscoliana restava escluso quanto nel Sentimental Journey aveva a che fare con la contaminazione di fasi e tradizioni linguistiche successive e diverse, caratteristiche di un tessuto stilistico assai prossimo al pastiche, risultante dal capriccioso amore dello Sterne «per gli scrittori, del cinque e del seicento, inglesi, spagnuoli e francesi, come Shakespeare, Burton, Cervantes, Rabelais, Despériers, Bruscambille, con le loro antiquità d'ogni genere e audacie nella coniazione di nuovi vocaboli per il nuovo atteggiamento delle idee e delle immagini» (G. RAs1zzAN1, Sterne in Italia. Riflessi no• strani dell'umorismo sentimentale, Roma, Formìggini, 1920, p. 93). Ad eccezione del capitolo LVIII (Frammento), un vero tour de farce puristico (qui alle pp. 877-81), del resto determinato dalla necessità di "originalizzare,, il testo inglese, a sua volta traduzione moderna di una "cartaccia", redatto «in istile francese di quel vecchio del tempo di Rabelais», la prosa del Viaggio non ambisce alla resa del pastiche stemiano. La valenza delle idee accessorie esperimentata nel corso della traduzione omerica del 1807, a dar forma all'ipotesi della raggiungibilità di un equivalente dell'originale nella competente coordinazione storica del significato, promosse certo la fiducia del Foscolo nella composizione di una superficie linguistica omogenea, meglio atta a saggiare la duttilità di una lingua di quanto non risultasse dalla versione del 1805, se si deve credere che la stessa fosse condotta nel gergo anglo-tosco, di cui è menzione nella lettera, sopra citata, allo Schulthesius. Lungi dal dimostrare la malleabilità di una lingua, la presenza di anglismi ne accusava la povertà, e il senso com• plessivo dell'operazione non poteva che apparire compromissorio. Scriveva il Foscolo in nota al capitolo LVIII: «La lingua italiana è un bel metallo che bisogna ripulire della ruggine dell'Antichità, e depurare della falsa lega della moda; e poscia batterlo genuino in guisa che ognuno possa riceverlo e spenderlo con fiducia; e dargli tal conio che paia nuovo e nondimeno tutti sappiano ravvisarlo» (qui a p. 881). E ancora, in lettera allo Schulthesius, del 27 agosto 1812, specificava che «un vocabolario [...] vuol esser fatto a Firenze o a Siena dove la lingua spira fresca eleganza, ed antichissima purità» (vedi nel tomo II la lettera 76), dal canto suo confessando di avere notato sui margini del Vocabolario degli Accademici della Cnuca «moltissime voci, e bellissime, evidentissime, elegantissime del Villani, del Padre Dante, del Petrarca, di Fazio degli Uberti, del Firenzuola, del Tasso, dell'Ariosto, e d'altri scrittori santificati da essa Accademia» (vedi nel tomo II la lettera 76). Spogli linguistici per servire alla versione stemiana, dell'Arrighetto, del Sacchetti, del Pandolfini, del Vocabolario Cateriniano del Gigli, come di Dante, Pulci, Ariosto e Tassoni, il Nostro anche allestl, nel desiderio di infrangere le an- PROSE gustie della Crusca (vedi Edizione Nazionale, v, pp. XLI-XLII), giungendo sino a proporre, per l'ipotizzato vocabolario, di notare oltre ali'« idea propria» e alle cc metaforiche annesse al vocabolo», «il valore più o meno alterato dal corso degli anni e dalle mutazioni de' governi e degli usi», e a distinguere «le voci in gradi; cioè poetico, oratorio, cittadinesco, pedestre, plebeo e ribobolo », e a predisporre la giunta di un'appendice costituita da un «vocabolarietto negativo di tutte le parole e maniere francesi, lombarde, veneziane ecc.; e le equivalenti toscane» (vedi nel tomo II la lettera 76). Pantoscanesimo, circa la cui "naturalezza' ' nella versione stemiana il Foscolo doveva finalmente nutrire dei dubbi, se in lettera all'Ugoni, del 28 ottobre 1813, da Firenze, così scriveva: «E meccanico sono stato io pure (né traducendo si può far altro) in quella versione di Yorick, dove, per l'obbligo di provvedere di frasi e d'idiotismi gentili il mio gracile testo, temo di essere incorso nell'affettazione cruschevole. Informatemi dell'effetto che quello stile ha fatto su le prime all'animo vostro; - su le prime - perché allora per quanto si vagheggino l'eleganze di lingua, si sente pur sempre l'affettazione se v'è; bensì alla seconda lettura l'affettazione par garbo; e allora in grazia del merito cruschevole si perdona allo scrittore il gravissimo difetto di non esprimersi con ingenua schiettezza, di cui fra' latini è miracoloso esemplare appunto il vostro Cesare, e quei del trecento fra' nostri; - poi, non già il Boccaccio - bensì moltissimo il Bemi. Che se alcuno scrivesse oggi come il Caro quella sua divina versione di Longo, credete voi che avrebbe i lodatori ch'egli ha? ed è perché in esso come in antico scrittore e naturale a' suoi tempi accarezziamo quelle sue ri. cercatissime grazie. Ma chi è mai degli illetterati che legge quel libro? e vuolsi pur comporre de' libri per chi non sa, ed allettarlo ad intenderli ed a rileggerli; e quando trova pedanterie e lascivie di lingua raffreddasi e pianta il libro, e non è indulgente come voi siete quando in una pagina v'accorgiate d'erudizione accademica, e di frasologia linda e forbita. Sl fatte frasi vanno messe quando la penna correndo le lascia inavvedutamente sgorgare; ma chi ci pensa a trovarle raffreddasi, e quel suo intoppo arresta sul più bello anche i lettori; perché senza che gli autori s'avveggano le modificazioni delle loro virtù e vizi intellettuali si trasfondono ne' loro scritti. Ora io ho il cervello ghiribizzoso, - e vorrebbe pur abbellire ogni verso che mi cada in prosa o in rima de' modi (vaghissimi in vero, ma vecchiuzzi o stranetti) di Guido Cavalcanti, e di Messer Cino, e d'altri a loro anteriori, che lessi a questi giorni attentissimo, e postillai. Ma io voglio che queste reminiscenze di frasi si digeriscano nella mia testa, e svapori l'affettazione e la novità troppa, e il succo loro s'incozpori colla mia naturale maniera di sentire e di concepire; VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) • NOTA INTRODUTTIVA 767 e quando scrivendo non mi parranno modi un po' strani, allora li lascerò correre, e senza pensarvi su, perch'io non saprò né dove né quando io li abbia accattati, e mi parranno tutti miei proprii e nativi. L 1 atticismo è un non so che simile al sorriso quasi invisibile degli occhi gai d'una donna gentile che alletta graziosamente, e non pare; e l'eleganze grammaticali sono invece smorfie e moine d'una attempatella fraschetta; e chi non è collegiale, o vecchio arrabbiato d'amore, o castrato impotente, la pianta. Né la lingua, per quanto sia nelle sue voci purissima e propria, può adattarsi a tutti i soggetti, quand'essa sente dello studiato: anzi io credo, e creder credo il vero, che ogni specie di scritto abbia il proprio dialetto, necessario a non travisare la natura della sua specie • (Epistolario, 1v, pp. 411-2). E infatti, nel Viaggio, se il ribobolo era accuratamente evitato, l'« affettazione cruschevole » aveva invece modo di manifestarsi in fenomeni di natura più propriamente grammaticale, quali l'uso di né per neppure, dell'aggettivo alcuno in proposizioni affermative, di come in luogo di da o di perché con voce del verbo essere, del superlativo assoluto degli aggettivi qualificativi preceduto dall'articolo determinativo e seguito da complemento, del participio in funzione di aggettivo dinnanzi al sostantivo cui si riferisce, di particelle pronominali con valore pleonastico, di particelle proclitiche sulla scorta del toscano parlato, ma talvolta l'inconveniente stilistico avvertito dal Foscolo era anche ravvisabile nell'adozione di espressioni esclamative antiquate («PoffareI11), di crudi latinismi, cosi come di costruzioni pedantesche (vedi G. RABIZZANI, op. cit., pp. 98-102). Che il Foscolo, a dimostrazione del profitto ricavato dalla lezione dell'umorismo stemiano, intendesse affidare il riscatto della meccanicità del suo operato di traduttore a scritture che, in forma compendiosamente autobiografica, accompagnassero il Viaggio, è proposito evidente sino dal 1805. Nella lettera, sopra citata, alla Bagien, del 25 ottobre, si legge infatti: «}'ai achevé Sterne; maintenant j'y fais des notes: j'écris les folies, les espérances, les opinions, Jes erreurs, les souvemirs, les remarques de M.r Foscolo en France: ma piume barbouille sans attendre les conseils du peu de bon-sens qui me reste; mon humeur diete, et l'art se tait». Un anno più tardi, quanto sopra era attribuito alla penna di tale Nathaniel Cookman, «Irlandese, ufizialc, ch'era prigioniero di guerra in Valenciennes, ed a cui riusci di scappare• (Epistolario, 11, p. 107), esperto. delle cose di Francia, avendola percorsa dieci anni avanti la Rivoluzione, e autore di un commentario registrato in un esemplare interfogliato del Sentimental Journey, contenente «osservazioni che il Cookman avea scritte in inglese nel suo viaggio in Francia negli ultimi due anni di pace • (Epistolario, 11, pp. 106-7), seguito dalla narrazione dei costumi fran- PROSE cesi post-rivoluzionari. Dopo che i Sepolcri avevano eloquentemente dato voce al nazionalismo antifrancese che, come pare, avrebbe dovuto egualmente caratterizzare le note di Nathaniel Cookman, assolto dalla versione stessa il compito di riaffermare la bontà della lingua italiana a petto della francese nei confronti del.l'originale inglese, lo schermo didimeo non poteva che contemplare e contemperare altre armoniche di base. Esse furono fomite all'autore dall'esperienza dell'Eunucomachia. Scriveva il Foscolo al Leoni l'11 agosto 1813: •Quanto all'articolo, vorrei che in esso parlaste più brevemente e più argutamente intorno a Didimo; e se a voi pare, aggiungete: "Nella dubbiezza se Didimo sia persona ideale o reale, l'unica cosa cm possiamo certamente asserire si è, che il signore Ugo Foscolo attese, benché lontano da Pisa, a questa edizione: e dallo stile si può inoltre ragionevolmente congetturare che le notizie intorno alla ,:ita di Didimo sieno wcite dalla stessa penna che scrisse gli atti dell'Accademia de' Pittagorici, da che vi si vede e l'intento e i principii e i modi dello scrittore italiano che con lepida serietà tenta di Jar ravvedere i nostri letterati da' vizi che deturpano l'arte bellissima eh'essi professano" • (Epistolario, IV, pp. 321-2). Composta probabilmente intorno al gennaio 1813 (vedi Epistolario, IV, p. 206), la Notizia implicava apoditticamente la polemica del 1810 con i letterati milanesi, armonizzando nell'arguto ed elegante distacco della cristallizzazione didimea, funzionale all'ostentata superiorità del punto di vista del protagonista, oltre ad autentici -r6no, della cultura foscoliana, motivi che l'arroventato confronto dell'Eunucomachia aveva definitivamente acuminato. Tali il deprecato distacco delle discipline scientifiche dalle umanistiche, e la conseguente sfiducia nella possibilità che la scienza giungesse a farsi interprete della realtà meglio delle arti, non bisognose di processi dimostrativi, donde il rinchiudersi settario dei cultori delle singole discipline nel proprio ambito tecnico, donde, quanto alle lettere, il disprezzo di Didimo (vivente antifrasi onomastica) per la mera erudizione, e il ricorso a valori fondamentali (bellezza, forza d'animo, ingegno), di competenza universale, doppiato dall'ironica consapevolezza del suo risvolto donchisciottesco. Dimensione per altro omogenea alla rarità della letteratura praticata dal chierico, autore dell'Hypercalypseos liber singularis, di un a volume dettato in greco nello stile degli Atti degli Apostoli», 6,8uµ.ou XÀl)pLxou 'l'xolJ."EIJ.«Tv ~L~Àl« nMC, della traduzione del Sentimental Joumey, dell'Itinerario lungo la Repubblica Letteraria, citato al paragrafo x (qui a p. 909), relativo alla •guerra tra le lettere dell'abbiccl, e le cifre arabiche•• oltre che di uuna non sappiamo se orazione, o satira, o invettiva in prosa italiana nella quale con prove desunte dall'opera che il grammatico pubblicava gli toglie perfino il nome ed il titolo VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) • NOTA INTRODUTTIVA 769 di grammatico », secondo si ricava da un abbozzo del primitivo disegno della Notizia (vedi Edizione Nazionale, v, pp. 227-36), quando ancora descrizione dei manoscritti didimei, e vita di Didimo, narrata attraverso il volgarizzamento parziale delle sue memorie, campivano in settori distinti. Preziosità che il canone delle letture del chierico non comporterebbe, ove non si ponesse mente all'originalità del fantasma poetico in cui, di volta in volta, si incarna il giudizio critico. Del resto l'esoterismo dei detti memorabili di Didimo, la patina biblica delle sue sentenze, conferiscono all'apparente illeggibilità della proiezione autobiografica foscoliana, uno spessore storico che, a contrasto con la relativa giovinezza del personaggio, valorizza il miracolo della sua maturità, elevandolo al di sopra della comunità dei falsi profeti letterari, con il renderlo sprezzantemente inspiegabile, e però prendendo definitivamente le distanze da quanti nel 1810 avevano fatto oggetto il Foscolo di un pubblico, meschino dileggio («Ma nel penultimo paragrafo del Liber memorialis Didimo si pente di sì fatte battaglie ch'ei chiama eunucomachie [...] ,,, così nell'abbozzo della Notizia, in Edizione Nazionale, v, p. 228). Donde il superiore suggello di un riserbo composto nel segno del «calore di fiamma lontana•, e realizzantesi in una serie di caratteristiche antinomie: Didimo •né orgoglioso né umile», «né ricco né povero», e quanto all'ingegno da natura 1e moltissimo prediletto né poco», così da apparire finalmente «più disingannato che rinsavito ,,, chierico di una religione non professata, e viaggiatore avverso ad ogni sorta di cosmopolitismo, « quantunque non parlasse che di poeti 11, «scriveva in prosa perpetuamente,,; «aveva la beatitudine .di poter scrivere trenta fogli allegramente di pianta 11, ma «la maledizione di volerli ridurre in tre soli •· Correlati di un equilibrio radicato nelrorigine contadina, nella povertà familiare, manifesto nella dignità dell'umile condizione («m'insegnò a non avvilirmi dell'altrui carità•, in Edizione Nazionale, v, p. 231 ; «a tollerare i disagi con silenzio e con verecondia», ibid.), tradizionale attributo di una terra, ad uno dei cui figli più rappresentativi di tale complesso di doti, Giuseppe Parini, il Foscolo sembra_ in filig~ana alludere nel tratteggio della figura di Didimo. Inverigo, suo paese natale, vale infatti Bosisio, così come il curato Iacopo Annoni, i parroci Cabiati e Gilardi, responsabili della prima educazione pariniana. Parini abbandona Bosisio a dieci anni, Didimo Inverigo a undici, per recarsi a Milano, dove entrambi frequentano le scuole dei Barnabiti (cosl ancora risulta dall•abbozzo della Notizia, in Edizione Nazionale, v, pp. 231-2 e 233), con scarso profitto, entrambi rifiutando l'arcaicità dei metodi pedagogici, e il pedantismo praticati nelle Arcimbolde. Il padre dell'ordine dei Barnabiti, maestro del chierico, come si legge nelrabbozzo della Notizia, «nato 77° PROSE e cresciuto in un luogo malaugurato del fiume dove si sogliono giustiziare gPinfelici muli ed asini infermi e i cavalli decrepiti e benemeriti •, e però •avvezzato a non sentir pietà delle creature d'Id-- dio, ma ben anche a compiacersi delle sozzure e a lodare i corvi che vivevano di carogne» (Edizione Nazionale, v, p. 233), leromomo dell'Hypercalypseos liber singularis, cioè Urbano Lampredi, fiorentino, e principale campione del campo antifoscoliano durante l'Eunucomachia, viene così ad occupare nella biografia didimea il posto che in quella del Parini ha il padre Onofrio Branda, maestro e poi avversario dell'autore del Giorno nella nota polemica linguistica conseguente alla pubblicazione dei Dialoghi della Lingua Toscana. Schermandosi in Didimo, e sovrapponendone l'immagine a quella dell'archetipo della moderna cultura lombarda, e come per induzione dell'umorismo sterniano implicando la contigua dimensione stilistica del capolavoro pariniano, ed associandosene in emblema nelroriginale impasto della prosa della Notizia, il Foscolo si rifaceva dei nemici letterari del 1810, con il rinfacciar loro, oltre che un'ideale ed auto• revole parentela, la fiducia_ nella bontà delle proprie ragioni, illustrata dalla scoperta analogia con l'esemplare vicenda della polemica pariniana, anche corroborante la certezza di un giudizio storico non dis- simile. VIAGGIO SENTIMENTALE DI YORICK LUNGO LA FRANCIA E L'ITALIA TRADUZIONE DI DIDIMO CHIERICO Orecchio ama pacato la Musa, e mente arguta, e cor gentile.1 * LETTORI Nella Notizia stampata i·n calce al volume, sarete ragguagliati fedelmente sì delle mie cure per questa edizione, sì del carattere e degli scritti del traduttore di questa operetta. Piacciavi anche di dar un'occhiata a/l'Errata Corrige. E vivete felici. L'EDITORE. DIDIMO CHIERICO A' LETTORI SALUTE Lettori miei. Era opinione del reverendo Lorenzo Sterne2 parroco in Inghilterra: Che un so"iso possa aggiungere un filo alla trama brevi'sst."ma della vita;a ma pare ch'egli inoltre sapesse, che ogni lagrima insegna a1 mortali una verità. Poiché assumendo il nome di Yorick, antico buffone tragico, volle con parecchi scritti, e singolarmente in questo libricciuolo, insegnarci a conoscere gli altri in noi stessi, e a sospirare ad un tempo e a sorridere meno orgogliosamente su le debolezze del prossimo. Però io lo aveva, or son più anni, tradotto per me: ed oggi che credo d'avere una volta profittato delle sue lezioni, l'ho ritradotto, quanto meno letteralmente e quanto meno arbitrariamente ho saputo, per voi. a) Tristram Shandy epist. dedicat.3 1. Orecchio . .. gentile: vedi PARINI, La recita dei 't'ersi, 37-8 (ma: «placato•). 2. Lorenzo Ste,11e: vedi la nota 2 a p. 748. 3. To tlie Riglit Hon. 1.Wr. Pitt: • [.••] being firmly pcrsuaded that evcry time a man smiles, - but much more so when he laughs, - it adds something to this Fragment of Life 11 ( Tl,e Wo,ks of LAURENCE STERNE. lf'itl, a Life of the Autho,, R'ritten by Himselj, London, Tegg, Sharpe ecc., 1823, I, p. 12). Relativamente ad altro contesto, la citazione stcminna si ritrova anche nel Voyage Sentimental de STERNE, mivi des Lettres d' Yorick à Elisa. Traduction nouuelle par PAULlN CRASsous, accompagnée de notes histon'quu et critiques, Paris, Didot, An. IX (1801), 111, p. 14. 772 PROSE Ma e voi, Lettori, avvertite che l'autore era d'animo libero, e di spirito bizzarro, e d'argutissimo ingegno, segnatamente contro la vanità de' potenti, l'ipocrisia degli ecclesiastici, e la servilità magistrale degli uomini letterati: pendeva anche all'amore e alla voluttà; ma voleva ad ogni modo parere, ed era forse, uomo dabbene e compassionevole e seguace sincero dell'evangelo ch'egli interpretava a' fedeli. Quindi ei deride açremente, e insieme sorride con indulgente soavità; e gli occhi suoi scintillanti di desiderio, par che si chinino vergognosi; e nel brio della gioia, sospira; e mentre le sue immaginazioni prorompono tutte ad un tempo discordi e inquietissime, accennando più che non dicono, ed usurpando frasi, voci ed ortografia, egli sa nondimeno ordinarle con l'apparente semplicità di certo stile apostolico e riposato. Anzi in questo Iibricciuolo, ch'ei scrisse col presentimento avverato della prossima morte, trasfuse con più amore il proprio carattere; quasi ch'egli nell'abbandonare la terra volesse lasciarle alcuna memoria perpetua d'un'anima sì diversa dalle altre. Se dunque, Lettori di Yorick e miei, la novità vi rendesse men agevole la lettura, ascrivetelo (e ve ne esorto per puro amore della giustizia) parte all'autore, parte a me, e parte anche a voi stessi. E quando mai le poche postille da.me compilate per amor vostro non giovassero a diradarvi l'oscurità, riposatevi alquanto dalla lettura, e rileggete l'epigrafe del mio frontispizio. E ve la ho posta perché mi fu suggerita da un vecchio prete che con un volumetto immortale1 indusse anch'egli i nostri magnifici sfaccendati, non dirò a ravvedersi, ma a ridere almen da sé stessi della lor vanità: e anch'egli bramò solamente, siccome Yorick, la cara salute in compagnia della pacifica libertà:• e non fu esaudito dal cielo; ma non pianse mai fuorché per amore, o per compassione. Alcuni di voi, o Lettori, sanno che non s'è potuto trovare la lapide che copre l'ossa di quel buon prete.2 Ma voi, se non altro, pregate pace all'anima sua, e all'anima del povero Yorick; pregate pace anche a me finch'io vivo. Calais 21 Settembre 1805. a) Viag. sent. cap. XL.3 1. un vecchio . •. immortale: allude a Giuseppe Parini, e al Giorno. 2. Alcuni • •. prete: vedi Sepolcri, 65-77, alle pp. 302-4. 3. Qui a p. 847. VIAGGIO SENTIMENTALE• DI YORICK LUNGO LA FRANCIA E L'ITALIA I -A questo in Francia si provvede meglio, diss'io - Ma, e vi fu ella? mi disse quel gentiluomo; e mi si volse incontro prontissimo, e trionfò urbanissimamente di me. - Poffare! diss'io, ventilando fra me la questione; adunque ventun miglio di navigazione (da Douvre a Calais non ci corre né più né meno) conferiranno sì fatti diritti? - Vo' esaminarli. E lasciando andare il discorso, m'avvio diritto a casa: mi piglio mezza dozzina di camicie, e un paio di brache di seta nera. - << L'abito che ho indosso (diss'io, dando un'occhiata alla manica) mi farà>>. Mi collocai nella vettura di Douvre: il navicello veleggiò alle nove del dì seguente: e per le tre mi trovai addosso a un pollo fricasséb a desinare - in Francia - e si indubitabilmente, che se mai quella notte mi fossi morto d'indigestione, tutto il genere umano non avrebbe impetrato, che le mie camicie, le mie brache di seta nera, la mia valigia e ogni cosa non andassero pel droit d'auhainec in eredità al re di Francia - anche la miniatura ch'io porto meco da tanto tempo, e che io tante volte, o Elisa/ ti dissi ch'io porterei a) Ed è definito dalPautore così: Viaggio riposatissimo è questo mio - viaggio del cuore in traccia della Natura e di tutti que' sentimenti soavi che da lei sola germogliano. Cap. XLVI.1 b) Questo e parecchi altri vocaboli e modi francesi si sono serbati nella versione, perché furono dall'autore industriosamente inseriti e distinti nel testo. c) Gli averi del forestiero che moriva in Francia s'incameravano.a d) Elisabetta Drapper,3 a cui rautore quasi morente scriveva lettere 1. Qui a p. 858. 2. G/i .•. s'incamnavano: nota P. CRAssous, op. cit., nr, p. 33: • C'était un droit par lequel les biens d'un étranger mort en France, sans @tre naturalisé Français, appartenaient au fisc, ou au seigneur dans la justice duquel il était décédé •· 3. Nel Preface to Yorick's Letters, si legge: «In thc Preface prefixed to the first Edition (...] ELIZA [...] is Mrs. ELISABBTH DRAPER, wife of DANIEL DRAPER, Esq. Counsellor at Bombay, and at present Chief of the English factory at Surat [...]. She is by birth on Eostlndian (...] she carne to England for the recovery of her health, when by accident she became acquainted with Mr. STERNE. He immediately discovered in her a mind so congenial with his own [...] that their mutual attraction presently joined them in the closest union the purity 774 PROSE rneco nella mia fossa, mi verrebbe strappata dal collo. - Vedi scortesia1 - e questo manomettere i naufragi di un passeggiere disavveduto che i vostri sudditi allettano a' loro lidi - per Dio! Sire, non è ben fatto: e sl che mi rincresce d'avere che dire col monarca di un popolo tutto cuore e sl incivilito e cortese e si rinomato per la gentilezza de' sentimenti Ma tocco appena i vostri dominii• d'amore spirituali, stampate sovente, e talvolta con quelle d'Elisa: ed Elisa scriveva più affettuosamente e più candidamente d'Yorick.1 Morì giovine; vedine l'elogio nella storia filos. di Raynal lib. 3. § 15.2 a) Rogero Ascham, uomo eruditi.ssi.mo e precettore della regina Elisabetta, viaggiò intorno al 1580 in Italia, e tornato in Inghilterra stampò in certo suo libro intitolato il Maestro di Scuola:« Iddio sia ringraziato ch'io non feci dimora per più d'otto giorni in Italia, perché in quegli otto giorni fui testimonio d'infinite scelleraggini, ch'io non ne vidi, né udii, né lessi tante in nove anni da che vivo in Londra ».3 Le opere dell1 eruditissimo Ascham furono ristampate in Londra nel 1760 si pel merito della loro erudizione, sì perché insegnano a percorrere gli altrui dominii, e toccatili appena, come vuol far intendere Yorick, a biasimarne gli usi e le leggi: metodo speditissimo di cui molti viaggiatori hanno profittato a' miei giorni. Vedi Kotzebue, Souvenirs.4 could possibly admit of• (Letters of the Late Rev. Mr. LAURENCE STERNE to His Most Intimate Friends ecc., Vienna, Sammer, 1797, 11, pp. 4-6). I. lettere ... Yorick: le si veda in Letters of the Late Rev. Mr. LAURENCE STERNE ecc., cit., n, pp. 17-82. 2. Histoire philosophique et politique dts 2tablissemens et du Commerce des Européens dans les deux lndes. Par GuIL• LAUME-THOMAS RAYNAL, Genève, Pellet, 1780, 1, pp. 318-20. Il passo si ritrova in P. CRAssous, op. cit., Il, pp. 181-8. Guillaume-Thomas-François Raynal (Saint-Geniez Rouerguc 12 aprile 1713 - Chaillot 6 marzo 1796). 3. Rogero •.. Londra: Roger Ascham (Firby Wiske [Northallerton] 1515 - 23 dicembre 1568). L'Ascham fu in Italia, per nove giorni, sulla fine del 1551. The Schoolmaster vide la luce postumo, nel 1 570. La citazione bibliografica deriva da J. BARETTI, An Account of the Manners and Customs of ltaly; with Obseroations on the Mistakes of Some Travellers, with Regard to that Country ecc. London, Davies and Davis, 1769, Il, pp. 137-9, dove, tra l'altro, si legge: C( Amongst those who were most lavish of abuse and slander upon the Italians [...] onc of the foremost was Rogcr Ascham, preceptor to queen Elisabcth, whose writings wcre lately dug out of obscurity by mcans of a new edition. [•..] For a specimen [...] let me only copy out of his School-master a fcw of those passages [...] "J was once iti ltalie myselfe", says hc; "but, thanke God, my abode there was but NJNE DAYS: and yet I sawe in that little tyme, in one citie, more libertie to si11ne, than ever I /ieard tel1 of in our noble citie of London in 11ine years" ». 4. Si tratta dei Souvenirs d'rm Voyage en Livo11ie, à Rome et à Nap/es, par AUGUSTE KoTZEBUE, Paris, Chaignieau ainé, 1806, voli. 4. Nel Coup-d'(J!il sur cet ouvrage, par le Traducteur, voi. I, pp. 1-111, tra l'altro, si legge: u Après avoir vu avec quelle indécencc M. Kotzebue a parlé de la VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 115 II. CALAIS Finito ch'ebbi di desinare, compiacqui all'animo mio facendo un brindisi al re di Francia - e non che gli serbassi rancore, io l'onorava anzi altamente per l'umanità della sua indole - e per questa riconciliazione mi rizzai ingrandito di un pollice. - No - diss'io - i Borboni non sono razza crudele: saranno forse traviati come tanti altri; ma sono pur nati con la dolcezza nel sangue.• E quanto io me ne persuadeva, tanto più mi sentiva su per le guance gratissima una specie di suffusione - né il vino di Borgogna (da due lire almen la bottiglia, come io ne avea bevuto) potea produrla sì calda e sì propizia al mortale. - Bontà divina! esclamai, sgombrandomi dinanzi d'un calcio la mia valigia: questi beni di quaggiù son poi tali da inasprire gli animi nostri, e ridurre tanti e tanti cordiali fratelli a infellonire e insidiarci, come pur troppo facciamo, incontrandoci nel viaggio brevissimo della vita? Ove l'uomo sia in pace con l'uomo, oh come il gravissimo de' metalli gli vola quasi di manol Traesi la borsa, e sospendendola con due dita, guarda intorno a chi darne almen la metà- Frattanto a) Tolto forse da Dryden,1 che chiama dolcezza di sangue l'indole di chi non ha forza di fare il male. Vedi Spettat. voi. 2, disc. 48.a France et des Français dans l'ouvrage qu'il a publié l'ann~ demière, on doit ~tre curicux de savoir s'il a porté, dans son voyage en ltalie, cet esprit de modération et de reconnaissance, cette bienveillance aimable, cette sagacité, ce goùt sOr [...] qui distinguent si eminémment l'auteur des Souvenirs de Paris [...] que l'on se rassure [...] il semble m~me que la chalcur du climat ait cncore développé davantage ses esprits acrimonieux; par-tout il trouvc matière à exhaler sa bile; il a tout vu du coté le plus désagréable: en un mot, si l'on en excepte les broccolis, le ricotta, le macaroni, les oignons de Naples, le lachryma christi, le strachino dc Milan et Ics paysanes du Tirol, il est très-peu de choses qui aient trouvé grice à ses yeux ,,_ August Fricdrich Fcrdinand von Kotzebue (Weimar 3 maggio 1761 Ivlannhcim 23 marzo 1819). 1. JohnD,yden (Aldwinkle Ali Saints [Northamptonshirc] 9 agosto 1631 - London I maggio 1700). z. Vedi •The Spectator •, n. 177, Saturday, Septembcr 22 [1711]: •A man is no more to be praiscd upon this account, than because he has a regular pulse or a good digcstion. This Good-nature however in the constitution, which Mr. Dryden somewhere calls a Milkiness of Blood, is an admirable ground-work for the othcrn (The Works of the Late Right Hono,able JosBPH ADDISON, Esq., Binningham, Baskerville, 17611 111, p. 123). La citazione bibliografica foscoliana corrisponde invece alla seguente edizione francese dello a Spectator •: Le Spectateur, ou le Socrate modeT'lle ecc., 11, Amsterdam, Wetsteins & Smith, 1741, disc. XLVIII, p. 316. PROSE io mi sentiva le vene dilatarmisi per la vita; le mie arterie battevano in armonia; e tutte le mie potenze vitali adempivano a' loro uffici con attrito così soave, che io avrei confuso la più saccente fislchessa di Francia;• appena con tutto il suo materialismo si sarebbe attentata di chiamarmi una macchina Mi torrei Pimpresa, diss,io, di mandarle sossopra il suo Credo.b Nelrarmarmi di questa fiducia, la Natura si esaltò in me quanto mai poteva esaltarsi - Io era dianzi in pace col mondo; ma cosi conclusi la pace con me medesimo - Or, esclamai, foss'io re di Francia! - or sì che un orfano dovrebbe ridomandare a me la valigia del suo povero padre. III. IL FRATE CALAIS Com'io finiva la parola, un povero frate di San Francesco entrò in camera a questuare pel suo convento. Nessuno vuol essere virtuoso a beneplacito delle contingenze - oppure uno è generoso come un altro è potente - sed non, quoad hanc' - e sia che può - da che non si può logicamente discorrere sul flusso e riflusso de' nostri umori, il quale, a quanto io so, obbedirà alle medesime cause influenti nelle maree2 - ipotesi che ci tornerebbe spesso a men biasimo: e per dir di me solo, son certo che in più incontri mi loderei a) Il testo: cc the most physical précieuse in France ». Le parigine allora studiavano fisica; oggi chimica.3 b) I should have overset her CREED: e questa voce suona solitamente credenza, opinione, sistema: ma qui, come presso Shakspeare, citato dal Johnson, pare che significhi la serie degli articoli formali co' quali ciascheduno fa professione solenne della propria religione o irreli- gione.4 1. sed . .. hanc: nota G. RABIZZANI, op. cit., p. 59, nota 1: • Il sed non quoad hanc non trova spiegazione ed è certo uno di quei latini maccheronici di cui usarono e abusarono Rabelais e i rabelesiani». 2. da che ... marte: vedi Ortis(1802), la nota I a p. 612. 3. Il testo ... chimica: nota P. CRAssous, op. cit., 111, p. 37: • Il y a dans l'anglais: The most physical précieuse in France. Pour bien entendre le mot physical, il est nécessaire de snvoir qu'à l'époque où Sterne vint à Paris, il était du bon ton de suivre les cours de physique expérimentalc comme il l'a été depuis, de suivre ceux de chymie [...] •. 4. Vedi S. JoHNSON, A Dictionary o/ the English Language ecc., London, Strahan & Co., 1770, I, sotto la voce creed. SamuelJohnson (Lichfield 18 settembre 1709 - ivi 13 dicembre 1784). VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 777 assaissimo del mio prossimo, se dicesse «che io me la intendo con la Luna, e mi governo con essa»; e non avrei colpa in ciò né vergogna; anziché e< col mio proprio atto, e consenso»; e ogni colpa e vergogna sarebbe mia. - Ma sia che può. Dal punto che io posai l'occhio sul frate, io aveva prestabilito di non dargli un unico soldo; e consentaneamente mi riposi la borsa dentro al taschino - lo abbottonai - mi misi alquanto in sussiego, e me gli feci incontro con gravità; e temo d'averlo guardato in guisa da non dargli molta fiducia. L'immagine di lui mi torna or agli occhi, e vedo ch'ei meritava ben altre accoglienze. Il frate, com'io giudicai dal calvo della sua tonsura e da' pochi crini bianchi che soli gli rimanevano diradati intorno alle tempie, poteva avere da settant'anni - Se non che le sue pupille spiravano di un cotal fuoco, rattemprato, a quanto pareva, più dalla gentilezza che dall'età, che tu glie ne avresti dato appena sessanta - Il vero è forse fra' due - Certo egli n'aveva sessantacinque; e tutto insieme il suo aspetto, quantunque paresse che qualche cosa vi avesse solcate le rughe anzi tempo, torna bene col conto. Era una testa di quelle dipinte spesso da Guido1 - dolce, pallida - penetrante, disinvolta da tutte le trivialissime idee della .crassa e paga ignoranza china sempre con gli occhi a terra: - guardava diritto; ma come per mirare a cosa di là dal mondo. Come mai uno di quell'ordine conseguisse si fatta testa, sappialo il cielo che di lassù la lasciò cascare fra le spalle di un frate! ma avria quadrato a un Bramino; e s'io l'avessi incontrata sulle pianure del- 1'Indostano, l'avrei venerata. Il rimanente della sua figura può darsi, e da chiunque, in due tratti: era e non era elegante; tuttavia secondava il carattere e l'espressione: svelto, esile, di statura un po' più che ordinaria, sebbene quel più si smarrisse per l'inclinazione della persona - ma era l'atteggiamento della supplicazione: e quale mi sta ora davanti al pensiero, ci guadagna più che non perde. Inoltratosi tre passi nella mia stanza, ristette: e ponendosi la palma sinistra sul petto (tenea nella destra un bastoncello bianco con che camminava) - quand'io gli fui presso, mi s'introdusse con la storiella delle necessità del suo convento, e della povertà del suo ordine - e con grazia sì schietta, e con tal atto di preghiera 1. Guido Reni (Calvenzano 4 novembre 1575 - Bologna 18 agosto 1642). 778 PROSE negli sguardi ed in tutta la persona - io era ammaliato, non essendone stato commosso - Ragione migliore si è, ch'io aveva prestabilito di non dargli neppure un soldo. IV. IL FRATE CALAIS -Ben è vero, diss'io, rispondendo all'alzata d'occhi con che conchiuse la sua domanda - ben è vero - e Dio non abbandoni mai chi non ha altro rifugio fuorché la carità del mondo, la quale temo non abbia assai capitale che basti a tante grandi pretese-e perpetue. Mentr'io proferiva le parole grandi· pretese, ei lasciò correre l'occhio sopra la manica della sua tonaca - Sentii tutto il significato di quel richiamo. - Lo so, diss'io, - una ruvida vesta, e ad ogni terz'anno, con una magra dieta - non è gran cosa. E appunto rincresce alla vera pietà, che potendosi sl poca cosa guadagnar con poco sudore, e con pochissima industria sopra la terra, il vostro ordine brami piuttosto di procacciarsela instando1 per quel capitale che è l'unico avere del zoppo, del cieco, del decrepito e dell'infermo - Lo schiavo che coricandosi va più e più sempre numerando i giorni delle sue tribolazioni, si strugge anch'egli per la sua parte: e se voi, anziché di San Francesco, foste dell'ordine del Riscatto,• povero com'io pur sono, continuai accennando la mia valigia, la vi sarebbe di lietissimo animo aperta per la redenzione dell'infelice Il frate mi s'inchinò - Ma più d'ogni altro, io soggiunsi, l'infelice della nostra patria ha certamente i primi diritti ; ed io ne ho lasciati a migliaia nella miseria su per le spiagge ov'io nacqui - Il frate crollò affettuosamente il capo volendo dire: Pur troppo! la miseria è in tutti gli angoli della terra come nel nostro convento - Ma noi distinguiamo, diss'io posando la mano su la manica della sua tonaca, in risposta al richiamo - noi distinguiamo, mio buon padre, a) Ordine regolare Agostiniano istituito a' tempi delle Crociate per redimere con l'elemosine de' fedeli gli schiavi dalle mani de' bar- bari.2 J. instando: insistendo. 2. Ordine •.. barbari: nota P. CRAssous, op. cit., 111, pp. 43-4: «L'ordre de la Merci fut institué l'an 1218, par Pierre dc Nolasque, [...] pour la rédemption des captifs chez les infidèles. Il fut fondé d'après la règle de sant Augustin, approuvé et confirmé par le pape Grégoire IX, l'an 1230 ». VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 779 que' tanti che bramerebbero di sostentarsi col solo pane del proprio sudore - da tanti, che si vogliono sempre satollar dell'altrui; e non hanno per istituto di vita, fuorché di passarsela nel non fare e nel non saper nulla per l'amore di Dio. Il povero francescano non aprl labbro; le guance gli sfavillarono d'una striscia di fuoco• che non poté rimanervi, e in un minimo punto di tempo svanì - avresti detto che tutti i risentimenti della natura si fossero esauriti in quel vecchio; non ne mostrò - ma lasciando cadere il suo bastoncello fra le due braccia, si strinse con rassegnazione le palme una sovra l'altra sul petto; e si ritirò. V. IL FRATE CALAIS Mi palpitò il cuore nel punto che egli serrava la porta - Freddure! diss'io, affettando di non curarmene; freddure! e lo ridissi tre volte - ma senza pro: ed ogni sillaba discortese da me pronunziata mi ripiombava su l'anima. - Or sia che tu avessi diritto di non esaudire quel povero francescano; non era ella forse pena bastante a confonderlo, senza la giunta d'amare parole? - e considerava i suoi crini canuti - e mi pareva che quella figura sua liberale rientrasse, e m'interrogasse cortesemente, che ingiuria m'avesse mai fatto? - e perché mai l'avessi trattato a quel modo? Avrei dato venti lire per un avvocato - ti sei portato pur malel dissi a me stesso - ma esco appena a fare i miei viaggi; imparerò modi migliori andando innanzi. VI. LA DSSOBLIGEANTEb CALAIS Per altro l'uomo malcontento di sé comincia a sentirsi ottimamente disposto a un contratto; e questo è pure un compenso. a) Il testo: a hectic o/ a mome,rt: ora hectic presso tutti gli autori citati da' vocabolarii inglesi significa stato d'etisia, calore morboso,febbre etica : però si è tradotto congetturando. b) Calesse chiuso capace d'una sola persona.1 1. Calesse •.. persona: nota P. CRAssous, op. cit., 111, p. 44: «On nommait ainsi autrefois une voìture à une scule plnce, parccqu'en effct on ne pouvait obl,"ge, personne, ne pouvant y offrir aucune piace ». 780 PROSE Or il viaggio lungo la Francia e l'Italia sottintende di necessità la carrozza - onde io, poiché la natura suole spronare i suoi figliuoli che si provvedano, me ne andava alla volta della rimessa a comperarmi o noleggiare ciò che mi potesse fare a proposito; quando in un cantuccio di quel cortile una vecchia désobligeante mi diè nell'occhio alla prima; e senza star a pensare v'entrai: né la mi parea dissonante da' miei desiderii; e dissi al ragazzo che mi chiamasse monsieur Dessein - ma monsieur Dessein, padrone dell'hotel, era a' vespri: e perché d'altra parte non mi giovava d'affacciarmi al mio frate, ch'io nell'opposto canto adocchiava molto alle strette con una signora smontata allora all'albergo - tirai tra me e loro le tendine di taffettà; e siccome io aveva decretato di scrivere il mio itinerario, mi cavai di tasca il calamaio e la penna, e scrissi il proemio nella désobligeante. VII. PROEMIO NELLA DÉSOBLIGEANTE E' fu, senza dubbio, da molti filosofi peripatetici già notato, che di propria irrepugnabile autorità la Natura piantò termini ed argini certi onde circoscrivere l'umana incontentabilità: il che le venne fatto col tacito e sicuro espediente di obbligare il mortale ai doveri quasi indispensabili di apparecchiarsi il proprio riposo, e di patire i travagli suoi dove è nato, e dove soltanto fu da lei provveduto di oggetti più atti a partecipare della sua felicità, e a reggere una parte di quella soma che in ogni terra ed età fu sempre assai troppa per un solo paio di spalle. Vero è che noi siamo dotati di tal quale imperfetto potere di propagare alle volte la nostra felicità oltre que' termini; così nondimeno che il difetto d'idiomi,. di aderenze e di dipendenze, e la diversità d'educazione, usi e costumi attraversino tanti inciampi alla comunione de' nostri affetti fuori della nostra sfera natia, che per lo più sì fatto potere risolvesi in una espressa impossibilità. E però la bilancia del sentimentale commercio prepondererà sempre e poi sempre in discapito dello spatriato venturiere. Poiché dovendo a stima altrui comperare ciò che men gli bisogna - né potendo forse mai permutare senza larghissimo sconto la propria con l'altrui conversazione - ed essendo quindi perpetuamente costretto a raccomandarsi di mano in mano a' men indiscreti sensali VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) di società che gli verrà fatto di ritrovare, si pub senza grande profetica ispirazione pronosticargli il suo estremo rifugio.• Qui sta il nodo del mio discorso; e le sue fila mi guidano a dirittura (ove il su e giù di questa désobligeante mi lasci tirare innanzi) si alle efficienti che alle finali cause de' viaggi Gli scioperati vostri si svogliano del loro fuoco paterno, e ne vanno lontani per alcuna ragione o ragioni derivanti per avventura da una di queste cause generali Infermità di corpo, Imbecillità di mente, Inevitabile necessità. Quanti per terra o per acqua viaggiano travagliandosi d'orgoglio, di curiosità, d'albagia, d'ipocondria, suddivisi e combinati in infinitum, sono tutti mossi dalle prime due cause. Alla terza causa soggiace tutto quanto l'esercito de' pellegrini martiri, specialmente chiunque si mette in cammino col beneficio del clero ;b come a dire delinquenti dati in custodia ad alcuni pea) E' vuol dire, che quei del paese daranno ad intendere al viaggiatore tutto quello che essi vorranno - ma non crederanno a tutto quello ch'egli dirà - e però per conversare con men diffidenza, egli si andrà ricoverando nella compagnia de' viaggiatori suoi concittadini.1 b) Privilegio antico, pel quale ad ogni ecclesiastico, e poscia ad ogni uomo che sapeva leggere, era per qualunque delitto commutata la pena di morte nella carcere e nell'esilio. Da Giorgio I. in qua le ragioni di questo privilegio sono in parte mutate: taluni ad ogni modo possono allegarlo; e dove questi per legge meritassero il marchio o altre pene d'infamia, sono invece col beneficio del clero confinati per anni sette.2 1. E' vuol ••• concittadini: nota P. CRASSOUS, op. cit., 111, pp. 45-7: •Le sens général du passagc est que l'homme qui s•cxpatrie ne connaissant ni les usages ni la langue [...] sera forcé de s'en rapporter aux autres qui lui donncront dc fausscs notions sur cc qu'il cherchc à savoir, [.•.]on ne fera quc peu ou point de cas de cc qu'il dira, [...] commc il sera dans la nécessité de s'en rapportcr à autrui [...] il prendra le parti dc ne fréquenter que ses compatriotes [...] •· 2. Privilegio .•. sette: nota P. CRASSous, op. cit., 111, pp. 50-2: • On voit [...] que le blnéfiu de cle>'gie était un privilège accordé au clcrgé durant les siècles d'ignorance. En vertu de ce privilège, les ecclésiastiques, et m@mc le gens attachés au clcrgé ne pouvaient étre soumis à la jurisdiction des tribunaux civils, et se soustrayaicnt ainsi aux pcines qu'ils avaient encourues. [...] Dans la suite ceux qui purent prouver qu'ils savaient lire, furent considérés comme clercs, c'est-à-dire, eccluias- PROSE dagoghi eletti dai magistrati - o giovani gentiluomini esiliati dalla crudeltà de' congiunti o de' tutori, e custoditi da alcuni pedagoghi d'Oxford, d'Aberdeen, e di Glascovia.• Avvi un'altra classe - né forse merita distinzione, tanto è scarsa di numero, se in opera come la mia non fosse d1 assoluta necessità d'osservare quanto più rigorosamente ogni precisione a scansare la confusione de' caratteri - Vo' dire degli uomini che traversano i mari, e si domiciliano e vivono da forestieri con intento di economia per varii motivi e sotto varii colori; ma poiché risparmiando i danari a casa loro potrebbero risparmiare a sé medesimi e agli altri molte inutili noie; e d'altra parte i loro motivi d'andare attorno non sono poi così complicati quanto quelli delle altre classi pellegrinanti, noi distingueremo questi signori col nome di Semplici Viaggiatori. Laonde i-universalità de' viaggiatori pub ripartirsi per capi così: Viaggiatori scioperati Viaggiatori curiosi Viaggiatori bugiardi Viaggiatori orgogliosi Viaggiatori vani Viaggiatori ipocondriaci. Seguono i Viaggiatori per necessità: Il Viaggiatore delinquente, e il fellone, Il Viaggiatore disgraziato, e l'innocente, Il Viaggiatore semplice Ultimo (se vi contentate) Il Viaggiatore sentimentale. E qui intendo di me - e perb mi sto qui ora seduto a darvi a) Tre università dalle quali si eleggono solitamente que' Mentori che accompagnano i giovani gentiluomini affinché si divezzino da' vizii inglesi, ed imparino tutti gli altri vizii nobili d1 Europa.1 tiques ou sat1ans [...] et jouirent du meme privilège. [...] D'après les statuts des quatrième et sixièmc années du règne de George 1er [•••] on accorde à ceux qui sont dans le cas de réclamcr cn leur faveur le privi/ège clérical, une commutation de pcinc qui consiste à etrc déportés pour sept années, au lieu d'étre marqués d'un fer rouge à la main ou de subir la fustigation ». 1. La nota si ritrova·anche in P. CRAssous, op. cit., III, pp. 52•3• VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) ragguaglio del mio viaggio - viaggio fatto di necessità, e pour besoin de voyager quanto ogni altro di questa classe. Non già ch'io non mi sappia che in grazia dei miei viaggi e delle mie osservazioni, poiché le sono tutte di stampa affatto diversa da quelle de' miei precursori, potrei aggiudicarmi una nicchia tutta mia propria - se non che romperei forse i confini sulla giurisdizione del viaggiatore vano, presumendo di farmi guardare dal popolo prima ch'io almeno non abbia alcun merito alquanto migliore della nof.Jità della mia vettura.a Per ora il lettore mio si contenti se da quanto potrà qui discernere e meditare s'abiliterà ad assegnarsi (s'ei fu mai viaggiatore) il luogo e il grado che più in questo catalogo gli si adatta - E' sarà così men lontano di un passo dalla cognizione di sé medesimo; da che si potrebbe giurare che tutto ciò che egli aveva già inviscerato neWanima, l'accompagnò in tutti i suoi viaggi, né si sarà poscia sì fattamente alterato ch'ei non possa tuttavia ravvisarlo. Colui che primo trapiantava la vite di Borgogna al Capo di a) Il testo: "than the mere novelty o/ my vehicle •: altri tradurrebbe forse: la novità de' miei motivi, da che Johnson interpreta così nel suo vocabolario la voce vehicle; ma gl'inglesi intendono comunemente con questa voce ogni cosa che serve a trasportare, e l'autore inoltre la contrassegnò nella stampa; onde a me pare che alluda a taluno di que' tanti viaggiatori che con fogge stranissime ambiscono di farsi guardare. Vero è che quella désobligeante non era cosa nuova a que' tempi; ma era pur nuovo che un viaggiatore, anziché obbligarsi tutti gli altri suoi concittadini, che fecero e scrissero viaggi, scrivesse appunto in una désobligeante un sermone contro chiunque viaggiava.1 E Yorick si diletta di si fatti frizzi ed equivochi; cosl al principio di questo proemio nominando i peripatetici allude agli uomini che vanno attorno perpetuamente. Ma perché a me queste freddure non piacciono, e all'autore piace che chi legge le indovini da sé, io le tradurrò a mio potere senza far troppe chiose sovr•esse. 1. Il testo .•. TJiaggiQfJa: nota P. CRAssous, op. cit., III, pp. 54-5: «Il y a dans l'anglais: Till I have better grounds for it than. the mere novelty of my TJthicle. Mais vehicle ne signific point ici voiture, car la désobligeante dans laquclle Sterne se proposait de voyager n'était pas une voitrlre nollTJelle, puisqu'elle existait déjà et qu'un autre s'en était mcme servi avant lui. Il signifie ce qui e.-.::cite, ce qui pousse à quelq11e action, suivnnt Pétyrnologie et l'explication de Johnson: That by means of which any thing in conveyed. Au moyen de cettc explication la phrase a un sens raisonnable ». PROSE Buona Speranza {nota che era olandese) non sognò mai di bere in Affrica di quel vino stesso spremuto su' colli francesi da quella vite - non sono sogni da uomo flemmatico questi; - ma fuor di dubbio aspettavasi di bere un liquore vinoso; se poi squisito, scipito, o tollerabile, quel buon uomo non era sì nuovo de' fatti di questo mondo da non sapere ch'ei non ci aveva che fare; ma che il successo pendeva tutto da quell'arbitro che comunemente chiamasi Caso. Ad ogni modo sperava; e cosi sperando, Mynheer• per una presuntuosa fiducia nell'acume del proprio cervello e nella sagacità del suo accorgimento, arrischiava di capitombolare e con la sagacità e con l'acume nella sua nuova vigna, e denunando le sue vergogne farsi favola del paese.b Cosi va per l'appunto pel povero viaggiatore navigante e po-- steggiantec lungo i reami più colti del globo a caccia di cognizioni e incrementi. Cognizioni e incrementi s'acquisteranno, nol niego, navigando e posteggiando per essi; ma se utili cognizioni, e incrementi da farne poi capitale, qui tu getti le sorti - e bada, che ove tu sia avventuroso, poco frutto o nessuno ti daranno poi quegli acquisti, se tu non gli adoperi con sobrietà ed avvertenza - Ma perché le sorti corrono a dismisura contrarie sì all'acquisto che all'uso, par-- mi che farebbe da savio chiunque impetrasse da sé medesimo di viversi pago senza cognizioni e incrementi d'altri paesi; massimamente ove egli abbia una patria che non n'ha penuria assoluta - e davvero, e' mi è più e più volte costato de' gran crepacuori, considerando quanti mali passi misura il viaggiatore curioso di ammirare spettacoli e d'investigare scoperte; cose tutte ch'egli, come Sancio consigliava tempo fa a Don Chisciotte, potrebbe a piè asciutto vedere nella propria contrada. È secolo questo sì ridondante di luce, che tu non trovi, non che paese, ma né cantuccio forse d'Europa, ove i raggi non s'incrocicchino e vicendevolmente non si permutino - Il sapere, in molte sue derivazioni e in più incontri, è come a) Mynheer; come Mister a un inglese, Monsieur a un francese cc. b) Et plantavit vineam - et nudatus est in tabernaculo suo - Quod cum vidisset Cham, vermda scilicet patris sui esse nudata, 111mtiavit duobus fratribus suis foras. Gen. 1x1• [20-2]. e) Il testo: sailing and posting. 1. La stessa citazione si ritrova anche in P. CRASSous, op. cit., 111, p. 58. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) la musica per le vie dell'Italia ove può goderne chi nulla paga - Ma non v'è terra illuminata dal sole - Dio m'ascolta, al cui tribunale dovrò un dì comparire a dar conto di questo libro; non parlo io no per millanteria - ma non v'è terra illuminata dal sole ove abbondi più moltiplicità di sapere - ove le scienze abbiano più diligenti cultori o rendano frutti più certi che qui• - ove le arti siano più favorite, e promettano di salire a tant'altezza si presto - ove la Natura (giudicatela in complesso) meriti d'essere meno incolpata ove in somma si trovi più ingegno e maggior varietà di caratteri, che ti sveglino l'intelletto - or, o miei diletti compatriotti, ove andate voi dunque? - Stiam qui solamente, mi dissero, guardando questo calesse - Padroni miei riveriti, diss'io, uscendo d'un salto, e salutandoli di cappellob - E ci dava assai da pensare, mi disse l'uno ch'io conobbi per viaggiatore curioso, da che mai provenisse quel moto Dall'agitazione, risposi freddissimamente, di chi scrive un proemio - Non ho udito mai, disse l'altro, che era un viaggiatore semplice, di proemio scritto in una désobligeante - Sarebbe riescito migliore, risposi, in un f.Jis-à-vis.c Siccome un inglese non viaggia per 'l'edere inglesi, io m'avviai alla .mia camera. a) Qui; ma non in Francia dove scriveva; bensì in Inghilterra dove avrebbe pubblicato, siccome poi fece, questo itinerario. b) Le parole, che l'autore, come tutti gli autori, scriveva predicando da sé, furono frantese da due inglesi che andavano nel cortile considerando quell'inquieto calesse. e) Carrozza chiusa, e da due sole persone, una a rincontro dell'altra. A' tempi di Shakspeare gli Adoni inglesi si chiamavano Viaggiatori in gondola (comm. As yor, like it, atto IV. se. 1.)1 perché Venezia allora era la Sibari dell'Europa; ma pare che Venere mezzo secolo fa, quando Yorick scriveva, avesse traslocata la sua sede, e si compiacesse più de' vis-à-vis, che delle gondole. A' dì nostri la Diva crede inutili i nascondigli. 1. vv. 38-9: • [..•] or I will scarce / think you bave swam in a gondola•· so PROSE VIII. CALAIS M'accorsi ch'io solo non poteva ombrare tanto quel corridoio donde io passava tornandomi alla mia camera; ed era di fatti monsieur Dessein, padrone dell'hotel, tornato appunto da' vespri, che col suo cappello sotto l'ascella mi veniva dietro officioso per farmi risovvenire del mio bisogno. Io aveva già bell'e cancellata dal mio libro quella désobligeante; e monsieur Dessein parlandone, si ristrinse nelle spalle, come se la non facesse per me: e però mi si piantò subito nel cervello che quella derelitta spettasse a qualche tJiaggiatore innocente il quale tornando al paese l'avesse rimessa nelronestà di monsieurDessein che le trovasse padrone alla meglio. Quattro mesi erano scorsi da che era venuta a riposarsi nel cantuccio di quel cortile da tutto il suo giro d'Europa; giro a cui s'era accinta già benemerita e raffazzonata; e fu inoltre svitata due volte sul Moncenisio; né avresti detto che tante vicende l'avessero ridotta men misera - ma peggio che peggio standosi nel fondo del cortile di monsieur Dessein per tutti quei mesi incompianta. Veramente non si poteva dire gran che in suo favore - alcun che ad ogni modo - e quando poche parole possono scampare la miseria dalla desolazione, io maledico chi n'è spilorcio. - Or, foss'io padrone di questo hotel! dissi posando la punta del mio indice sul petto a monsieur Dessein; mi piccherei di tormi a ogni costo di dosso questa malaugurata désobligeante - la quale sta dondolandovi de' rimbrotti quante volte voi le passate davanti - Mon Dieu! disse monsieur Dessein - io non ci ho interesse Lasciamo star l'interesse, diss'io, che le anime di certa tempra, monsieur Dessein, sogliono connumerare fra' loro affetti - sono persuaso che mettendovi, come uomo, negli altrui panni, voi ad ogni notte piovosa, volere e non volere, vi sentirete cascare il cuore - voi, monsieur Dessein, ci patite quanto la macchina Ho sempre notato, che ove il complimento abbia del dolce e del brusco, un inglese sta in sempiterno sospeso s'ei lo piglia o lo lascia; un francese non mai: monsieur Dessein mi fece un inchino. E rispose: e'est bien flrai - ma io baratterei affanno per affanno, e giuntandoci: la si figuri, signor mio caro, s'io le vendessi un calesse che si sfasciasse prima ch'ella fosse a mezza via di Parigi la si figuri come mi starebbe il cuore sapendo d'aver dato sl tristo VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 787 saggio de' fatti miei ad un uomo d'onore, e senza scampo vedendomi a discrezione d'un homme d'esprit. La dose era condizionata appuntino secondo la mia ricetta; me la sono dunque sorbita: e poi ch'ebbi restituito l'inchino a monsieur Dessein, ci siamo senza altre sofisticherie di coscienza• incamminati verso la rimessa a dare un'occhiata al magazzino de' suoi calessi. IX. SU LA VIA CALAIS E' pare che questo sia naturalmente un mondo tutto guerra; da che il compratore (foss'anche d'una meschina sedia da posta) non può muoversi fuor della porta per venire a un accordo col venditore e non mirarlo subitamente con quell'occhio e con quella disposizione d'animo, con cui andrebbe seco ad eleggere il campo nel Hyde-park a duellare.b Quanto a me spadaccino dappoco, né da stare a petto a mo11sieur Dessein, io mi sentiva ne' precordii tutta la rotazione de' moti proprii alla congiuntura - io passava con gli occhi da parte a parte monsieur Dessein - ei camminava; ed io lo considerava di profilo - poi di prospetto - avrei giurato ch'egli avesse faccia d'ebreo - anzi di turco - lo malediva con tutti i miei Deic - e lo raccomandava al demonio - Adunque una miseria di tre o quattro louis d'or, ed era quel più ch'ei mi poteva frodare, attizzerà così il nostro cuore? - Bassa passione! esclamai voltandomi naturalmente come chi in un subito si ravvede - bassa, villana passione! la tua mano sta contro d'ogni uomo, e la mano d'ogni uomo contro di te - Dio ne guardi! disse ella coprendosi d'una mano la fronte, perch'io m'era voltato a occhio a occhio incontro alla gentildonna da me poc'anzi veduta a) Il testo: rvithord more casuistry; - spiego a discrezione questo vocabolo che propriamente significa la scie11za di un teologo casista. b) Parco presso le porte di Londra. c) Et n,aledixi.t Philistaeus David in Diis suis Reg. 1. 17, [43]- Yorick come protestante e filosofo non professava la religione di monsier,r Dessein eh,era cattolico, ed oste.1 1. La stessa citazione si ritrova in P. CRASSous, op. cit., 111, p. 66, che prosegue: • Sterne, qui regarde M. Dessein comme un fripon, fait entendrc par-là qu1ils n1 ont pas la méme religion [...] •· 788 PROSE in ragionamenti col frate - e ci seguitò inosservata - Certo, Donna gentile, diss'io, Dio ne guardi( e le offersi la mano - ella portava de' guanti neri aperti soltanto nel pollice, e nelle due prime dita; onde accettò senza ritrosia - ed io la guidai alla porta della ri- messa. Cinquanta e più diavoli• aveva monsieur Dessein chiamati addosso alla chiave, prima d'accorgersi che la non era quella della rimessa: e a noi pure pareva mill9anni di vedere aperto; sicché standoci attenti all'ostinazione di quella chiave, io teneva la signora per mano quasi senza saperlo, quando monsieur Dessein ci lasciò con le mani così congiunte, e co' visi rivolti alla porta della rimessa. Torno fra cinque minuti, diss'egli. Or un colloquio di cinque minuti equivale ad uno di cinque secoli co' visi verso la strada: in questo caso tu devi attingerlo dalle occasioni e dagli oggetti esteriori - ma cogli occhi confinati ad una parete tu lo attingi tutto quanto da te. Un solo attimo di silenzio, dopo partito monsieur Dessein, sarebbe stato micidiale alla congiuntura - non v'ha dubbio; la signora si sarebbe rivoltata onde avviai immediatamente la conversazione - Ma quali si fossero allora le mie tentazioni (perch'io scrivo non l'apologia, ma la storia delle fralezze del mio cuore lungo il mio viaggio) si vedranno descritte qui con quella naturalezza con cui le provai. X. LA PORTA DELLA RIMESSA CALAIS Allorché dissi al lettore che non mi giovava d'uscire della désobligeante perch'io vidi il frate alle strette con una signora smontata in quel punto all'albergo - io gli dissi il vero; ma non tutto il vero; perch'io mi sentiva più che mai allettato dalla sembianza avvenente della signora; e intanto il sospetto mi martellava a) Letteralmente: mons. Dessein aveva diablata la chiave ec. (dalla esclamazione francese diable - di cui Yorick ti parlerà fra non molto) derivò qui il verbo diabled.1 1. mons. Dessein ••• diabled: nota P. CRAssous, op. cit., 111, pp. 67-8: •Il y a dans l'anglais: Mons. Dessein had diabled the key, etc. To diable, n'cst point anglais; c'est un mot que Sterne a forgé par plaisanterie du mot français diable, pour exprimer l'impatience de M. Dessein •· VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) dicendo: Vedi che il frate le narra ogni cosa di te. In questa mia perplessità, mi sarebbe piacciuto che il frate fosse nella sua cella. Ove il cuore precorra l'intelletto, libera sempre da mille travagli il giudizio - ed io mi persuasi subito che quella donna fosse una delle creature predilette dalla Natura - tutta via non ci pensai più; e attesi a scrivere il mio proemio. Nel nostro incontro in mezzo alla via l'impressione tornò: e la vereconda franchezza con che mi porse la mano fu indizio per me del buon senso e dell'ottima educazione di quella dama; e nel guidarla io sentiva intorno alla sua persona tale voluttuosa arrendevolezza che confortò di dolcissima calma tutti i miei spiriti. - Dio mio! oh come un uomo condurrebbe si fatta creatura intorno il globo con sél Io non aveva ancor veduto il suo volto - e non mi premeva: l'effigie fu presto dipinta; ed assai prima che noi fossimo all'uscio della rimessa la fantasia aveva bella e pennelleggiata tutta la testa, e si compiaceva dell'adottata sua diva, quanto se si fosse tuffata per essa nel Tevere• - Pur tu se' una sedotta e seducente mariuola; e sebbene ci frodi sette volte al giorno con le pitture e con le immagini tue, tu hai sì dolci malie, e tu abbellisci le immagini tue delle fattezze di altrettanti angeli di luce, ch'ei saria gran peccato a inimicarsi con te. Quando fummo alla porta della rimessa, la signora abbassò dalla fronte la mano, e mi lasciò vedere l'originale - un volto di forse ventisei anni - d'un trasparente bruno vaghissimo, schiettaa) A chi per propria discolpa taccia di licenziosa la fantasia del povero Yorick, parrà qui ch'ei mirasse la sua nuova diva senz'alcun velo come Pallade e Diana furono già vedute dalle fantasie de' poeti ne' lavacri de' fiumi. Ma i lettori casti crederanno anzi ch'egli più veramente alluda alle fantasie innocenti degli antiquarii, i quali assegnano un nome d'eroina o di diva a ciascheduna di quelle statue sommerse dall'ignoranza de' barbari, e dallo zelo de' cristiani nel Tevere, e dissotterrate a' dì nostri.1 1. Ma i lettori • •• nostri: nota P. CRAssous, op. cit., 111, p. 69: •Le Tibre traverse, commc on soit, la ville dc Rome. Les barbares qui l'ont si souvent saccagéc, ont jeté dans cc Aeuve beaucoup de statues entières ou mutilées, d'où on les retire joumellement. Lcs antiquaires à qui on les montre ne manquent pas de leur donner le nom de quelque divinité, quoique souvent ils ne s'appuient pour cela sur aucun autre fondernent que sur leur imagination •· 79° PROSE mente adornato senza cipria né rouge - e non era regolarmente bello; ma spirava un non so che, che nel mio stato d'allora m'attraeva che nulla più- mi toccava il cuore; ed immaginai che vestisse i caratteri d'un sembiante vedovile, e che il cordoglio avendo già superati i primi due parossismi si trovasse allora in declinazione, e andasse adagio adagio rassegnandosi alla sua perdita - se non che mille disgrazie diverse poteano avere dipinto di tant'affiizione quel volto; ed io mi struggea di saperlo - e se le bon ton della conversazione me l'avesse consentito come a' dì d'Esdra,1 l'avrei interrogata senz'altro: - E che mai ti tormenta? e perché se' tu inquieta? e perché è sì turbato l'animo tuo?• - In somma io mi sentiva della benevolenza per lei; e disegnai - s'io non poteva la mia servitù - d'offerirle, non foss'altro, com'io poteva il mio obolo di cortesia. Si fatte erano le mie tentazioni - e così l'anima mia le ascoltava, quand'io rimasi solo con la signora, e con la sua mano nella mia, eco' visi rivolti all'uscio della rimessa: e più presso di quello che fosse essenzialmente necessario. XI. LA PORTA DELLA RIMESSA CALAIS Certo, donna gentile, diss'io sollevandole alquanto la mano; e questo è pure uno de' tanti capricci della fortuna: ecco come ha congiunte due mani di persone ignote fra loro - diverse di sesso, e forse di diversi canti del globo; e congiunte in un attimo, e in si cordiale attitudine, che né pur l'amicizia, se ci avesse pensato da un mese, avrebbe forse saputo far tanto a) Quid tibi est1 et quare conturbatus est intellectus tuus, et sensus cordis tui? et quareconturbaris?-Esdr. JV. 10. 31. Ma qui e altrove s'è letteralmente tradotta la Bibbia inglese di cui pare che rautore siasi sempre valuto.2 1. Esdra: scriba giudeo, secondo la leggenda creatore della Grande Sinagoga, mitico autore dei novantaquattro libri santi, dei quali i ventiquattro pubblici costituiscono la Bibbia giudaica (Libro di Esdra, Neen,ia, Paralipomeni). z. La stessa citazione si ritrova in P. CRAssous, op. cit., 111, p. 70. che inoltre nota: u Ce livre d1Esdras est au nombre des livres apocryphes. Il a été également rejeté par les protestans et par les catholiques •· VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 791 - E' si vede dalla vostra riflessione, monsieur, che la fortuna v'imbroglia non poco co' suoi capricci. Ove la congiuntura ti giovi, oh quanto importunamente vai stuzzicando il perché e il come è avvenuta - Voi ringraziate la fortuna, continuò la signora - e cosi andava fatto - il cuore sapeva ogni cosa, e n'era contento; ma chi mai, fuorché un filosofo inglese, n'avrebbe mandate novelle al giudizio perché annullasse la sentenza del cuore ? E parlando liberò la sua mano con un'occhiata che mi fu chiosa bastante a quel testo. È pur deplorabile la pittura ch'io paleserò qui del mio fievole cuore! Confesso dunque ch'ei fu straziato da tanta pena, che più degne occasioni non avrebbero potuto infliggergli mai - Io era mortificato d'avere perduta quella mano; e il modo ond'io l'aveva perduta, non recava né olio né vino su la ferita :1 né mai da che vivo ho sì miseramente provato la confusione d'una sguaiata inferiorità. Ma in un vero cuor femminile il trionfo di queste sconfitte è brevissimo; ed ella assai prima d'un mezzo minuto aveva, come per finire il discorso, posata già la sua mano sulla balzana del mio abito: così che - ma io non so come; sappialo Dio! - racquistai la mia posizione - Ella non avea più che dire. E immediatamente ripresi a modellare una conversazione più confacente all'ingegno ed all'animo della signora, da che m'accorsi ch'io n'aveva mal conosciuto il carattere; ma mentr'ella rivolgevasi a me, vidi che gli spiriti i quali avevano animato la sua risposta, s'erano a un tratto smarriti - i muscoli rallentavansi; ed io contemplava di nuovo quell'aspetto di sventura derelitta che mi fece a bella prima tutto suo - Che passione a veder tanto brio mortificato dall'afflizionel - il mio cuore gemeva per lei di pietà - or voi anime assiderate vorreste provarvi di ridere: ma io avrei potuto abbracciarla - e senza arrossirne - e riconfortarla, anche in mezzo alla via, sul mio petto. Le pulsazioni delle arterie delle mie dita compresse sovra le sue, le dicevano com'io stessi dentro di me: ella chinava gli occhi - e taceva; io taceva. 1. non recava .•. ferita: nota P. CRASSous, op. cit., 111, p. 72: •Cette exprcssion est empruntée de lo Bible [...] •· Si veda, ad esempio, la parabola del buon Samaritano (Luc., 10, 33-4), dall'autore citata alla nota b di p. 894. 792 PROSE E in quella io temeva d'essermi tanto quanto provato di stringere un po' più la sua mano, perch'io mi sentiva nella palma una sottilissima sensazione - non come se la signora volesse ritrarre la mano - ma che ci pensasse - ed io irremissibilmente la riperdeva, se l'istinto, più che la ragione, non m'avesse guidato all'ultimo ripiego in tali frangenti - di tenerla lentissimamente e quasi Il li per lasciarla da me: cosi ella lasciò correre, finché monsieur Dessein tornò con la chiave, ed io in quel mezzo fantasticava: Certo certo - se il povero francescano le avesse ridetto il suo caso meco - e' bisogna pure ch'io mi liberi dal tristo concetto che le si sarà piantato nell'animo - ma e come? mi posi a cercar questo come. XII. LA TABACCHIERA CALAIS Quel buon vecchio del frate, mentr'io dubitava di lui, non m'era lontano sei passi; e ci veniva incontro un po' di traverso fra il sì e il no - Pur giunto a noi si fermò con indicibile ingenuità, presentandomi aperta la sua tabacchiera di corno ch'egli avea tra le mani - Saggerete un po' del mio, dissi a lui; e mi trassi di tasca e gli porsi una scatoletta di tartaruga - Squisito! disse il frate. Or fatemi il favore, soggiunsi, di gradire il tabacco e la scatola; e pigliandovi alcuna presa ricordivi di tanto in tanto che questa fu l'offerta di pace d'un uomo che vi ha una volta trattato ruvidamente, ma non col cuore. Il povero frate si fe' di scarlatto. Mon Dieu! diss'egli a mani giunte - voi non m'avete trattato ruvidamente mai - Non mi pare, aggiungea la signora, non mi pare capace. E mi feci anch'io rosso; e per quali emozioni, chi sente - e non avrà di molti compagni, Io esplori- Perdoni, madama, diss'io, io l'ho trattato acerbissimamente - e non fui provocato - No, non può darsi, tornò a dir la signora - Dio miol sciamò il frate con tal fuoco d'asseveranza, che non pareva a lui proprio - la colpa era mia, e della indiscretezza del mio zelo - La gentildonna gli contradisse, ed io con lei; soste• nendo ch'egli era impossibile che un animo sì ben composto po• tesse mai recar noia a veruno. Io non sapeva che un alterco potesse, com'io pur sentiva al-- lora in me stesso, riescire si soave e sì piacevole a' nervi - Si restò VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 793 taciti senza verun senso di quell'angustia scimunita che sottentra quando in un crocchio vi guardate per dieci minuti l'un l'altro in viso senza dirvi una sillaba. Strofinava frattanto il frate quella sua tabacchiera di corno sulla manica della sua tonaca; e come vide che avea acquistato certa apparenza più lucida - mi fece un inchino profondo e disse: Ch'era ornai tardi, né si poteva dir per allora se più la debolezza che la bontà dell'indole nostra ci avesse involti in quella contesa - ma comunque si fosse - mi pregava che tra di noi cambiassimo tabacchiera - e parlando mi offeriva la sua da una mano, e dall'altra accettava la mia - e baciatala con un profluvio di buon naturale negli occhi, se la ripose nel seno - e s'acco- miatò. Io mi serbo la sua tabacchiera tra le parti istrumentali• della mia religione, e quasi scala alla mia mente a più alte cose; e per verità io esco di rado senz'essa, e per essa ben assai volte richiamo lo spirito cortese del suo donatore a guidare anche il mio attraverso le burrasche del mondo, le quali (com'io poi seppi dalla storia di lui) l'aveano esercitato pur troppo sino a' quarant'anni delretà sua, allorquando egli vedendosi male rimunerato de' meriti suoi a) lnstrumental parts o/ my religion; - frase spiegata dall'autore nel sermone Su la coscienza: - Dirà con l'Apostolo: • ho una buona coscienza»; e sel crede daooero ... però declama contra l'incred11lità del secolo - e frequenta i sacramenti - e tratta quasi a diporto parecchie parti istrumentali di religione• - E altrove: I flagelli, i cilicii ec., e le altre parti istrumentali della n,a religione divezzavano l'asino dell'eremita da' calci - e le sono parole per l'appunto d'Ilarione eremita che disco"e di s,. Tristram Shandy. Voi. 8. cap. 31.2 J. Si tratta del sermone xxvn, The Abuses of Conscience Considered, che inizia con la citazione: •Hcbrews XIII. 18. - For wc trust we hove a good Conscience •, e, più oltre: •[.•.] attends the sacraments, and amuses himself with a few instrumental duties of religion [..•] • (TJ,e Works of LAURENCB STERNE ccc., cit., 111, pp. 261 e 270). La citazione bibliografica si ritrova in P. CRAssous, op. cit., 111, pp. 72-3. 2. u If any thing in this world [•.•] could have provoked my uncle Toby [.•.] it was tbc perverse use my fatber was always making of on expression of Hilarion, tbe hermit; who, in spcaking of bis abstincnce, bis watcbings, ftagellations, and other instrumental parts of his religion, - would say [••.] "That they were means he used to make bis ass (meaning bis body) leave off kicking0 • (The Worlu of LAURENCE STERNE ecc., cit., 11, p. 252). La citazione bibliografica si ritrova in P. CRASSous, op. cit., 111, p. 73. 794 PROSE militari, e malavventurato nella tenerissima delle passioni, abbandonò la spada insieme e l'amore, e rifuggi nel sacrario non tanto del suo convento, quanto di sé stesso. E sento un peso nell'anima or ch'io devo scrivere, che quando ultimamente ripassai per Calais chiesi che n'era del padre Lorenzo, ed udii come egli da tre mesi era morto e seppellito, non già nel suo convento, ma secondo la sua volontà in un piccolo campo santo de' frati sei miglia fuor di città. Né io mi poteva acquetare se non vedeva dove l'aveano deposto - E là, pigliandomi in mano la sua scatoletta di corno, e guardandola, e sedendo sulla sua fossa, e sradicandovi dal colmo parecchie ortiche che non avevano a che allignare lassù - tutto questo mi ripercosse sì fieramente gli affetti ch'io prorompeva in dirottissime lagrime - ma io sono debole quanto una fen1mina! e prego voi tutti di non sogghignarne; com- miseratemi. XIII. LA PORTA DELLA RIMESSA CALAIS Intanto io non aveva lasciata mai la mano della mia dama; e sarei stato incivile s'io l'avessi, dopo tanto ch'io la teneva, lasciata innanzi di accostarla a' miei labbri; e la baciai: e il sangue, e gli spiriti, che avevano poc'anzi mutato corso si riaffollavano sulle guance di quell'afflitta. Or avvenne che i due viaggiatori, i quali m'aveano parlato nel cortile, passarano nel frangente di quella crisi, ed osservando la nostra dimestichezza s'avvisarono naturalmente che noi fossimo marito e moglie almeno; però soprastando su l'uscio della rimessa, l'un d'essi, ed era il viaggiatore curioso, c'interrogò: E domattina partirete voi per Parigi? - Posso rispondere per me solo, diss'io: e la signora soggiunse, che andava a Amiens. Vi abbiamo desinato ieri, disse il semplice viaggiatore - E voi andando a Parigi, mi disse l'altro, vi passerete propriamente per mezzo. Poco mancò ch'io non gli rendessi infinite grazie della notizia che Amiens fosse su la strada di Parigi; ma avvedendomi ch'io pigliava appunto allora tabacco nella scatoletta di corno del mio povero frate - risposi pacificamente con un inchino, ed augurai loro un tragitto prospero a Douvre - Ci lasciarono soli. - Or chi pregasse quest'afflitta gentildonna perch'ella accetti VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 795 la metà del suo sterzo? - e che male ci sarebb'egli? dissi tra me; e che infortunio tremendo ne verrebb'egli? Ogni sordida passione, e trista propensione della mia natura gridarono all'arme, mentr'io proponeva il partito - Ci vorrà il terzo cavallo, dicea l'AVARIZIA; e ti trarrà di tasca un'altra ventina di lire - Tu non sai chi mai sia costei, dicea la DIFFIDENZA• - Né in che brighe questo imbroglio può avvilupparti, bisbigliava la CO- DARDIA. Fa' conto, Yorick! dicea la CIRCONSPEZIONE, ch'e' si dirà che tu viaggi con l'amica, e che vi siete data la posta a Calais Tu non potrai più d'oggi in poi, gridò strepitando i'IPOCRISIA, mostrar la tua faccia al popolo - Né promuoverti, aggiunse la MEDIOCRITÀ,b nelle dignità della Chiesa - E finché tu campi, disse i'ORGOGLIO, ti rimarrai prebendario cencioso. - Ma io fo pure una gentilezza, diss'io - E perché per lo più mi governo col primo impulso, e perciò quasi mai non do retta a cotali cabale che non ti giovano a nulla, ch'io sappia, fuorché a smaltarti il cuor di diamante - mi volsi tosto alla dama -1\lla mentre il concilio mio disputava,c la dama se n'era ita, a) CAUTION: propriamente cautela, precauzione; ma sono gemelle della circonspezione, la quale anch'essa dice la sua. Densi chi attendesse al significato primitivo in inglese di questa voce, e all'avversione naturale dell'autore agli uomini prudenti, tradurrebbe PRUDENZA: se non che a me traduttore, guerreggiante da più anni a viso aperto con questa virtù letteraria, non è sembrato atto cavalleresco d:interpretare rigorosamente il vocabolo e d'assalirla con l'armi altrui. b) MEANNF.SS, propriamente mediocrità; e in inglese si piglia sempre in mala parte, e suona meschinità di ricchezze, d'ingegno, d'animo, di dig11ità: non così in italiano; e questo anzi è vocabolo favorito da' nostri scrittori: ma perché l'autore volle dinotare con esso il misero sentimento che l'uomo J,a della propn·a mediocrità, e gli diede persona e parole, io non ho potuto se non se letteralmente tradurlo. e) Le edizioni comunemente: as the cause was pleading; mentre la lite si perorava. Ma un'edizione, sola ch'io mi sappia, legge council, concilium; ed io l'antepongo, perché il parroco Yorick solea conferire molti punti morali e teologici con tutti i reverendi ecclesiastici della sua provincia; non però gli ascoltava. E un giorno gli ebbe tutti a mensa e a concilio, e lesse una sua predica richiedendoli del loro saggio parere: ma com'ebbe finito, e tutti lo lodavano a cielo, egli ringraziandoli umilmente, la lacerò; e regalò i brani del manoscritto PROSE né me n•accorsi; anzi nel punto ch,io pronunziava la mia sentenza, ella avea fatto da dieci o dodici passi lungo la via; e m'affrettai dietro a lei per farle con bella maniera, la mia proferta: ml notai ch'ella se n'andava con la guancia appoggiata alla palma - col tardo e misurato portamento della meditazione, e con gli occhi fitti di passo in passo sul suolo; onde venni in pensiero ch'andasse anch,ella agitando la stessa lite - Dio raiuti! diss'io; ch'ella avrà al pari di me alcuna suocera, o zia pinzochera, o vecchia scema da consultar sul partito: né mi parve bene d'interrompere quel litigio, stimando atto più cavalleresco di pigliarla a patti, anziché di sorpresa. Voltai dunque le spalle e me n'andava in giù e in su davanti la porta della rimessa, mentre la signora ruminando se n'andava dall'altra parte. XIV. SU LA VIA CALAIS Avendo io e la mia fantasia, come prima vidi quella signora, già stabilito« Che fosse una delle predilette della Natura>) - e piantato per secondo e non meno incontrastabile assioma «Che essa era vedova e che vestiva i caratteri della sventura» - non andai punto più in là; io aveva terreno bastante alla posizione che mi giovava - e quand'anche ella fosse restata meco braccio a braccio sino a mezza la notte, io mi sarei attenuto leale al mio sistema, considerandola sempre ed unicamente con quell'idea generale. Ma non mi si scostò venti passi, che una voce nel mio secreto mi sollecitava ad indagini assai più distinte - ed era suggerita dal presentimento d'una più lunga separazione - poteva anche darsi che io non la rivedessi mai più - il cuore invigila a preservare tutto quello ch'ei può; e mi bisognava almeno una guida affinché i miei sospiri non si smarrissero, se mai non mi fosse più dato di congiungermi a lei che co' soli sospiri. E per dirla, io bramava di sapere il suo nome - il suo casato - la sua condizione; e poiché io sapeva a, suoi commensali tanto che potessero allumare le loro pipe, e fumassero in santa pace con lui. Tristram Shandy voi. IV. cap. 27.1 r. Ma vedi il cap. XXVI che inizia con le parole: a - SEE, if he is not cutting it ali into slips, and giving them about him to light their pipcsl » (The Works o/ LAURENCE STERNE ecc., cit., 1, p. 333). VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 797 dov'ella s'avviava, m'era pur necessario di non ignorare donde veniva. Ma come mai senza violare tanti dilicati rispetti che le custodivano poteva io raccorre tutte queste notizie? Macchinai venti varii disegni - io non poteva capacitarmi che un uomo la interrogasse così a dirittura - era còsa impossibile. Un francesino de bon air, capitano, che veniva per via saltellando, mi fe' vedere che la cosa era sì facile che nulla più; perché affrontandoci appunto mentre la gentildonna tornavasi all'uscio della rimessa, si piantò fra noi due, e senza farsi ben conoscere, s'introdusse mio conoscente; e mi richiese dell'onore di presentarlo alla dama - io non le era stato presentato io - però volgendosi a lei, le si presentò né più né meno da sé, interrogandola se venisse di Parigi: No, ma rispose che andava per quella strada - Vous n'etes pas de Londres - No; diss'ella - Dunque madama dovea venir dalle Fiandre; apparemment vous etes Flamande, tornò a dire il capitano francese - La dama rispose, che sì - Peut-etre de Lille? Disse, ch'ella non era di Lilla- né d'Arras?- né di Cambrai?- né di Gand? - né di Brusselle? - Rispose, ch'essa era di Brusselle. Egli aveva avuto l'onore, diceva, d'intervenirvi al bombardamento nell'ultima guerra - era galantemente situata pour cela - e piena di noblesse - allorché gli imperiali ne furono cacciati da' francesi (la gentildonna fece una riverenza); e cosi ragguagliandola della vittoria e del merito che anch'egli n'ebbe - la pregò dell'onore di sapere il nome di lei - e le fece un inchino. - Et madame a son mari?-·disse; fe' due passi; guardò addietro e senza aspettare risposta, saltellò per la via. Quando avessi fatto sett'anni di noviziato in una bottega di belle creanze,1 non avrei imparato a far tanto. XV. LA RIMESSA CALAIS Mentre il capitanetto francese si liberava di noi, monsieur Dessein capitò con la chiave della rimessa a introdurci nel magazzino de' suoi calessi. 1. Quando ..• creanze: nota P. CRASSous, op. cit., III, pp. 76-7: «Sterne fait allusion à l'usage commun en Angleterre d'engager sa liberté pour un certain nombre d'nnnées, et de vendre ses services à un artisan ou à un marchand, à condition qu'ils instruiront l'apprenti du secret de leur art [...] •· PROSE La prima ad affacciarmisi, allorché egli spalancava le imposte, fu un'altra vecchia sdruscita désobligeante; e quantunque fosse l'effigie sputata di quella che un'ora fa nel cortile m'avea dato tanto nel genio - il vederla, e il sentirmi rimescolare fu tutt'uno; e pensai che doveva pur essere un selvatico animale colui al quale venne prima nel cuore di costruire sì trista macchina; né io aveva più di carità per l'uomo che si pensasse mai d'adoprarla. Parvemi che neppur la signora ne fosse molto invaghita; e monsieur Dessei.n, come savio, ci guidò verso un paio di sedie da posta una accanto all'altra; dicendo nel raccomandarcele, che le furono comperate da Lord A. e B. per il grand tour, ma che non oltrepassarono Parigi, ed erano buone per tutti i conti quanto se le fossero nuove - Erano troppo buone - e m'attenni a un'altra, e incominciava già a contrattarla - ma ci capiranno al più due persone, dissi tirando a me lo sportello; e v'entrai - piaccia a madama, disse monsieur Dessein, e le porgeva il braccio, piacciate di salirvi la signora ci pensò un minuto secondo, e salì; in quella il ragazzo accennò di voler parlare al padrone: e monsieur Dessein serrò lo sportello, e ci lasciò dentro XVI. LA RIMESSA CALAIS C'est bien co111ique, bizzarra cosal disse la signora, e sorrise, avvisandosi com'essa per un gruppo d'accidenti da nulla erasi trovata così sola meco due volte - e'est bien comique, diceva ella - Mancherebbe alla bizzarria, le diss'io, l'uso comico che la galanteria d'un francese ne trarrebbe - amoreggiandovi al primo momento, e offerendosi a voi con tutta la sua persona al secondo. C'est leur fort, replicò la signora. Portano almen questo vanto, diss'io - se poi ci riescano, e come - io noi so; certo è ch'ei sono in concetto di intendersi d'amore, e di professarne l'arte meglio d'ogni altro popolo sotto il cielo: ma io gli ho per guastamestieri solenni, e veramente per pessimi fra quanti arcieri tentarono mai l'arco e la benignità di Cupido. - Voler fare all'amore per sentimenti!• pensate! Come s'io prea) Questa teoria d'amore del parroco è corollario della sua massima: Love is not much a sentiment, as a ntuation. Tristr. Shandy, VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 799 sumessi di farmi un elegante abito intero con de' ritagli - e fanno ali'amore - affrontandovi - con una dichiarazione alla prima - ed avventurando l'offerta e sé stessi con tutti i pours e contres al bilancio d'un animo freddo. La signora ascoltava quasi aspettando ch'io continuassi. Or madama rifletta, soggiunsi posando una mano sovra le sue Che le persone gravi odiano l'amore in grazia del nome Gli egoisti in grazia di sé stessiGli ipocriti in grazia del cielo E noi tuttiquanti, giovani e vecchi, siamo ben dieci volte più sbigottiti che offesi dal solo rumore - e oh come si fa scorgere poveretto e novizio in questo commercio chiunque si lascia scappare la parola d'amore, se per un'ora o due per lo meno non l'ha prima repressa con un silenzio ornai divenuto cocente! Persevera nelle gentilezze, e che le sieno dilicatissime e tacite; e non dieno tanto nell'occhio da insospettire, ma né tanto poco da essere trascurate - e di tanto in tanto un'occhiata parziale - dir pochissimo o nulla - lascia con l'amica tua la Natura, e le comporrà in cuore l'amore a suo modo. voi. VIII. cap. 34.1 E s'io, come suo chierico, pur lo intendo, ei vuol dire, «Che l'amore non deriva da' sentimenti volontarii di generosità e di benevolenza ec., ma che è un nuovo stato, benché talvolta continuo, dell'anima, e dal quale invece derivano tutti que' sentimenti». Ed alla teoria l'autore applicherà fra non molto l'esperienza sua propria al capitolo 23 di questo viaggio.2 E nelle lettere famigliari scriveva: Godo che voi siate innamorato - guarirete così dall'ipocondria che è pessima per t11tti, t1omini e donne - ho sempre anch'io alcuna dulci11ea per la testa - e l'anima così s'amionizza. - Lett. voi. 1. 57. E altrove: Il sentimento, che qui in Francia è parola solen11e - è nuda parola - non credo che essi medesimi sappiano cii, che si vogliano dire.3 1. •- Love, you see, is not much a untiment, as a situation [...] 11 (The Works of LAURENCB STERNE ecc., cit., II, p. 258). 2. Vedi le pp. 808-10. J. Si tratta della lettera a Mr. W. Coxwould, del 23 maggio 1765, dove, fra l'altro, si legge: « I am glad that you are in love - 'twill cure you (at least) of the spleen, which has a bad effect on both man and woman - I myself must ever have some Dulcinea in my head - it harmonises the soul [...] but I carry on my affairs quite in the French way, sentimentally - "L'amour", (say thcy), "n'est rim sans smtiment" -• (Letters of the Late Rro. Mr. LAURENCB STERNE ccc., cit., 1, pp. 146-7). La citazione bibliografica si ritrova in P. CRASSous, op. cit., 111, pp. 78-9. 800 PROSE Dunque dichiaro solennemente, disse la signora arrossendo - che voi sino ad ora m'avete fatto sempre all'amore. XVII. LA RIMESSA CALAIS Monsieur Dessein tornò a trarci di quella sedia, e annunziò alla signora, che il conte di L••• fratello di lei, arrivava all'albergo. È vero ch'io le desiderava ogni bene; pur non dirò che quell'annunzio giungesse lieto al mio cuore - né ho potuto tacerne - E così dunque, donna gentile, diss'io, uscirò di speranza che voi accettiate l'esibizione ?••• - Né occorre che me la spiegate, m'interruppe ella, posando fra le mie la sua mano - Rare volte, mio buon signore, un uomo s'accinge a un'offerta di cordialità verso una donna, e che essa non n'abbia presentimento un po' prima - Ed è un'arme che la Natura le dà, risposi io, per sua preservazione immediata - Non però credo, diss,ella mirandomi in viso, ch'io avessi dovuto star in sospetto - anzi, per trattarvi candidamente, io disegnava già d'accettare; e se - (e tacque alquanto) - sì, continuò, credo che la vostra amorevolezza m,avrebbe confortata a narrarvi una storia per cui la pietà sarebbe stata l'unica cosa pericolosa del viaggio. E mentre parlavami, non le spiacque ch'io le baciassi e ribaciassi la mano; e con uno sguardo affettuoso misto di rincrescimento, uscì dalla sedia - e disse addio. XVIII. SU LA VIA CALAIS Non ho, da che vivo, sbrigato più speditamente d'allora un negozio di dodici ghinee. Il tempo, dopo quell'addio, m'era grave: vidi che ogni momento si sarebbe pigramente raddoppiato per me fino a che non avessi pigliato le mosse - ordinai sul fatto i cavalli, e m'affrettai verso l'albergo. Re del cielol esclamai nell'udire che all'oriuolo della città batteano le quattro, e accorgendomi ch,io mi trovava da poco più d'un'ora in Calais - Vedi che gran libro può in si breve tratto di vita arricchir d'avventure chi s'affeziona col cuore a ogni cosa, e chi avendo VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 801 occhi per vedere ciò che l'occasione ed il tempo gli vanno di continuo mostrando a ogni passo del suo cammino, non trascura nulla di quanto egli può lecitamente toccarci - Se non riesce una cosa - riescirà un'altra - né importa - fo un saggio a ogni modo dell'umana natura - la mia fatica m'è premio - mi basta - il diletto dell'esperimento tien desti i miei sensi e la parte spiritosa del mio sangue, e lascia dormir la materia. Compiango l'uomo che può viaggiare da Dan a Bersabea• ed esclama: (( Tutto è infecondo!» - ed è: e tale è l'universo per chiunque non vede quanto ei sarà liberale a chi lo coltiva. Ponetemi, diss'io, stropicciandomi lietamente le mani, dentro a un deserto, e troverò di che farmi rivivere tutti gli affetti - ne farei dono, non fosse altro, a qualche mirto soave; e mi cercherei per amico un malinconico cipresso - corteggerei le loro ombre, e li ringrazierei affabilmente della loro ospitalità - vorrei intagliare il mio nome sovr'essi, e giurerei ch'ei sono i più amabili fra gli alberi del deserto: se le loro foglie appassissero, imparerei a condolermene; e quando si rallegrassero mi rallegrerei con essi. SMELFUNGUS, uomo dotto, viaggiò da Bologna a mare a Parigi da Parigi a Roma - e via così - ma si partì con l'ipocondria e l'itterizia, ed ogni oggetto da cui passava era scolorato e deforme scrisse la storia del suo viaggio; la storia appunto de' suoi miseri sentimenti. Incontrai Smelfungus sotto il gran portico del Panteo - ei n'esciva - La è poi, mi diss'egli, un'enorme arena da galli - Non aveste almen detto peggio della Venere de' Medici, gli risposi - da che passando per Firenze io aveva risaputo che egli s'era avventato alla Dea, e trattatala peggio d'una sgualdrina - e senza la minima provocazione in natura. M'avvenni anche in Torino, mentr'egli ripatriava, in Smelfuna) Dan era l'estrema parte settentrionale, e Bersabea l'estrema australe della terra del popolo di Dio: e nell'antico testamento a Dan usqlle Bersabee assai volte significa un lunghissimo viaggio. Reg. I et 11.1 1. Dan .•• II: nota P. CRAssous, op. cit., 111, pp. 83-4: •Dan et Bersabée [.•.] étaient deux villes situées aux extrémités opposées de la Judée: Dan au nord, et Bersabée au midi. [...] Il est souvent parlé de ces deux villes dans la Bible, pour désigner les deux points les plus éloignés [.•.]: a Dan usque Bwsabee; Amos, chap. VIII, v. 14; Rois, liv. u, chap. 17, v. 11 etc. etc. ». 51 802 PROSE gus; e avea da narrare un'Odissea di sciagurate vicende, C1• 3. E pubblicò ••. conoscere: vedi J. BARE1TI, op. cit., I, p. 4: «[ •••] [lVlr. Sharp] laid undcr thrcc most capital disadvantages when he cntered it [cioè in Italia]; that is to say, he wns ignorant of the Italian language; was of no high rank; and was affiictcd with bodily disorders [••.] »; e vedi l'intero primo capitolo (pp. 1-16). PROSE XIX. MONTREUIL lo aveva una volta perduto la valigia di dietro il calesse; io era due volte smontato alla pioggia, e un'altra volta nel fango sino al ginocchio a dar mano al postiglione tanto che la rassettasse; né mi venne mai fatto d'accorgermi del.difetto - e solo, come giunsi a Montreuil, alla prima parola dell'oste che mi chiese se m'occorresse un servo, m'avvidi che questo era appunto il difetto. Un servo! e' m'occorre pur troppo, risposi - Perché, monsieur, dicea l'oste, abbiamo uno sveltissimo giovinotto a cui non parrebbe vero di aver l'onore di servire un inglese - Ma, e perché un inglese più ch'altri? ..:. Sono sì generosi! replicò l'oste - Frustatemi, dissi meco, s'io non mi troverò una lira di meno in saccoccia; e stassera - Ma hanno anche il modo, monsieur; disse l'oste - Nota a mio debito un'altra lira, dissi io - ler sera per l'appunto, continuò l'oste, un mylord anglois présentoit un écu à /afille de chambre - Tant pis pour mademoisel/e Jeanneton, rispos'io. Or Jeanneton era figliuola dell'oste; e l'oste pigliandomi per novizio di francese m'avvertì con mia buona licenza, ch'io non dovea dire, tant pis - ma, tant mieux. Tant mieux toujours, monsieur, se, molto o poco, si busca - tant pis, se nulla. Gli è poi tutt'uno,• risposi. Pardonnez-moi, disse l'oste. E qui gioverà più che altrove un avvertimento; badateci ora per sempre. Tant pis e Tant mieux sono due cardini della conversazione francese; e quel forestiero che se ne impratichirà innanzi di entrare in Parigi, farà da savio. Un disinvoltissimo marchese francese, alla mensa del nostro ambasciadore1 interrogò mister Hume,2 s'egli era Home3 poeta?- No; a) Come accada che tanto a buscare quanto a non buscare regali tomi tutt'uno, nessuno de' matematici co' quali mi sono consigliato, ha saputo spiegarmelo. E forse l'autore vorrà dire «che se nell'accettare mancie può starci il tant mieux, nell'accattarle può starci il tant pis• - Ma fors'anche m'inganno, da che neppure i letterati maestri miei a' quali l'ho detta hanno potuto accomodarsi a questa interpretazione. J. nostro ambasciadore: Lord Hertford, per il quale vedi la nota a di p. 882. 2. David Hume (Edimburgh 26 aprile 1711 - ivi 25 agosto 1776). 3. John Home (Leith [Edimburgh] 21 settembre 1722 - Merchiston Bank [Edimburgh] s settembre 1808). È soprattutto noto per la tragedia Douglas che venne rappresentata per la prima volta a Edimburgo il 14 dicembre 1756. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 805 rispose Hume mansuetissimamente - Tant pis, soggiunse il mar- chese. Questi è Hume, storico; disse un altro - Tant mieux, soggiunse il marchese. E mister Hume, uomo d'ottimo cuore, gli rese grazie per tutti e due.• Poiché l'oste m'ebbe addottrinato di questo punto, chiamò La Fleur, nome del giovinotto - Le dirò, monsieur, dicea l'oste, ch'io non presumo, di parlare dell'abilità del giovine - monsieur ne sarà giudice competente; ma circa la fedeltà mi scrivo mallevadore con tutto il mio. Alle parole dell'oste, e più al modo con che le disse, l'animo mio si deliberò detto fatto - e La Fleur che stava fuori, aspettando con quel batticore affannoso che ciascuno di noi tutti figliuoli della Natura avrà alla sua volta provato - entrò. XX. MONTREUIL lo sono corrivo ad appagarmi d'ogni sorta di gente alla prima; ma più che mai se un povero diavolo viene a esibire la sua servitù a un sì povero diavolo come io sono: e perch'io so che ci pecco, comporto sempre che il mio giudizio riveda la mia stima difalcandovi, più o meno, secondo il mio modo d'allora, il caso - e dirò anche il genere della persona ch'io dovrò governare.b Vedendo La Flellr, io concedeva il difalco che io poteva in coscienza; ma l'idea tutta ingenua e il primo aspetto del giovine, gli diedero vinta la lite: e però prima l'assoldai - poscia presi a infora) La mansueta deferenza di questo illustre storico verso i grandi fu notata anche ne' libri di lui dal celebre Fox - Vedi Bibliothèque Britannique, extrait de la vie de Ch. Fox, et de son histoire du règne du roi Jacques, etc.• b) Modo (e mood in inglese significa modo e umore) - caso - genere - persona - governare - allusioni al gergode' grammatici ;3 e fredde: forse perché la pedanteria è si noiosa che non può riescire ridicola. J. A History of the Early Part of the Ret"gn ofJames the Second, tuith a,i Introductory Cliapter ecc., London, Holland, 1808. Charles Jamcs Fo:~ (Westminster 24 gennaio 1749 - Chiswick [Devonshire] 13 settembre 1806). 2. Modo ... grammatici: nota P. CRASSOUS, op. cit., 111, p. 105: «Toutes ces allusions relatives à la grammaire sont mot à mot dans l'originai: And this more or less, according to the mood I am in - and the cas~ - and I may add - the gender too of the person l am to govern [••.] •· 806 PROSE marmi di ciò che ei sapeva fare: se non che, dissi meco, scoprirb le sue abilità secondo i bisogni - e poi, un francese fa di tutto. Or il povero La Fleur non sapeva far altro sopra la terra, che battere il tamburo, e suonare due o tre marce sul piffero. Ad ogni modo mi posi in cuore che le sue abilità mi bastassero; e posso dire che la mia dabbenaggine non fu mai tanto derisa dal mio senno quanto per questo esperimento. La Fleur era comparso nel mondo per tempo, e cavallerescamente come i più de' francesi, servendoa per alcuni anni; a capo de' quali, vedendo pago il suo genio, e che egli forse, o senza forse, doveva starsi contento dell'onore di battere il tamburo, il che gli precl_udeva ogni più largo sentiero alla gloria - s'era ritirato à ses terres, e viveva comme il plaisoit à Dieu - di pazienza. - Su via, disse il SENNO, percorri la Francia e Pitalia con un tamburino; bel con1pagno di viaggio! e pagalo - E tu cianci, gli risposi io; che? la metà della nostra baronia non fa ella forse con un tarnburob compagnon de voyage il medesimo giro, e non ha ella il pifferoc e il diavolo, ed ogni cosa da pagare per giunta? Chi ne' combattimenti ineguali può schermirsi con un équivoque non ha sempre la peggio - Pur tu saprai fare qualche altra cosa, La Fleur? - Oh qu'oui! - sapea cucire un paio di calzerotti, e suonare un poco il violino - Bravo! mi gridò il Senno - Perché no? gli risposi; suono anch'io il violoncello - ci accorderemo benissimo - Tu saprai maneggiare i rasoi, e racconciare un po' una parrucca, La Fleur? - Quest'era appunto la sua vocazione - Per mia fé ! basta; diss'io interrompendolo - e dee bastare per me a) Il testo: serving, in caratteri distinti, come derivato dal frane. servir; ital. militare. b) Il testo: hum-drum, da hum ronzio, e drum tamburo; e andrebbe tradotto ronzone, moscone importuno, non dissimile da' compagni di viaggio e dagli ai de' gentiluomini. Ma per far meglio notare l'equivoco con che Yorick si sbriga dalle ammonizioni della saviezza, traduco tamburo, che vuole anche dire baule ferrato da viaggio; e l'Italia dice d'alcuni suoi gentiluomini: viaggiano come un batlle. e) Pagare il pifjero o la musica: modi proverbiali inglesi per dar la baia a chi pasce i ghiottoni.1 1. Pagare •.. ghiottoni: nota P. CRAssous, op. cit., 1111 p. 109: «To pay the piper est une cxpression proverbiale cn anglais, comme payer /es violons en français (...] ». VIAGGIO SENTIMENTALE (t813) Venne intanto la cena; e vedendo un vispo bracchetto inglese da un lato della mia seggiola, e dall'altro un valletto francese a cui la natura aveva con liberalissimo pennello dipinto il volto d'ilarità, tutta la gioia dell'anima mia esultava del mio impero; e se i monarchi sapessero cosa si vogliano, esulterebbero al pari di me. XXI. MONTREUIL Perché La Fleur fece meco tutto il viaggio di Francia e d'Italia, e verrà spesso in iscena, parmi di affezionargli alquanto meglio i lettori. Sappiate, ch'io non ebbi mai da pentirmi sì poco degli impulsi, che per lo più mi fanno risolvere, come con questa creatura - fedelissima, affettuosa, semplice creatura fra quante mai s'affannarono dietro le calcagna di un filosofo; e quantunque delle sue perizie di suonatore di tamburo, e di sarto da calzerotti, ottime in sé, non potessi veramente giovarmi, la sua giovialità m'era largo compenso - suppliva a tutti i difetti - i suoi sguardi m'erano fidato rifugio in tutti i disagi e pericoli - intendo solo de' miei; perché La Fleur era inviolabile: e se fame, o sete, o nudità, o veglia, o qualunque altra sferzata di mala ventura coglieva ne' nostri pellegrinaggi La Fleur, tu non ne vedevi né ombra né indizio in quel volto - ed era eternamente tal quale: e però, s'io - e Satanasso a ogni poco mi tenta con quest'albagia - s'io pure mi sono un pezzo di filosofo, la mia boria è mortificata quando considero l'obbligazione ch'io ho alla complessionale filosofia di questo povero compagnone il quale a forza di farmi vergognare mi ridusse uomo di razza migliore. Nondimeno La Fleur mi sapeva alquanto di fatuo - ma pareva alla prima più fatuo di natura che d'arte; né fui tre giorni fra i parigini - ch•ei non mi sembrò punto fatuo.• a) Chi più volesse intorno a La Fler,r veda l'edizione inglese stereot. Didot 1800, pag. 169.1 -A me basti il dirvi, ch'egli viveva l'anno 1783 in Calais, e si professava testimonio della verità di molti fatti descritti in questa operetta. 1. A Sentimental Jorlrney Through France and Italy. To Whic/1 are Added the Letters to Eliza. By YoRlCK. Stereotype Edition, According to thc process of Firmin Didot, Paris, Didot the Elder, and F. Didot, Eighth Year (1800), pp. 169-70. 808 PROSE XXII. MONTREUIL Al dì seguente La Fleur assumea la sua carica; e gli consegnai la valigia e la chiave, con l'inventario della mia mezza dozzina di camicie e delle brache di seta nera: gli ordinai d'assettare ogni cosa sopra il calesse - di far attaccare i cavalli - e di dire all'oste che salisse col conto. C'est un garfon de bonne fortune, disse l'oste; e m'additava dalla finestra mezza dozzina di sgualdrinelle tutte intorno a La Fleur; e gli dicevano amorosamente buon viaggio: ed egli, tanto che il postiglione menava fuori i cavalli, baciava la mano a tutte attorno attorno; e tre volte si asciugò gli occhi; e tre volte promise che porterebbe a tutte delle indulgenze da Roma. Quel giovinotto, mi disse l'oste, è benvoluto da tutto il paese; ogni cantuccio di Montreuil s'accorgerà ch'egli manca. Gran disgrazia per altro! continuò l'oste; ed è la sola ch'egli abbia: ccÈ sempre innamorato» - Beato me! gli risposi - ch'io non avrò il fastidio di rimpiattarmi le brache sotto il guanciale.~ - Queste parole erano più a lode mia, che di La Fleur. Vissi innamorato sempre or d'una principessa or d'un'altra; e così spero di vivere fino al momento ch'io raccomanderò il mio spirito a Dio; perché la mia coscienza è convinta che s'io commettessi una trista azione, la commetterei sempre quando un amore è in me spento, ed il nuovo non è per anche racceso: e nel tempo dell'interregno m'accorgo che il mio cuore fa il sordo - e mi concede a stento sei soldi da far elemosina alla miseria: però mi sollecito a rompere questo gelo - e il raccendermi e il risentirmi pieno di generosità e di benevolenza è tutto un punto: e farei di tutto, per tutti, e con tutti, purché mi persuadessero ch'io non farei peccato. - Ma, e queste parole - sono certamente più a lode della passione - che mia. XXIII. FRAMMENTO - La città d'Abdera, quantunque vi abitasse Democrito e s'industriasse di farla con tutta l'efficacia dell'ironia e del ridicolo a) L'autore serbava la borsa nel taschino delle sue brache; però dianzi, quando vide il frate, lo abbottonò. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 809 ravvedere, era dissoluta, ed abiettissima fra le città della Tracia: ed era da tanti veneficii, e assassinii, e congiure - libelli, e pasquinate, e tumulti appestata, che pochi vi giravano sicuri di giorno - e di notte nessuno. Or mentre ogni cosa andava alla peggio, avvenne che l'Andromeda d'Euripide• si rappresentasse in Abdera; e con sommo diletto del popolo: ma più ch'altro que' tocchi che la Natura aveva divinamente suggeriti al poeta nella patetica invocazione di Perseo: Re de' celesti e de' mortali, Amore! - e seg. que' teneri tocchi vinsero tutti i cuori. E quasi tutti il di dopo parlavano in iambi schietti; e non parlavano che della patetica invocazione di Perseo: Re de' celesti e de' mortali, Amore! - Per ogni via d'Abd·era, per ogni casa O Amore! Amore! - E per ogni labbro, quasi note di musica naturale modulate inavvedutamente per soave forza di melodia - scorreano queste parole O Amore! o re de' numi e de' mortali! E furono faville d'immensa fiamma - perché la città, come fosse il cuore d'un uomo solo, s'aperse tutta quanta ali'Amore. Né speziale trovava da vendere più ornai dramma di ellebo~o1 né verun armaiuolo s'attentava di temprare un solo stromento omicida - l'amicizia e la virtù s'incontravano baciandosi per le vie - il secolo d'oro tornava pendendo su la città d'Abdera - ogni Abderita diè di piglio alla sua zampogna, e tutte le donne Abderite, a) Tragedia smarrita, di cui leggiamo alcune reliquie presso gli antichi scrittori; ma non ho potuto trovarvi il verso citato da Yorick.2 1. elleboro: erba medicinale, della famiglia delle ranuncolacee. 2. Tragedia ... Yorick: nota P. CRAssous, op. cit., 111, p. 118: all ne nous est point parvenu de pièce d'Euripide sous ce nomi il est constant seulement, par les témoignages d'Athénée, liv. Xl i de Macrobe, Satum. liv. v, chap. :u; de Stobée; du scholiaste d,Aristophane sur la comédie des Oiscaux i et de Diogène Laerce, vie d1 Arcésilas, au livre IV., qu'Euripide avait composé une tragédie d'Andromède; mais parmi leurs citations il n1y en a aucune qui ait le-moindre rapport au monologue de Persée, ni au vers cité par Sterne [•.•] •• E vedi LUCIANO, Quomodo historia conscribenda .sit, 1. 810 PROSE smettendo i loro trapunti di porpora, sedevano vereconde ad ascoltar la canzone. Quel Nurne, dice il frammento, che regna dal cielo alla terra e negli abissi del mare, poteva solo oprar tanto. XXIV. MONTREUIL Quando tutto è in punto; e s'è discusso col locandiere ogni articolo; e s'è pagato; ove questo avvenimento non fabbia un po' inacerbito - tu non puoi salire nel tuo calesse, se prima non disponi sull'uscio un altro affaruccio co' figliuoli e con le figliuole della povertà, che ti attorniano. Deh! non t'esca mai detto: «Vadano al diavolo!» - durissimo viaggio per que' tapini, i quali, credimi, camminano con una croce assai grave sopra la terra. Ond'io credo meglio di provvedere la mia mano d'alquanti soldi; e chiunque tu sia, io ti conforterò, o viaggiatore cortese, a imitarmi: e non accade se tu non registri esattamente i motivi di questa partita -Tal v'è che altrove li nota per te. Io do sì poco che nessuno dà meno; ma conosco pochissimi i quali abbiano si poco da poter dare: e però non ne parlerei, se or non fosse mio debito di dar conto del mio primo pubblico atto di carità in Francia. Guai a me! diss'io. Ecco otto soldi in tutto; e li mostrava schierati su la mia palma - ed ecco otto poveri ed otto povere. Una povera anima sdruscita senza camicia indosso rivocò subitamente la sua pretesa, ritraendosi due passi dal cerchio,a e confessando con un tacito inchino ch'ei non potea presumere tanto. Se tutto il parterre avesse unanimemente esclamato: Piace au.'t dames! non avrebbe espresso si vivamente il sentimento di deferenza verso il bel sesso. Tu hai certamente, mio Diol ordinato che la pitoccheria e l'urbanità, le quali nell'altre contrade si guardano nimichevola) «Allude al cerchio che i cortigiani i quali, secondo l'autore, accattano sempre, fanno intorno al Re d'Inghilterra» - Nota della d• I e 1z. stereot. pag. 35. v. 13. 1. Allude .•. v. r3: ma vedi A Sentimental Journey ecc., cit., p. 170, la nota: 11 Pag. 38, lin. 2. By the circle is mcant thc asscmbly of courticrs who wait on the king whcn hc receives his court, and who form a kind of circle about his pcrson •· VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 811 mente, s'affratellassero in questa - ma è questo e pure un arcano de' tuoi sapienti consigli! - Indussi quel meschinC:llo a gradire il presente d'un soldo, e solo in grazia della sua politesse. Un povero compagnone mezzo pigmeo tutto brio, che mi stava a rincontro nel cerchio, s'acconciò prima sotto l'ascella un non so che, che fu già cappello; poi si trasse di tasca la tabacchiera, l'apri, e n'esibiva a destra e a sinistra: ma perché il dono era di qualche rilievo non fu dagli altri, come discreti, accettato - quel poveretto gli andava con atti d'accoglienza animando - prenez-en - prenez - e così dicendo non guardava la tabacchiera: però ciascheduno si pigliò la sua presa - Peccato se la tua scatola ne mancasse mai! e vi misi dentro due soldi - pigliandomi a un tempo una lieve presa per farglieli parere più cari - e di ciò si mostrò più tenuto che del danaro - l'elemosina era elemosina - ma la mia degnazione gli faceva onore - e mi corrispose con un inchino profondo sino a terra. - To', dissi a un vecchio soldato monco che era stato sbattagliato e rotto a morte militando - to' un paio di soldi, o infelice! Vive le Ro1.·1 gridò il veterano. ìVIi rimanevano appena tre soldi; ne diedi uno puramente pour l'amour de Dieu, titolo per cui mi fu chiesto - e quella povera femmina era sciancata, né si potea appormelo, credo, ad altro motivo. lv/o,i cher et très charitable monsieur - Non si può contraddirgli, diss'io. lv/y/ord anglois - il suono solo merita quattrini; e lo pagai col mio ultimo soldo. Ma nella mia foga io aveva trascurato un pauvre ho,iteux che non aveva chi domandasse un quattrino per esso, e che forse si sarebbe lasciato morire anziché domandarlo da sé. Stava ritto accanto al calesse alquanto fuori del cerchio, e rasciugava una lagrima da quegli occhi i quali, a quanto pensai, aveano veduto giorni migliori - Mio Dio! dissi meco - né mi avanza più un solo soldo da dargli - Ah tu ne hai mille! gridarono tutte le potenze della natura agitandosi dentro di me - e gli diedi - non giova dir quanto - ora mi par troppo, e me ne vergogno - allora io invece mi vergognava, parendomi poco. Or che il lettore ha questi due dati, potrà, se pur gliene importa, congetturando sulla disposizione 812 PROSE dell'animo mio, discernere, lira più lira meno, la somma precisa. Agli altri io non poteva dare più ornai se non un Dieu tJoru bénisse - Et que le bon Dieu vous bénisse encore - disse il veterano monco, il nano ec. Il pauvre honteux non potea dir parola - s'asciugava il viso col suo fazzoletto e partiva - ed io pensai ch'egli mi ringraziava assai meglio degli altri. XXV. IL BIDET Così disposti tutti questi affarucci, m'adagiai - né mai né in verun'altra sedia da posta più agiatamente d'allora - m'adagiai nella mia sedia da posta. La Fleur mettendo da un fianco del bidet• uno stivalone da botta, e un altro stivalone dall'altra (le sue gambe non vanno contate)- mi precorreva galoppando felice e con l'equilibrato contegno d'un principe - Ma che è mai la felicità? che è mai la grandezza in questa dipinta favola della vita? un asino morto, e non s'era corso una lega, s'attraversa improvvisamente come una sbarra alla carriera di La Fleur - il ronzino non voleva passarvi - vengono a rissa tra loro - e il povero ragazzo fu propriamente sbalestrato fuor de' suoi stivaloni alla prima coppia di calci. La Fleur tollerò la sua caduta da cristiano francese, e non disse né più né meno di diable! rizzasi senz'altro; si rappicca col ronzino: lo inforca; e battealo come avrebbe battuto il tamburo. Il ronzino salta di qua, risalta di là, e ricalcitra - torna di qua poi di là - da per tutto insomma fuorché verso l'asino morto - La Fleur voleva spuntarla - e il ronzino te lo scavalca. Che hai tu, La Fleur, gli diss'io con con quel tuo bidet? - Rispose: Monsieur, e'est un cheval le plus opiniatre du monde - Ed io: Se la bestia è cocciuta si trovi la strada a sua posta. - La Fleur smontò, accomiatandolo con una sonora scuriata; e il ronzino mi pigliò in parola e si mise la via di Montreuil fra le gambe - Peste! disse La Fleur. Or qui, da che non cade mal à propos, noteremo, che quantunque La Fleur non siasi valuto se non di due diversi vocaboli d'esclamazione - cioè diable! e peste! l'idioma francese non per tanto ne a) Voce francese; cavallino; e segnatamente il ronzino cavalcato da' corrieri, e da' battistrada. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 813 ha tre, a guisa di positivo, comparativo e superlativo, ciascheduno de' quali si adopera ad ogni impensato gitto di dadi nel mondo. Le Diable! è primo, positivo grado regolarmente usitato nelle ordinarie commozioni delPanimo - poniamo - ti riescono i dadi in doppietto - La Fleur scavalcato; e via via - per la ragione medesima al cocuagea basta sempre le diable! Ma se il caso ti tenta nella pazienza, come questo del ronzino che scappa alla stalla piantando La Fleur tutto d'un pezzo ne' suoi stivaloni - vuolsi il grado comparativo: e allora - Peste! E quanto al superlativo Ma il cuore mi si stringe di compassione e d'amore del prossimo, considerando quali miserie denno esserle toccate in sorte, e quanto deve essere stata martoriata a sangue una nazione sl dilicata - se fu violentata ad usarne Ispiratemi voi, o potenze, che nel dolore snodate la lingua all'eloquenza! comunque corra il mio dado, ispiratemi esclamazioni timorate, tanto ch'io non nomini invano la mia natura. Ma questa è grazia che non si può in Francia impetrare; onde mi rassegnai di lasciarmi all'occasione sferzare dalla fortuna senza mandare esclamazione veruna. La Fleur che seco non avea questi patti, appostò con gli occhi il ronzino finché gli svanì dalla vista - e allora - ma chi vuole, supplisca del suo l'esclamazione con cui La Fleur uscì finalmente di quella briga. E siccome non v'era verso d'inseguire con gli stivaloni un cavallo adombrato, a me non rimaneva se non il partito di pigliarmi La Fleur o dietro la sedia o dentro - Starà meglio dentro, diss'io - e in mezz'ora fummo alla posta di Nampont. a) Il testo: cuckoldom - Imitando io, e per quest'unico caso, l'autore che scrive con locuzioni francesi le idee di cui non trova voci proprie nella sua lingua mi sono giovato del vocabolo cocuage,1 da che l'idioma nostro non potrebbe tradurlo senza scandalo e senza perifrasi. E prego i grammatici, umanisti, rettorici, vocabolaristi, glossatori, nomenclatori, bibliotecari, accademici ·della crusca, e gli altri maestri miei, affinché, se possono, ci provvedano. 1. tocuage: vedi P. CRAssous, op. cit., 111, pp. 124-5. PROSE XXVI. NAMPONT L'ASINO MORTO - E questa, diceva egli riponendo i frusti d'una crosta di pane nella sua bisaccia - e questa saria la tua parte se tu vivessi a mangiartela meco - Dall'espressione mi parve che egli parlasse all'ombra del suo figliuolo: parlava al suo asino; e appunto all'asino morto su per la strada, e che diè la mala ventura a La Fleur. E quel pover'uomo mostrava di rammaricarsene pur assai; e mi tornò subito a mente la lamentazione di Sancio per l'asino suo: ma l'uomo ch'io udiva, doleasi con tratti di natura più schietti. Il dolente sedeva a un muricciuolo dell'uscio, col basto e la briglia del suo asino accanto; e di tanto in tanto li ripigliava - poi Ii posava - rimiravali; e crollava la testa. Ripigliò la crosta di pane fuori della bisaccia, quasi volesse mangiarne; la tenne alquanto - e poi la posò sul morso della briglia dell'asino - mirò pensieroso all'apparecchio ch'egli avea fatto - e sospirò. La semplicità del suo cordoglio gli trasse attorno assai gente; fra gli altri La Fleur - ed io, tanto che si allestivano i cavalli, rimasi nella mia sedia donde poteva vedere e ascoltare sovr'essi. - Disse, ch'ei veniva di Spagna dov'era ito dagli ultimi confini della Franconia; e trovandosi ancor sì lontano dalla sua terra, l'asino suo gli morì. Mostravasi ognuno bramoso d'udire perché mai un uomo sì vecchio e sl povero si fosse tolto dal proprio tetto ed accinto a tanto cammino. Piacque al cielo, ei diceva, di benedirlo di tre figliuoli, bellissimi fra tutti i garzoni in Germania; ma in una settimana perdé i due primogeniti di vaiuolo; e ne ammalò anche il minore: però temendo di rimanersi deserto nella sua casa fe' voto, che se Dio non si toglieva anche questo, egli per gratitudine peregrinerebbe a sant'Jago in Ispagna. Qui tacque perché la natura gli ridomandava il tributo - e pianse amaramente. Poi disse, che il cielo aveva accettati i patti, e ch'egli erasi partito dal suo tugurio con quella povera creatura la quale gli fu pazientissima compagnia nel suo viaggio - e che aveano in tutto il loro cammino mangiato del medesimo pane; e vissero come due am1c1. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) Tutti i circostanti ascoltavano contristati - La Fleur gli esibiva del danaro - N'ho un poco - e non piango, dicea quel dolente, l'importo - piango la morte dell'asino - l'asino mio, e ne sono sicuro, mi amava - Su di che raccontò la lunga storia di certo disastro per cui, mentre passavano i Pirenei, s•erano per tre giorni smarriti l'uno lontano dall'altro; che in que• tre giorni l'asino aveva cercato di lui quanto egli aveva cercato dell'asino; e che non aveano quasi mai toccato pane né acqua finché non si furono riveduti. Tu hai, se non altro, una consolazione, o uomo dabbene, io gli dissi, nella perdita della tua povera bestia: perch'io sono certo che tu gli fosti misericordioso padrone - Ohimèl mi rispose quell'addolorato - così anch'io mi credeva finché il mio asino visse; non così ora eh'è morto - e temo, che il peso di me, e delle mie afflizioni insieme, non gli sia stato assai grave - e avrà logorato la vita a quella povera creatura - e temo che dovrò renderne conto Vergogna a noil dissi meco - se tra di noi almeno ci amassimo quanto questo povero vecchio amava il suo asino - non saria poco. XXVII. NAMPONT IL POSTIGLIONE Alla mestizia di cui la storia di quel poveretto m'aveva innondato, bisognava alcuna caritatevole cura; ma il postiglione non ci badò: e mi rotolò sul pavé di scappata.• L'anima del pellegrino assetato nelle solitudini più arenose d'Arabia non si strugge per un bicchiere d'acqua di fonte, quanto allora la mia per moti gravi e posati; ed avrei fatto moltissima stima del postiglione, s'egli si fosse dileguato meco a passi quasi pensosiinvece, finito appena il piagnisteo del dolente, quel ghiottoncello lasciò andare un'inumana frustata all'uno e all'altro de' suoi ronzini: e pigliò la mossa col fracasso di mille diavoli. lo gli gridava a tutta voce: Per Dio! va' più adagio - e tanto io più grido, e tanto più spietatamente ei galoppa - Il demonio sel porti, e gli cavalchi in groppa! diss'io - vedilol costui andrà straziandomi i nervi a brani finché m'abbia malamente cacciato in a) Pavé: strato di grossi ciottoli diseguali, di cui sono comunemente selciate le strade postali. 816 PROSE una collera matta; poscia se n'andrà a piè di piombo tanto ch'io possa assaporarmela a sorsi. Il postiglione coglieva il punto a pennello: e mentre giungeva appiè di un'erta poco più d'un miglio fuor di Nampont - egli m'aveva già fatto entrare in collera contro di lui - e contro di me e della mia collera. A questo mio nuovo stato bisognava cura diversa; e un buon galoppo fragoroso m'avrebbe ridata la vita - Or, pregoti, va' - va', mio figliuolo, diss'io. Il postiglione m'additò l'erta - M'ingegnai dunque di ritessermi, com'io poteva la storia dello sconsolato tedesco, e dell'asino; ma il filo mi s'era rotto - e il rappiccarlo era disperata impresa per me, siccome il trotto per quel postiglione - Ma se l'ho detto che il demonio ci mette la coda! eccomi, diceva io, qui seduto, sinceramente disposto quant'altri mai a ridurre in meglio il peggio, e tutto mi s'attraversa. Tuttavia la Natura ci riserba un lenitivo soave ne' mali; ed io l'accolsi grato dalle sue mani, e m'addormentai. La prima parola che mi svegliava fu Amiens. - Se Dio m'aiuti! esclamai stropicciandomi le palpebre - questa è la città dove sta per venire la mia povera dama. XXVIII. AMIENS Le parole m'usciano di bocca, quando trapassò in posta il calesse del conte de L• • • e di sua sorella, la quale ebbe appena tempo di farmi un saluto di riconoscimento - anzi un saluto che mi significava, che non era per anche tra noi finita ogni cosa. Ella avea tanta bontà nell'animo quanta negli occhi. Un servo di suo fratello venne, mentr'io sedeva ancora a cena nella mia stanza con un biglietto in cui ella dicevami: «Che si faceva ardita di raccomandarmi una lettera ch'io recherei di mia mano a madame de R••• la prima mattina che non avessi altro da fare in Parigi»: e soggiungeva - << che le rincresceva e non sapeva ancor dire per quale penchant, ma pure le rincresceva che le fosse conteso di narrarmi la sua storia; e se ne chiamava mia debitrice; e se il mio viaggio mi conducesse mai per Brusselle, ed io non mi fossi dimenticato del nome di madame de L••• - madame de L• •• si sarebbe volentierissimo sdebitata» - VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) Sì, ti rivedrò, dissi, anima bella! a Brusselle - quando d'Italia, lungo la Germania e l'Olanda per la via delle Fiandre tornerò a casa mia - dieci poste al più fuor di strada; e siano pur dieci milal - oh di che voluttà spirituale coronerò allora il mio viaggio, raccogliendo nel mio secreto il dolore de' lamentevoli casi d'un racconto di sciagura narratomi da si amabile sconsolata! Vedrò le sue lagrime; né potrò inaridire la fonte di quelle lagrimel le rasciugherò se non altro (dolcissimo ufficio per me!) dalle guance della prima e leggiadrissima delle donne, e tenendo il mio fazzoletto, mi starò per tutta la sera seduto silenzioso al suo fianco - Desiderio innocente - pur nondimeno io lo rinfacciai immantinente, e con amarissime e rimordenti parole, al mio cuore. So d'aver detto a' lettori ch'io per grazia singolare del cielo vivo quasi dì e notte misero servo d'amore. Or, poiché- mentr'io voltava improvviso una cantonata - la mia ultima fiamma dal vedere al non vedere si spense d'un soffio di gelosia, la raccesi, e correa già il terzo mese, alla candida face d'Elisa - giurando che arderebbe per tutto il mio viaggio - ma perché dirò timidamente la verità? - giurai fedeltà eterna - però tutti gli affetti miei erano di ragione d'Elisa - e dividendoli io gl'indeboliva - cimentandoli, io li mettea a repentaglio - al cimento sta sempre allato la perdita - e che potresti più, Yorick! che mai potresti rispondere a un cuore tutto pieno di lealtà e di fiducia - sì generoso e sì candido, e incapace perfino di rinfacciarti ? - No; non andrò a Brusselle, diss'io interrompendomi - ma questo era poco alla mia fantasia - e mi ricordava le occhiate d'Elisa nel frangente della nostra separazione, quando nessuno de' due aveva cuore di dire addio - io contemplava il ritratto che le mani d'Elisa appendevano con un nastro nero al mio collo - e contemplandolo io arrossiva - avrei data l'anima per poterlo baciare - ma io arrossiva - e questo tenero fiore, dissi chiudendolo fra le mie mani, sarà calpestato fino alla sua radice - e calpestato, Yorick, da tel da te, che hai promesso di proteggerlo nel tuo seno? Eterna fonte di felicità! dissi inginocchiandomi a terra- siimi tu testimonio - e teco mi sia testimonio ogni spirito casto che tu disseti e consoli- non andrò a Brusselle, se Elisa non m'accompagna; no; quand'anche per quella strada s'arrivasse ne' cieli. Il cuore ne' suoi trasporti, vuole sempre, a dispetto della ragione, dir troppo. sa 818 PROSE XXIX. AMIENS La fortuna non arrideva a La Fleur; e non solo gli si mostrò poco amica nelle sue imprese cavalleresche• - ma da ch'ei s'arrolò mio scudiere, ed erano ornai ventiquattr'ore, gli fu avarissima di occasioni da poter segnalare il suo zelo. L'anima sua spasimava già d'impazienza; quando capitò la lettera di madame de L•••. E La Fleur afferrando questo primo praticabile incontro, invitò il servo in un salotto della locanda, e ad onore del proprio padrone lo trattò di due bicchieri del vino migliore di Piccardia: e il servo in contraccambio, e per non cedere in cortesia, lo condusse à l'hotel del conte de L••• dove La Fleur, perché avea il passaporto spiegato sul viso, s'affratellò in grazia della sua prévenance, con tutta la gerarchia della cucina. E siccome un francese, qualunque abilità egli possieda, non ha ritrosia veruna a sfoggiarla, non erano corsi cinque minuti, che La Fleur s'era già tratto di tasca il suo piffero, e menando egli la danza, mise in ballo al primo preludio la fil/e de chambre,b il maitre d'hotel, il cuoco, la guattera, t_utti i servi, i cani, i gatti, e un vecchio scimiotto: né credo che dal diluvio in qua vi sia stata mai cucina più allegra. Passando dalle stanze del conte alle sue, madame de L• • • udl quel tripudio. Suonò chiamando la fille de chambre, e ne chiese; e come seppe che il valletto del gentiluomo inglese avea col suo piffero messa in brio la famiglia, comandò eh'ei salisse. Ma il cattivello, che non sapeva come presentarsele a mani vote, a) Come nella lotta col ronzino per l'asino morto.1 b) I Francesi alle cameriere diconofemmes de chambre; ma pare che Yorick volesse che le fossero tutte filles, poiché cosi sempre le chiama. Nondimeno il liber memorialis di Didimo chierico ammonisce caritatevolmente ogni viaggiatore: u Che ove prima non abbia bene imparati tutti i varii modi di proferire il vocabolo fille, non se lo lasci uscire di bocca; da che i francesi, sl per adonestare ogni pensiero immodesto, sl per la filosofica brevità del loro idioma sogliono accumulare parecchie idee in un solo vocabolo, e chiamano la loro fantesca, fil/e - la loro figliuola, fille - la vergine, fille - la misera peccatrice, fil/e ec. ». Lib. 111. n. 28. 1. Qui a p. 812. Nota P. CRASsous, op. cit., 111, p. 134: •Allusion au débat que La Fleur vient d'avoir avec son bidct, et dans lequel il a été désarçonné et étendu sur le chemin •· VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 819 saliva le scale addossandosi mille e più complimenti in nome del suo padrone - v'aggiunse una serie d'apocrife inchieste sulla salute di madame - le significò che monsieur suo padrone era au désespoir• temendo ch'ella si risentisse de' disagi del viaggio - e per dir tutto, che monsieur aveva ricevuta la lettera di cui madame l'onorò - E mi onora egli, disse madame de L••• interrompendo La Fleur, di un biglietto in risposta? Madame de L••• lo interrogò con tanta fiducia che a La Fleur non bastò l'animo di contraddirle - e gli tremava il cuore per l'onor mio - e probabilmente per l'onore suo proprio, come s'egli fosse uomo da starsi con un padrone trascurato en égards vis-à-vis d'une f emme - e non sì tosto madame de L• •• gli domandò se le recava un biglietto - Oh qu'oui, le rispose: e gittandosi a piedi il cappello, e pigliandosi con la mano sinistra la falda della tasca diritta, comincia a frugarvi con l'altra mano - tenta l'altra falda - Diable! - fruga per ogni tasca - tasca per tasca in giro, né si dimentica del taschino - Peste! - votò dunque le tasche sul pavimento - esponendo un collarino sudicio - un pettine - una pezzuola - un frustino - un cuffiotto - e dava un'occhiata dentro e fuori al cappello - quelle étourderie! aveva lasciato il biglietto sulla tavola della locanda; correva per esso - né starebbe tre minuti a portarlo. Io m'alzava da cena quando La Fleur capitò a ragguagliarmi del caso, e me lo contò puntualmente; suggerendomi, con mia a) «Qui in Parigi s'iperboleggia - ove una donna si compiaccia di un'inezia, ti dice: qu'elle est charmée - e se alcun'altra cosa la incanta, grida: eh'essa è rapita (e ciò può anche dani) - e allora la terra non fa per lei, e ti fugge dagli occhi, e vola a cercar una metafora tra gli spiriti per dirti: qu'elle est extasiée: né tu trovi donna di bo11 ton la quale non cada in sì fatte estasi sette volte al giorno - intendi ch'essa è spiritata, o si sente il diavolo in corpo• - Vedi Sterne, lett. e questa lettera è scritta al celebre Garrick.1 1. David Garrick (Hercford 19 febbraio 1717 - London 20 gennaio 1779), celebre attore e rinnovatore del metodo di recitazione nel teatro inglese del Settecento, esordì a Londra nel 1741. Al suo ritiro dalle scene (1776)1 assunse la direzione del teatro londinese Drury Lane. Si tratta della lettera da Parigi del 10 aprile 1762. La si veda in Ldters of the Late Rev. Mr. LAURENCB STBRNE ecc., cit.1 1, pp. 67-71 (il passo, alle pp. 67-8). La citazione bibliografica si ritrova in P. CRASSous, op. cit., 111, pp. 137-9. PROSE buona grazia, che se monsieur (par hasard) si fosse dimenticato di rispondere alla lettera di madame, quest'espediente gli dava adito di ripiegare al faux pas - quando che no, le cose starebbero come stavano. Veramente io non era certo se la mia étiquette m'ingiungeva di scrivere o no - ma quand'anche io scrivessi - neppure il diavolo poteva adirarsene• - né io doveva mostrarmi ingrato allo zelo ufficioso d'un servo tenero dell'onor mio - e quand'anche egli avesse errato - ed io mi vedessi mal mio grado impacciato - non si poteva imputarlo al suo cuore - per verità, non era necessario ch.'io rispondessi - ma come mai mortificar quel ragazzo che diceva con gli occhi: Non ho io forse ben fatto ? - Va tutto bene, La Fleur - dissi; e bastò - Spiccasi, che parca lampo, di camera; torna col calamaio, e con l'altra mano piena di penne e di fogli; accostasi al tavolino; m'apparecchia ogni cosa davanti, mostrando in vista tal compiacenza ch'io non ho potuto non pigliare la penna. Cominciai, ricominciai; e sebbene io dovessi dir poco o nulla, e quel nulla potesse esprimersi in mezza dozzina di righe, imbrattai di varii esordii mezza dozzina di fogli, né v'era verso ch'io m'appagassi. La Fleur usci, e mi recò in un bicchiere un po' d'acqua da stemperarmi l'inchiostro - mi provvide di cera-lacca e di polverino Tant'era - Scrissi, riscrissi, cassai, stracciai, arsi, riscrissi - Le diable l'emporte, borbottai meco tra' denti; ch'io non sappia scrivere una misera lettera! - e gittai disperato la penna.1 Gittai la penna; e La Fleur accostandosi ossequioso, e con preghiere senza fine implorando, ch'io gli perdonassi l'ardire, mi confidò, che un tamburino del suo reggimento aveva scritto alla moglie d'un caporale una lettera - E la ho qui in tasca, diss'egli; e spero che farà forse a proposito. a) Elle sono chiacchiere del donnaiuolo per non parere sl tosto mal fermo nel proponimento di vivere fido all'amore d'Elisa, e di non impacciarsi per nulla con la dama di Brusselle.2 1. non ho potuto . •. la penna: vedi Ortis (1802), la nota I a p. 606. 2. Elle • •• Brusselle: nota P. CRAssous, op. cit., 111, p. 139: e Il dit cela pour s'excuser auprès d'Elisa de ce qu'il se décide à écrire à une autre femme qu'elle, démarche qui peut en entrainer de plus graves •· VIAGGIO SENTIMENTALE (18 t J) 821 A me non dispiaceva che quel povero giovinotto si sbizzarrisse L'avrò caro, gli dissi; fa' ch'io lo veda. Ed ecco fuor di tasca di La Fleur un piccolo taccuino miseramente logoro, traboccante di letterine mal conce e di billets doux; e posandolo sul tavolino, e slacciando una stringa che legava ogni cosa, andò uno per uno scartabellando quei fogli finché adocchiò la lettera sospirata - La voilà! - e così dicendo picchiava le palme la spiegò; me la pose sott'occhio; e si scostò tre passi dal tavolino. lo lessi. LA LETTERA MADAME, Je suis pénétré de la douleur la plus vive, et réduit en méme temps au désespoir par le retour imprévu du caporal, qui rend notre entrevue de ce soir la chose du monde la plus imposn:ble. Mais vive la joie! et toute la mienne sera de penser à vous. L'amour n'est RIEN sans sentiment. Et le sentiment est encore MOINS sans amour. On dit qu'on ne doit jamais se désespérer. On dit aussi que monsieur le caporal monte la garde mercredi: alors ce sera mon tour. CHACUN A SON TOUR. En attendant - vive l'amour! et vive la bagatelle! Je suis, MADAME, Avec tous les sentimens /es plus respectueux et /es plus tendres, Tout à vous JACQUES ROQUE Bastava dar la contea al caporale - e non dire un iota della guardia da montarsi mercoledì - e non c'era né bene né male -Cosi per compiacere a quel buon ragazzo che stava Il ritto in orazione per l'onor mio, per l'onor suo e per l'onore della sua lettera - ne estrassi dilicatamente la quintessenza, e tornai a lambiccarla a mio modo - e poiché l'ebbi munito del mio sigillo, La Fleur ricapitò il foglio a madame de L ••• - e al nuovo di proseguimmo il nostro viaggio per Parigi. 822 PROSE XXX. PARIGI Per chi può difendere le proprie ragioni con l'eloquenza del- 1'èquipaggio, e trionfare fragorosamente precorso da mezza dozzina di lacchè e da un paio di cuochi - Parigi è un'ottima piazza d'arme - ed ei potrà campeggiarla quanto è lunga e larga a sua posta. Un povero principe mal armato di cavalleria, e la cui fanteria non oltrepassa un pedone, farà saviamente, cedendo il campo, e segnalandosi, purché egli possa salirvi, nel gabinetto - salirvi - da che non vi si scende come mandati dal cielo dicendo: Me voici, mes enfan.s! - Eccomi - per quanto parecchi sei credano.a Confesso che non sì tosto fui tutto solo nella camera dell'hotel, le adulatrici speranze che mi scortavano sino a Parigi fuggirono a un tratto umiliate. Io m'accostava con gravità alla finestra vestito del mio polveroso abito nero, e osservando da' vetri, io vedeva gran gente a drappelli che in panni gialli, verdi ed azzurri correvano l'arringo del piacere - i vecchi con lance spezzate, e con elmi che aveano perduta ornai la visiera - i giovani con armatura sfolgorante d'oro tersissima, lussureggianti d'ogni più gaia penna d'oriente - e tutti - tutti - emulando i cavalieri incantati, che ne' torneamenti del buon tempo antico armeggiavano per la gloria e l'amore. E gridai: Ahi povero Yorick! e che puoi tu far qui ? alla prima tua prova in questa splendida giostra tu se' ridotto subito al niente - ricovrati - ricovrati in uno di que' tortuosi viali che un tourn,:quetb suole proteggere dalla prepotenza de' cocchi, e da' raggi ardenti de' flambeaux - e dove potrai conversare soavemente con a) Intendi: Che se tu sei povero e vano, non dei gareggiar pubblicamente co' ricchi, bensl comperarti la loro privata conversazione a prezzo d'ossequio, da che, malgrado il tuo ingegno, non si degneranno di stare mai" teco a tu per tu - Ma l'autore al cap. LXII I ti spiegherà più liberalmente questo periodo alquanto enigmatico. b) Quell'arganello piantato ne' capi d'alcuni sentieri de' passeggi pubblici affinché non vi passino che i pedoni. I. Qui alle pp. 88s sgg. Nota, fra l'altro, P. CRAssous, op. cit., 111, pp. 143-4: cc C'est-à-dire: Car il n'y a pas moyen de paraitre brusquement au milieu d'eux dans le monde, cn Ics traitant familièrement comme fcrait un dc leurs égaux - quoi qu'en disent certaines gens qui pcnsent que l'homme qui a de l'esprit e du savoir est au moin.s l'égal de l'homme opulent et titré ». VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) una benigna grisette• moglie di qualche barbiere, e accomodandoti a quelle modeste brigate, consolare in pace l'anima tua - Possa io morire se mi ci accomodoI così dicendo, cercai la lettera ch'io doveva presentare a madame de R••• - E per prima cosa visiterò questa dama. Chiamai La Fleur perché andasse immediatamente per un barbiere - e tornasse a spazzolarmi l'abito nero. XXXI. LA PERRUCCA PARIGI Venne il barbiere, e protestò ch'ei non intendeva d'impacciarsi per nulla con la mia perrucca, da che l'impresa era maggiore e minore dell'arte sua.b M'attenni dunque al necessario partito di comperarmene una bella e fatta a sua stima. Ma terrà egli poi questo riccio? amico, ho paura, diss'io - Lo tuffi, ei replicò, nell'oceano, e terràVedi come ogni cosa in questa città è graduata con una grandissima scala!c - «L'immersione del riccio in un secchio d'acqua» sarebbe l'estremo termine delt>idee di un perrucchiere di Londra - che divariol il tempo e l'eternità. a) «La Dea d'Amore ha in tutte le città capitali tre ordini di sacerdotesse: le Matronali; le Plebee; e le Volgari. E quelle del secondo ordine, che Yorick chiama col vocabolo parigino grisettes, apprestano, secondo la moda, i fiori e le ghirlande per l'ara; e i vezzi, i veli, i trapunti, i profumi per le sacerdotesse matronali, le quali raccolgono le offerte più ricche de' sacrificanti alla Dea, e soprantendono alle vittime massime,,. - Did. chier. liber memorialis. Iib. III. n. 23. b) Un capomastro campagnuolo, ch'io so, condotto a ristaurare un ponte già fabbricato da' matematici, e poscia per venti anni, con evidentissimi calcoli e con mezza l'entrata delle gabelle annue del co-- mune, rifabbricato da' matematici, disse: 11 Ch'egli non s'attentava di competf:re co' dottori di matematica, e dall'altra parte si vergognava di metter mano a un edifizio si mal piantato». - Il che in parte spiega le ragioni alquanto ambigue del barbiere francese. e) Scala: traslato dalla geografia; ed è la misura graduata corrispondente agli spazii delineati nelle tavole.• 1. Scala •.. tavole: nota P. CRAssous, op. cit., 111t pp. 144-5: «On nomme échelle, en géographie et en géométrie, une ligne divisée en plusicurs espaces à l'effet de mesurer les distances •· PROSE Io mi professo capitalmente nemico dell'immagini grette e de' freddi pensieri che le producono; e tanto le opere grandi della Natura m'allettano sempre alla maraviglia, che, s'io m'attentassi, non deriverei le mie metafore mai fuorché da una montagna almeno. Solamente potrebbesi, con questo esempio del riccio, opporre alla magniloquenza francese - «Che il sublime consiste più nella parola che nella cosa». Certo è che l'oceano ti schiude un'interminabile scena alla mente; ma poiché Parigi giace tanto dentro terraferma, chi mai poteva aspettarsi ch'io per amor dell'esperimento corressi per cento e più miglia le poste? - certo che il mio barbiere non ci pensava. Il secchio d'acqua a fronte degl'immensi abissi fa pur la grama figura nell'orazione- ma si risponde - Ha un vantaggio - tu rhai nello stanzino qui accanto; e puoi senz'altra noia sincerarti del riccio. Sia detto con candida verità e dopo l'esame spassionato della questione: L'elocuzione francese non attiene quanto promette. Parmi che i precisi e invariabili distintivi del nazionale carattere si ravvisino più in queste minuzie, che ne' gravissimi affari di stato, ne' quali i magnati di tutti i popoli hanno dicitura e andatura sì indistintamente uniforme, ch'io per potermi scegliere più l'uno che l'altro di que' signori non isborserei nove soldi. E c'è tanto voluto innanzi ch'io uscissi di mano al barbiere, che per quella sera io non poteva, in ora sì tarda, recare a mada~ de R••• la mia lettera. Ma quand'uno è bello e attillato per uscire di casa, le riflessioni sopraggiungono fuor di tempo - pigliai dunque ricordo del nome dell'hotel de Modène dov'io m'era albergato, e m'avviai senza prefiggermi dove - camminando, ci penserò. XXXII. IL POLSO PARIGI Siate pur benedette, o lievissime cortesie! voi spianate il sentiero alla vita; voi gareggiando con la Bellezza e le Grazie che fanno alla prima occhiata germinare in petto l'amore, voi disserrate ospitalmente la porta al timido forestiero.• a) Oltre la Bibbia, di cui andiamo riferendo i passi che possiamo riscontrare, Yorick meditava assiduamente e imitava il Pantagruelismo, Shakspeare, Don Chisciotte, e Montaigne; e basti in prova il seguente passo: C'est une très-utile science que la science de l'entre- VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 825 - Di grazia, madame, favorisca di dirmi da che parte si va egli all'opéra-comique?' - Volentierissimo, monsieur, mi diss'ella; e lasciò il suo lavoro da parte Camminando, io aveva alla sfuggita spiato mezza dozzina di botteghe per discernere un viso il quale verosimilmente non si turbasse alla mia improvvisa domanda, finché questo m'andò a genio, ed entrai. Sedeva nel fondo della bottega, sovra una poltroncina rimpetto la porta, e lavorava un paio di manichini. - Très-volontiers; e cosi dicendo posava il lavoro sopra una sedia vicina - Volentierissimo - e si rizzò con sì lieto atto, e con sembiante si lieto, che s'io avessi speso seco cinquanta louis d'or, avrei detto : - «La è donna riconoscente». Volti, monsieur, mi diceva, accompagnandomi sino all'uscio ed additandomi a capo di quella via la strada ch'io doveva tenere volti prima a mano manca - mais prennez garde - le cantonate sono due; faccia due passi di più, e pigli la seconda; poi tiri un po' innanzi, e vedrà una chiesa; e come ravrà passata, piacciale di voltare subito a mano ritta, e si troverà a dirittura a' piedi del PontNeuf- dove ognuno, s'ella vorrà degnarsi di chiederne, si compiacerà d'avviarla. E mi ripeteva tre volte gli avvisi, e tanto alla prima quanto alla terza volta con la medesima cordiale pazienza - e se i toni e i modi hanno pure un significato (e l'hanno di certo, fuorché per !'anime che fanno le sorde) - l'avresti detta veramente sollecita ch'io non mi smarrissi. Né supporrò che la gioventù e l'avvenenza - era nondimeno bellissima fra quante gri"settes io mai vedessi in mia vita - mi facessero più grato alla cortesia; questo so, che, mentre io le diceva quanto gliene fossi obbligato, io teneva tutti gli occhi ne' suoi, e ch'io le ripeteva i ringraziamenti quant'essa m'aveva ripetuti gli avvisi. gent. Elle est, comme la grace et la beauté, conciliatrice des premiers abords de la société et f amiliarité; et par conséqllent no11s ouvre la porte. - Montaig. liv. I. cap. 13.2 E Dante aveva detto: disserrare la porta del piacere. Parad. XI. 6o.3 I. opéra-comique: vedi P. CRAssous, op. cit., III, pp. 147-52. 2. Vedi, con qualche lieve differenza, gli Essays de MICHBL DB MoNTAIGNE, Paris, Firmin Didot et C.ie, 1879, p. 21. 3. • La porta del piacer nessun disserra•· PROSE Né io m'era dilungato dieci passi dall'uscio, quando m'accorsi ch'io non sapeva più sillaba di ciò ch'ella mi aveva insegnato - però volgendomi, e vedendola tuttavia su la soglia quasi badando s'io pigliava la buona strada - me ne tornai per domandarle se la prima cantonata era a mano destra o sinistra - Me ne sono affatto dimenticato - Possibile! mi diss'ella, e sorrise - Possibilissimo, rispos'io, per chi pensa più alla persona che a' suoi buoni consigli. Ed era la verità schietta; e la bellissima grisette se la pigliò com'ogni donna si piglia le cose di sua ragione - con una riverenza. -Attendez! mi soggiunse posando una mano sovra il mio braccio per trattenermi; e diceva nel fondachetto interno a un suo fattorino che allestisse un pacchetto di guanti. Sto per mandare verso quelle parti, seguitò a dirmi, e se a lei non rincresce di soffermarsi, il fattorino si spiccia a momenti, e la servirà sino all'opéra - m'innoltrai dunque seco nella bottega; e mentr'io toglieva dalla sedia, quasi volessi sedermivi, il manichino che essa vi aveva lasciato, la bellissima grisette adagiavasi nella sua poltroncina, ed io m'assisi tosto al suo fianco. - Si spiccia a momenti diss'ella - E in. questi momenti bramerei, le diss'io, di poter rispondere con una gentilezza a tanti favori. Tutti possono fare un atto accidentale di bontà; ma la continuità fa vedere che la bontà vive nella tempra della persona: e davvero che se il medesimo sangue che sgorga dal cuore discende anche all'estremità (e la toccai presso al polso) voi fra tutte le donne avrete sicuramente polso migliore - Lo tasti, diss'ella, porgendomi il braccio. Io posai il mio cappello; misi in una delle mie mani la sua; e applicai le due prime dita dell'altra mia mano all'arteria. - Deh! perché il cielo, Eugenio mio,• non volle che tu allora a) Leggesi nella vita di Tristano Shandy che questo Eugenio era uomo savio e amico sviscerato di Yorick a cui faceva molti sermoni patemi per camparlo dalla vendetta degli uomini gravi che Yorick provocava co' suoi motteggi, e che finalmente lo ridussero a morte. Eugenio allora, tuttoché uomo savio, non abbandonò l'indocile amico. E vi fu chi abusando del nome d'Eugenio stampò il supplemento del viaggio sentimentale,1 e ch'io non ho letto per un ridicolo ma naturale 1. E vi /11 ••• sentimentale: si tratta dei due volumetti stampati nel 1769 a Londra, Yorick's Se11timental Journey, Conti11ued. To JVhich is Prefixed, Some Account of the Life and Working of Mr. Sterne. By EucENIUS. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) passassi a vedermi seduto in abito nero con questa mia faccia svenevolmente cachettica,• intento a contare ad una ad una le pulsazioni, e con gravissima applicazione, come s'io mi stessi esplorando il periodo critico della sua febbre - oh quanto t'avrei veduto ridere e moralizzare su la nuova mia professione( - e quando tu avessi finito di ridere e di moralizzare a tuo senno - Fidati, Eugenio mio, t'avrei detto; vedrai il mondo affaccendarsi peggiormente che a tastare il polso a una donnab - Ma d'una grisette? dirai tu; e in una spalancata bottega? Yorick! - Meglio: quando ho rette intenzioni, non ne do nulla che l'universo non mi veda o 1ni veda col polso fra le dita. XXXII I. IL MARITO PARIGI lo aveva già contate venti battute, e mi mancava poco alla quarantesima, quando il marito comparì da una retrostanza improvviso, e guastò sul più bello i miei conti - Non è se non se mio marito, diss'ella - io dunque mi rifeci a contare da capo - Monsieur è tanto garbato, diceva ella al marito, che passando da noi s'è voluto incomodare a tastarmi il polso - Il marito si levò il cappello, mi s'inchinò, disse, ch'io gli facea trop d'honneur - disse; si ripose il cappello, e se n'andò. Dio mio, Dio mio! dissi meco - e questo uomo sarà egli marito di questa donna ? ribrezzo ch'io ho vedendo le braccia, le teste ed i nasi appiccati alle pitture e alle statue degli artefici morti. a) Lack-a-day-sical: mosaico di quattro parole inventato dall'autore; e chi sa meglio d'inglese lo spieghi a suo genio;1 da che io e tutti i vocabolaristi e grammatici abbiamo appena potuto intendere l'ultima voce che vuol dire malaticcio. b) Dicesi che Yorick s'era lasciato scorgere anche nella sua parrocchia a far da medico ad una giovane; e tutte le persone più ecclesiastiche che cristiane s'affaccendarono a scandalizzare l'ovile gridando, che erano state scandalizzate dal pastore. 1. Lack ••. genio: nota P. CRAssous, op. cit., III, p. 154: «Ce mot lack-aday-sical ne se trouve point dans les dictionnaires; il est dc la création de Sterne, et tiré de l'exprcssion populaire lack-a-day, exclamation d'un nigaud à la vue de quclque chose qui l'étonne ». PROSE Quei pochi che sanno il perché della mia esclamazione non s'abbiano a male s'io la commento in grazia di chi non lo sa. In Londra un bottegaio e la moglie d'un bottegaio paiono d,una polpa e d,un osso;• e benché le doti del corpo e dell,animo sieno in essi diverse, sono nondimeno ripartite tra di loro in tal guisa eh'ei si stieno appaiati e d,accordo per quanto tra marito e moglie si può. In Parigi troveresti a fatica due individui di specie così svariate come il bottegaio e la moglie del bottegaio. La potestà legislatrice e l'esecutrice della bottega non risiedono nel marito - miracolo se ci passa - ma in qualche sua cieca malaugurata camera siede insociabile al buio con quel suo cuffiotto di notte, figliuolo selvatico della Natura, e tal quale la natura se lo lasciò scappare di mano. Cosi, poiché il genio d'un popolo, il quale osserva la legge salicab unicamen~e per la corona, ha ceduto questa e molte altre aziende alle donne - le donne per un assiduo diverbio dal mattino alla sera con avventori d'ogn'indole e di ogni grado si vanno, a guisa di sassuoli dibattuti a lungo insieme in un sacco, non solo per quel- 1'attrito amichevole dirozzando dell'asprezza delle loro scaglie, ma si ritondano e si bruniscono, e spesso acquistano l'iride del diamante - Momieur le mari è di poco migliore del ciottolone che ti sta sotto a' piedi - Certo - certo, o mortale! non ti sta bene quel sederti là soloc tu se' nato al conversare socievole e alle cortesi accoglienze; e per prova me ne riporto al miglioramento che ne deriva alla nostra natura. - E come batte il mio polso, monsieur? - Soavissimamente, e a) Et aedificavi.t Dominus Deus mulierem ... et addu:dt eam ad Adam. Dixitque Adam: Hoc nunc os ex ossibus meis, et caro de carne mea. Genes. cap. 11. 22. 23.1 b) Statuto fondamentale antichissimo della monarchia francese: contiene settantun articolo di leggi tutte abrogate dal tempo tranne quella delrarticolo sesto che esclude le femmine dal trono come inette alla guerra.3 e) Di:dt quoque Dominus Deus: Non est bonum esse hominem sofom. Genes. cap. II. 18.-Vae soli! Ecclesiastes, cap. IV. 10.3 I. • [•.•] et aedificavit Dominus Deus costam, quam tulerat de Adam in mulierem II ecc. La stessa citazione, con l'aggiunta del versetto 24 e Pomissione del 22, si ritrova anche in P. CRAssous, op. cit., 111, p. 155. 2. La stessa nota, ampliata, si ritrova in P. CRAssous, op. cit., 111, pp. 156-7. 3. Le stesse citazioni, ampliate, si ritrovano in P. CRAssous, op. cit., 111, p. 158. VIAGGIO SENTIMENTALE (t 8 t 3) com'io me l'aspettava, risposi, mirandola placidamente negli occhi - essa mi rispondeva per ringraziarmene - se non che il fattorino venne in bottega co' guanti - À propos, dissi; me ne bisognano appunto due paia. -XXXIV. I GUANTI PARIGI E la bellissima grisette s'alzò; e facendosi dietro al banco arrivò col braccio un involto e lo sciolse: io me le appressai dirimpetto di qua dal banco; ma i guanti m'erano tutti assai larghi. La bellissima grisette misuravali uno per uno su la mia mano - ma né così poteva alterare le dimensioni - mi pregò che mi provassi un paio che unico parea meno grande - e mi teneva aperti gli orli del guanto la mia mano vi sdrucciola dentro - Non serve, diss'io scuotendo il capo - No; diss'ella col medesimo cenno. Senz'altro; vi sono certi sguardi animati d'ingenuità e di malizia - ne' quali il senno, il capriccio, la serietà e la scempiaggine sono si fattamente stemprati insieme, che se tutte le lingue di Babele si sfrenassero a gara non saprebbero esprimerli mai - e sono inoltre scoccati e colti così di volo che voi non potreste mai dire donde spiri primo o più s'innesti l'aculeo.• Su di che lascio che i vostri parolai dissertino ampollosamente in più pagine;h a me basti di ridirvi per ora, che i guanti non mi servivano: e ci siamo l'uno e l'altra appoggiati con le braccia incrociate sul banco- ch'era a) Pare che Yorick e la bella merciaia, parlando insieme della dimensione de' guanti, sottintendessero qualche frascheria poco modesta, e si guardassero con quella inconsiderata malizia. b) Letteralmente: io lascio ciò a' vostri uomini di parole a gonfiare pagine sopra di ciò - Intende forse egli degli eruditi, che commentano in un volume una bella frase poetica che non è scritta se non se per chi ha più fantasia che dottrina? oppure de' metafisici, che si vanno assottigliando il cervello su i minimi effetti delle passioni che non hanno sentite? o de' trattatisti sulle belle arti i quali non sapendo il come, mostrato dalla natura _a' suoi pred~letti, vanno cercando il perché delle varie espressioni d'ogni affetto sul volto umano; e mandarono all'Italia tante profonde teorie per le quali molti de• nostri dottori son diventati pittori, e i pittori dottori? Ma forse Yorick parla cli un•intera Accademia. 830 PROSE un po' stretto, e tra noi due vi capiva appena l'involto che giaceva nel mezzo. La bellissima gri"sette guardava or i guanti, or verso la finestra, poi guardava i guanti - poi me. Io non mi sentiva di rompere quel silenzio - e seguendo l'esempio, guardai i guanti, poi la finestra, e i guanti - e lei - e di volta in volta cosi. M'avvidi ch'io scapitava di molto a ogni assalto - Aveva un occhio nero, vivo, dardeggiante fra due palpebre contornate di lunghi cigli di seta; penetrante sino a mirarmi nel cuore e ne' lombia - parrà incredibile; ma io propriamente me lo sentiva. - Non fa caso; diss'io pigliando, e riponendomi in tasca le due paia che mi trovai più vicine. Conobbi che la bellissima grisette non me le rincarò neppur d'una lira - ed io bramava a ogni modo che mi chiedesse almeno una lira di più, e mi stillava il cervello per trovar verso a rifare il contratto - E le par egli ? mio caro signore, diss'ella, vedendomi in pensiero e sbagliando; le pare, ch'io venissi a chiedere un soldo di più a un forestiere? - a un forestiere che per civiltà, più che per bisogno di guanti, mi onora e si fida di me? - m'e11, croyez-vous capahle? - Dio me ne guardi! risposi; ma sareste sempre la ben venuta - Le contai dunque il danaro, e con un saluto più rispettoso, che per lo più non s'usa ad una merciaia, me ne andai; e il fattorino col suo pacchetto mi venne appresso. XXXV. LA TRADUZIONE PARIGI Nel palchetto assegnatomi mi trovai solo con un discreto francese, vecchio ufficiale; carattere che a me piace, sl perché onoro l'uomo il quale fa più mansueti i propri costumi professando un mestiero che rende tristissimi i tristi; si perché ne conobbi uno non lo rivedrò più su la terrai - e perché non preserverò io una mia pagina dalla profanazione scrivendovi il suo nome, e dicendo a tutti, ch'io parlo del capitano Tobia Shandy, dilettissimo a me fra le mie pecorelle, e amicissimo mio, alla umanità del quale io, da tanto tempo ch'ei morl, non ripenso - e che il pianto non mi sgorghi dagli a) Scrutans corda et renes. Psal. VII. 10. - Et lumbi mei impleti sunt illunonibus. Ps. XXXVII. 8. VIA_GGIO SENTIMENTALE (1813) 831 occhi.• Per amor suo tutta la schiera de' veretani è mia prediletta.b Scavalcai le due file de' sedili di dietro, e mi posi accanto al vecchio ufficiale francese. Ei leggeva un opuscoletto (forse il libro dell'opera) con un gran paio d'occhiali. Ma non sì tosto m'assisi, si levb gli occhiali, li ripose in una custodia di pelle, e se li serbò in tasca col libro. Mi rizzai, e gli feci un inchino. Traduci in qual più vuoi lingua colta del mondo - significa: «Vedi un povero forestiero che vien nel palchetto - e' pare ch'egli non conosca veruno; e quando pur soggiornasse sette anni in Parigi, non conoscerà probabilmente veruno se tutti a' quali ei s'accosta, si terranno gli occhiali sul naso - così gli si chiuderebbe l'uscio della conversazione formalmente sul viso - trattandolo peggio assai d'un tedesco,,. Né l'ufficiale francese avrebbe potuto dirmelo a voce più chiaramente; e dov'ei me l'avesse detto, gli avrei tradotto il mio inchino in francese, rispondendogli: ,, Ch'io apprezzava la sua gentilezza, e gliene rendea mille grazie». Non so di verun secreto che più agevoli il commercio sociale, quanto l'impratichirsi di questa specie d'abbreviatura per tradurre in un batter d'occhio i varii cenni delle fattezze e delle membra, e tutte le loro pieghe e lineamenti - tradurli in piane parole. Ed io a) Tristano Shandy lasciò scritto, che il suo zio Tobia già vecchio affliggendosi della prossima morte d'uno che non conosceva, nominò invano il nome di Dio: l'Angelo che nella cancelleria del cielo pigliava ricordo di questo peccato, lasciò grondare una lagrima sulla parola che registrava, e la cancellò.1 b) E Yorick, contro il costume degli ecclesiastici, parla sempre con amore degli uomini militari. Vedi nella vita di Tristano Shandy la morte di Le Fèvre, che non si può leggere né rileggere senza lagrime.3 Ma e Yorick rimase orfanello d'un padre che morì militando. 1. lasa"ò scritto •.• cancellò: il passo è tratto dnl volume VI, capitolo vin. dove, parlando dell'imminente morte del capitano Le Fèvre, si legge: a.He shall not die, by G -, cried my uncle Toby. - The accwing spirit, which flew up to Heaven's chancery with the oath, blushed as he gave it in; and the recording angel as he wrote it down, dropped ·a tear upon the word, and blotted it out for ever »(The Works of LAURENCE STERNE ecc., cit., n, p. 88). La citazione sterniana si ritrova, relativamente ad altro contesto, anche in P. CRAssous, op. cit., 111, p. 2,3. z. Vedi . •• lagrime: si tratta dei capitoli v1-x del libro VI del Tristram Shandy (li si veda in The Worlu o/ LAURENCE STERNE ecc., cit., u, pp. 78-89). 832 PROSE mi ci sono tanto assuefatto che girando per Londra, vo quasi meccanicamente traducendo sempre lungo la via: e mi sono più d'una volta soffermato dietro il cerchio di quelle persone tra le quali non si dicono tre parole,a e donde riportai meco venti diversi dialoghi che avrei potuto scrivere a penna corrente, e giurarvi. Me n'andava una sera a un concerto del Martini1 in Milano, e mentre io poneva il piè su la soglia di quella sala, la marchesina F••t,2, uscivane in furia- e mi fu addosso che appena la vidi- balzo da un lato per darle il passo - e balza anch'essa, e dal medesimo lato; e le nostre teste si picchiano, s'ella non si scansa lestissima per uscire dall'altra parte - e la disgrazia mi caccia per l'appunto a ritorle il passo da quella parte - saltiamo insieme, torniamo insieme - e via così - da farci ridere dietro; e le vidi in volto il rossore ch'io sentiva e non poteva più tollerare in me stesso: e feci alla fine com'io doveva pur fare alla prima - non mi mossi; e la marchesi.na non trovò impedimento: ma io non trovava più modo d'entrare, se innanzi non mi fermava ad accompagnarla per tutto il corridoio con gli occhi, e riparare almeno cosi alla mia colpa. Ed ella si guardò dietro, e riguardò; e se n'andava rasente il muro, come per dar luogo a taluno che saliva le scale - Oibò, dissi - questa è traduzione plebea;b posso far ammenda migliore, e la marchea) Vedi addietro al cap. xxiv. la postilla alla voce cerchio.3 b) Ecco uno de' due luoghi emendati di cui si è parlato nell'avvertimento ai lettori.4 Il testo ha: that's a vile translation: e Didimo scrisse: questa è traduzione salviniana; scusandosi con la seguente postilla: «Quest'aggiunto, benché nuovo, è tutto italiano, e calzante e pieno di verità e necessario; e quand,anche Yorick non avesse avuto in mente il Salvini,5 egli ad ogni modo intendeva di parlare di quella specie di traduzioni. Ed ho per discolpa di sì fatti anacronismi l'esempio d'un'eruditissima traduzione moderna d'una commedia latina scritta parecchie decine d'anni prima del simbolo degli apostoli, nella quale il traduttore, uomo dottissimo della lingua nostra, fa dire a un pagano: Tomo tra due credi».6 J. Martini: Giovanni Battista Sammartini (Milano 1698- 1701-ivi 15 gennaio 1775). 2. marchesina F•••: Fagnani, madre di Antonietta Fagnani Arese. 3. Qui a p. 810. 4. a'Vvertimento ai lettori: vedi la Notizia intorno a Didimo Chierico, a p. 905. 5. Anton Maria Salvini: vedi la nota 3 a p. 348. 6. Ed ho •.. credi: si tratta della traduzione dell'Andria di Terenzio di Antonio Cesari, La donna d'Andro, atto 111, scena 11: « Leslbia] [.•.] io sarò qui in due Credi» (Le sei commedie di TERENZIO recate in volgar fiorentino da Antonio Cesari ecc., In Verona, per l'erede Merlo, 1816, 1, p. 94), che aveva visto precedentemente la luce nel 1805. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 833 sina può giustamente pretenderla, e però m'apre quest'adito - onde raggiungendola la supplicai che mi perdonasse e credesse ch'io non tendeva che a cederle il passo - Ed io a lei, rispos'ella - e ci siamo ringraziati scambievolmente. Stava in cima alla scala; e non vedendole intorno verun cicisbeo,a la pregai che si degnasse della mia mano sino alla porta - e scendemmo fermandoci quasi ad ogni gradino a discorrere e del concerto, e del nostro sconcerto - Davvero, madama, le dissi dandole braccio a salire in carrozza, io feci sei sforzi perch'ella potesse uscire - Ed io sei, perch'ella potesse entrare, diss'ella - Se il cielo ispirasse a madama di far il settimo! le diss'io - Con tutto il cuore; e mi fe' luogo nella carrozza - Le formalità non prolungano la nostra cortissima vita - entrai senza più; e m'accompagnò a casa sua - E quanto al concerto, credo che Santa Cedliab vi fosse, e ne saprà più di me. Dirò bensì che l'amicizia ch'io mi procacciai con questa traduzione fu a me più cara di quante ebbi l'onore di contrarre in Italia.e XXXVI. IL NANO PARIGid Da un solo e - probabilmente il suo nome si leggerà in questo capitolo - io aveva sino a quel giorno udito fare l'osservazione, e a) De' cicisbei si va perdendo la razza: erano e sono né amanti, né amici, né servi, né mariti; bensì individui mirabilmente composti di qualità negative. Li difende il Baretti nel suo libro inglese The ltalians cap. 3. ma pigliò l'impresa per carità della patria.1 b) Santa tutelare della musica, e celebrata tra bene e male da molti poeti inglesi, e divinamente da un'ode di Dryden.2 e) Arturo Young nel suo viaggio in Italia nomina questa marchesa F••• citando l'avventura di Yorick;3 non so con quanta verità storica, ma certamente con poca discretezza; se per altro alcune delle nostre gentildonne non aspirano alla celebrità dell'infamia. d) Perché nulla manchi all'accuratezza con cui si è promesso di 1. Si tratta del capitolo Vili, Rise, Progress, and Present State o/ Cicisbeism in ltaly ecc. Lo si veda in J. BARE'M'I, op. cit., 11 pp. 101-15. 2. L'ode A Song for St. Cecilia's Day, November aa, 1687. 3. Arturo Yor,ng ••• Yorick: non ho trovato quanto narra il Foscolo. Lo Sterne è citato soltanto relativamente all'episodio con madame de Rambouillet, qui alle pp. 838-9 (lo si veda nel Voyage en ltalie pendant l'année 1789, Par ARTHUR YOUNC; traduit de l'Anglais par François Soulis, Paris, Fuchs, 1796, p. 99). Arthur Young (London 11 settembre 1741-1820). 53 834 PROSE una sola volta da un solo: qual meraviglia dunque ch'io, non essendone preoccupato, ritraessi attonito gli occhi dalla platea? - attonito dell'indefinibile scherzo della Natura nella creazione di tanta turba di nani. È vero che di tempo in tempo la Natura scherza in tutti i canti del globo; ma in Parigi le sue piacevolezze passano tutti i modi: e diresti che la giovialità della Dea va del pari con la sua sapienza. E però, mentr'io sedeva all'opéra-comique, la mia fantasia uscì per le vie a misurare chiunque incontrava - malinconica applicazioneI e ben più se si vede una statura minima - con faccia olivastra - occhi vivaci - naso lungo - denti bianchi - guance sporgenti - e quando si pensa - ed ora scrivendolo non so darmene pace - a tanti tapini sbanditi per forza dell'accidente dalla lor naturale provincia, e raminghi lungo i confini di straniera giurisdizionea - Due uomini e un nano! - Una classe ha spalle gobbe e testa schiacciata - un'altra ha gambe bistorte - la terza, mentre cresceva, fu tra l'anno sesto ed il settimo sequestrata a quell'altezza di mano della Natura - la quarta, quantunque nell'esser suo sia proporzionata e perfetta, somiglia a' pomai di razza pigmea, poiché da' primordii e dalla ossatura del loro individuo si scorge che non furono creati per ingrandire. II viaggiatore medico n'incolperebbe l'abuso delle fasce - l'ippocondriaco il difetto d'aria - e il viaggiatore curioso per convalidare il sistema, misurerebbe l'altezza delle case, l'angustia delle vie, e in quanti pochi piedi quadrati tanta hourgeoisie mangia e dorme insieme stivata nel sesto e nel settimo piano - Ma mister Shandy seniore,h il quale non diede mai soluzione conforme all'altrui, discorrendo a veglia di queste materie sosteneva, ed ora me ne ricordo, che i bambini possono, pari anche in ciò agli altri animali, crescere dal più al meno a qual si voglia corporatura, purché si lascino venire al mondo a dovere: ma per loro malanno, diceva egli, i parigini s'accavallano l'uno a ridosso dell'altro che, per dirla giusta, non trovano luogo da poter generare - che generare? - tu generi nulla stampare l'autografo di Didimo, avvertesi che egli tradusse quest'intitolazione così: PARIGI E MILANO, quantunque in nessuna edizione del testo inglese si trovi nominata la seconda città. a) Forse la repubblica delle scimie.1 b) Padre di Tristano Shandy e fratello del capitano Tobia di cui s'è parlato nel capitolo addietro. I. Forse • •• scimie: nota P. CRASSous, op. cit., III, p. 166: 1 Sterne a en vue la classe des singes •· VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 835 anzi, e rincalzava il ragionamento, peggio che nulla; se dopo venti o venticinque anni di sollecite cure e d'alimenti sostanziosissimi il corpo che tu hai generato m'arriva appena al ginocchio - Mister Slzandy seniore era picciolissimo, onde non si poteva dire di più. Siccome questo mio non è libro dottrinale, lascio la soluzione tal quale la trovo, e mi contento dell'osservazione la quale si verifica in qualunque vicolo o via di Parigi. Passando per quella che dal Carrousel sbocca al Palais-Royal, mi venne veduto un fantolino impacciato dal rigagnolo che vi scorre nel mezzo, e gli diedi mano a saltarlo. Voltandolo a me a rimirarlo m'accorsi che avea quarant'anni -Tant'è, dissi meco: qualche buon'anima mi sarà parimente caritatevole quand'io forse n'avrò novanta. E sento un istinto che m'inchina alla misericordia verso questi mal arrivati aborti della mia specie, i quali non hanno gagliardia né presenza da farsi largo nel mondo. Né potrei veder soverchiato veruno d'essi, e non risentirmene. Ma non sì tosto m'assisi accanto al vecchio ufficiale, seguì sotto al nostro palchetto una scena che esercitò il mio naturale risentimento. Havvi a capo dell'orchestra, tra l'orchestra e il primo ordine de' palchetti, una piazzetta riserbata, dove quando il teatro è affollato molte persone d'ogni grado vi si ricovrano, standosi ritti come nel parterre, e pagando come se sedessero nell'orchestra. Un povero animaletto inerme della classe pigmea fu, non so come, travolto in quel tristissimo asilo - era una sera d'estate, ed egli si stava attorniato d'animali due piedi e mezzo più alti di lui, e indicibilmente, dovunque ei si volgesse, angustiato. Ma la sua maggiore tribolazione era il gran corpo d'un tedesco da sei in sette piedi, il quale si frapponeva direttamente tra il nano ed ogni possibilità di mandare un'occhiata alla scena e agli attori. lndustriavasi il meschinello alla meglio per poter esplorare le cose alle quali egli sapeva d1 essere presente, e mendicava qualche spiraglio tra il braccio e il torso di quel tedesco provandosi or da un lato or dall'altro: ma quel tedesco s'era piantato tutto d1 un pezzo nella positura la più indiscreta che uno si possa ideare - poteva bensi il nano idearsi d1 essere allora nel più profondo pozzo della città: però allungò con creanza la mano sino alla manica del tedesco e gli disse la sua passione - il tedesco si volse, lo squadrò come un dì Golia con David - e si ripiantò inesorabile nella sua positura. Io mi pigliava in quel punto una presa nella tabacchiera del mio PROSE buon frate - Oh come il tuo mite e cortese spirito, caro il mio frate, sì temperato a patire e a compatire - oh come inchinerebbe affabilmente l'orecchio alla querela di questa povera creatura! E sl dicendo, levai gli occhi al cielo con tal commozione, che il vecchio ufficiale francese si fece animo d'interrogarmi, di che mai si trattava? - L'informai in due parole, e mi dolsi di tanta inumanità. Ma già il nano ridotto agli estremi, aveva ne' primi impeti, che sono per lo più irragionevoli, minacciato al tedesco: Ti mozzerò col mio temperino la tua lunga coda - Il tedesco lo guardò appena, e senza scomporsi gli disse: Purché ci arriviate. Chiunque, e sia chi si voglia, esacerba l'ingiustizia con lo scherno si provoca addosso la congiura di tutte le persone di cuore:• ed io mi spiccava già dal palchetto per farla finita; ma il vecchio ufficiale francese la fini senza scandalo: si sporse infuori col capo, diè d'occhio a una sentinella, e nominò a dito il disordine - e la sentinella si fece strada - né bisognavano informazioni; la cosa parlava: però detto fatto fe' col moschetto ritrarre il tedesco - pigliò il povero nano per una spalla, e glielo mise davanti - Egregiamente! esclamai applaudendo con le mani - Eppure, disse il vecchio ufficiale, ciò in Inghilterra non sarebbe permesso. In Inghilterra, mio buon signore, risposi,sediamo agiatamente tutti. E s'io mi fossi trovato allora meco in discordiab il vecchio ufficiale francese m'avrebbe rimesso d'accordo col dire - e disse in fatti - C'est un bon mot. E perché in Parigi un bon mot ha sempre il suo merito, egli m'esibi una presa di tabacco. XXXVII. LA ROSA PARIGI Or tocca a me a domandare al vecchio ufficiale francese: << Di che si tratta?» - Un grido: Haussez les mains, monsieur l'abbé! echeggiò da dodici varii canti della platea, e inintelligibile a me quanto al vecchio poc'anzi l'invocazione al mio frate. a) Veramente il testo ha: L'ingiustizia, e sia contro chiunque, ove sia esarcerbata dallo scherno ec. - Nota dell'edit. b) Infatti dopo d'avere applaudito all'atto del soldato francese, lo biasimava contrapponendovi gli usi inglesi: ma Yorick non lasciava andare a male un frizzo; tale era la sua natura; inoltre era lettera• to, quantunque gli bastasse in premio una presa di tabacco. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 837 Sarà, mi diss,egli, qualche povero abbé il quale incantucciatosi lassù nell'ultime gallerie a veder l'opera, e credendosi forse in salvo dietro l'ombra di due g,isettes, fu addocchiato dal parte"e, e si vuole a ogni patto eh'ei si stia durante la recita a mani alzate Che! un ecclesiastico verrà egli in sospetto di borsaiuolo? diss'io; e borsaiuolo d'una grisette? Il vecchio sorrise, e bisbigliandomi nell'orecchio m'aprì la cortina di certi arcani ch'io non aveva all'età mia penetrati Dio miol diss'io smarrito di confusione - e può egli darsi che un popolo allattato di delicatissimi sentimenti sia poi cosi impuro e dissimile a sé? - Quelle grossi.èreté! Risposemi, che con questo villano motteggio si cominciò a malignare il clero in teatro, da che Molière rappresentò il suo Tartuffo - il che andava oggimai, pari all'altre reliquie de' gotici costumi, in disuso - Ciaschedun popolo, seguitò il vecchio, ha le proprie raffinatezze e le proprie grossi.èretés, le quali or prevalgono or cedono alla lor volta - e in ciascheduno de' tanti paesi ch'io corsi, notai sempre alcune delicatezze, 'che al parer mio, mancavano a tutti gli altri: le POUR et le CONTRE se trouvent en chaque nation;• a) «Sentenza che un illustre filosofo applicò a' costumi di Francia e d'Italia. Un gentiluomo dell'ambasciadore di Francia a Venezia pubblicò in Parigi la relazione d'infinite oscene e brutali opere d'abbominazione delle donne italiane: il filosofo senza negare né concedere i fatti risponde: Si ceux qi,i viennent à PariJ: avec les ambassadeurs, osoient publier quand ils sont retourne:r che:r era des relations aussi libres, que celles qi,e les françois publient touchant les pars étrangers, je ne doute pas qu'ils n'eussent bien des choses à dire . .. Mais quelque ménagement q11e les étrangers ayent pour now, les dérèglemens des f emmes 111 en sont pas moins réels; et qui pourroit suivre tow les avortemens, tous les empoisonnemens, toutes les fraudes et toutes les calomnies, dont les prostitrdions sont compliquées en France aussi-bien qu'ailleurs, ce seroit dequoi donner de l'liorrertr a11x plus endurcis. Bayle pensées sur la comète sect. 142! - Ma d'allora in qua, ed è quasi un secolo e mezzo, i costumi de' popoli inciviliti si sono corretti, e possiamo forse deriderci, ma non abbominarci scambievolmente ». Questa nota è desunta dagli altri manoscritti di Didimo chierico: Liber memor. 11. n. 37. 1. P. BAYLE, Pensées dit1ersu, Bcrites à un Docteur de So,bonne, A l'occasion de la Comète qui parut au mois de Décembre I68o, Rotterdam, Leers, 1704, p. 282. Pierre Bayle (Carla-le Comte 18 novembre 1647-28 dicembre 1706). PROSE e il male e il bene si controbilanciano con equilibrio perpetuo; e chi potesse persuaderne i mortali, redimerebbe mezzo il genere umano da' pregiudizi che l'attizzano contro l'altra metà- onde il frutto de' viaggi per savoir vivre deriva appunto dal doversi accomodare a tante nature d'uomini e a varietà infinite d'usanze: così ci educhiamo alla vicendevole tolleranza, e la vicendevole tolleranza, conchiudeva egli, e mi fece un inchino, ci guida al vic~ndevole amore. Il senno e il candore che spiravano da ogni detto del vecchio ufficiale, facevano sì ch'io nell'udirlo mi compiacessi della favorevole idea ch'ebbi a bella prima del suo carattere - se non che forse mentr'io mi credeva d'amar la persona io pigliava in iscambio l'oggetto - e amava il modo mio di pensare: e l'unica differenza si era ch'ei lo esprimeva al doppio meglio di me. Gran noia al certo sì pel cavaliere si pel cavallo - se questo rizza !'orecchie e adombra a ogni oggetto non prima veduto!-io mi piglio poco o nulla, e meno che ogni altro figliuolo d'Adamo sì fatti fastidi: confesserò nondimeno lealmente che di molte cose ebbi scrupolo, e per molte parole mi feci rosso nel primo mese - le quali al secondo conobbi indifferentissime, e in tutto e per tutto innocenti. Madame de Rambouillet, sei settimane da che la conobbi, si degnò di condurmi nella sua carrozza due leghe fuor di città Non saprei dove trovar donna più costumata di madame de Rambouillet, né bramerei di trovarne veruna che avesse animo più illibato e più virtuoso del suo - Nel ritorno, madame de Rambouillet mi richiese che tirassi il cordone - le domandai, che desiderasse? Rien que de pisser; disse madame de Rambouillet Non ti dia noia, o viaggiatore dilicato, che madame de Rambouillet stia p ... do - E voi, leggiadre ninfe misteriose, dileguatevi a sfogliare la vostra rosa e sparpagliatela sul vostro sentiero• - così facea per l'appunto madame de Rambouillet: le diedi mano a uscir di carrozza; e s'io fossi stato sacerdote della pudica a) Le donne inglesi non tornano mai al crocchio donde escono necessariamente, senza un libro in mano o fiori o altra cosa. La frase sfogliar la rosa fu con questa allusione primamente inventata dal D. Swift1 nel poemetto: A panegyrick on the Dean: leggi i versi : «Here gentle Goddess Cloaci,ze » e seg.2 1. Jonhatan Swift (Dublin 30 novembre 1667 - ivi 19 ottobre 1745). 2. Si tratta dei vv. 205-16: «Here, gentle goddes Cloacine / receives all Ooff'rings at her Shrinc. / In sep'rate Cells thc He's and She's / herc pay VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 839 CASTALIA non avrei di certo assistito alla sua fontana con decoro più riverente.• XXXVIII. LA FILLE DE CHAMBREb PARIGI II discorso del vecchio ufficiale sui viaggi mi ricondusse la mente alla lezione di Polonio al suo figliuolo su lo stesso soggettoe - e Polonio ad Amleto; e Amleto alle opere di Shakspeare; cosicché nel tornarmi a casa mi fermai al quai de Conti a comperarmene un'edizione. Il libraio mi disse che non ne aveva - Commenti rispos'io, pigliandomi un tomo d'un'edizione schierata sul banco - Rispose, che gli fu data da legare, e che anzi domattina la rimandava a Versailles al conte de B••• E il conte de B••• legge Shakspeare ?d - C'est un esprit fori, replicò il libraio - ed ama i libri inglesi, e quel che più gli fa onore, a) Castalia fu ninfa amata da Apollo, convertita in fonte, e consecrata alle Muse; ma chi ha letto i papiri recentemente scoperti in Napoli,1 dice: «Che alcuni sacerdoti eletti alla custodia di quella fonte divina la intorbidarono con sacrifici di sangue e con fattucchierie sacrileghe, sperando vanamente di trovar l'oro che essi credevano commisto in quell'acque ». b) Vedi la postilla a questa voce: capo XXVIII.2 e) Personaggio dell'Amleto: vedi atto I. se. 3. d) Questi era il conte di Bissy tenente generale, e uno dell'accademia francese :3 e forse Yorick si meravigliava che ardisse di leggere Shakspcare, perché intorno a quel tempo Voltaire dal suo volontario ostracismo in Ferney tiranneggiava con dissertazioni, lettere, memoriali e libelli i suoi fratelli accademici perché scomunicassero Shakspeare e impetrassero dal re che le tragedie inglesi, ch'ei nondimeno imitava (vedi il Cesare di Shak. e di Volt.) fossero arse dal manigoldo, e che their Vows with be,1ded Knees: / {for, 'tis prophane when Sexes mingle; / and ev'ry Nymph must enter single; / and when she feels an inward Motion, / comes fill'd with Rev'rence and devotion). / The bashfull Maid, to hide her Blush, / shall creep no more behind a Bush; / here unobserv'd shc boldly goes, / ns who should say, to pluck a Rose». La citazione si ritrova nnche in P. CRASSOUS, op. cit., Ili, pp. 175-6. 1. Castalia ••• Napoli: nota P. CRAssous, op. cit., 111, p. 176: a: Suivant la fable, cette Castalie était une nymphe aiméc d'Apollon, métamorphosée par lui en fontaine ». L'allusione ai papiri è invenzione foscoliana. 2. Ma XXIX, nota b a p. 8I 8. 3. Questi ... francese: nota P. CRAssous, op. cit., III, p. 178: «C'est le comte de Bissy, de l'académie française, lieutenant-général des am1écs du roi et employé dans la maison de l'avant-dernier due d'Orléans ». PROSE ama anche gl'inglesi, monsieur. E voi parlate cosi garbato, io soggiunsi, da obbligare un inglese a spendere un paio di louis d'or alla vostra bottega. Mi s'inchinò, e rispondeva - ma una giovinetta polita di forse vent'anni, e che al contegno e alle vesti pareva la fille de chambre d'una divota qualificata, entrò a chiedere les Égaremens du cmur et de l'esprit:• il libraio le diede subito due volumetti; ed essa, slacciando una borsellina di raso verde ravvolta d'un nastro dello stesso colore, e mettendovi il pollice e l'indice, il misero La Toumeur che stava allor traducendole, e il libraio che s'apparecchiava a stamparle venissero per grazia speciale mandati solamente in galera (vedi il carteggio di Volt. con d'Alembert).1 Dio perdoni i peccati d'invidia, di dittatura letteraria e di raggiro aVoltaire, che del rimanente era un gran valent'uomo; e Dio faccia ravvedere i maestri miei che vorrebbero impacciare i Principi in sì puerili contese. a) Romanzo di Crébillon figlio del tragico.2 1. Ma si tratta di una lettera a M. le comte d'Argenteuil, del 29 luglio 1776, dove, fra l'altro, si legge: «[•••] mais il faut que je vous dise combien je suis faché, pour l'honneur du tripot, contre un nommé Tourneur, qu'on dit secrétaire de la librairie, et qui ne me parait pas le secrétaire du bon gout. Auriez-vous lu deux volumes de ce misérable, dans lesquels il veut nous faire regarder Shakespeare comme le seul modèle de la véritable tragédie? Il l'appelle le Dieu du thétitre. Il sacrifie tous les Français, sans exception, à son idole, comme on sacrifiait autrefois des cochons à Cérès. Il ne daigne pas meme nommer Cornei/le et Racine [...]. Il y a déjà deux tomes imprimés de ce Shakespeare, qu'on prendrait pour des pièces de la foire, faites il y a deux ccnts ans [...]. Avez-vous lu son abominable grimoire, dont il y aura encore cinq volumes? avez-vous une hainc assez vigoureuse contre cet impudent imbécille? souffrirez-vous l'affront qu'il a fait à la France? Vous et M. de Thibouville, vous etes trop doux. Il n'y a point en France assez de camouflets, assez de bonnets d'ane, assez de piloris pour un pareil faquin. Le sang pétille dans mes vieilles veincs, en vous parlant de lui. S'il ne vous a pas mis en colère, je vous tiens pour un homme impassible. Ce qu'il y a d'affreux, c'est que le monstre a un parti en France; et pour comble de calamité et d'horreur, c'est moi qui autrcfois parlai le premier de ce Shakespeare; c'est moi qui le premier montrai aux Français quclques perles quej'avais trouvées dans son énorme fumier. Je ne m'attendais pas que je servirais un jour à foulcr aux pieds les couronnes de Racine et de Cornei/le, pour en orner le front d'un histrion barbare. Tachez, jc vous prie, d'etre aussi en colère que moi; sans quoi je me sens capable de faire un mauvais coup » (Lettres choisies de VOLTAIRE, Paris, Libraires Associés, 1792, IV, pp. 260-2). Ma si veda anche, in proposito, quanto è scritto nel Discorso sopra Shakespeare ed il Sig,ior di Voltaire, in Opere di GIUSEPPE BARETI'I, Milano, Pirotta, 1820, vn, pp. 19-28. 2. Les égaremens du caltre doti da non portar invidia alla nostra - lealissimo, valoroso, generoso, ingegnoso, ed umanissimo popolo fra quanti camminano sotto il cielo - se non avessero un solo difetto sono troppo serii. - Mon dieu! esclamò il conte; e saltò su dalla sedia. - Mais vous plaisantez, diss'ei ravvedendosi della sua troppa vivezza - Mi posi la palma sul petto asseverando con gravissima serietà ch'io credeva di errare ne' pareri miei, eccetto in quest'uno. Risposemi che gli incresceva assaissimo di non poter udir per allora le mie ragioni, perch'ei s'era impegnato a desinare con monsieur le due de C - ma che se la distanza da Parigi a Versailles non mi scoraggiava, pregavami di gradire, innanzi ch'io mi partissi di Francia, una zuppa. E forse, aggiunse egli, avrò la soddisfazione ch'ella si ricreda di questo parere; o vedrò, non foss'altro, in che modo potrà sostenerlo: ma s'ella, monsieur l'anglois, vi si puntigliasse, s'armi di tutte le sue forze, perch'ella ha il mondo tuttoquanto per avversario - Promisi che prima di pigliare la via dell'Italia avrei avuto l'onore di desinare con lui - e gli chiesi commiato. LI. LA TENTAZIONE PARIGI Smontando al mio albergo, mi vidi accolto dal portinaio il quale mi riferi, che una giovine con una scatola di merletti aveva poc'anjusque dans nos plaisirs toujours symmétrisés,· innombrable famille en qui tout se ressemble, dans un cercle ennuyeux nous tournons tous ensemble. Delille, epttre sur les voyages:1 e' parla de' suoi. I, La si veda in che il frammento non sia di ;crittore francese. Nota del tradut. inglese. b) Agli archibugi d'allora bisognava la miccia a dar fuoco. Il tradut. inglese. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) rato notaio valicò il ponte, et come lo conducevano e' piedi, passava per la via che in Parigi dicono de lo Delfino nel borgo di sancto Germano, et ne lo andare rammaricavasi con esso seco dicendo: Oymei, oymè dolente, oymè tristo, oymè gramo, oymè nato per vivermi abburattato da le burrasche; et tempestato da la gragnuola de le male lingue le quali per l'arte mia mi saettano in piazza et in casa et in chiesa; et constretto da li fulmini di sancta chiesa a le sponsalitie con una bufera di femmina; et sfolgorato di casa mia da rovai domestici ; et lasciato così in zucca da pontificii. Dove me n'anderò io pezzendo al buio, al sereno, al maltempo, et balestrato hor qua hor là dove con più dura riotta mareggia fortuna? Dove ti adagierò io, o mia povera testa ? Hay huomo malarrivato nel mondo. Ma a la croce d'Idio, né unque a Dio piacerà che sol uno, non fussi altro, da li trentatre punti de la bussola non mi spiri vento gratioso, sì come a tante altre creature ? Sì tapinandosi s'advenne ad brancolare per entro uno cieco tortuglio; né sappiendo dov'e' si fosse, gli venne udita una voce che chiamava la fante perché corresse per lo più vicino notaio. Onde che il notaio, con ciò sia cosa che vicinissimo si trovasse, senza altro aspettare giudicò ben fatto di salire, come che a tentone, per l'uscio onde la voce veniva. Et la fante, menandolo attraverso una caminata, condusselo in una camera grande la quale oltre una alabarda, una lorica, uno vecchio rugginito spadone, et una tracolla, appiccati con pendagli ne le quattro pareti l'uno a rincontro de l'altro, altri addobbi allhoramai non havea. Et sopra il lettuccio giacca uno vecchione canuto il quale fu, et se col tramonto de la fortuna non s'obscura etiandio la nobilità del sangue, era tuttavia gentilhuomo; et d'una mano si facea sostegno a la testa. Era accanto al lettuccio uno deschetto sul quale ardeva una lucernina, e quivi presso una scranna su la quale il notaio senza far motto adagiatosi, et toltosi di cintola il pennaiuolo, acconciò innanzi a sé il calamaio, et due fogli bianchi che si trovava havere indosso: et come hebbe intinta la penna, si curvò col petto sul desco, stando in orecchi ad udire et scrivere le volontà extreme et il testamento del gentilhuomo. Il quale sorreggendosi alquanto su I'origliere, parlò: Lasso me; tu di certo, M'esser lo notaio, non sai com'io, non che possa far lasciti, mi veggio morire senza bavere di che satisfarti del testamento. Ma quanto più posso ti priegho che tu comporti questa fatica di scrivere la mia hystoria; per ciò 880 PROSE che, come che ferventemente io desideri di andarne hoggimai dove a Dio piacerà, non chiuderò in pace questi occhi se non lascio per heredità al mondo la hystoria mia la quale fia letta da ogni huomo che vive, cotanto è fiera et diversa: et ad te in mercede de la scrittura, tanto ch'io detto, lascierò per legato il guadagno che divulgandola ne trarrai; di che senza niun dubbio farai ricco te et casa tua. Il notaio ritinse di botto la penna nel calamaio. Et quel canuto levando gli occhi pietosamente et stendendo al cielo le palme, adorò tacito alquanto, poi disse: Onnipotente direttore di tutti i casi della vita mia, il quale vedi per che labyrinto lunghissimo di disastrosi sentieri et a che extremità et disperata desolatione m'hai di tua mano condotto, oh mio Dio; soccorri a la inferma memoria d'un vecchio moribondo et che ha il cuor dilaniato; diriggi la mia parola con lo spirito eterno de la tua verità affinché questo forestiero non debbia scrivere sol una sillaba che non sia hoggimai notata nel libro de' tuoi ricordi per li quali (et in questo dire giunse le mani et con voce alta gridò) io sto per essere o condannato o assoluto. Et il notaio sollevò la punta de la sua penna tra l'occhio suo et la fiammella: al quale il vecchio, dopo alcun silentio, disse: Messer lo notaio, tu scrivi una hystoria per la quale la natura agiterà le viscere de la misericordia ne gli huomini, et spezzerà i cuori pietosi, et obbligherà al pianto fin anche la crudeltà. Il notaio infiammava, et gli parea mill'anni di scrivere, et ritinse un'altra fiata la penna: et il vecchio gentilhuomo, voltosi con la persona al notaio, et la hystoria dettandogli, cominciò• a) Yorick non tradusse questo frammento in inglese antiquato; ma io Didimo volendo pur dedicare a' maestri miei alcun mio tenue lavoro che, come frutto delle loro lezioni, riescisse di lor gradimento, colsi quest'occasione ed imitai le orazioni e le storie ch'essi all'età nostra vanno gemmando de' più riposti gioielli di Fra Giuda,1 e del 1. Fra Giuda: vedi nel Vocabolan'o degli Accademici della Crusca, Venezia, Pitteri, 1741 (così come nella ristampa veronese del 1806), nella tavola delle abbreviazioni, dove alta voce Esp. Vang. (v, p. 256), si legge: «Esposizioni di Vangeli di Fra Simone da Cascia tradotte da Frate Gidio, o Giuda [ •••] 11. Si tratta del volgarizzamento dei Vangeli e delle loro Esposizioni, dal latino di Simone de' Fidati (Cascia circa il 1295 - Firenze 2 febbraio 1348), opera di un tale frate Gidio dell'ordine medesimo (poi, come tale, sempre registrato negli spogli delle edizioni successive del Vocabolario). Anche V. MONTI, nella prolusione pavese Dell'obbligo di onorare i primi scopritori del TJero in /atto di scienze (recitata il 26 novembre 1803), in Prolwioni agli studii dell'Università di PaTJia per l'anno I804, Milano, VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 881 - E il rimanente? diss'io; ov'è il rimanente, La Fleur? Perché La Fleur per l'appunto tornava nella mia stanza LIX. IL FRAMMENTO E IL BOUQUET PARIGI E quando mi s'appressò al tavolino tanto ch'io potessi fargli intendere il mio bisogno, risposemi, che ve n'erano altri due fogli co' quali aveva presentato il bouquet alla demoiselle su i boulevarts Deh spicciati, figliuolo mio; arriva all'hotel del conte di B•••, e fa' di riaverli - Li riavrò senz'altro - e volò. Né mi fece aspettare; e tornò che non potea trar il fiato; e così smarrito che parca nunzio di guai ben peggiori della irreparabilità del frammento - Juste ciel! da poco più di mezz'ora quel povero giovinotto aveva raccolto il tenero addio dalle labbra della sua Semintendi.1 Ma perché, da questo Frammento in fuori, il libricciuolo è dedicato alle donne gentili, le quali al parroco Yorick e a me suo chierico insegnarono a sentire e quindi a parlare men rozzamente, io per gratitudine aggiungerò questo avviso per esse - La lingua italiana è un bel metallo che bisogna ripulire della ruggine dell'Antichità, e depurare della falsa lega della moda; e poscia batterlo genuino in guisa che ognuno possa riceverlo e spenderlo con fiducia; e dargli tal conio che paia nuovo e nondimeno tutti sappiano ravvisarlo. Ma i poverelli, detti Letterati, non avendo conio proprio, lo accattano da Fra Giuda, e mordono per invidia chi l'ha del suo: e i damerini, detti scienziati, piangono ipocritamente dicendovi, che la povertà della lingua li stringe a provvederle di fuori. I primi non hanno mente, gli altri non hanno cuore; e non avranno mai stile.2 Sonzogno, 1804, pp. 34-5, aveva scritto: •Si è sostenuta la pazienza (e pazienza vera da Giobbe), di crivellare la semola di Fra Jacopone, di Fra Guittone, di Frate Cavalca, di Frate Giuda, e di cent'altri siffatti, per estrarne, come fior di farina rancide frasi, orride parolacce a nulPaltro buone che all'eloquenza delle bettole fiorentine [...] •· 1. Arrigo Simintendi da Prato, notaio che, sull'inizio del secolo XIV, compose un volgarizzamento delle Metamorfosi ovidiane (edito soltanto fra il 1846 e il 1850, a Prato, per i tipi del Guasti), a cui anche si deve una traduzione, inedita, di Lucano. Anche del Simintendi, all'altezza cronologica del presente scritto interamente inedito, il Foscolo poteva avere notizia dagli spogli del Vocabolario dtgli Accademici dtlla Crusca. 2. Yorick ... stile: vedi, nel tomo n, nel saggio foscoliano sulla Traduzione dt' dut primi canti dtll' Od,isea ecc. del Pindemonte, il passo: • Il Salvini [••.] da tutti•, e le relative note. 56 882 PROSE demoiselle - e l'ingrata! aveva già regalato quel gage d'amour a uno staffiere del conte - e lo staffiere ad una sartorina - e la sartorina a un suonatore di violino, e sempre col mio frammento sul gambo vedi nodo di comuni sciagurel - e mandai un sospiro - e La Fleur me lo rimandò con eco doloroso ali'orecchio Gran perfidia! gridò La Fleur - Gran disgrazia! diss'io - Non sarei tanto mortificato, monst.'eur, diceva La Fleur, s'ella lo avesse perduto - Né io, La Fleur, gli risposi, se l'avessi trovato. Ma s'io l'abbia o no ritrovato, si vedrà poi. LX. L'ATTO DI CARITÀ PARIGI Chi sdegna o sospetta di passare al buio per un chiassuolo,1 sarà forse un egregio uomo dabbene, e destro a mille negozii; ma un buon viaggiatore sentimentale, non mai. Assai cose che accadono a Sole chiarissimo e su per le vie larghe e frequenti, le vedo, ma non le guardo. La natura è vergognosa, né s'attenta d'agire alla presenza di spettatori; bensì in qualche appartato cantuccio ti lascia vedere taluna delle sue brevi scene che equivalgono alla quintessenza di tutti i sentimenti stillati da una mezza dozzina di tragedie francesi - tragedie per altro bellissime assolutamente - e le si confanno del _pari al predicatore e all'eroe; e percib ogniqualvolta mi trovo in impegno più solenne assai dell'usato,• io nelle mie prediche a) E appunto in que' di occorse a Yorick una solenne occasione di predicare nell'oratorio de' protestanti in Parigi; e ne fu richiesto da Lord Hertfort ambasciadore d'lnghilterra2 che avea corredato sontuosamente di nuove suppellettili il suo palazzo; e Parigi impazziva in folla a vederlo. Yorick salì in cattedra col testo: «Disse il re Ezechia al Profeta: Ho mostrati allo straniero i miei vasi d'oro, e le mie concubine; né ho lasciato chiuso tesoro veruno della mia casa. Disse il Profeta: Tu hai operato da stolto». Isaia XXXIX [4-6]. - Vedi lettere di Sterne.3 1. chiasnu,lo: viuzza. 2.. Francis Seymour Conway (1718-1794), conte di Hertford, fu ambasciatore in Francia dal 1763 al 1765. 3. Si tratta del sermone xvu: The Case of Hezekiah arrd tlie Messe,rgers, che reca in nota il titolo: • Preached before His Excellency the Earl of Hertford, at Paris, 1763 » (lo si veda in Tlie Works of LAURENCE STERNE ecc., cit., 111, pp. 161- 70). In due lettere lo Sterne parla del suo sermone: una alla figlia da Parigi, 15 maggio 1764 (la lettera XLVI): «I have preached at the Ambassador'a chapel - Hezekiah -(an odd subject, your mother will say). There was a VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 883 m'aiuto di quelle tragedie - e quanto al testo, la Cappadocia, il Ponto e l'Asia, la Frigia e la Pamfilia son ottimi testi quanto ogni altro della Scrittura.a Evvi un opaco andito lungo, che dall'opéra-comique riesce a un vicolo angusto, calcato da que' pochi che modestissimi aspettano un fiacre,b o che più volentieri tornano a casa in santa pace co' loro piedi. A capo dell'andito attiguo al teatro vedi una candeluccia il cui raggio a mezzo l'andito si smarrisce tra l'ombre - ma vi sta per adornamento - a imitazione delle stelle di minima grandezza le quali ardono, e, a quanto sappiamo, non giovano gran che a noi mortali. Per quell'andito adunque io m'avviava all'albergo, quando cinque o sei passi innanzi ch'io giungessi alla porta m'accorsi di due signore, l'una a braccio dell'altra, col dosso al muro, le quali secondo le mie induzioni aspettavano un fiacre - e poich'erano sì presso alla porta, io per rispetto al diritto di priorità, m'incantucciai pianamente un braccio o poco più di qua dalle due signore - e quasi invisibile, perch'io era vestito di nero. La signora che mi stava più presso era una lunga, e smilza persona d'anni forse trentasei - l'altra, di pari forme e statura n'avrà avuti quaranta - e non avevano indizii nuziali né vedovilibensì in tutto e per tutto l'aspetto di due caste sorelle vestali, a cui né le carezze né i baci aveano libata la rugiada quasi gelata su a) Non va inteso, come pare alla prima nell'originale: ottimi testi quanto uno della Scrittura; perché anzi queste parole si leggono negli atti degli Apostoli: Et qui habitant - Cappadociam, Pontmn et Asiam, Plzrygiam et Pampliyliam. Cap. II. 9. 10. - E qui Yorick tende a deridere anche la povertà orgogliosissima del teatro francese che non ha, come l'inglese, tragedie desunte dalla storia patria, le quali mostrano più opportunamente al popolo i vizii, le virtù e l'indole de' suoi antenati. b) Carrozze che si noleggiano a ora; sdruscite; strascinate da cavalli con orecchie sempre dimesse. concourse of ali nations, and religions too [...]• (Letters of the Late Rev. Jvlr. LAURENCE STERNE ecc., cit., 1, p. 126); e nella lettera XXII, senza data né intestazione, dove, tra Paltro, si legge: • uAnd Hezekiah snid unto tbe prophet, I bave shcwn them my vessels of gold, and my vessels of silver, and my wives, and my concubines, and my boxes of ointment, and whatevcr I have in my house bave I shcwn unto them; and the prophet said unto Hezekiah, Thou hast done vcry foolisbly,, • (op. cit., II, p. 200). PROSE le lor labbra - in altro tempo io mi sarei cordialmente adoperato alla loro felicità; ma per quella sera la loro felicità doveva arrivar d'altro luogo. Una voce sommessa con dicitura elegante e con soave cadenza supplicava, che tra lor due facessero, per l'amore di Dio, l'elemosina d'un dodici soldi. E mi parve fuori d'ogni uso che un accattone assegnasse la somma dell'elemosina - e dodici volte più che non si dà solitamente all'oscuro. E se ne maravigliarono anch'esse - Dodici soldi? ve'! dicea l'una - Un dodici soldi! dicea l'altra - né gli davano retta. Il poverello continuava a dire, che non si sarebbe attentato a domandare di meno a due dame del loro grado; e s'inchinò sino a terra. PohI dissero - non abbiamo di spiccio. Tacque per allora il mendico; poi tornò ad implorare. Deh! gentili damine; deh non chiudano le loro pietose orecchie a me solo! - Sur ma parole, davvero, uomo dabbene, dicea la minore, non abbiamo moneta - Il cielo dunque le benedica, rispose il mendico, e moltiplichi a loro le gioie che possono versare su gli altri senza moneta! - Notai che frattanto la sorella maggiore accostava la mano alla tasca, e diceva: Se troverò un soldo - Un soldo! me ne favoriscano dodici, ripigliò il supplicante: la natura fu sì benefica verso di loro! le sieno adunque benefiche con un povero. Ve li darei con tutto il cuore, disse la giovine; amico, ve li darei .se ne avessi. O mia benefattrice[ bella e caritatevole gentildonna, diceva egli alla sorella maggiore - ma se allo splendore di quegli occhi che reca in quest'andito bllio il chiaror del mattino è mista insieme tanta dolcezza, non dovrò io credere che ciò derivi dalla bontà, e dalla umanità di quel cuore? non dovrò io credere al marquis de Santerre ed a suo fratello i quali, passando dianzi, parlavano tanto di tutte e due? - E tutte e due pareano commosse; e le loro dita correvano come per impulso e contemporaneamente alle tasche; e n'uscirono due monete di dodici soldi; né altercavano più col povero, bensl tra lor due, aspirando al merito di far l'elemosina; ma la fecero a un punto tutte e due, e il diverbio cessò - e l'uomo dabbene se n'andò con Dio. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 885 LXI. L'ENIGMA SPIEGATO PARIGI Gli corsi dietro; ed era quel tale che con tanto buon esito davanti al mio albergo chiedeva l'elemosina a tutte le donne - II secreto che m•avea tanto dicervellato, fu da me a un tratto scoperto; o se non altro il midollo - ed era l'adulazione. Essenza deliziosissima! oh come sai rinfrescar la natura! e oh come le forze e le debolezze della natura propendono tutte insieme a raccorti! perché tu t9infondi dolcissima nel sangue, e per vie difficili e tortuose gli agevoli il corso fino a' seni del cuore. Quel povero uomo non vedendosi stretto del tempo ha potuto largheggiar nella dose: certo è nondimeno ch'egli altresì aveva l'arte di ridurla in sostanza, contenuta in minime particelle per le tante urgenze improvvise che lo coglievano su le vie. Or come mai diluiva egli, ristringeva, confettava, qualificava insomma le dosi? Non ne vo' saper altro; e lascio in pace il mio spirito - ben so che l'accattone si buscò due monete di dodici soldi - e chi guadagna assai più, saprà dirvi il resto assai meglio.• LXII. PARIGI Noi ci facciamo largo nel mondo non tanto col fare quanto col ricevere de' servigi: tu trovi un germolio mezz'arido; lo pianti perché l'hai raccattato; e perché l'hai piantato, lo adacqui. Monsieur le comte de B•••, pel favore ch'ei mi fece del passaporto, continuò, ne' pochi giorni ch'egli andava capitando a Parigi, a favorirmi spontaneamente; e mi fece conoscere ad alcuni signori d'alto affare, i quali m'avrebbero fatto conoscere a' lor conoscenti, e di mano in mano così. Ed io aveva scoperto il secreto in tempo da convertire questi onori in profitto; altrimenti, avrei desinato e cenato, come suole avvenire, una o due volte in giro, e traducendo i cenni e gli sguardi francesi in inglese schiettissimo, mi sarei presto avveduto ch'io m'usurpava la couvertb d'un più piacevole commensale; e per la semplicissima ragione ch'io non avrei potuto serbarmele, avrei a) Leggi la Storia delle Accademie. b) La posata. 886 PROSE rassegnate ad una ad una tutte le mie sedie - Ma per allora i fatti miei non camminavano male. Ebbi l'onore d'essere presentato al vecchio marquis de B••• segnalatosi in gioventù per parecchie non gravi imprese cavalleresche nella corte d'amore. Da indi in poi si vestì alla foggia delle giostre e de' torneamenti - e imbizzarriva a far credere ch'ei non era ~ampione d'Amore solamente in fantasia: 1< Avrei caro, mi diceva egli, di dar una corsa per l'Inghilterra» - ed informavasi intorno alle dame inglesi. Rimanga, monsieur le marquis, gli diss'io, rimanga dov'è - les messieurs anglais penano anche troppo a impetrare un'occhiata dalle loro dame - Il marchese mi convitò a cena. Monsieur P••• gabelliere generale moveva altrettante interrogazioni su le nostre tasse - Odo, diceva, che le sono ragguardevolissime - Se si sapesse riscuoterle, rispos'io; e gli feci un inchino profondo. Io non mi sarei ad altri patti meritato un invito a' concerti di mo11sieur P•• •.• S'era fatto mal credere a madame de v••• ch'io 1ni fossi un esprit - Ella sl ch'ell'era un esprit, e spasimava di vedermi e d'udirmi; né io aveva preso una seggiola, che m'accorsi che per sincerarsi del mio spirito quella dama non avrebbe dato un pistacchio - ma che io invece era ammesso per far poi testimonio del suo - e Dio sia testimonio anche a me che conversando con essa non ho levato il sigillo a' miei labbri.b Madame de v••• non incontrava uomo vivente a cui non asserisse: «Che non aveva mai conversato con tanto profitto in sua vita». Una francese riparte il proprio regno in tre epoche: nella pria) Perceval; e se più ne vuoi, leggi la vita di Marmontel,1 e le lettere e le memorie degli altri letterati pettegoli di quell'età. b) Il testo: Non ho aperto l'uscio de' miei labbri, ed è frase del salmo CXL. 3. Pone ostium labiis meis. Ma perché non mi pare che suoni bene in italiano, l'ho mutato con la frase equivalente dell'Ecclesiastico: Quis dabit ori meo custodiam, et labiis meis signaculum certuni? cap. xxn. 33. 1. Jean-François Marmontel (Bort [Limousin] 11 luglio 1723-Ablonville [Normandie] JI dicembre 1799). VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 887 ma è coquette - poi deiste - finalmente dévote: e durante quest'epoche, il regno fiorisce sempre - e solo rimuta vassalli. Intorno all'anno trentesimo sesto suole per lo più spopolarsi di tutti gli altri schiavi d'Amore, e si ripopola a un tratto degli schiavi dell'Incredulità - a' quali sottentrano le colonie degli schiavi della Chiesa. Madame de Q••• stava in forse tra la prima epoca e la seconda: il colore di rosa smarrivasi alloramai a occhio veggente - e quand'io le feci la prima visita, fuggiva il quart'anno da che essa avrebbe dovuto appigliarsi al deismo. Mi fe' sedere seco sopra un sofà per disputare posatamente de' punti di religione - madama insomma mi disse, che non credea nulla. Risposi, che ov'ella pur s'attenesse in cuore a questi principii, io era nondimeno sicuro che non le tornava a conto di radere le fortificazioni esteriori senza le quali mi pareva miracolo, che una cittadella sì fatta potesse difendersi - che il deismo era pure la pericolosissima cosa per una bella persona - e ch'io per obbligo di coscienza non poteva dissimularle come non erano corsi cinque minuti da ch'io m'era seduto su quel sofà, ed aveva già fatti non so quanti disegni - se non che i sentimenti miei religiosi, e la persuasione che fosse anch'essa armata di religione, mi soccorsero a reprimere i miei desiderii nel punto che avevano cominciato a tentarmi. Non siamo, e la presi per mano, non siamo no di diamante - però dobbiamo confidare la nostra salute negli ostacoli esterni, finché l'età non venga a concentrarli invisibilmente dentro di noi - ma (e le baciai la mano) è ancor presto, gentil mia donna - assai presto. Perché noi dirò? io fui per tutto Parigi in concetto d'avere convertita madame de Q••• - e molti l'hanno udita affermare a monsieur D••• e ali'abbé M• ••• ch'io aveva più in poche parole detto a favore, che non essi in tutta la loro enciclopedia contro della rivelazione - e fui senz1 altro nel registro della coterieb di a) Diderot, e Morellet.1 b) Crocchio. 1. Denis Diderot (Langres [Champagne] S ottobre 1713 - Paris 30-31 luglio 1784); André Morellet (Lyon 7 marzo 1727 - Versailles 12 gennaio 1819). 888 PROSE madame de Q•••, la quale procrastinò l'epoca del deismo ad un paio d'anni. Mi ricordo che appunto in quel crocchio, mentr'io nel fervore del ragionamento andava provando la necessità d'una Prima Causa, mi sentii tentare nel gomito; e il contino di Fainéant mi chiamò in disparte in un canto di quella sala, per avvertirmi che il mio solitairea mi calzava troppo nel collarino. Guardi ; sta plus badinant, diceva egli accennandomi il suo - e basta una parola, monsieur Yorick, al savio - E dal savio, monsieur le comte, risposi con un inchino. Né verun uomo mortale mi strinse con amplesso sì sviscerato, come allora il contino di Fainéant. Per tre continue settimane non ebbi opinione fuorché quella di chi mi parlava - Pardi! ce monsieur Yorick a autant d'esprit que nous autres - Il raisonne bien, diceva un altro - e un altro: C'est un bon enfant - Onde finché Dio mi lasciava vita, io poteva mangiare e bere, e darmi buon tempo in Parigi; ma pagando pur sempre un disonestissimo scotto - m'avvilii di vergogna - lucri da schiavo! - l'onore e tutti quanti i suoi sentimenti virili si sollevarono per dissuadermene - quant'io più saliva tra grandi, io mi vedeva costretto al mio sistema d'accattone; e le più fiorite conversazioni avevano più alunni dell'arte - io sospirava gli alunni della natura - e una sera dopo d'essermi abbiettissimamente prostituito a mezza dozzina di varie persone, mi sentii nauseato - e mi ricovrai nel mio letto - raccomandando a La Fleur che ordinasse cavalli, perch'io all'alba volea affrettarmi verso l'Italia. LXIII. MARIA MOULINS Né io aveva peranche provato l'affanno dell'abbondanza - ma traversando il Bourbonnois, temperatissima contrada di Francia nel tripudio della vendemmia, allorché la natura profonde in ogni grembo la sua dovizia, e gli occhi dei suoi figliuoli si sollevano per gratitudine al cielo - e la musica comparte allegramente il lavoro e tutti portano danzando i loro grappoli - ed io ad ogni passo del mio viaggio mi sentiva prorompere e infiammare nell'anima mille a) Qui è anello d'una gioia sola, nel quale si passavano le due cocche del fazzoletto da collo. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 889 affetti per tanti gruppi che mi venivano incontro - ed ogni gruppo m'era liberale di liete avventure. Dio mio! ne riempirei venti volumi- e ohimè! pochi e brevi fogli appena m'avanzano, e dovrò darne almen la metà alla povera Maria, la quale fu già incontrata dall'amico mio Shandy presso Moulins. Perchéin questo enel seguente capitolo Yorick tocca un racconto che molti de' suoi concittadiniepochi de' mieihanno letto, io traduttore stimai bene di fJolgarizzarlo, e di frammetterlo qui come segue: VITA E OPINIONI DI TRISTANO SHANDY GENTILUOMO VOL. IX. CAP. XXVIII. 1 - Brano le più dolci note ch'io aflesn udito mai: e calai tosto il cristallo per udfre distintamente - È Maria, dissemi il postiglione, il quale s'aooide ch'io stava attento - Povera Man"a/ e si chinò da un lato perch'egli stafla in linea retta, e temeva ch'io non potessi vederla - eccola lì, seduta a quelgreppo, sonando i fJespri sulflauto con la sua capretta da canto. E queste parole furono da quel giovinotto proferite con accento e con volto sì concordi a' moti d'un cuore pietoso, ch'io feci subito fJoto di dargli una moneta di ventiquattro soldi tosto ch'i"o fossi a Moulins - E chi è la povera Man"a? gli diss'io. È l'amore e la pietà di tutto il contado qui attorno, risposemi il postiglione - il Sole, tre anni fa, non risplendeva sul tJiso di tJeruna fanciulla né più aooenente, né più spiritosa, né più amabile di Maria: potJera Maria! tu non meritavi che le tue nozze ti fossero interdette per le brighe del curato della pa"occhia. E seguitò a dirmi come il curato aveva fatte già dall'altare le denunzie di quelle nozze - Se non che Maria, che s'era un po' riposata, s'accostò il flauto alla bocca, e ri'pi'gl,,'ò la sua aria - ed erano le medesime note - ma dieci tJolte più soavi. Questo è l'ufficio della sera alla Vergine, disse il ragazzo - né si sa chi a lei rabbia insegnato, né come riesca a sanarlo 1. Ma cap. xxiv; lo si veda in The Wo,ks o/ LAURENCE STERNE ecc., cit., 11, pp. 296-300. La stessa citazione, ma esatta, si ritrova in P. CRASSous, op. cit., 111, pp. 253-7. 890 PROSE sul flauto - tioi crediamo clie il cielo per sua misericordia la ispiri; perché dal dì eh'ella è fuori di sé pare che non trovi verun altra consolazione; non si lascia uscire di mano quel flauto, e sona l'ufficio quasi dì e notte. La discrezione e l'ingenua eloquenza del postiglione mi costringevano a diciferare certa gentilezza che gli traspariva, superiore alla sua condizione, dal viso; e sarei stato voglioso di sapere la sua storia: ma allora l'anima mia era tutta della sfortunata Maria. Ci siamo frattanto avvicinati al greppo ove sedeva Maria. Portava un rado guarnellino bianco; e tutti i capelli, da due ciocche in fuori, ravvolti in una rete di seta con alquante foglie d'ulz'vo bizzarramente i,itrecciatevi da una banda - Era bella assai! e s'io ho mai provato la piena d'un onesto crepacuore fu nel punto ch'io la guardai - Iddio ti consoli! povera donzella! esclamò il postzglt:one. E volgendosi a me, tornò a d-z"re: Più di cento messe si sono già celebrate in tanti conventi, e nelle chiese parrocchiali del contado per lei - ma senza pro - talvolta rinviene in sé stessa; e noi abbiamo fede che un di la Vergine la risani; ma i meschini suoi genitori che la conoscono meglio di noi, non però sono consolati nemmeno dalla speranza,· e temono che non riavrà più i suoi sentimenti, mai più. Com'ebbe il postiglione ciò detto, Maria fece una cadenza sì melancolica, si affettuosa, e sì querula ch'io balzai fuor di ca"ozza a riconfortarla; e nel risentt"rmi del mio entusiasmo, mi trovai seduto in mezzo a lei. e la sua capra. Maria m'affissò pensosa alcun poco - poi guardò la sua capra - poi me - e poi la sua capra ancora - e così ora l'una ora l'altro. - Or bene, Maria, le diss'io amorosamente - che rassomiglianza ci trovate voi? Ma e tu, candido lettore, credi, ch'io non le feci questa i'nterrogazione se non perch'io sono umilmente convinto che anche l'uomo è una bestia - credimi, e di questo te ne scongiuro, ch'io non awei lasciato andar.e una burla intempestiva alla presenza venerabile della miseria; no, quand'anche m'impadronissero di quanta arguzia sgorgò mai dalla penna di Rabelais. Addio Maria! Addio povera mal'avventurata donzella - tion oggi - un dì forse, udrò dalle tue labbra i tuoi guai, e fui sino ad ora deluso. Intanto ella prese il suo flauto, e mi f e' con esso tal racconto di sciagura, ch'io mi rizzai e a passi rotti ed incerti me ne tornai adagio adagio alla mia carrozza. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 891 Continua il capo LXIII dell'itinerario di Yorick. Il racconto di questa donzella impazzita m'avea pur commosso leggendolo; ma vedendomi in quelle vicinanze, mi tornò al pensiero sì fieramente che con irresistibile forza mi strascinò mezza lega fuori di strada al villaggio de' suoi parenti a domandarne novella. Questo è un andare, e il confesso, come il cavaliere della Trista Figura a caccia di dolorose avventure - ma, e non so come, io non mi sento sì pienamente conscio dell'esistenza d'un'anima in me se non quando mi trovo ravvolto nelle malinconie. La vecchia madre venne sull'uscio, e il suo aspetto, innanzi che le sue labbra s'aprissero, mi narrò tutti i suoi guai - L'era morto anche il marito; morto da un mese, diceva ella, d'angoscia per la misera infermità di Maria - e allora ho temuto che per questa sciagura la povera fanciulla perderebbe anche la poca ragione che le rimane - invece par che rientri in sé - ma non trova mai quiete - la mia povera figliuola, e così dicendo piangeva a lagrime amare, va ramingando, chi sa dove, lungo la strada. - Perché, mentre io scrivo, il polso mi batte languidamente? e come mai La Fleur che par ch'abbia il cuore creato solamente per l'allegria, ripassava il rovescio della sua mano due volte sugli occhi, mentre la vecchia stava ritta sull'uscio parlandomi? - Accennai al postiglione che ripigliasse la strada. Un miglio e mezzo di qua da l\tloulins, verso un viale che mette a un boschetto, scopersi la povera Maria che sedeva sotto un pioppo - sedeva col gomito sul grembo, e col capo chino da un lato sovra la palma - un ruscelletto scorreva a' piedi d'un albero. Ordinai al postiglione che andasse col mio sterzo a Moulins - e a La Fleur che mi facesse allestire da cena - perch'io gli avrei seguitati passeggiando. Essa era vestita di bianco, e quale è descritta dall'amico mio; se non che le sue chiome raccolte allora in una rete di seta, cascavano, quand'io la vidi, abbandonate1 - aveva anche aggiunto al suo guarnellino un nastro verde pallido ad armacollo donde pendeva il suo flauto - la sua capra le era stata infedele al par del suo innamorato; e aveva in sua vece un cagnolino, e tenevalo con una 1. Essa . .• abbandonate: vedi Ortis (1802), la nota I a p. 609. 892 PROSE cordella attaccata alla sua cintura - (( Ma tu non m'abbandonerai Silvio», gli disse - Guardai negli occhi di Maria, e m'avvidi che più che alla sua capretta e al suo innamorato, essa allora ripensava a suo padre; poiché proferendo quelle parole le lagrime le gocciavano giù per le guance. M'assisi accanto a lei; e Maria mi lasciava che mentre le cadeano le lagrime io le asciugassi col mio fazzoletto - e lo bagnai delle mie - e nelle sue - poi nelle mie - e rasciugai poscia le sue1 - sentiva intanto io tali commozioni e sì inesprimibili ch'io sono certo che non potrebbero ascriversi mai a veruna combinazione di materia e di moto. Sì; sono persuaso che ho un'anima: e tutti i libri di cui i materialisti appestano il mondo non sapranno convincermi mai. LXIV. MARIA Maria si risentiva; e le domandai se si ricordava d'un uomo pallido ed esile della persona, il quale due anni addietro s'era seduto in mezzo a lei e alla sua capra. Rispose, che a quel tempo era malata assai; ma che se ne risovveniva per due circostanze perché così malata s'accorse che quell'uomo n'aveva pietà; e poi, perché la sua capra gli aveva rubato il fazzoletto, e ch'ella per quel furto l'aveva allora battuta - E diceva d'avere lavato il fazzoletto nel rio, e che n'aveva tenuto conto sino a quel giorno per restituirglielo, se mai lo rivedesse, com'ei le aveva mezzo promesso. Così parlando, si traeva di tasca il fazzoletto a mostrarmelo; lo custodiva piegato politamente fra due foglie di vite ravvolte d'un pampino - spiegandolo vidi una S, segnata in un de' lati. E narravami, com'ella aveva tapinato dopo quel dì sino a Roma, e fatto un giro in S. Pietro - e che se n'era tornata - e che sola aveva ritrovato il sentiero lungo gli Appennini - e traversata tutta la Lombardia senza danaro - e le strade alpestri di Savoia senza scarpe - com'ella avesse tanto patito, e come e da chi sostenuta, non potea dirlo - ma Dio mitiga il vento, disse Maria, per l'ag11ello tosato. Tosato, e cornei e nel vivo, diss'io;2 ma se tu fossi nella terra de' 1. M'assisi . .. sue: vedi Ortis (1802), la nota I a p. 607. 2. nia Dio . •• diss'io: vedi Ortis (1802), la nota a p. 621. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 893 miei padri dove ho un abituro, io ti raccorrei meco per ~icovrarti: tu mangieresti del mio pane e berresti nella mia tazza• 1 - sarei buono col tuo Silvio - a te debole e vagabonda, io verrei sempre dietro per ravviarti2 - al tramontar del Sole io direi le mie preghiere; e quando avessi finito, tu soneresti il salmo della sera sul tuo flauto: né l'incenso del mio sacrificio saria meno accetto, salendo ne' cieli con quello d'un cuore straziato. La natura stempravasi dentro di me mentr'io parlava; e Maria osservando che il fazzoletto che io mi traeva di tasca, era ornai troppo molle per asciugarmi gli occhi, voleva lavarmelo nel ruscello - E dove lo rasciugherai tu, Maria ?-Nel mio seno, risposemi farà bene. Tanto arde ancora il tuo cuore, Maria? le diss'io. Io toccava una corda su la quale erano tesi tutti i suoi guai fissò alquanto gli occhi smarriti sul mio volto; poi senza dirmi parola prese il suo flauto, e sonò l'orazione alla Vergine - La vibrazione della corda da me toccata cessò - in uno o due minuti Maria si riebbe - lasciò andare il suo flauto - e s'alzò. E dove vai tu, Maria? - Dissemi, a Moulins - Vuoi tu, venirci meco? diss'io -Appoggiò il suo braccio sul mio,3 lentando la cordella al cagnoletto perché ci seguisse - così entrammo in città. LXV. MARIA MOULINS Quantunque io aborra i saluti e le accoglienze sul mercato, pure quando fummo in mezzo alla piazza di Moulins, mi fermai per pigliarmi l'ultima occhiata e l'ultimo addio da Maria. !Viaria, sebbene non fosse alta, aveva forme di prima bellezza l'afflizione le aveva ritoccato il volto d'un certo che, che non paa) De pane pauperis comedens, et de calice eius bibens, Reg. lib. 11. XII. 4 [n1a 3].4 1. tu ... tazza: vedi i Frammenti di un romanzo autobiografico, la nota 4 a p. 552. 2. ma se ... ravviarti: vedi Ortis (1802), la nota I a p. 610. 3. Appoggiò ... mio: vedi Ortis (1802), la nota 1 a p. 608. 4. «[•••] pauper autem nihil habebat omnino praeter ovem unam parvulnm, quam emerat et nutrierat (...] de pane illius comendens [...] et in sinu illius dormiens; eratque illi sicut filia ». La citazione biblica, ampliata, si ritrova in P. CRASsous, op. cit., 111, p. 261. PROSE reva terreno - ad ogni modo era donna - e tanto da tutta la sua persona spirava tutto ciò che l'occhio vagheggia, e l'anima desidera in una donna, che - se potessero cancellarsi le tracce impresse nel suo cuore, e quelle di Elisa dal mio - non solo essa mangerebbe del mio pane, e berrebbe nella mia tazza, ma Maria poserebbe sul mio petto, e mi sarebbe figliuola.a Addio, misera sconsolata vergine! - imbevi l'olio e il vino che la compassione d'uno straniero, mentr'egli passa pellegrinando, versa ora su le tue piagheb - lddio solo che ti ha per due volte esulcerata, può rimarginarle per sempre. LXVI. IL BOURBONNOIS Eppure la mia fantasia s'era già lusingata d'immagini allegre! e oh quanto l'anima mia s'aspettava di tumultuar nella gioia in quel viaggio, e in que' giorni della vendemmia, e per quelle piagge amenissime della Francia! - Ma! - quivi appunto il dolore mi aprì la sua porta; e ogni gaia speranza m'abbandonò. In ciascheduna di quelle scene di giubbilo m'appariva nel fondo la pensosa Maria sedente all'ombra del pioppo: ed io già toccava Lione, né avea per anche potuto coprirla d'un velo. Cara sensibilità! Tu se' l'inesauribile fonte degl'incanti della voluttà, e degli spasimi dell'angoscia! tu incateni il tuo martire sovra un letto di paglia - e tu stessa lo sublimi teco oltre al cielo - Eterna fonte de' nostri affetti! - Or sì ch'io ti cerco - or sì tutta la tua Divinità dentro il mio petto esulta.e a) Et in sinu pauperis dormitms, eratque illi sicut filia. Reg. lib. II. [12, 3].1 b) Samaritanus quidam iter faciens, misericordia motus est: et appropians alligavit vulnera eius, infundetis oleum, et vinum. Evang. Luc. x. 33." e) Catone, tragedia d'Addisson atto v. se. I, dove si leggono anche i due versi seguenti.3 1. Vedi la nota 4 a p. 893; e i Frammenti di un romanzo autobiografico, la nota 4 a p. 553. 2. Sono fuse parti dei versetti 33 e 34. 3. Catone . .. seguenti: si tratta del v. 7, dell'atto v, scena I: <1 'Tis the divinity that stirs within us », e dei vv. 5-6: 11 [ •••) Why shrinks the soul / back on hersclf, and startles at destruction? ». E vedi la nota 2 a p. 757. La stessa citazione si ritrova in P. CRAssous, op. cit.• 111, p. 264. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) Ma non già quando la tristezza e l'infermità, quando l'alma in sé si ristringe, e inorridita l'annientamento suo guarda e s'arretra - 895 Vana pompa di frasi!• - bensl quando un generoso piacere, e un affanno generoso mi viene di fuori, allora - allora emana tutto da te - o grande SENSORIO dell'universo! - da te che diffondi la tua vibrazione, quand'anche un unico crine ci caschi dal capo, e la propaghi nelle più remote solitudini del creato - Tocco da te, Eugenio schiude un po' le cortine sotto le quali io giaccio languendo - ascolta la storia de' miei patimenti - e intanto i suoi nervi tremano dolorando; ma egli n'accusa l'intemperie della stagione Tu spiri sovente una scintilla del tuo calore all'aspro alpigiano mentre trascorre su per le rupi agghiacciate - e s'abbatte in un agnello straziato dal dente del lupo - Vedilo con la testa appoggiata al vincastro, inchinarsi pietosamente verso l'agnello - Ah! foss'io giunto un poco più presto! - L'agnello spira nel suo sangue - e il cuore compassionevole del pastore gronda sangue! Pace sia teco, generoso pastore - tu ora te ne vai contristato ma la gioia te ne renderà il merito - poiché la tua capanna è beata - e beato chi l'abita teco - e beati gli agnelli che ti belano attorno. LXVII. LA CENA Un ferro del piede dinanzi del cavallo delle stanghe schiodavasi a' primi passi dell'erta del monte Tararo;1 e il postiglione scavalcò, lo staccò, e se lo serbò nella tasca. E poiché s'aveva a salire per cinque miglia, e questo era appunto il cavallo di cui solo si poteva far capitale, io intendeva che fosse ricalzato di quel suo ferro; ma avendo il postiglione gittati via tutti i chiodi, poco o nulla poteva allora il martello di cui era provveduto il mio sterzo: e mi rassegnai a tirare innanzi. Ma non s'erano superate due miglia dell'erta, quando quel traa) Yorick intende di dire che l'estremo sentin1ento de' proprii mali abbatte le forze dell'uomo; ma che la compassione per gli altrui le esercita con acuta e mestissima voluttà. r. monte Tararo: il monte Tarare è situato a mezza strada, fra Roanne e Lyon. 896 PROSE vagliato ronzino, contrastando con uno di que' passi disastrosi, restò disarmato dell'altro ferro dell'altro piede dinanzi. Non ne volli più sapere altro; ed uscii dal mio sterzo; e discernendo a un tratto di trecento passi una casa a mano mancina, volli avviarmivi; ed ebbi di grazia a farmi seguitare dal postiglione - E quanto io più m'appressava, la prospettiva di quella casa mi veniva riconciliando col mio nuovo infortunio - Consisteva in una cascinetta attorniata da forse sette pertiche a vigna e d'altrettante di campi a biade. Avea prossimo dall'un de' lati un orto di poco più d'una pertica, provveduto di quanto mai l'abbondanza può consolare la mensa d'un contadino francese - Prosperava dall'altro lato una selvetta liberale d'ombre al riposo, e di legna al focolare. II giorno nell'ora in ch'io giunsi godeva degli ultimi raggi del Sole - onde lasciai che il postiglione provvedesse a' suoi casi, e a dirittura m'innoltrai nella casa. E vidi la famiglia d'un uomo attempato con la sua donna, e cinque o sei figliuoli, e generi con le loro spose, e la loro gaia e innocente figliuolanza. E facevano tutti corona a una minestra di lenti: e un largo pane di fromento stava nel mezzo del desco: e i fiaschi di vino che v'erano da ogni lato prometteano di rallegrare ad ogni pausa la cena - era insomma un convito d'amore. S'alzò il vecchio; e con riverente cordialità m'accoglieva e pregavami ch'io sedessi a desco con loro - il mio cuore, al primo entrar nella stanza vi s'era già seduto da sé - mi vi posi come figliuolo di casa; e per assumerne quanto più presto io poteva il carattere, richiesi il vecchio del suo coltello; e mi tagliai una fetta di quel pane, e allor tutti gli occhi mi significarono il ben venuto; ed all'oneste accoglienze di quegli sguardi erano misti i ringraziamenti del non averne io dubitato. Fu egli questo? - o Natural dimmelo tu - o fu egli alcun altro il motivo che mi condiva sì saporitamente quel pane? - o per quale incantesimo ogni sorso del vino ch'io attingeva da quel loro fiasco, m'imbalsamava di tal voluttà che io la sento fino a quest'oggi sul mio palato? E s'ebbi cara la cena - assai più care mi riescirono le grazie che se ne resero al cielo. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) LXVIII. LE GRAZIE Però che il vecchio picchiò del manico del suo coltello sul desco - e fu a tutti segnale che s'allestissero al ballo. E le fanciulle e le donne corsero in fretta alle prossime camere a rannodarsi le trecce - e i giovinotti presso la porta a ripulirsi il viso nella fontana, ed a sbrogliarsi de' loro sabots• - né vi fu chi in tre minuti non si trovasse già bello e lesto sull'aiuola dinanzi alla casa. II padre di famiglia e la sua donna uscirono ultimi; e mi posero a sedere in mezzo a lor due sopra un sofà d'erba accanto alla porta. Fu già, cinquant'anni addietro, il buon vecchio un competente suonatore di viola - ma per allora suonava sufficientemente quanto al bisogno : la sua vecchierella gli faceva tenore canterellando - poi faceva pausa - poi ripigliava la sua canzonetta - e i loro figliuoli e nipoti ballavano tutti quanti davanti ad essi a quel suono. Se non che, a mezzo il secondo ballo, nella breve pausa che vi frapposero, gli occhi di tutti s'alzarono; ed immaginai di scorgere ne' loro sembianti certa elevazione di spirito che non ha che fare con l'esultanza che precede e succede all'innocente tripudio - parvemi insomma che la Religione s'accompagnasse alla danza - ma perch'io non l'aveva mai veduta in tale compagnia,b l'avrei per certo creduta una delle tante illusioni della mia fantasia che mi divaga come a lei pare e piace ogni sempre, se il vecchio sul finir della danza non mi diceva, ch'egli per consuetudine antica, e per regola impreteribile aveva in tutte le sere della sua vita chiamata dopo cena la sua famiglia a ricrearsi e a ballare; perch'io, diceva egli, son certo che un cuore ilare e pago, è il ringraziamento migliore che un campagnuolo idiota possa rendere al cielo ;.. Non che un dotto prelato - diss'io.c a) Specie di zoccoli. b) Mi fa meraviglia che Yorick non si ricordasse del re David : Et David saltabat totis vin"bus ante Dominrmi - Et omnis lsrael ludebant coram Domino in omniblls lignisfabrefactis, et citharis, et lyris, et sistris et cymbalis - Et vidit regem David subsilientem et saltantem coram Domino. Reg. lib. n. cap. VI. [6, 14; 6, S; 6, 16]. c) Su la fine del sec. XV. il frate Savonarola, non ostante la scomunica e i monitorii del Papa, ausava far venire i suoi frati e' cittadini in tanto fervore che gli faceva uscire della chiesa, e su la piazza di San 57 898 PROSE LXIX. IL CASO DI DELICATEZZA Come s'è tocca la vetta del Tarare, si corre all'ingiù sino a Lione - Addio per allora a tutti i celeri motiI vuolsi viaggiare con avvertenza, il che conferisce assai meglio a que' sentimenti che non amano le fughe. M'acconciai dunque co' muli d'un vetturale perché nel mio sterzo mi conducessero a loro comodo, e a mio salvamento a Torino per la Savoia. Povera, paziente, pacifica, onesta gente della Savoia! non temere: il mondo non porterà invidia alla tua povertà, che è il tesoro delle tue schiette virtù; e non invaderà le tue valli - o Natural qui tu sembri adirata; e qui nondimeno tu sei propizia alla povertà creata anch'essa da te - qui ti sei cinta di edificii orribilmente magnifici, e t'è avanzato assai poco da concedere alla vanga e alla falce - ma quel poco è quieto, e sicuro sotto al tuo patrocinio; e sono pur cari i tugurii così protetti da te! Si crucci a sua posta il viaggiatore arso affannato, e si disacerbi in doglianze contro alle improvvise tortuosità ed i pericoli de' vostri sentieri - e contro alle rocce - ed a' precipizii - e alla noia dell'erta - e al ribrezzo della discesa- e contro alle vostre disastrose montagne - e alle cateratte che spalancando nuove voragini straMarco (in Firenze) gli faceva ballare e saltare, e mettere in ballo tondo pigliandosi per mano un frate e un cittadino, e cantavano a ballo canzoni spirituali composte da Girolamo Benivieni, che tra gli scrittori di rime toscane in que' tempi fu molto lodato ,, - Nerli, comment. lib. IV. an. 1497.1 - Inoltre lessi nel vocabolario di Santa Caterina alla voce presta: «Che nella diocesi di Siena raccoglievansi diverse brigate di contadini e di contadinelle a cantar Maggio, e alla fine del mese solevano nella piazza delle chiese parrocchiali celebrare una danza solenne, tassando per ciaschedun ballo i giovani in una crazia o un soldo, e di quel danaro crescevano l'offerta alla chiesa, e talora ne facevano la dote per una delle fanciulle maggiaiuole. Un arcivescovo aboH questo rito ».2 Eppure anche S. Francesco ballava co' suoi frati. V. Fioretti.3 1. Commentarii de' fatti civili occorsi dentro la città di Firenze dal'Anno I2I5 al I537, scritti dal Senatore FILIPPO DB' NERLI gentiluomo fiorentino, Augusta, Mertz e Mayer, 1728, p. 751 con omissioni. 2. Vocabolario Cateriniano di GIROLAMO GIGLI, Roma 1717, p. CLXXXVII, con varianti e omissioni. 3. Non mi è stato possibile riscontrare nei Fioretti quanto asserito dal Foscolo. VIAGGIO SENTIMENTALE (1813) 899 scinano da' burroni quegli sterminati macigni che gli precludono il passo - Anch'io quando vi giunsi, vidi gli alpigiani che sino dall'alba sudavano a sgombrare la strada d'uno di que' frammenti dell'alpe tra San Michele e Modàna,1 e per aver l'adito non bastavano forse due altre lunghe ore di stenti - ma io mi contentai del rimedio dell'aspettare e della pazienza - se non che la notte annuvolavasi burrascosa, e indusse il mio vetturale che vedeva l'indugio, a pernottare, cinque miglia di qua dalla sua consueta posata, in un pulito alberghetto ch'era di poco fuor della strada. E immediatamente pigliai possesso della mia stanza da letto feci gran vampa di fuoco - chiesi da cena - e ringraziai la Provvidenza che non mi avesse fatto capitar peggio - allorché soprarrivò la carrozza d'una signora con la sua cameriera. L'ostessa senza star molto su i convenevoli, le condusse nella mia camera, ch'era a dir vero la sola di tutto quell'alberghetto nella quale si potesse dormire. Ed entrando diceva loro, che non v'era nessuno, fuorché un gentiluomo inglese - ma che v'erano due buoni letti, ed un altro nell'attiguo stanzino - e l'accento con che raccomandava il letto dello stanzino non pareva di buon augurio - comunque fosse, l1 ostessa diceva che v'erano tre persone e tre letti - e si riprometteva che il signore non avrebbe guastate le cose - Per non dar tempo a' disegni della signora, dichiarai, ch'io dal mio canto avrei fatto quel più ch'io poteva. Il che non importava l'assoluta rinunzia della mia camera; anzi volli adempiere a' doveri dell'ospitalità - e pregai la signora che s'accomodasse - e la ripregai finché accettò la sedia prossima al fuoco - ordinai doppia legna - e mi raccomandai per cena più larga alla ostessa, e perché ci favorisse una bottiglia del suo miglior vino. La signora, rifocillatasi appena per cinque minuti, cominciò a torcere il collo, e riguardava i due letti; e di volta in volta i suoi sguardi tornavano più perplessi - ed io era travagliato per essa - e per me - poiché in pochissimo tempo quelle sue occhiate, e il caso in sé, mi mettevano in grande pensiero. E l'avere a dormire in due letti d'una medesima stanza, bastava ad angustiare l'anime nostre - ma la loro situazione (perché erano paralleli e divisi da sì angusto intervallo che al più ci capiva una scranna di paglia) ci angustiava assai peggio - inoltre que' letti non erano discosti dal fuoco, e lo sporto del camminetto da un lato, e 1. San ••• Modàna: Saint-Michel e Modane, villaggi della Savoia. goo PROSE dall'altro una trave massiccia che attraversava la camera, gli appartavano in una specie di alcova assai dissonante da' nostri pensieri a tanti inconvenienti s'aggiungeva, pur troppo! la picciolezza de' letti; insormontabile impedimento; talché fin anche il compenso che le due donne si coricassero insieme riesciva disperatissima cosa - e benché non fosse da desiderarsi - il compenso non era poi si terribile che la loro fantasia non potesse almeno per una sola notte accomodarvisi. Poca o nessuna consolazione recava a noi lo stanzino; freddo, umido, con un'imposta del balcone sdruscita preda del vento, e con le finestre inermi di vetri, o di carta ogliata contro la tempesta e la notte. Né io, mentre la signora le andava considerando, rattenni per civiltà la mia tosse. Dunque: La necessità riduceva la signora a questi termini - O di posporre la salute al pudore, e contentarsi dello stanzino, rinunziando alla cameriera il letto prossimo al mio - O di confinare nello stanzino la cameriera ec. ec. La signora era piemontese, presso ai trent'anni, e con guance incarnate dalla salute - la cameriera n'avea quasi venti, ed era lionese, briosa negli atti ed agevole al pari di qualunque fanciulla francese - e l'una e l'altra pendevano tra il sì, il no, il ma, il se, il forse - talché il macigno che ci aveva tanto impacciati lungo la via, e dava tanto da sudare a chi si provava di smoverlo, paragonato alPimpedimento presente, pareva una piuma - Restami solo da dire, che l'oppressione del nostro spirito era aggravata dalla delicatezza la quale non ci permetteva di spassionarci scambievolmente della nostra tribolazione. Cenammo; e se non si fosse bevuto fuorché del vino generoso che un alberghetto di Savoia può dare, le nostre lingue si sarebbero rimaste impedite finché la necessità non le avesse di propria mano snodate. Ma la signora aveva parecchie bottiglie di Borgogna nella vettura, e mandò la cameriera a recarne un paio. Pertanto quando fu sparecchiato, e ci siamo trovati a quattr'occhi, quel nuovo calore ci diede spirito di palesarci, non foss'altro, liberamente l'angustie dello stato nostro, e di conferire fra noi due per venire a composizione. E si sono ventilati, agitati, considerati punto per punto tutti i termini dell'accordo; e dopo due ore e più forse di andirivieni ci venne fatto di concludere e di stipulare a guisa di trattato i capitoli -.né credo che veruno fra quanti trattati meritarono d'es- VIAGGIO SENTI~ENTALE (1813) 901 sere conservati alla memoria de' posteri, sia stato mai stipulato né con più lealtà, né con più timorata coscienza da ambe le parti. Gli articoli furono: I. Il signore, come possessore della camera, stimando che il letto prossimo al camminetto debba essere più caldo, pretende che sia occupato dalla signora. Accettasi dalla signora: con che le cortine di esso letto (perché sono di bambagia assai rada, e troppo misere a chiudere convenientemente) siano dalla cameriera o appuntate con lunghi spilloni, o cucite con ago e refe, in guisa che appongano argine competente a' confini del signore. 11. La signora pretende che il signore si corichi ravviluppato tutta notte nella sua veste da camera. Ricusasi: tanto più che il signore non possede vesta da camera, e non ha nella sua valigia fuorché sei camicie, ed un paio di brache di seta nera. L'aver mentovato le brache, mandò sossopra rarticolo - e furono richieste in compenso della vesta da camera; laonde si stipulò ch'io dormissi con le mie brache di seta nera. 111. La signora pretende, e sarà stipulato, che non sì tosto il signore giacerà a letto, e la candela ed il foco saranno spenti, egli non dirà per tutta quanta la notte una sola parola. Accettasi: salvo che quando il signore dirà le sue devozioni, ciò non s'apponga a violazione del trattato. S'era trasandato un unico punto di poco rilievo, ed è: in che modo ci saremmo spogliati, e coricati ne' nostri letti- or non v'era che un modo solo; però il lettore può immaginarlo da sé; protesto bensl che ov'ei trapassasse i termini della verecondia naturale, e non ne imputasse la colpa alla sua fantasia, io me ne richiamerò solennemente - la qual mia doglianza non è già la prima, né l'unica.• Or poiché ciascheduno fu sotto le coltri, io - fosse la novità - o che si fosse - noi so; ma io mi giaceva a occhi spalancati, e cercava il sonno di qua, e di là - e mi voltava, e smaniava, e mi rivoltava suonò mezzanotte - e poi un'ora - la natura e la pazienza erano agli estremi - O Gesù mio! dissia) Vedi la nota a al cap. x.1 1. Qui a p. 789. PROSE -Avete rotto l'accordo, disse la signora, la quale anch'essa non aveva chiuso mezz'occhio. Le domandai tante e tante scuse - ripetendo tuttavia che la mia era una iaculatoria, né più né meno - e la signora si puntigliava a rispondere, ch'io aveva rotto irremissibilmente l'accordo; ed io le andava dicendo, che no; e me ne appellava alla clausola dell'articolo 111. Ma mentre la signora voleva vincere il suo punto, disarmava da per sé le proprie barriere; perché nell'ardore del diverbio mi giunse all'orecchio il tentinnio di tre o quattro spilloni che cascando sullo spazzo,1 lasciavano aperta una breccia nelle cortine. In buona fede, e sull'onor mio, signora mia, neppure per un diadema - e stesi in via d'asserzione il mio braccio fuori del letto (e voleva dire che non avrei neppure minimamente peccato, quand'anche mi fosse promesso un diadema, contro al decoro) se non che la cameriera intendendo che si veniva a parole, e dubitando non si trascorresse alle ostilità, sbucò furtiva del suo stanzino, e brancicando alla meglio per quell'oscurissimo buio, penetrò chiotta chiotta nello stretto che separava i due letti, e si fe' tanto innanzi che si trovò per l'appunto tra la signora e me - così - Che la mia mano sporgendosi stesa pigliò la cameriera per E Yorick continuava l'itinerario d'Italia, ma essendosi intorno alla fine del I767 partito dal suo romitorio di Coxwould nella contea d' Yorck, per dare alle stampe questo volume in Londra, vi morì dopo due mesi: né poté, com'egli aveva da più anni desiderato, lasciare le sue ossa al campo santo della propria parrocchia con l'epitaffio: AHI · POVERO • YORICK Giace in un cimitero di Londra presso una lapide con 1111a iscrizione che suona: QUI • PRESSO RIPOSA • IL • CORPO DEL • REVERENDO • LORENZO • STERNE • M. A. MORTO • L'ANNO • MDCCLXVIII DELLA • E. S. LIII AH MOLLITER OSSA QUIESCANT 1. spazzo: pavimento. NOTIZIA INTORNO A DIDIMO CHIERICO 1. Un nostro concittadino mi raccomandb, mentr'io militava fuori d'Italia, tre suoi manoscritti affinché se agli uomini dotti parevano meritevoli della stampa, io ripatriando li pubblicassi. Egli andava pellegrinando per trovare un'università, «dove s'imparasse a comporre libri utili per chi non è dotto, ed innocenti per chi non è per anche corrotto; da che tutte le scuole, com'ei dicevami, erano piene o di matematici, i quali standosi muti s'intendevano fra di loro; o di grammatici che ad alta voce insegnavano il bel parlare e non si lasciavano intendere ad anima nata; o di poeti che impazzavano1 senza far né piangere, né ridere il mondo, e perb come fatui noiosi, furono più giustamente d'ogni altro esiliati da Socrate, il quale, secondo Didimo, era dotato di spirito profetico, specialmente per le cose che accadono all'età nostra)). II. L'uno de' manoscritti è di forse trenta fogli col titolo: Didymi clericiprophetae minimiliber unicus:a e sa di satirico. I pochi a' quali lo lasciai leggere, alle volte ne risero; ma non s'assumevano d'interpretarmelo. E mi dispongo a lasciarlo inedito per non essere liberale di noia a molti lettori che forse non penetrerebbero nessuna delle trecento trentatré allusioni racchiuse in altrettanti versetti scritturali, di cui l'opuscoletto è composto. Taluni fors'anche, presumendo troppo del loro acume, starebbero a rischio di parere comentatori maligni. Perb s'altri n'avesse copia la serbi. 11 farsi ministri degli altrui risentimenti, benché giusti per avventura, è poca onestà; massime quando paiono misti al disprezzo che la coscienza degli scrittori teme assai più dell'odio. 111. Bensì gli uomini letterati, che Didimo scrivendo nomina Maestri miei, lodarono lo spirito di veracità e d'indulgenza d'un altro suo manoscritto da me sottomesso al loro giudizio. E nondimeno quasi tutti mi vanno dissuadendo dal pubblicarlo; e a taluno piacerebbe ch'io lo abolissi. È un giusto volume dettato in greco nello stile degli Atti degli Apostoli, ed ha per titolo: at8oµou XÀ'r)pt>V ~t~)J« 1t!v-re: e suona Didymi clerici libri 1. impazzavano: nella ristampa zurighese della Notizia, di seguito si legge: •a stordire chi non li udiva, e a dire il benvenuto a ogni nuovo padrone de' popoli senza» ecc. (Edizione Nazionale. v, p. 173). 2. L'uno •• . unicw: l'Hypercalyps,os liber singularis (qui alle pp. 921-1010). PROSE memoria/es quinque. L'autore descrive schiettamente i casi per lui memorabili dell'età sua giovenile1 educata dagli uomini letterati. lVlalgrado la sua naturale avversione contro chi scrive per pochi, ei dettò questi ricordi in lingua nota a rarissimi, affinché, com'ei dice, i soli colpevoli vi leggessero i propri peccati, senza scandalo delle persone dabbene, le quali non sapendo leggere che nella propria lingua, sono men soggette all'i·nvidia, alla boria, ed alla VENALITÀ: ho contrassegnata quest'ultima voce, perché è mezzo cassata nel manoscritto. L'autore inoltre mi diè l'arbitrio di far tradurre quest'operetta, purché trovassi scrittore italiano che avesse più merito che celebrità di grecista. E siccome, dicevami Didimo, uno scrittore di tal peso lavora prudentemente a bell'agio e con gravità, i maestri miei avranno frattanto tempo, o di andarsene in pace, e non saranno pi'ù nominati né in bene né in male; o di ravvedersi di quegli errori, attraverso de' quali' noi mortali giungiamo talvolta alla saviezza. Farò dunque che sia tradotto; e quanto alla stampa, mi governerò secondo i tempi, i consigli e i portamenti degli uomini dotti. IV. Tuttavia, affinché i lettori abbiano saggio dell'operetta greca, ne feci tradurre parecchi passi, e li ho, quanto più opportunamente potevasi, aggiunti alle postille notate da Didimo nel suo terzo manoscritto, dove si contiene la versione del Viaggio sentimentale di Yorick; libro più celebrato che inteso; perché fu da noi letto in francese, o tradotto in italiano da chi non intendeva l'inglese: della versione uscita di poco in Milano,2 non so. Innanzi di dar alle stampe questa di Didimo, ricorsi nuovamente a' letterati pel loro parere. Chi la lodò, chi la biasimò di troppa fedeltà; altri la lesse volentieri come liberissima; e taluno s'adirò de' troppi arbitrii del traduttore. Molti, e fu in Bologna, avrebbero desiderato lo stile condito di sapore più antico: moltissimi, e fu in Pisa, mi confortavano a ridurla in istile moderno, depurandola sopra ogni cosa de' modi troppo toscani; finalmente in Pavia nessuno si degnò di badare allo stile; notarono nondimeno con geometrica preci- 1. giovmile: nella ristampa zurighese della Notizia, di seguito si legge: «parla di tre donne delle quali fu innamorato; e accusando sé solo delle loro colpe, ne piange; parla de' molti paesi da lui veduti, e si pente d'averli veduti: ma più che d'altro si pente della sua vita perduta fra gli uomini letterati; e mentre par ch'ei gli esalti, fa pur sentire ch'ei li disprezza. Malgrado i ecc. (Edizione Nazionale, v, p. 174). 2. della versione ... Milano: si tratta del Viaggio sentimentalefatto i11 Francia da LORENZO STERNE. Versione dell'originale inglese, Milano, Dalla Tipografia di Giov. Gius.e Destefanis, 1812. NOTIZIA INTORNO A DIDIMO CHIERICO (1813) 905 sione alcuni passi bene o male intesi dal traduttore. Ma io stampandola, sono stato accuratamente all'autografo: e solamente ho mutato verso la fine del capo xxxv un vocabolo;• e un altro n'ho espunto dall'intitolazione del capo seguente:2 perché mi parve evidente che Didimo contro l'intenzione dell'autore inglese offendesse, nel primo passo il Principe della letteratura fiorentina moderna,3 e nell'altro i nani innocenti della città di Milano. v. Di questo libro, Didimo mi disse due cose, (da lui taciute, né so perché, nell'epistola a' suoi lettori) le quali pur giovano a intendere un autore oscurissimo anche a' suoi concittadini,a e a giudicare con equità de' difetti del traduttore. La prima si è: (< Che con nuova specie d'ironia, non epigrammatica, né suasoria, ma candidamente ed affettuosamente storica, Yorick da' fatti narrati in lode delle persone, deriva lo scherno contro molti difetti, segnatamente contro la fatuità del loro carattere». L'altra: «Che Didimo benché scrivesse per ozio, rendeva conto a sé stesso d'ogni vocabolo; ed aveva tanto ribrezzo a correggere le cose una volta stampate (il che, secondo lui, era manifestisnma irriveren:za a' lettori) che viaggiò in Fiandra a convivere con gli inglesi, i quali vi si trovano anche al dì d'oggi, onde farsi spianare molti sensi intricati; e lungo il viaggio si soffermava per l'appunto negli alberghi di cui Yorick parla nel suo itinerario, e ne chiedeva notizie a' vecchi che lo avevano conosciuto; poi si tornò a stare a dimora nel contado tra Firenze e Pistoia, a imparare migliore idioma di quello che s'insegna nelle città e nelle scuole». VI. Ora per gli uomini dotti, i quali furono dalla lettura di que' manoscritti invogliati di sapere notizie del carattere e della vita di Didimo, e me ne richiedono istantemente, scriverò le scarse, ma veracissime cose che io so come testimonio oculare. Giova ad ogni modo premettere tre avvertenze. Primamente: avendolo io veduto per pochi mesi e con freddissima famigliarità, non ho potuto notare (il che avviene a parecchi) se non le cose più consonanti odissonanti co' sentimenti e le consuetudini della mia vita. Secondo: de' vizii a) On the moral tendency of the writings of Sterne. Knox, Essays moral and literary. Voi. III. N.0 145.4 1. solamente .•. vocabolo: vedi la nota b a p. 832. 2. e un altro .•. seguente: vedi la nota da p. 833. 3. Principe .•. moderna: Anton Maria Salvini, per il quale vedi la nota 3 a p. 348. 4. V. KNox, Essays Moral and Literary, Londori 1787, voli. 3. 906 PROSB e delle virtù capitali che distinguono sostanzialmente uomo da uomo, se pure ei ne aveva, non potrei dir parola: avresti detto ch'egli lasciandosi sfuggire tutte le sue opinioni, custodisse industriosamente nel proprio segreto tutte le passioni dell'animo. Finalmente: citerò sempre le parole di Didimo, poiché essendo un po' metafisiche, ciascheduno degli uomini dotti le interpreti meglio di me, e le adatti alle proprie opinioni. vn. Teneva irremovibilmente strani sistemi;1 non però disputava a difenderli; e per apologia a chi gli allegava evidenti ragioni, rispondeva in intercalare: OPINIONI. Portava anche rispetto a' sistemi altrui, o fors'anche per non curanza, non movevasi a confutarli; certo è ch'io in si fatte controversie, lo ho veduto sempre tacere, ma senza mai sogghignare, e l'unico vocabolo, opinioni, lo proferiva con serietà religiosa. A me disse una volta: Che la gran vallr è intersecata da molte viottole-tortuosissime, e chi non si contenta di camminare sempre per una sola, vive e muore perplesso, né a"iva mai a un luogo dove tutti que' sentieri conducono l'uomo a vivere in pace seco e con gli altri.3 Stimava fra le doti naturali all'uomo, primamente la bellezza; poi la forza dell'animo; ultimo l'ingegno. Delle acquisite, come a dire della dottrina, non facea conto se non erano congiunte alla rarissima arte d'usarne. Lodava la ricchezza più di quelle cose ch'essa può dare; e la teneva vile, paragonandola alle cose che non può dare. Dell'amore aveva in un quadretto un'immagine simbolica, diversa dalle solite de' pittori e de' poeti, su la quale egli aveva fatta dipingere l'allegoria di un nuovo sistema amoroso.• Uno de' cinque libri de' quali è composto il manoscritto greco citato poc'anzi ha per intitolazione: Tre Amori.5 1. sistemi: nella ristampa zurighese della Notizia, di seguito si legge: •e parevano nati con esso: non solo non li smentiva co' fatti; ma come fossero assiomi, proponevali senza prove: non però,, ccc. (Edizione Nazionale, v, p. 177). 2. valle: nella ristampa zurighese della Notizia, è aggiunto: «della vita». 3. altri: nella ristampa zurighese della Notizia, di seguito si legge: «Non trattasi di sapere quale sia la vera via,· bensì di tenere per vera ,ma sola, e andar sempre innanzi. Stimava» ecc. (ibid.). 4. amoroso: nella ristampa zurighese della Notizia, di seguito si legge: "ma tenea quel quadretto coperto sempre d'un velo nero. Uno» ecc. (Edizione Nazionale, v, p. 178). 5. Amori: nella ristampa zurighese della Notizia, di seguito si legge: 11 E i tre capitoli di esso libro incominciano: Rimorso primo; Rimorso secondo; Rimorso terzo: e conclude: Non essere l'amore se 110n se inevitabili tenebre corporee le quali si disperdono più o men tardi da sé: ma dove la religione, la filosofia o la virt,ì vogliano diradarle o abbellirle del loro lume, allora quelle tenebre ravviluppano l'anima, e la condr,cono per la via della virtù a perdizione. Riferisco le parole; altri intenda» (ibid.). NOTIZIA INTORNO A DIDIMO CHIERICO (1813) 907 VIII. Da' sistemi e dalla perseveranza con che li applicava al suo modo di vivere, derivavano azioni e parole degne di riso. Riferirb le poche di cui mi ricordo. Celebrava don Chisciotte come beatissimo, perché s'illudeva di gloria1 e d'amore.2 Cacciava i gatti perché gli parevano più taciturni degli altri animali; Ii lodava nondimeno perché profittavano della società come i cani e della libertà quanto i gufi. Teneva gli accattoni per più eloquenti di Cicerone nella parte della perorazione, e periti fisionomi assai più di Lavater.3 Non credeva che chi abita accanto a un macellaro, o su le piazze de' patiboli fosse persona da fidarsene. Credeva nell'ispirazione profetica, anzi presumeva di saperne le fonti. Incolpava il berretto, la vesta da camera e le pantofole de' mariti della prima infedeltà delle mogli. Ripeteva (e ciò più che riso moverà a sdegno) che la favola d'Apollo scorticatore atroce di Marsia era allegoria sapientissima non tanto della pena dovuta agl'ignoranti prosontuosi, quanto della vendicativa invidia de' dotti. Su di che allegava Diodoro Siculo lib. III n. 59,4 dove, oltre la crudeltà del vincitore, si narrano i bassi raggiri co' quali ei si procaccib la vit- toria.5 IX. E non dava migliori saggi del suo sapere. Asseriva, che le scienze erano una serie di proposizioni le quali aveano bisogno di dimostrazioni apparentemente evidenti ma sostanzialmente incerte, 1. gloria: nella ristampa zurighese della Notizia, di seguito si legge: ttscevra d'invidia; e d'amore 11 ecc. (Edizione Nazionale, v, p. 178). 2. amore: nella ristampa zurighese della Notizia, di seguito si legge: «scevro di gelosia. Cacciava» ecc. (ibid.). 3. Johann Kaspar Lavater (ZUrich 15 novembre 1741ivi 2 gennaio 1801). 4.Diodoro ... 59: vedi v, 75, J (dell'edizione Loeb, 111, London, Heinemann, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1939). 5. vittoria: nella ristampa· zurighese della Notizia, di seguito si legge: • Ogni qual volta incontrava de' vecchi sospirava esclamando: Il peggio è vi'Ver troppo! e un giorno, dopo assai nùe preghiere, me ne disse il perché: La tJecchiaia sente con atterrita Coscienza i rimorsi, quando al mortale non rimane tJigore, né tempo d'emendar la sua 'Vita. Nel proferire queste parole, le lagrime gli piovenno dagli occhi, e fu l'unica volta che lo vidi piangere; e seguitò a dire: Ahi! la Coscienza è codarda! e q,,ando tu se' forte da poterti correggere, la ti dice il tJero sottoooce e palliandolo di recriminazioni contro la fortuna ed il prossimo: e qua11do poi tH se' debole, la ti rinfaccia con disperata supersti::io1Je, e la ti atterra sotto il peccato, in g11isa che tr, non puoi risorgere alla tJirtù. O codarda! non ti pentire, o codarda! Bensl paga il debito, facendo del bene otJe hai fatto del male. Ma tr, se' codarda; e non sai che o sofisticare, o angosciarti. -Quel giorno io credeva che volesse impazzare: e stette più d'una settimana a lasciarsi vedere in piazza. Sì fatti erano i suoi paradossi morali• (Edizione Nazionale, v, p. 179). 908 PROSE perché le si fondavano spesso sopra un princ1p10 ideale: che la geometria, non applicabile alle arti, era una galleria di scarne definizioni; e che, malgrado l'algebra, resterà scienza imperfetta e per lo più inutile finché non sia conosciuto il sistema incomprensibile dell,Universo.1 Sosteneva che le Arti possono più che le scienze far utile il vero a' mortali; e che la vera sapienza consiste nel giovarsi di quelle poche verità che sono certissime, perché o sono dedotte da una serie lunga di fatti, o sono sì limpide che non hanno bisogno di dimostrazioni scientifiche. M,accorsi che leggeva quanti libri gli capitavano sott,occhio; ma non rileggeva da capo a fondo fuorché la Bibbia. Degli autori ch,ei credeva degni d'essere studiati, aveva tratte parecchie pagine, e ricucitele in un solo grosso volume. Sapeva a memoria molti versi di antichi poeti e tutto il poema delle georgiche. Era devoto di Virgilio; nondimeno diceva: che s'era fatto prestare ogni cosa da Omero, dagli occhi in fuori, negati dalla natura ad Omero, e conceduti bellissimi e acuti a Virgilio.2 D'Omero aveva un busto e se lo trasportava di paese in paese.3 Cantava, e s'intendeva da per sé, quattro odi di Pindaro. Diceva che Eschilo era un bel rovo infuocato sopra un monte deserto; e Shakspeare, una selva incendi"ata che faceva bel vedere di notte, e che mandava fumo noioso di giorno. Paragonava Dante ad un gran lago circo11dato di burroni e di selve sotto un cielo oscurissimo, sul quale si poteva andare a vela in burrasca; e che il Petrarca lo derivò in tanti canali tranquilli ed ombrosi, dove possano sollazzarsi legondole degli i'nnamorati co' loro strumenti,· 1. Universo: nella ristampa zurighese della Notizia, di seguito si legge: •L'umana ragione, diceva Didimo, si travaglia n, le mere astrazioni; piglia le mosse, e senza a'VfJedersi a principio, dal nulla; e dopo l11nghissimo viaggio si torna a occhi aperti e atterriti nel nulla: e al nostro intelletto la SOSTANZA della Natura ed il NULLA furono sono e saranno sinonimi. Bensi le arti non solo imitano ed abbelliscono le APPARENZE della Natura, n,a possono insieme f arie rivivere agli occhi di chi le vede o vanissime o fredde; e ne' poeti de' quali mi vo ricordando a ogni tratto, porto meco una galleria di q11adri i quali mi fanno osservare le parti più belle e più animate degli originali e/re trovo su la mia strada,· ed io spesso li trapasserei senza accorgermi cJi'e' mi stanno tra' piedi per a'VVertirmi con mille nuove sensazioni ch'io vivo. E però Didimo sosteneva• ecc. (Edizione Nazionale, v, pp. 179-80). 2. negati . .. Virgilio: nella ristampa zurighese della Notizia il passo è soppresso (Edizione Nazionale, v, p. 180). 3.paese: nella ristampa zurighesc della Notizia, di seguito si legge: u e v'avea posto per iscrizione due versi greci che suonavano: A costui fu assai di cogliere la verginità di tutte le Muse: e lasciò pt1r gli altri le altre bellezze di quelle Deità. Cantava• ecc. (Edizione Nazionale, v, p. 180). NOTIZIA INTORNO A DIDIMO CHIERICO (1813) 909 e ve ne sono tante, che que' canali, diceva Didimo, sono oramai torbidi, o fatti gore stagnanti: tuttavia s'egli intendeva una sinfonia e nominava il Petrarca, era indizio che la musica era assai bella. Maggiore stranezza si· era il panegirico eh'ci faceva di certo poemetto latino1 da lui anteposto perfino alle georgiche, perché, diceva Didimo, mi par d'essere a nozze con tutta l'allegra comitiva di Bacco. Didimo per altro beveva sempre acqua pura. Aveva non so quali controversie con l'Ariosto, ma le ventilava da sé; e un giorno mostrandomi dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali l'Oceano rompea sulla spiaggia, gridò: Così vien poetando l'Ariosto. Tornandosi meco verso le belle colonne che adornano la cattedrale di quella città, si fermò sotto il peristilio, e adorò. Poi volgendosi a me, mi diede intenzione che sarebbe andato alla questua a pecuniare tanto da erigere una chiesa al PARACLETO e riporvi le ossa di Torquato Tasso; purché nessun sacerdote che insegnasse grammatica potesse ufficiarvi.2 Nel mese di giugno del 1804 pellegrinò da Ostenda sino a Montreuil per gli accampamenti italiani; ed a' militari, che si dilettavano di ascoltarlo, diceva certe sue omelie all'improvviso, pigliando sempre per testo de' versi dell'epistole d'Orazio. Richiesto da un ufficiale, perché non citasse mai le odi di quel poeta, Didimo in risposta gli regalò la sua tabacchiera fregiata d'un mosaico d'egregio lavoro, dicendo: Fu fatto a Roma d'alcuni frammenti di pietre preziose dissotterrate in Lesbo. x. Ma quantunque non parlasse che di poeti, Didimo scriveva in prosa perpetuamente; e se ne teneva. Scriveva anche arringhe, e faceva da difensore ufficioso a' soldati cofpevoli sottoposti a consigli di guerra; e se mai ne vedeva per le taverne, pagava loro da bere, e spiegava ad essi il Codice militare. Oltre ai tre manoscritti raccomandatimi, serbava parecchi suoi scartafacci; ma non mi lasciò leggere se non un solo capitolo di un suo Itinerario lungo la Repubblica Letteraria. In esso capitolo descriveva «un'implacabile guerra tra le lettere dell'abbiccl, e le cifre arabiche, le quali finalmente trionfarono con accortissimi stratagemmi, tenendo ostaggi l'a, la h, la x che erano andate ambasciadori,. e quindi furono tiran- 1. poemetto latino: probabilmente il carme LXIV di Catullo (Le nozze di Teti e Peleo). 2. ufficiarvi: nella ristampa zurighese della Notizia, di seguito si legge: •e nessun fiorentino accademico della Crusca appressarvisi. Nel mese» ecc. (Edizione Nazionale, v, p. 181). 910 PROSE nicamente angariate con inesprimibili e angosciose fatiche». Dopo il desinare, Didimo si riduceva in una sua stanza appartata a ripulire i suoi manoscritti ricopiandoli per tre volte. Ma la prima composizione, com'ei diceva, la creava all'opera seria o in mercato. Ed io in Calais lo vidi per più ore della notte a un caffè, scrivendo in furia al lume delle lampade del biliardo, mentr'io stava giocandovi, ed ei sedeva presso ad un tavolino, intorno al quale alcuni ufficiali questionavano di tattica, e fumavano mandandosi scambievolmente de' brindisi. Gl'intesi dire: Che la vera tribolazione degli autori veniva, a chi dalla troppa economia della penuria, e a chi dallo scialacquo dell'abbondanza; e eh'egli aveva la beatitudine di potere scrivere trenta fogli allegramente di pianta; e la maledizione di volerli poi ridurre in tre soli, come a ogni modo, e con infinito sudore faceva sempre. XI. Ora dirò de' suoi costumi esteriori. Vestiva da prete; non però assunse gli ordini sacri; e si faceva chiamare Didimo di nome, e chierico di cognome; ma gli rincresceva sentirsi dar dell'abate.1 Fuor dell'uso de' preti, compiacevasi della compagnia degli uomini militari. Viaggiando perpetuamente, desinava a tavola rotonda con persone di varie nazioni; e se taluno (com'oggi s'usa) professavasi cosmopolita, egli si rizzava senz'altro. S'addomesticava alle prime; benché con gli uomini cerimoniosi parlasse asciutto; ed a' ricchi pareva altero; evitava le sette e le confraternite; e seppi che ricusò due patenti accademiche. Usava per lo più ne' crocchi delle donne, per ch'ei le reputava più liberalmente dotate dalla natura di compassi.one e di pudore,· due forze padfiche le quali, diceva Didimo, temprano sole tutte le altre forze guerriere del genere umano. Era volentieri ascoltato, né so dove trovasse materie, perché alle volte chiacchierava per tutta una sera, senza dire parola di politica, di religione, o di amori altrui. Non interrogava mai per tzon indurre, diceva Didimo, le persone a dir la bugia: e alle interrogazioni 1. abate: nella ristampa zurighese della Notizia, di seguito si legge: s Richiestone, mi rispose: La fortuna m'avviò da fanciullo al chiericato; poi la natura mi ha deviato dal sacerdozio: mi sarebbe rimorso l'andare innanzi, e vergogna il tornarmene addietro: e perché io tanto quanto disprezzo clii mrlla istituto di vita, mi porto in pace la mia to11sura e questo mio abito nero: cosi posso o ammogliarmi, o aspirare ad u,r vescovato: Gli chiesi a quale de' due partiti s'appiglierebbe. Rispose: Non ci ho pensato; a chi non ha patria non istà bene l'essere sacerdote, né padre. Fuor » ecc. (Edizione Nazionale, v, pp. 182-3). NOTIZIA INTORNO A DIDIMO CHIERICO (1813) 91 I rispondeva proverbi o guardava in viso chi gli parlava.• Accoglieva lietissimo nelle sue stanze: al passeggio voleva andar solo, o parlava a persone che non aveva veduto mai, e che gli davano nell'idea: e se alcuno de' suoi conoscenti accostavasi a lui, si levava di tasca un libretto, e per primo saluto gli recitava alcuni squarci di traduzioni moderne de' poeti greci; e rimanevasi solo. Usava anche sentenze enigmatiche. Nessun frizzo; se non una volta, e per non ricaderci, rilesse i quattro evangelisti. Ma di tutti questi capricci e costumi di Didimo, s'avvedevano gli altri assai tardi; perch'ei non li mostrava, né li occultava; onde credo che venissero da disposizione naturale. XII. Dissi che teneva chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana. A chi gli offeriva amicizia, lasciava intendere che la colla cordiale per cui l'uno s'attacca ali'altro, l'aveva già data a que' pochi eh'erano giunti innanzi. Rammentava volentieri la sua vita passata, ma non m'accorsi mai eh'egli avesse fiducia ne' giorni avvenire o che ne temesse. Chiamavasi molto obbligato a un don Jacopo Annoni2 curato, a cui Didimo aveva altre volte servito da chierico nella parrocchia d'lnverigo,3 e I. parlava: nella ristampa zurighese della Notizia, di seguito si legge: «Non partecipava né una dramma del suo secreto ad anima nata: Perché, diceva Didimo, il mio secreto è la sola proprietà sulla terra ch'io degni di chiamar mia, e che divisa nuocerebbe agli altri ed a me. Né pativa d'essere depositario degli altrui secreti: Non ch'io non mi fidi di serbargli inviolati; ma avviene che a volere scampare dalla perdizione qualche persona m'è pure necessità a rivelare alle volte il secreto che m'ha confidato: tacendolo, la mia fede riescirebbe sinistra; e manifestandolo, m'avvilirei davanti a me stesso. Accoglieva II ecc. (Edizione Nazionale, v, p. 183). 2. Jacopo Annoni: si tratta di Giacomo Antonio Annone, parroco di Son Cassiano (comune di Buccinigo, presso Erba), morto il 12 gennaio 1816, all'età di 74 anni, amico oltre che del Foscolo, di Rocco Marliani, Giuseppe Bossi e Vincenzo Monti. Su tutto ciò vedi F. ScoLARI, Chi è il C11rato amico di Didimo chierico, nel« Corriere della Sera», del 2 agosto 1927. Il personaggio è anche altrimenti noto, per essere citato in una postilla ad una nota bibliografica al Misogallo, registrata dal Foscolo nel risguardo di un esemplare dell'opera alfieriana posseduto da Carlo Porta {ora all'Archivio Storico Civico di Milano, Raccolta Portiana x 3), dove si legge: «Nota scritta il dl 10 ottobre 1814, a Milano in casa Porta, nel gabinetto di Carlo Porta, illustre poeta meneghino, presente la bella annetta, detta Straf/11i, d'anni due, mesi dieci, giorni cinque, castissima innamorata di me scrittore Didimo chierico discepolo del Reverendo Jacopo Annoni, curato di buona mem[ori]a » {in Le lettere di CARLO PORTA e degli amici della Cameretta, a cura di D. !sella, Milano-Napoli, Ricciardi, 1967, p. 149). 3. Inverigo: in un abbozzo della Notizia si legge: 11 Nocqui di parenti contadini nel monte de' cipressi, detto Inverigo, tra il fiume Adda e Milano [, ..] » {Edizione Nazionale, v, p. 231, nota a). 912 PROSE stando fuori di patria, carteggiava unicamente con esso. Mostravasi gioviale e compassionevole, e benché fosse alloramai intorno a' trent'anni, aveva aspetto assai giovanile; e forse per queste ragioni Didimo tuttoché forestiero, non era guardato dal popolo di mal occhio, e le donne passando gli sorridevano, e le vecchie si soffermavano accanto a una porticciuola a discorrere seco, e tutti i bambini, de' quali egli si compiaceva, gli correvano lietissimi attorno. Ammirava assai: ma più con gli occhiali, diceva egli, che col telescopio: e disprezzava con taciturnità sì sdegnosa da far giusto e irreconciliabile il risentimento degli uomini dotti. Aveva peraltro il compenso di non patire d'invidia, la quale, in chi ammira e disprezza non trova mai luogo.1 XIII. Insomma pareva uomo che essendosi in gioventù lasciato governare dall'indole sua naturale, s'accomodasse, ma senza fidarsene, alla prudenza mondana. E forse aveva più amore che stima per gli uomini, però non era orgoglioso né umile. Parea verecondo, perché non era né ricco né povero. Forse non era avido né ambizioso, perciò parea libero. Quanto all'ingegno, non credo che la natura l'avesse moltissimo prediletto, né poco. Ma l'aveva temprato in guisa da non potersi imbevere degli altrui insegnamenti; e quel tanto che produceva da sé, aveva certa novità che allettava, e la primitiva ruvidezza che offende. Quindi derivava in esso per avventura quell'esprimere in modo tutto suo le cose comuni; e la propensione di censurare i metodi delle nostre scuole. Inoltre sembravami, ch'egli sentisse non so qual dissonanza neWarmonia delle cose del mondo: non però lo diceva. Dalla sua operetta greca si desume quanto meritamente egli si vergognasse della sua querula intolleranza. Ma pareva, quando io lo vidi, più disingannato che rinsavito; e che senza dar noia agli altri, se ne andasse quietissimo e sicuro di sé medesimo per la sua strada, e sostandosi spesso, quasi avesse più a cuore di non deviare, che di toccare la m·eta. Queste ad ogni modo sono tutte mie congetture. XIV. Avendolo io d'allora in poi lasciato in Amersfort,2 e desiderando di dargli avviso del giudizio de' Maestri suoi intorno a' I. luogo: nella ristampa zurighese della Notizia, di seguito si legge: « E' diceva: La rabbia e il disprezzo sono due gradi estremi dell'ira: le anime deboli arrabbiano; le/orti disprezzano: ma tristo e beato chi non s'adira!» (Edizione Nazionale, v, p. 184). 2. Amersfort: Amersfoort, città dell'Olanda, nella provincia di Utrecht. NOTIZIA INTORNO A DIDIMO CHIERICO (1813) 913 tre manoscritti da me recati in Italia, scrissi ad Inverigo a domandarne novelle al Reverend. Don Jacopo Annoni; e perché questi s,era trasferito da molto tempo in una chiesa su' colli del lago di Pusiano, presso la villa Marliani,1 lo visitai nell'estate dell'anno scorso: né ho potuto riportare dalla mia gita se non2 i lineamenti di Didimo giovinetto. Quel buon vecchio sacerdote, regalandomi il disegno che ho posto in fronte a questa notizia, mi disse afflittissimo:3 È pur molto tempo ch'io non so più dove sia, né se viva. xv. Mi diede inoltre copia di un epitaffio che Didimo s'era apparecchiato molti anni innanzi; ed io lo pubblico, affinché s'egli mai fosse morto, ed avesse agli ospiti suoi lasciato tanto da porgli una lapide, lo facciano scolpire sovr'essa: DIDYMI • CLERICI VITIA · VIRTUS · OSSA HIC · POST • ANNOS • ttt CONQUIESCERE COEPERE 1. villa Marliani: nella Vita di Giuseppe Parini, preposta alle Opere ecc., Milano, Presso la Stamperia e Fonderia del Genio Tipografico, 1801, 1, p. LXV, F. REINA scriveva: «L'avvocato Rocco Marliani, che PARINI chiamava il più caro amico della sua vecchiaia, nell'amena sua villa, che sorge presso la terra di Erba, detta Amalia dal nome di sua moglie ugualmente amica di PARINI, gl'innalzò un grazioso tempietto col simulacro di lui, e con varii ingegni musicali, sovra di un colle, che specchiasi nel vago Eupili suo•· E vedi Le Grazie, 111, la nota ai vv. 230-1, a p. 476. 2. se non: nella ristampa zurighese della Notizia, di seguito si legge: «una notizia ch'io già sapeva, e i lineamenti» ecc. (Edizione Nazionale, v, p. 185). 3. ajflittissimo: nella ristampa zurighese della lfotizia, di seguito si legge: a So che in un paese lontano chiamato Bologna a mare, Didimo regalò tutti i suoi libri e scartafacci a un altro giovine militare che ne usasse a suo beneplacito; e fece proponimento di né più leggere né più scrivere: da indi in qua, e gli è pur molto tempo, non so più dov'e' sia, né se viva• ecc. (Edizione Nazionale, v, pp. 185-6). 58 DIDYMI CLERICI PROPHETAEMINIMI HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) TRADUZIONE DI CARLO SAGGIO NOTA INTRODUTTIVA L'Hypercalypseos liber singularis, compreso tra i titoli della rara bibliografia didimea, e dalla Noti:na dato per inedito (qui alle pp. 903- 13), venne presumibilmente composto prima del 15 giugno 1810, a stretto ridosso dell'Eunucomachia, se il Foscolo a tale data così scriveva ad Aimé Guillon: «Je dois aussi pour la vérité vous prévenir, que quelqu,un de mes compagnons du café Cambiaso ayant entendu de votre bouche que vous vous appretiez à écrire contre l'Acadimie, j'ai barbouillé en riant une prophétie en latin dans le style de l'Apocalypse, et je l'ai lue à quatre ou cinq personnes de notre Société. Dans l'Apocalypse vous y etes un peu touché, mais vous n'y etes pas nommé. Au reste cette plaisanterie n'est pas faite pour le publique, du moins pour le moment » (Epistolario, III, p. 416). E nei Frammenti inediti del primo abbozzo, probabilmente rappresentanti la fase redazionale cui qui è fatta allusione, si legge: «Et ecce swn in anno trigesimo tertio aetatis meae [...] » (Edizione Nazionale, VIII, p. 117); e ancora:« Et ecce swn hospes in terra aliena[...]» (ibid.). L'anno 1810 che se ne inferisce, consente poi di identificare Milano con la «terra aliena», confermando, almeno per quanto riguarda i primi sedici capitoli, l'immediatezza della reazione del Foscolo alla guerra mossagli contro dai «ciarlatani, gl'impostori letterari ed i pedanti». Riparato a Firenze, il manoscritto della profezia restò nella capitale del Regno, e istantemente richiesto dall'autore a Silvio Pellico, che si era incaricato di spedirglielo (vedi Epistolario, IV, pp. 208-9), gli pervenne finalmente il 12 febbraio 1813 (vedi Epistolario, IV, pp. 211- 2). A Firenze l'Hypercalypseos liber singularis venne ricopiato da Andrea Calbo (vedi Epistolario, VI, p. 187), e fu letto da FrançoisXavier Fabre (vedi Epistolario, VI, p. 163), suscitando l'interesse dello stampatore Giuseppe Molini (vedi Epistolario, IV, p. 421). Successivamente il Foscolo, in lettera da Milano a Michele Leoni, del 4 agosto 1814, manifestava il proposito di pubblicare la «profezia di Didimo Chierico» (Epistolario, v, p. 198), affidando a Federico Borgno, già responsabile della versione latina dei Sepolcri, il compito di controllarne la proprietà linguistica e stilistica, e di trarre copia dell'unico testimone (vedi le lettere a Camillo Ugoni e a Ferdinando Arrivabene, Milano 8 febbraio 1815, in Epistolario, v, pp. 348-9 e 350). Caduto il Regno italico, e presa la via dell'esilio (30 marzo 1815), il poeta ebbe tuttavia cura di portare con sé in !svizzera, insieme a poco altro, anche il manoscritto del liber singularis. E da Hottingen, il 21 dicembre 1815, annunciava alla contessa d'Albany di averlo stampato in Lipsia anche aggiungendo: • Chiave delle allegorie, né 918 PROSE chiose, non ho voluto darne: bensì una lettera sul far di questa, e più lunga forse; ma in latino; bello o brutto, sappialo Dio; questo io so, che avendo la state passata letto spesso libri latini, e per lo più teologici, la mia letterona sentirà certo del cattedratico: il latino a ogni modo è men grosso di quello di Didimo» (Epistolario, VI, p. 162). In effetti, oltre alla falsa indicazione del luogo, consigliata dalla sospettosa vigilanza della polizia austriaca, neppure vero era che la stampa avesse già visto la luce, se sulla fine del 1815-inizio 1816, come risulta da lettera a Jacob Heinrich Meister (Epistolario, v1, p. 194), il Nostro attendeva al capitolo XVII, composto, o riassettato, con il seguente in tale torno di tempo, in quanto entrambi riguardanti gli eventi relativi al crollo del Regno italico, e i tumulti milanesi del 20 aprile. Del resto, ancora all'altezza del 20 aprile 1816 il poeta informava Quirina Mocenni Magiotti che «Il Didimo latino non è [...] finito» (Epistolario, VI, p. 405), certo in ragione del ritardo nell'allestimento dei rami, lamentato in lettera alla medesima corrispondente, del 12 marzo 1816 (Epistolario, VI, p. 314). Presso i librai Orell e FUssli, a Zurigo, con la falsa indicazione di Pisa 1815, l'Hypercalypseos liber singularis era finalmente pubblicato dopo il 20 aprile 1816, e prima del 12 giugno, data della lettera alla Magiotti (Epistolario, VI, p. 450), dalla quale si evince che il pacco a lei diretto, e contenente la profezia unitamente ai Vestigi della storia del sonetto italiano era nelle mani di Ludovico di Breme. L'edizione constava di centoquattro esemplari, dei quali novantadue recavano l'epistola di Lorenzo Alderano Rainero al cavaliere Giulio Riccardo Worth, e dodici, non venali, una diversa nota tipografica (vedi Edizione Nazionale, VIII, p. 66, nota a), nella terza facciata la dedica a William Stewart Rose (ibid.), e in testa all'epistola, Hugo Phoscholus Andreae F., in luogo di Laur. Alderanus Rainerus I. C. Alle dodici copie privilegiate, eguali quanto al testo a quelle destinate al pubblico, venne acclusa una Clavis, approntata entro il luglio 1816 (vedi Epistolario, VI, p. 518), e fornita della dedica ai singoli destinatari (a tutt'oggi sono state rinvenute nove delle dodici dediche; le si veda in Edizione Nazionale, VIII, pp. 114-5). Il vantaggio economico che il Foscolo si riprometteva dalla vendita di sessanta esemplari affidati ai librai Orell e Filssli, da introdursi in Italia al prezzo di dieci lire ciascuno, per il tramite di Giuseppe Visconti, fu poi vanificato dalla concorrenza di una stampa abusiva, probabilmente allestita in Milano (vedi Edizione Nazionale, VIII, p. XXXVII, nota 2), circa la quale, il r febbraio 1817, Giulio Foscolo scriveva al fratello: «Delle copie dell'Apocalisse non se ne sono vendute che pochissime, e meno assai della metà del prezzo fissato, e di ciò fu causa un'edizione fatta contro la buona fede da uno stampatore in !svizzera, vendibile a cinque HYPERCALYPSIS (1816) • NOTA INTRODUTTIVA 919 franchi alla copia. Tu vedi dunque che anche i 600 franchi ch'ei doveva incassare da sì fatta mercanzia, andarono in fumo» (Epistolario, vn, p. 94). Lo scarso incontro dell'operetta dipese tuttavia anche da altri motivi. Già Carlo Porta, in risposta a Luigi Bossi, il 7 settembre 1815, osservava: cc Mi è pur nota la satira di cui mi parli, che riguarda tutta una adunanza nostra letteraria, che negli anni decorsi praticava in casa di certa Sig.ra Vadori moglie divisa da suo marito il Sig.r Salfi. Questa Satira modellata quanto al ritmo, ed alla traccia sulla Apocalisse di S(an]t Giovanni è da lui intitolata visione di Didimo Chierico. Io la lessi due anni sono, datami da lui med(esim]o, e colla chiave necessaria per interpretarla. Non la stamperà, ne son certo. Primo, perché la natural vendetta delle persone offese avrebbe un campo più lauto nelle avventure sue per rifarsi con di lui maggior danno, e vergogna. Secondo perché di questa mercanzia non potrebbe ritrarre quanto sarebbe obbligato di spendere per la stampa, e la carta 11 (Lettere di CARLO PORTA e degli amici della Cameretta, a cura di D. lsella, Milano-Napoli, Ricciardi, 1967, p. 165). Sconvolto l'assetto napoleonico, e con esso travolti gli ottimati e potentati dell'ex capitale del Regno, modificatosi il quadro culturale, e sparite le clientele di un tempo, alla profezia didimea, venendo così a mancare anche la vendetta degli offesi ipotizzata dal Porta, non poteva che essere riservato uno scarso riscontro. Se il Monti non se ne mostrava affatto preoccupato, scrivendo ad Andrea Mustoxidi: «Non ho veduta, e neppure udita che da voi, cotesta nuova pazzia. Ben lo credo, perché l'invidia, che dappertutto gli fa compagnia, noi lascia dormire; e non è da stupire che egli si mantenga quel tristo che da gran tempo tutti conoscono. Lasciamolo abbaiare, e seguitiamo la nostra via» (Epistolan'o di VINCENZO MONTI raccolto ordinato e annotato da Alfonso Berto/di, Firenze, Le Monnier, IV, 1929, p. 323), il di Breme asciuttamente sentenziava, in lettera alla contessa d'Albany, del 15 settembre 1816: «Je suis entièrement de votre avis sur ce que ce demier vient de publier en latin. 1°) Ce ne sont que des allusions. 2~) Les personnes et les choses auxquelles ces allusions se rapportent sont oubliées de tout le monde, et n'ont jamais dépassé la sphère des intérets personnels des amis ou des ennemis de Foscolo. 3°) Quand meme cette espèce d'apocalypse eut été contemporaine des intrigues qui en forment le fond, on n'y aurait rien entendu en Suisse où elle est publiée, et en Italie » (Lettere, a cura di P. Camporesi, Torino, Einaudi, 1966, p. 365). Il liber singularis sopravveniva infatti intempestivamente, quando già la storia s'era incaricata di sciogliere il groviglio delle inimicizie politiche e letterarie nel quale s'era trovato involuto il suo autore, e i non molti anni intercorsi tra l'Ermucomachia e la pubblicazione del libello didimeo, grazie ai radicali mutamenti 920 PROSE conseguenti allo sfacelo napoleonico, contavano ormai per decenni. Che è quanto, implicitamente, sottolineava la Magiotti, riferendo al poeta che «i Babilonesi tutti disgraziati, proscritti e senza pane si lagnano di te - e Hiero[momus] è alla disperazione e si voleva rifar frate almeno per mangiare; vedi mio caro che gli audaci sono stati puniti con mano severa» (Epistolario, VI, p. 529). Dalla solitudine dell'esilio svizzero, l'acre invettiva del Foscolo risuonava veramente vox clamantis in deserto, a suggello di una vicenda storica che per un decennio lo aveva visto agire con spicco protagonistico, costantemente accompagnato, tanto nell'esaltazione come nella denigrazione, da un'udienza che gli si restituiva nell'atto di prendere definitivo congedo da una scena calcata con alterna fortuna, nella forma di un'eco labile e disinteressata. DIDYMI CLERICI PROPHETAE MINIMI HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS *HUIUS LIBELLI DUPLEX FACTA EST EDITIO QUARUM UNA EXEMPLIS XII. ALTERA XCII. *LAUR. ALDERANUS RAINERUS I. C. IULIO RICHARDO WORTHIO EQ. SAL. AucroR commentarioli de studiis moribusque Didymi, bienniwn abhinc Pisis editi,1 libellum exiguum quem vides, Iuli, ut aliis perIL LIBRO DELL'IPERCALISSE2 DI DIDIMO CHIERICO PROFETA MINIMO *DI QUESTA OPERETTA SI SON FATTE DUE EDIZIONI: UNA DI 12 ESEMPLARI, L'ALTRA DI 92 *LORENZO ALDERANO RAINERO I. C. SALUTA IL CAVALIERE GIULIO RICARDO WORTH L'AUTORE della notiziola sugli studi e costumi di Didimo, edita ora sono due anni a Pisa, aveva permesso, come a pochissimi altri, cosi a me, di 1. Auctor .•. editi: si tratta della Notizia intorno a Didimo Chierico, pubblicata insieme al Viaggio smtimentak nel 1813 (qui alle pp. 903-13). a. Jpercali.sse: è parola tratta dal greco, sullo stampo d'ccApocalisse"; e se 922 PROSE pauc1s, sic etiam mihi permiserat exscribendum, ea lege, ut ne publici iuris fieret: id quod hactenus a me cautum fuerat. Erat enim periculum ne importunissimus quisque scriptorum novam arriperet lucri commoditatem; cum admodum constet, versari inter ltalos mercaturam quandam iurgiorwn. Quae lues Italiae principio ex aemulatione municipiorum, sua quorumque peculiari libertate florentiwn, sed armis et moderatore uno carentium, orta est. Deinde uhi aemulatio in discordiam paullatim degeneravit, malignitas in litteris, tamquam necessitas superingruentis servitutis, coaluit. N une demum, ab bisce praecipue duodeviginti annis, ex quo Britannia tua communia bumani generis iura tueri se profitetur, nos interim nostro Sanguine Cymei luirnus periuria Regis:1 utrum mores servitutis litteras depravarint, an litterae servitutem, baud facile tibi dixerim. Sed cum Musae te raperent in ltaliam, uhi adhuc ara et igne gaudent antiquo, nostrasque miserias solantur, aliquid etiam pro nobis apud feliciores populos intercedunt; tunc nonnullos cernere potuisti earum sacerdotes palam in assentationem, clam saepius in obscoena convicia, prostare ad cuiusque novorum copiare questo esiguo libruccio che tu vedi, Giulio, a patto però che non diventasse di dominio pubblico: cosa che fin qui da me era stata scrupolosamente rispettata. V'era infatti pericolo che i più impudenti degli scrittori afferrassero la nuova occasione di far guadagno; poiché è risaputo che fra gli Italiani v'è sempre in certo modo mercato di litigi. La qual peste d'Italia è nata in principio dalla emulazione dei comuni che fiorivano, ciascuno, di una sua particolare libertà, ma erano privi d'anni e di un reggitore unico. Poi quando l'emulazione a poco a poco degenerò in discordia, una sorta di malanno è venuta crescendo nelle lettere, come una necessità di servilismo che vi piombava sopra. Ora infine, da questi diciotto anni specialmente, da che cioè la tua Britannia proclama di difendere i comuni diritti del genere umano, noi in questo tempo col nostro sangue abbiamo pagato gli spergiuri del Re Corso: e io non ti saprei facilmente dire se il costume del servilismo abbia fatto peggiori le lettere, o le lettere il servilismo. Ma poiché le Muse ti attirano in Italia, dove ancora godono dell'altare e dell'antico fuoco, e consolano le nostre miserie, e anche intercedono un poco per noi presso popoli più felici; tu allora hai potuto vedere alcuni sacerdoti di esse, o palesemente in adulazioni, o più spesso copertamente in immondi attacchi "Apocalisse" vuol dire "disascondimento", cioè "rivelazione,,, JpercaUsse vuol dire "iperascondimento", "arciascondimcnto" (nota del traduttore). Il verso di Euripide intorno al ritratto di Didimo significa: «Profeta ottimo colui che ben congettura». 1. Vedi VIRGILIO, Georg., 1, 501-2: • [•••] Satis iam pridem sanguine nostro / Laomedonteae luimus periuria Troiae •· HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 92.3 dominantium utilitatem, vel ad servorum impotentem dicacitatem vemiliter provolutos. At adulatio paucioribus grata, eoque minus fructuosa scribentibus: Mercurio benigniore reciprocantur lucrum ac probra, et quae magis Densum humeris bibit aure vulgus.1 AT quod verebar, id evenit. Quidam enim de natione illa grammaticorum, quae est obnoxia librariorum stipendiis, cum carptim Hypercalypseos, nescio quo pacto, aliquot capita compilasset; paraphrasin vernaculam, prolixis explicationibus oneratam, vulgavit:2 tanta insuper virorum nomina ingenio doctrinaque praestantium insectatus est, ut legentibus difficilius sit stomacho temperare. Tu autem, Iuli, qui comitatem Senensium et perspectam nuper habuisti, et gaudes meminisse, gravius feras, interpretem atque typographum occultasse sua nomina, et tantummodo Senensium civium personam prae se ferentes, civitatem politiori humanitate religioneque hospitalitatis sane spectatissimam, esse calumniatos: utpote Senenses apud sese paterentur eosdem viros lacessitum iri, quos, si adirent, honestissime amplecterentur. Quamquam in illa paraphrasi neque paginam, prostituirsi pubblicamente all'utile di ogni nuovo padrone, o essersi schiavescamentc abbassati alla tracotante maldicenza dei servi. Ma 1•adulazione è gradita a piuttosto pochi e perciò è meno fruttuosa per quelli che scrivono: essendo invece Mercurio più benigno, lucro e oltraggi e quelle cose che il volgo addensato spalla a spalla più. audacemente ascolta si scambiano tra loro. EBBENE ciò che io temevo, è avvenuto. Uno infatti di quella razza di letterati, che è agli stipendi dei librai, essendo riuscito, non so come, a rubacchiare, un poco per volta, alcuni capitoli dell'lpercalisse, ne ha pubblicato una parafrasi in volgare, sovraccarica di prolisse spiegazioni: di più, ha diffamato si grandi nomi d'uomini insigni per ingegno e dottrina, da rendere troppo difficile a quelli che leggono trattener la bile. E tu, mio Giulio, che la gentilezza dei Senesi e l'hai testé sperimentata e provi gioia a ricordarla, con alquanto cruccio potrai sopportare che l'interprete e il tipografo abbian tenuto nascosto i loro nomi, e solo facendosi passare per cittadini senesi, abbiano calunniato una città veramente specchiatissima per raffinata civiltà e senso religioso dell'ospitalità: come se i Senesi tollerassero che nel loro paese fossero per essere inquietati quei medesimi che essi accoglierebbero con grandi onori ed abbracci se si recassero in casa loro. E d•altra parte non troverai in quella parafrasi né pagina né forse linea 1. Vedi ORAZIO, Carm., 11, 13, 32. 2. paraphrasin .•• vr1/ga1Jit: nei documenti foscoliani attualmente noti non è traccia di quanto affermato dall'au- tore. PROSE neque fortasse lineam reperies, quin Insubrem l8LTtaµ.6v redoleat; interdwn etiam Florentinitatem quaesitam: quod sane indicium Insubris grammatici est. Id non tibi, quem in hanc litem adigerem arbitrum, sed civibus tuis et litterarum nostrarum expertibus, ex- plicabo. GRATIA quaedam nativa sua sponte ftuit ex ore populi Fiorentini: verba tamen, quamvis felicioris naturae, ut in scriptis niteant, exquisitam diligentiam, atque meditationem assiduam scriptoris desiderant. Verum nonnulli, qui in urbe Florentia et proximis civitati-- bus dant operam libris, sic scribunt, ut lingua nostra potius notha, praepostera servilisque Gallicae linguae soror, quam Romanae linguae primogenita filia, atque haeres locupletissima, suaeque originis iure libera videatur: sive quod ritu mortalium abundantiam negligentia corrumpunt; sive quod propria, tamquam communia cum plebe, expolire fastidiunt; aut potius quod consulere malunt lectoribus suetis loquentiae Francogallorum; quam, magnificis quidem titulis, philosophicam atque universalem concelebrant. At contra Bononienses, Mediolanenses, Veronenses1 in primis, quique alibi ferulam Orbilianam2 adfectant, archaismos atque deridiculos logos, a fabulatoribus ex industria in ludicro genere scripturae admissos, nullo discrimine sibi colligunt; persaepe etiam stribligines guae Davo che non odori d'idiotismo lombardo; talora anche di fiorentinità ricercata: cosa che senza dubbio rivela un letterato lombardo. Questo non lo voglio spiegare a te, che chiamerei a esser giudice per tale controversia; ma ai tuoi concittadini e agli inesperti delle nostre lettere. CERTA nativa grazia fluisce spontanea dalla bocca del popolo fiorentino: tuttavia le parole, benché di più felice natura, vogliono, perché negli scritti splendano, squisita diligenza e meditazione assidua dello scrittore. Ma alcuni, i quali in Firenze e nelle città vicine fanno libri, scrivono in maniera tale che la nostra lingua sembra una bastarda, sorella fuor di tempo e servile della gallica lingua, piuttosto che figlia primogenita della lingua romana, e sua erede ricchissima, e, per diritto della sua origine, libera: sia perché, secondo l'uso dei mortali, guastano con la sciatteria l'abbondanza; sia perché hanno in uggia di limare le proprie espressioni, come comuni che sono anche al volgo; o piuttosto perché preferiscono pensare ai lettori abituati alla lingua dei Franco-gallici, che essi esaltano, con epiteti veramente magnifici, come filosofica e universale. Al contrario i Bolognesi, i Milanesi, i Veneti fra i primi, e quelli che altrove aspirano alla bacchetta di Orbilio, raccolgono senza alcun discernimento, per loro uso, arcaismi e locuzioni ridicole, introdotti a bella posta da narratori in un genere di scrittura che solo mira a divertire; spessissimo anche i solecismi, che nelle commedie antiche fluiscono di bocca a un qualche Qavo o a un Siro o a un 1. Veronensts: si allude al padre Antonio Cesari. 2.Jerulam Orbilianam: Orbilio, maestro di scuola di Orazio, noto per la sua severità. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1116) 925 alicui, aut Syro, aut monacho lenoni in comoedis1 vetustissimis ex ore proftuunt; ipsa aliquando exscriptorum et typographorum errata, quae in primis maiorum editionibus irrepserunt. lgitur non ex arbitrio usus, aut aurium consensu, neque ex analogia, neque ex fecunditate ingenii, neque ex materiae decoro; sed ex superstitione scholastica rationem sibi sumunt atque imperium loquendi. Sed cum res pessima factu, optimo persaepe consilio se tueatur, istas sordes verborum in historiis atque in altioris generis oratione permiscere, exemplis atque lege sanxerunt: scilicet opm-tere pristinas vires et germanam speciem sermoni reddere; idque assequi omnino neminem posse, nisi in honorem revocentur innumera vocabula immerito obliterata. Nae lingua potius miserrimam speciem decrepitae praebeat! Lepide hos homines poeta Senensis irridet: Troppo Toscano il non Toscano accusa: cui versiculo piane Horatiano, Venusini tripodis oraculum addam; eo libentius, quod ex Didymi codice peculiari novissimam lectionem sum nactus (nondum a quoquam animadversam, ne a Rich. quideril. Bentleio;2 quod tamen non, hercule, miror; de aris enim et focis suis ageretur) monaco ruffiano; a volte gli stessi errori dei copisti e dei tipografi, che s'insinuarono nelle prime edizioni degli antichi. Quindi non dalla signoria dell'uso, o dal consenso delle orecchie, né dall'analogia, né dalla fecondità dell'ingegno, né dalla convenienza con la materia; ma da una superstizione scolastica traggono il metodo e la legge del dire. Poiché però una cosa pessima a farsi sa difendersi con ottimo senno, resero sacrosantamente valido, con esempi e per legge, mescolare nelle storie e in discorso di genere anche più alto codeste sordidezze verbali: stabilirono, s'intende, che bisogna ridare alla lingua la primitiva forza e la gem,ana bellezza,· e che cii, nessuno al tutto pu/J con.seguire, ,e non si rimettano in onore innumerftJoli vocaboli immeritatamente andati in oblio. Oh no, che la lingua non mostri il miserrimo aspetto d'una donna decrepita! Lepidamente il poeta senese deride queste persone: Troppo Toscano il non T01CAno accuu. Al quale versuccio chiaramente oraziano, aggiungerò l'oracolo del tripode Venosino; tanto più volontieri, perché in un codice proprio di Didimo, ho trovato una nuovissima lezione (non ancora notata da alcuno, neppure da Riccardo Bentley; del che tuttavia, perdinci, non mi meraviglio; si tratterebbe infatti dei suoi altari e focolari): 1. Davo... comoedis: si allude a personaggi della riduzione dell'Andria di Terenzio, e della Mandragola del Machiavelli: Davo si ritrova infatti nell'Andn'a, Siro nella Mandragola, e il monaco ruffiano altri non è se non frate Timoteo. 2. Bentleio: Richard Bentley (Oulton [Yorkshire] 27 gennaio 1662- PROSE Dum vitant docti vitia in contraria currunt.1 Sed haec quoque vitia ex ingeniis delapsis in omne genus servitutis fluxerunt. Sic, dum alteri novitati, alteri antiquitati obligantur; vis illa genialis et, ut ita dicam, NOVA LIBERTAS, MAIORUM LEGIBUS MODERATA eo tandem amissa est, ut turbae lectorum ne vel suspicione quidem attingere queant,2 utrum Attice scripseris an more Cario: N«aT7Jc; Clu Kocpwv l)Y7)CJClTO ~«p~ocpoq>~vv.J Nonne vides, barbariem verborum irrisui fuisse Iliacis etiam temporibus? Nostris vero haud absurde Pseudosenensis speraverat, dolum non posse ex indicio sennonis, nisi a paucissimis, deprehendi. NEQUE ego loquaculum istum animadversione mea dignum existimarem, nisi me ille, sinistra laude efferendo, eruditorum virorum (quos, ut dixi, grammaticus impudens notat) invidiae quam admodum reformido, devovisset. lnvenit enim Didymus nescio in quorum monachorum bibliotheca acroama vetustum de Eu.nuchomachia, id est, de rixantis et lucrosae philologiae usu. Epitomen, tua gratia, Iuli, ante oculos ponam - Postquam Mercurius infans barbato Apolmentre evitano certi vizi i dotti, vanno a sbattere nei loro contrari. Ma anche questi vizi nati da ingegni decadenti sfociarono in ogni sorta di servilismo. Così mentre gli uni si legano alla novità, gli altri alle antichità; quella forza geniale e, per così dire, NUOVA LIBERTÀ, MODERATA DALLE LEGGI DEGLI ANTENATI s'è a tale punto infine perduta, che la folla dei lettori neppure può congetturando chiedersi, se tu hai scritto atticamente o alla maniera caria: Naste poi era capo dei Carii dalla barbara lingua. Non vedi che la barbarie delle parole fu derisa anche ai tempi di Troia? Ai nostri invece, non assurdamente lo Pseudosenese aveva sperato, che l'inganno, per l'indizio del linguaggio, non potesse essere scoperto se non da pochissimi. NÉ io degnerei della mia attenzione codesto ciarlatore, se egli non mi avesse votato, esaltandomi con le sue malaugurate lodi, all'invidia, che io temo assai, degli uomini dotti (dall'impudente letterato, come dicevo, messi alla gogna). Ha trovato infatti Didimo in una biblioteca di non so quali monaci una robusta chiacchierata sulla Eunucomachia, cioè sull'uso della rissosa e lucrosa filologia. Te ne metterò sotto gli occhi, per amor tuo, o Giulio, un riassunto - Poiché Mercurio bimbo aveva rubato i buoi ad Trinity College 1742). Celebre filologo inglese, dal 1700 fu Master al Trinity College. 1. Vedi ORAZIO, Sat., 1, 2 1 24 (ma • stulti • anziché docti). 2. ne ... q11eant: nelle Corrigenda sono proposte due varianti: • ne suspicione quidem attingere queant », e «ne vel suspicione attingere queant •· 3. Vedi OMERO, Il., u, 867. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 927 lini boves furatus esset, duo Dii, licet fratres et ab love nati et beati, simultates maximas agitabant. Quocirca Patris gravissima auctoritas intercessit, et lege cautum fuit: POETAS, ESSE MERCATORES: ITEM MERCATORES, POETAS ESSE PROHIBETOR. POENA DOMI, AES ALJENUM: PUBLICA, DEDECUS ESTO. Hanc legem satis gratam Mercurio, Apollo aegre tulit: quippe qui divina praesensione sciebat, aliquando clitissimos, nobilissimos, fortissimos quosque mortalium scribendi munus dedignaturos; idcirco clientes suos, nisi mercaturae quoque vacarent, fore ut egestate identidem laborarent. Hac de re multae atque contentiosae disceptationes habitae sunt in concilio Deorum, donec Ianus ex duplici ore tanta tamque composita verba fecit, ut non solum et lovi temperare legi, et Apollini obtemperare aequo animo iussis Patris persuaserit; sed et Martem quoque placaverit. Mars enim invitus patiebatur, poetas, rhetores atque grammaticos omnesque alios, qui promiscuo eruditorum nomine designantur, abstinere bello. Nova lex igitur lata est, per quam, cu.m Fato genus mortalium immortales gerat inimicitias, potentes et generosi, annis; servi rudes, quibus arma aut vetita sunt aut formidolosa, rudibus pugnant; servi autem eruditi in loco rudis1 decertant instructi conviciis, nonnumquam ad intemecionem, nunquam tamen sine aliquo emolumento. Apollo già barbuto, i due dèi, pur fratelli e nati da Giove e beati, eran tra loro grandissimamente nemici. Per la qual cosa intervenne la severissima autorità del padre e fu preso per legge questo provvedimento: SARÀ PROI• BITO CHE I POETI SIANO MERCANTI: E PARIMENTI CHE I MERCANTI SIANO POE· TI. PENA SARÀ IN PRIVATO L'INDEBITARSI: IN PUBBLICO IL DISPREZZO. Que.. sta legge abbastanza gradita a Mercurio, Apollo la sopportò di malanimo: come colui che per divina prescienza sapeva che tutti i più ricchi, i più no.. bili, i più valenti dei mortali avrebbero un giorno sdegnato l'ufficio dello scrivere; quindi i suoi clienti, se non avessero atteso anche alla mercatura, avrebbero patito spesso la miseria. Su questo argomento s'ebbero nel concilio degli dèi molte e polemiche discussioni, finché Giano dalla doppia bocca profferì tante e tanto adatte parole che non solo persuase Giove a temperare la legge e Apollo a ottemperare di buon animo ai comandi del padre; ma anche riuscì a placare Marte. Poiché Marte contro voglia sopportava che i poeti, i retori, i grammatici e tutti quegli altri che sono designati col nome generico di emditi, si tenessero lontani dal fare la guerra. Fu quindi fatta una nuova legge, in forza della quale, poiché per volere del Fato la razza dei mortali nutre inimicizie immortali, i potenti e generosi combattono con le armi; i servi rozzi, a cui le armi o sono vietate o s'ha paura a concederle, con i bastoni; i servi invece eruditi lottano armati, invece che di bastone, di calunnie, talvolta fino a dar morte, non mai tuttavia senza qualche guadagno. - 1. eruditi .... rudis: nelle Corrigenda sono proposte due varianti: •eruditi loco rudis •, e «eruditi rudis instar •· PROSE Hos 1g1tur, Iuli, silentio meo non effugerim. Adde, quod Pseudosensis, ut me pluribus certioribusque indiciis inligaret, meque adnuere suae fraudi cogeret, re et facto fidem mendacio conciliavit; qui quidem fateatur, undecim tantummodo Hypercalypseos capitum potestatem ribi f actam fuisse; quocirca haud satis exploratas habere singulas «ÀÀ7Jyoplcxc;: verum, a me uno obtineri posse. Mihi itaque maturandum videtur, ut Hypercalypsis prodeat, tum Hebraicae latinitati suae restituta; tum nuda atque integra, minimeque noxia obiurgationibus commenticiis. Etsi vereor, ne idem ille, qui meae libellum fidei commiserat, dissensum profiteatur: tamen si quae venit ex necessitate, non aequa modo, sed vel iustissima est excusatio: praesertim cum id quod alii quaestus causa egerunt; nos invidiae detestandae gratia, destruere conemur. At exemplarium non amplius quam civ proelo tradidi: hac scilicet mente, ut sincera haec editio, abrepticiae versionis inverecundiam magis arguere, quam auctoritatem aliquam ambagibus Didymi tribuere videatur. MoLFSTIAM equidem magnam, mi Iuli, ac minime profuturam arbitrator suscipere illum, qui Hypercalypseos rationem reddere professurus sit. Etsi, et suas inesse cuique vocabulo signi.ficationes, easque intelligentibus pulcherrime patefieri, multi fuerint qui prorsus arbitrarentur: quaedam etiam exquisita anecdota, ut aiunt, coA questi, dunque, o Giulio, io non sfuggirei, col mio silenzio. Aggiungi che lo Pseudosenese, per leganni con più numerosi e più sicuri indizi e costringenni a consentire alla sua frode, ha saputo dare effettivamente credibilità alla sua menzogna; dichiarando in verità che soltanto per undici capitoli dell'Jperca/isse gli era stato dato il permesso; che perciò non aveva potuto compiutamente interpretare le singole "allegorie,,: ma che da me solo cid si poteva ottenere. Mi sembra dunque di dovermi affrettare a far comparire JtlpercaHsse, restituita alla sua ebraica latinità e nuda e intatta e niente affatto velenosa di insensate rampogne. Sebbene io tema che quel medesimo, che aveva affidato l'operetta alla mia lealtà, manifesti il suo dissenso, tuttavia se una giustificazione viene dalla necessità, non solo è equa, ma addirittura giustissima: tanto più che ciò che altri fecero per cagione di lucro, noi tentiamo distruggerlo, per scongiurare l'odiosità. Ma non più che centoquattro esemplari ho commesso al torchio: con questa intenzione s'intende, che questa genuina stampa sembri piuttosto condannare la sfacciataggine della ladresca versione, che dare qualche autorità agli enigmi di Didimo. PENSA che si prende veramente un grosso grattacapo, e che per nulla gioverà, Giulio mio, colui che voglia accingersi a spiegare l'lpercalisse. Sebbene vi siano stati molti i quali senz'altro ritenevano che ci sono in ciascun vocabolo suoi propri significati e che essi benissimo si rivelano a quelli che sanno intendere: di certi curiosi aneddoti, come si dice, facevano sperare che se ne potesse congetturare il senso: altri non saranno dello stesso avviso; anzi HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 929 niectura colligi posse pollicerentur: alii non item; quinimo existimabunt aut scurram, aut aegrotum, aut furentem, et quovis modo inficetum hominem, iocularia fudisse. Mihi tamen de hoc tantum liquet; rationem scripturae huius, omnibus numeris, suo consentire consilio: quod quale sit, fortasse aliquis probabiliter dixerit; prudenter, nemo. Me non pudet dicere non intelligere: id non fateor solum, sed et patior facilius quam abuti opportunitate hariolandi; et, aut falli et fallere; aut, si quid scriptor consulto ambagibus inumbraverit, parum caute ac minus honeste retegere; aut cum vate desipiente desipere. lnterdwn enim, num vaferrimus mortalium sit Didymus; interdum, num amentissimus, dubito. Marcus lovianus Rainerus Marci F. municeps gentilisque meus, cui, dum sub Rege Vindelicorum stipendia merebatur, aliqua cum Didymo familiaritas intercesserat, enodationem Hypercalypseos, rogatu meo, ab eo flagitavit: sphingis responsum adepti sumus. En, Iuli, infra scriptum exemplum epistolae. 0IDYMUS CLERICUS M. I. RAI NERO EQ. HIER. SAL. DIDYM01 quondam antiquo accidit, ut cum historiae cuidam, tamquam vanae, repugnaret, ipsius proferretur liber qui eam continepenseranno che o un buffone, o un malato, o un pazzo, e in ogni modo un uomo insulso abbia voluto scherzare. A me tuttavia su ciò questo solo è chiaro: che lo stile di questa scrittura, in tutti i suoi numeri, bene s'accorda alla sua ispirazione: quale però essa sia, qualcuno forse può dire con qualche probabilità; con prudenza, nessuno. Io non mi.vergogno di dire che non capisco: e non solamente lo confesso, ma anche lo sopporto più facilmente che abusare dell'occasione di far l'indovino, e o ingannarmi e ingannare; o, se qualcosa l'autore abbia di proposito avvolto nel buio di enigmi, poco accortamente, e meno ancora onestamente, tentar di svelarla; o con un poeta che insanisce insanire. A volte infatti dubito che Didimo sia il più astuto dei mortali; a volte il più pazzo. Marco Gioviano Rainero, figlio di Marco, mio compaesano e congiunto, che, mentre faceva il soldato agli stipenèii del re di Baviera, aveva avuto qualche familiarità con Didimo, gli chiese, per mia preghiera, una spiegazione dell'Ipercalisse: ottenemmo la risposta di una sfinge. Eccoti, o Giulio, trascritta qui sotto, una copia della lettera. DIDIMO CHIERICO SALUTA M. G. RAINBRO CAVALIERE GEROSOLIMITANO ALL'ANTICO Didimo accadde un giorno che, rifiutando egli una certa storia come falsa, gli fosse presentato un suo libro, che la conteneva: cosa che 1. Didymo: grammatico alessandrino del I secolo a. C. 59 93° PROSE bat: quod et mihi hodie. at illi, quod plurima scripserat: mihi, quod fere nihil. quando et innumerabilia, et perpaucissima sint aeque eodem fato obliviosa. potissimum homini qui ab ineunte virili aetate nil amplius scribendwn, nil legendum decrevit. tunc, nescio quo anno saeculi, iuxta castra Iulia ad Morinos,1 omnes schedas meas centurioni familiari tuo dono dedi atque arbitratu. Hypercalypsin (nomen auribus meis piane novum) dictavisse non memini. accepi a Iacobo Annonio2 sacerdote innocentissimo, optimo viro, me in adolescentia vigilem et valentem et siccum (sum enim abstemius) vidisse portenta: mox per triduum scriptitasse. haec quoque non memini. sed tunc forte libellum sibyllinum scripsisse, baud inficiar: non memini: neque legere aveo; neque, ut expostulas, enarrare sciam, neque velim. quinetiam de suscipienda editione, ad Apollinem Didymoeum3 ire iubeo. Veritas, si modo ulla in enigmatibus inest, latet quasi semen quod sine offensione praesentium, sine fraude posterum floreat, vi temporis: contra, si res ludicra est, aetas eadem et nugas, et auctores, coniectoresque ridebit. Verum, et mortalem vaticinari, et quae scripserat piane oblivisci: neutrum credibile tibi capita anche a me oggi. Ma a quello, perché aveva scritto moltissime cose: a me, perché quasi niente. Dal momento che le innumerevoli cose e le pochissime sono ugualmente, con un medesimo destino, facili a dimenticarsi. Specialmente per un uomo, il quale dal principio dell'età matura, decise di non scrivere più niente, più niente leggere. Allora, non so in che anno del secolo, presso Bologna, tra i Morini, tutte le mie carte le diedi in dono, perché ne facesse quel che volesse, a un capitano tuo familiare. D'aver scritto un'lpercalisse (nome alle mie orecchie affatto nuovo) non ricordo. Ho saputo da Iacopo Annoni, sacerdote illibatissimo, ottimo uomo, che io nella mia adolescenza sveglio, in perfetta salute, senza aver bevuto (sono difatti astemio) vidi cose prodigiose: subito per tre giorni le andai scrivendo. Anche questo non ricordo. Ma di aver scritto allora per avventura un libruccio sibillino, non arrossirei: non ricordo: né desidero leggerlo, né come tu mi chiedi, saprei spiegarlo, né vorrei. Anzi, sul farne un'edizione, io vi invito a recarvi da Apollo Didimeo. La verità, solo che una qualche verità negli enigmi ci sia, rimane nascosta quasi seme che, senza offesa dei presenti, senza danno dei posteri, fiorisca, per la forza del tempo: al contrario, se è cosa da burla, il tempo medesimo farà ridere e delle futilità e degli autori e dei congetturatori. Ma che un mortale vaticini e che al tutto dimentichi ciò che aveva scritto, l'una cosa e l'altra a te non saranno credibili: 1. iuxta •.. Morinos: Boulogne-sur-Mer; la romana Bononia, la cui città bassa era oppidum della tribù gallica dei Morini: fino dall'epoca di Cesare fu importante stazione navale per il passaggio in Inghilterra. E vedi la Notizia intorno a Didimo Chierico, la nota 3 a p. 913. z. lacobo Annonio: vedi la nota z a p. 911. 3. Apollinnn Didymoeum: presso Didima, nel territorio di Mileto, sorgeva un santuario dedicato ad Apollo. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 931 fuerit: ipse id satis habeo, multa saepe fuisse et vera et incredibilia. Quid? Nonne fuit Didymo coeco1 Iuliani lethum divinitus patefactum? - Plura rescripsi praeter consuetudinem meam: sed bisce Iitteris, tamquam edicto monere libuit, ne quis homini propediem morituro quietem irrumpat. Aveto. scrip. Ufenae ad Ulrici Hutteni sepulcrum.2 SED cum suo cuique vel Genio vel Fato, verum3 etiam libidine sit utendum, difficile factu erit, quin aliquis exemplum Pseudosenensis libentius imitetur quam nostrum. Quis enim de se confidentius non sentit? Quis ergo non sibi dictum putet versum Euripidis: Mcivru; y' «pL<;'t'Oç, &;-ru; itXc;:4 quem, me invito, in libri titulo circumscriptum effigiem Didymi vides? Vel quis singula Prophetae minimi oracula ingenio proprio illustrata, ut singula testimonia posteritati non commendabit? Neio ne ho abbastanza di questo, che molte cose spesso furono e vere e incredibili. E che? Non fu rivelata per ispirazione divina a Didimo cieco la morte di Giuliano? - Ho scritto più che io non soglia: ma con questa lettera proprio, come con un editto, m'è piaciuto ammonire che nessuno turbi la quiete a un uomo che presto morirà. Addio. Scritta a Ufenau presso il sepolcro di Ulrico Hutten. MA poiché ciascuno deve seguire il suo Genio o Destino, ma anche la sua passione, sarà difficile a ottenersi che nessuno imiti più volontieri l'esempio dello Pseudosenese che il nostro. Chi infatti non sente di sé troppo altamente? Chi dunque non penserebbe detto per sé il verso d'Euripide: Profeta ottimo colui che ben congettura: che tu vedi scritto, contro mia voglia, sul frontespizio del libro intorno all'immagine di Didimo? O chi non vorrà affidare ai posteri i singoli oracoli del Profeta minimo illustrati dal proprio ingegno, come singole testimonianze? Né io negherei che altri possa saper quello che io non so: ma io 1. Didymo coeco: maestro di san Gerolamo (IV secolo d. C.); si narra che per volere divino avesse visione della morte di Giuliano l'Apostata. 2. Ufenae ..• sepulcmm: Hulrich von Hutten (Castello di Steckelberg [Fulda] 21 aprile x488 - isola di Ufnau, lago di Zurigo 29 agosto 1523), umanista tedesco. E vedi nel tomo II la lettera 97. 3. t1erum: nelle Co"igenda è proposta la variante: •vel •· 4. Nota G. A. Martinetti: • EURIPIDE, Framm.: nell'edizione Didot trovasi a p. 844, ed è tolto da Plutarco, De defect. orac., 40 [•••] • (U. FoscoLo, L'Jpercalisse, tradotta e illustrata da G. Antonio Martinetti, Saluzzo, Tipografia de' Fratelli Lobetti-Bodoni, 1884, p. 12, nota 8). 932 PROSE que ego abnuerim, alios scire posse, quae ipse nescio : at illis prorsus assentior, qui stultam scientiam quae sapientia caruerit existimant: Rarus enim ferme sensus communis in ILLA DOCTRINA.1 Igitur, n1s1 religio mihi esset quidquam de autographo mutare in locum inscriptionis a Graeco Tragico sumptae, sententiam Latini Comici sapientissimam surrogarem: Scin1 scite quod scis, proin, tu sileas scitius, te id sciscere inscitissime ?2 Fortasse hoc quaesito eiusdem litterae concursu Comicus carpit Euripidem, Sophoclem, aliosque gravissimos poetarum, quibus interdum haec verborum schemata in deliciis erant: ut illud Ennianum O Tite tute Tati tibi tanta tyranne tulisti.3 sono del tutto d'accordo con quelli che stimano stolta la scienza che manchi di sapienza: difatti à pre11ocbl raro il senso comune IN QUELLA SCIENZA, Quindi, se io non mi facessi scrupolo di mutare qualcosa dell'autografo, al posto dell'iscrizione presa dal tragico greco, metterei wia sentenza sapientissima di un comico latino: Sai tu ben non saper quello che sai. quindi tacendo piia saggio aarai?4 Forse con questo ricercato ritorno della medesima lettera il Comico morde Euripide, Sofocle e altri fra i più importanti poeti, i quali talvolta si deliziavano di questi artifici di parole: come quello di Ennio: Tito Tazio tiranno, ti attirasti tu atea10 tanti affanni.S I. Vedi GIOVENALE, Sat., VIII, 63-4 (ma a Fortuna• invece di doctrina). 2. Nelle Corrigenda si legge: «Pag. XI. Scin scite quod scis, proin - inscitissume: sic enim fere malim, abiecta elisionis nota, et servata in hoc versu ab auctore epistolae fict:o, vetustatis robigine in voce ultima. Ad similem litterarum concursum accedit Plautus CASIN. III, 5, 8 sqq. Eho nimium scite scitus es - Nunc enim te demum nullum scitum scitius est. Atque etiam ad sententiam Terentius EUNUCH. IV, 4, 54. Tu poi, si sapis, quod scis nescis. Sed Sigmatismi causam praeter ceteros ad Euripidis MEDEAM 476, lawacx o' «:>e; racxaLv 'EU-IJvwv oooL, Graecorum poetarum exemplis egregie illustravit Richardus Porson, magnum Britanniae sidus nuper extinctum. Quibus adde, si placet, Simonidis epigramma haud sane illepidum, ex Analectis Brunckii, Tom. I, p. 141, N° XXIX: l:wao,; xcxl l:waw Ewn:(pn -r6v8' civi.fh)xcxv / l:&>~ µiv aw&d,;, l:wa~ 8' ~TE l:&>ao,; iaw&7J •. 3. Vedi CICERONE, Rhet. ad Her., IV, 12, 18. 4. Sai ... sarai?: traduzione del Martinetti (U. FoscoLO, L'Ipercalisse, cit., p. 8). 5. Tito . •. affanni: traduzione del Martinetti (ibid.). HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 933 His antiqui rhetores patrocinantur; haec recentiores mirantur; haec quis ausit dicere repudianda? tantummodo a doctissimis viris verecunde petere ausim, ut verba Comici vetusti amplectantur; nec sententiam aspementur; scilicet: - Quisquis garrule promit omnia vel quae1 optima didicit, stultissime res suas gerit. Caveant praesertim Hypercalypseos interpretes, ne adimpleatur in iis verbum Prophetae minimi: lgnorantiam asinorum potiorem esse stultitia docto- rum. ATQUI non sum inscius (tametsi venalia atque invidiosa commenta defuerint) rem mihi asperrimam fore cum illis, quibus satius est probro affici, quam omnino non nominari; qui quidem non in alterius, sed in sui offensionem aenigmata excipient: quorum hominum tria genera novi. Unum genus est eorum qui aliquantula bona fama non carent, at augendae impatientia miserrimae anguntur: insidias quotidie pavent; hostes undique venire cemunt; quidquid anili suspicione perviderint, pro comperto habent; queruntur sese insontes ac de re litteraria optime meritos, calumniis peti; ad Maecenatem confugiunt; cognitionem ab Augusto institutam de famosis libellis recolendam reposcunt; principis severitatem sollicitant; auxilia ephemeridum sibi adiungunt, et ad aequitatem humani generis provoQuesti gli antichi retori difendono; questi i moderni ammirano; questi chi oserebbe dire che sono da ripudiare? Soltanto io oserei modestamente chiedere agli uomini più dotti, che facciano loro le parole del Comico antico e non ne disprezzino il pensiero; e cioè: - Chiunque loquacemente mette fuori tutto, sia pur quel che di meglio ha imparato, si comporta stoltissimamente. Badino in particolar modo, gli interpreti dell'lpercalisse, che non si adempia in essi la parola del Profeta minimo: L'ignoranza degli asini val meglio clie la stoltezza dei dotti. ORBENE io non ignoro (anche se non vi saranno stati commenti prezzolati e maligni) che la mi andrà malissimo con quelli, per i quali è meglio essere infamati, che non essere nominati affatto; con quelli i quali in realtà accoglieranno gli enigmi non come destinati a offesa di un altro, ma di loro stessi: e di questi uomini io ne conosco tre specie. Una è di quelli che non mancano di una certa qual buona fama, ma perché sono impazienti d'accrescerla, con grandissima infelicità si tormentano: temono ogni giorno insidie, vedono venir nemici da ogni parte; qualunque cosa con sospettosità da vecchierelle abbiano ben bene scrutato. la ritengono per certa; si lagnano che essi innocenti e più che benemeriti delle lettere, siano colpiti da calunnie; si rifugiano da Mecenate; chiedono che si rimetta in onore il procedimento istituito da Augusto contro i libelli ingiuriosi; sollecitano la severità del principe; ai accaparrano l'aiuto dei giornali; si appellano alla tranquillità 1. vel quae: nelle Corrigenda è proposta la variante: •quae vel •· 934 PROSE cant: scilicet orbi terrarum maximum fore ex detrimento rei litterariae periculum. Alterum genus est eorum quibus, cum neutram famam assequi possent, quietem alienam movere magna merces viderur: belli caussas anquirunt, arripiunt; nec spes ulla victoriae; at pacem metuunt: non tam sibi prodesse quam aliis obesse malunt. Tertium genus est eorum quibus famosa sunt nomina, pudor attrirus; nobilitari se audacia ac dedecore student; neque suamet ipsi probra reticere vel dicere quidquam pensi habent, dummodo aliquo pacto innotescant. Nam ut mortales qui a libidine laudis exagitanrur, praeclara saepe, tamenetsi vana luctuosaque humano generi, facinora moliuntur, uhi opes, fortuna atque ingenii vis adsint; sic alii qui bis rebus omnibus indigent, eademque ebrietate tument, nil adeo ridiculum, nil abiecrum, nil foedum excogitare possunt, quod statim non experianrur. ltaque doctissimus, et interdum {pace tua dixerim) elegantissimus poetarum finxit laudem more Bacchantis quatientem thyrsum: Percussit thyrso Laudis spes magna meum cor.1 IGITUR ex cathedra clamitabunt, Hypercalypsin temere atque maligne in trivia iactam fuisse quasi semen rixarum: quas nihilominus del genere umano: affermando cioè che grandissimo pericolo verrà al mondo intero dal danno fatto alle lettere. L'altra specie è di quelli ai quali, non potendo essi conseguire né quella né altra fama, sembra grande guadagno turbare la quiete altrui: cercano, afferrano motivi di guerra; e nessuna speranza di vittoria; ma temono la pace: preferiscono essi non tanto giovare a sé, quanto far danno agli altri. Una terza specie è di quelli, i quali han nomi famosi, pudore logoro; si studiano di rendersi celebri con l'audacia e il disonore; né si danno alcun pensiero di tacere o di dire essi stessi le loro vergogne, purché diventino in qualche modo sempre più noti. Poiché come i mortali che sono agitati dalla brama di lode, quando ricchezza, fortuna e forza d'ingegno li assistano, compiono spesso celeberrime imprese, anche se inutili e funeste al genere umano; cosi gli altri che di tutte queste cose mancano, e sono gonfi della medesima ebbrezza, nulla di cosl ridicolo, abbietto, laido possono escogitare, che subito non lo sperimentino. Pertanto il più dotto e talora (oserei dire con tua pace) il più elegante dei poeti rappresentò la lode nell'atto di scuotere il tirso a mo' di Baccante: grande speranza di lode perco11e col tino il mio cuore. ANDRAN quindi gridando come da cattedra che l'lpercalisse ~ stata gettata avventatamente e malignamente nei trivii, quasi seme di risse: che non- 1. Vedi LucREZ10, De rer. nat., 1, 923. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 935 alacri mente amplectentur. Tum me cavillari; causari; in ius rapere; consistere litem; lege privata me interrogare; eversorem dicere rei litterariae, hostem patriae; principis perduellionem me iudicandum: denique editorem aeque ut Hypercalypseos scriptorem capite damnandos; typographum ac librarios magna pecunia multandos; lectores igni et aqua prohibendos. At si praetor de accusatione cognosceret, lex illa lustiniani lmp. sanctissima: Si quis agens intentione sua plus complexusJuerit quam ad eum pertineat, satis praesidii mihi esset. Sed discrimen erit, Iudice, QUEM NOSTI, papula: qui stultus honores saepe dat indignis: quem, nisi fuste coerces, urgueris turba circum te stante, miserque rumperis et latras:1 a quo iras et verba viri doctissimi mutuantur. lrarum telis, ex conscientia innocentiae, satis viriliter obviam eam: verba tamen (postquam perlegi Eunuchomachiae dialogum) magnae mihi fonnidini sunt. Itaque si quid erraverim, inire poenitentiam non recuso; dimeno essi prontamente accolgono. Ed eccoli pungermi; accusarmi; trascinarmi in giudizio; piantar lite; con una lor legge privata interrogarmi; dirmi distruttore della letteratura, nemico della patria; da giudicarsi reo di lesa maestà; dire infine che l'editore così come lo scrittore dell'Ipercalisse s'han da condannare a morte; il tipografo e i librai da colpire con una grossa multa; i lettori da cacciare in esilio. Ma se il giudice dell'accusa la conoscesse, quella santissima legge dell'imperatore Giustiniano che dice: Se qualcuno agendo, con la sua intenzionesarà andato più in là di quanto a lui non tocchi, mi sarebbe sufficiente difesa. Ma ci sarà una bella differenza, essendo giudice il popolo, CHB TU CONOSCI, il quale stolto spesso dà rli onori aali indegni: e se non lo freni col bastone, sei dalla folla circostante oppresso e misero sei schiacciato e urli: da lui uomini dottissimi prendono a prestito ire e parole. Ai colpi dell'ira, nella coscienza di sentirmi innocente, andrò incontro con fermezza d'uomo: tuttavia le parole (dopo che ho letto attentamente il dialogo della Eunucomachia) mi fanno una gran paura. Pertanto, se in qualcosa ho sbagliato, non ricuso di far la penitenza; cerco di tener lontano le battaglie; mi 1. Vedi ORAZIO, Sat., 1, 6, 15-6 (ma: •quo nosti•); 3, 134-6 (ma: •quos tu nisi », e 11 urgeris •). 936 PROSE praelia deprecor: obnoxium me praebeo; et pacem, aut saltem inducias, oblatis vectigalibus, opto: Pars mihi pacis erit dextram tetigisse tyrannis.1 Quod si illi paci, vel gloriosae, turpissimas rixas praetulerint; ego malim mutus condemnari, quam loquaciter triumphare. Chrysippus ille, quem Cicero vaferrimum, versutissimum, callidissimum Stoicorum, appellat,2 cum nequiret frangere captiosos academiae soritas,3 aliud argumentum dialecticum excogitavit quod vocabat 't'Òv -iJaux&.~ovrcx )..6yov: videlicet, dum alii verbis insistunt, quiescendum. NEQUE ego intercedam pro Didymo, quem tantae suavitatis hominem novi, ut ne hostibus quidem suis gaudia iniquae ultionis invideat: praeterea rerum humanarum adeo incuriosum, ut nesciret qua tempestate, vel qua de re, vel quorum populorum annis, bella aetatis nostrae perpetua agerentur; neque Regum nomina nosceret; neque cuius sub ditione provinciae Europaeae essent: neque horologio aut kalendario uteretur: horas, dies, menses, saeculi annos non numerabat. Videant quoque viri eruditi, ne defunctum homimostro sottomesso; e desidero, sia pur pagato lo scotto, la pace, o almeno una tregua: Mi sari segno di pace aver stretto la destra dei tiranni. Che se a quella pace, persino gloriosa, preferissero le turp1ss1me risse, io sceglierei d'esser piuttosto condannato, in silenzio, che di trionfare loquacemente. Quel famoso Crisippo, che Cicerone chiama il più sagace, il più accorto, il più ingegnoso degli Stoici, non potendo infrangere i capziosi soriti dell'Accademia, escogitò un'altra argomentazione dialettica, che chiamava TÒv YJv (3L(3Àla TCWR, id est (ut scriptor commentarioli interpretatur) libri memoria/es quinque, de tJita sua; quos Didymus stilo Graeco-Alexandrino, nescio qua mente, serio tamen, perscripsit; et aliquando edere, versione sive latina sive italica adiecta, in animo mihi est: alter, qui a scriptore commentarioli appellatur: Itinerario a' confini della repubblica letteraria, titulo caret; hanc modo praefert ex Phaedro inscriptionem: Ioculare tibi videtur et sane leve: dum nihil habemus maius, calamo ludimus2 at edendum non arbitror. lnterdum satis urbane iocari Didymum in itinerario video; aliquando haud inscite nugari; saepius tamen discinctum ludere et pueriliter ineptire: qui etiam testetur vidisse se in abditas partes aedium academiae cuiusdam, legem in pila ahenea maioribus incisarn litteris; sic: a M. G. Rainero, ancora mi domando se sia vivo o morto, o che cosa sia avvenuto di lui. DEL RFSTO, perché tu non mi stia a chiedere di più su Didimo, sappi che troverai in fondo al libruccio la notiziola già stampata in italiano, che io ho ricordato al principio della lettera. Aggiungerò che sono in mia mano due codici autografi, dei quali l'uno è intitolato '1rcoµ"')µ.CX-t<,>v f3Lf3ÀCcx nivn:, cioè (come lo scrittore della notiziola traduce) libri memoriali cinque, sulla propria vita, che Didimo scrisse in stile greco-alessandrino, con quale intenzione non so, certo seriamente; ed io ho in animo di pubblicarlo sia nella versione latina sia in una aggiunta versione italiana: l'altro, che dallo scrittore della notiziola è chiamato: Itinerario a, confini della repubblica letteraria, manca di titolo: solo, porta in fronte questa iscrizione, tolta da Fe- dro: Cosa da scherzo ti 11embra e ,•eramente leggera: quando non abbiamo niente di più importante aiochiamo con la penna ma non credo che si debba stampare. Vedo che Didimo nell'itinerario talora scherza abbastanza urbanamente; talora non rozzamente celia; più spesso tuttavia gioca sbracato e folleggia bambinescamente: ed anche afferma di aver visto nelle parti segrete del tempio d'una certa accademia una legge incisa a caratteri maiuscoli su una colonnetta di bronzo; cosi: 1. libelli • •• memoravi: vedi la nota I a p. 921. 2. Vedi FEDRO, 1v, z. 938 PROSE Q. F. F. S.1 NEMINIVE. FRAUDI. SCRIPTURAS. QUASQUE, ANTIQUITUS, SIVE ANTIQUO. SERMONE. VEL. CHARTIS. TRIBUS. SCRIPTAS. PROFERUNTO SUMTUOSE. EDUNTO. OPTUMATI. SIVE. DEXTERO. SIVE. SINISTRO. QUOIQUE, DECORAE. GRATAEVE, SINT, DICANTO. PRAEFATIONE. MAXUME, LATINA. MINUME. LACONICA. MAGNIFACIUNTO. IN. QUA. PLERA. TAMENETSI NEQUE. HILUM, ATTINENT. DISSERUNTO, GRAECORUM. ROMANORUMQ. CARMINA. SINGOLA, BINA. TRINA. PLERA. EX. SANCTUARIO, INDICUM RECITANTO. VARIA. INAUDITA. LECTIONE. RENOVATA. ITEMQ, ALIQUOT LINGUARUM. OMNIUM. VOCABULA, EX. THF.SAURIS SANCTIO OLLIS. QUI. HUIUSCE. LEGIS. ERGO. SEMEL. PARUERINT. GRADUS. PRIMUS. ADSCENSUS. AD. CATHEDRAM. ESTO. OLLOS. QUI. ITERUM. MAGISTROS. HABENTO. QUOS. TERTIO. IIANf. APPELLANTO. SI. QUIS. SECUS FAXIT. SPORTULAE. MINUUNTOR. CRIMEN. VIOLATAE. REI. LITTERARIAE ESTO ATQUE ego, quamquam hoc editoris pensum, instantibus fatis, invitissimo mihi obtigit; nihilominus conatus sum exsequi non nisi rite: scilicet, non ex lege fortasse a Didymo ficta, verum ex perpetuo CIÒ. SIA. FELICE. E. FORTIJNATO. O. A. NF.SSUNO. DI. FRODE. TUTTI. GLI. SCRIT• TI. AB. ANTIQUO. OSSIA. DETI'ATI. IN. LINGUA. ANTICA. ANCHE. SE. DI. TRE FOGLI, LI. PUBBLICHINO. LUSSUOSAMENTE. LI. STAMPINO, A. UN. NOBILE. SIA DESTRO. SIA. SINISTRO. E. A. CUI. SIANO. CONVENIENTI. E. GRADITI. LI. DEDICHINO, CON. UNA, PREFAZIONE. MASSIMAMENTE. LATINA. MINIMAMENTE. LACONICA. LI. MAGNIFICHINO. NELLA. QUALE. SU. MOLTE, COSE. ANCHE. SE. PER NULLA, ATTINENTI, DISSERTINO, POESIE. DEI. GRECI. E. DEI. ROMANI. DAL SANTUARIO. DEGLI. SCOPRITORI. A. UNA. A. DUE. A. TRE. A, MOLTE. PER. VOLTA RINNOVATE, CON. VARIA. MAI. UDITA. LEZIONE. DECLAMINO, PARIMENTI. VOCABOLI. DI. TUTTE. LE. LINGUB. RICAVATI. DAI. LORO. TESORI DECRETO PER. QUELLI. CHE. A. CAUSA. DI. QUESTA, LEGGE, SI. SIANO. RESI, NOTI. UNA VOLTA, IL. PRIMO. PASSO, SIA. IL. SALIRE. IN. CATTEDRA. QUELLI. CHE, UNA SECONDA, VOLTA, LI. RITENGANO, MAESTRI. QUELLI, CHE. UNA. TERZA. LI, CHIAMINO. MAESTRI. SOMMI. SE, QUALCUNO. ABBIA, AGITO. DIVERSAMENTE, SIANO DIMINUITI. I. SUOI. EMOLUMENTI. IL, SUO, SIA. DELITI'O. DI. LESA, LETTE- RATURA ED io, sebbene questo ufficio d'editore, per volere del fato, mi sia toccato del tutto contro mia voglia, mi sono tuttavia sforzato di compierlo non altrimenti che come si conviene: cioè non secondo la legge forse in- 1. Q. F. F. S.: antica formula di augurio: 1 Quod felix fortunatum sit •· HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 939 Eruditorum consensu, qui, ut lex, valet: non enim tam nescire, quam insolenter capessere litteras pro dedecore habent. Itaque, ne communia philologiae iura videar migrare, scripsi ad te, Iuli Rich. Worthi, epistolam; latinam, fortasse parum; verbosam, satis: in qua ne ratio ulla editionis Hypercalypseos te aliosve lateret, multa et varia complexus sum. En quoque libellum baud invenustis typis exscrip... tum, iisdemque illis exornatum figuris in manuscripto delineatis: has praeterea curas adhibui, ut tibi omnium amantissimo elegantia... rum, atque bibliothecis amicorum munusculum typographicum con... cinnarem. Vale. Scrib. Pisis. Kalend. Quinct. MDCCCXV. ventata da Didimo, ma secondo il perpetuo concorde parere degli eruditi, che vale, come legge: essi infatti stimano cosa che fa disonore, non tanto 19ignorare le lettere, quanto il trattarle non come si deve. Quindi, perché non sembri ch'io trasgredisca le comuni leggi della filologia, ti ho scritto, Giulio Rie. Worth, questa lettera; forse non abbastanza latina, verbosa abbastanza: nella quale, perché nessun motivo dell'edizione dell'lpercalisse restasse nascosto a te o ad altri, ho compreso molti e rari argomenti. Ecco dunque il libruccio stampato con non ineleganti caratteri, e ornato di quelle medesime figure disegnate nel manoscritto: inoltre, v'ho messo queste cure per rendere accetto a te, amantissimo di tutte le eleganze e di quelli che amano le biblioteche, un piccolo dono tipografico. Sta bene. Scritta a Pisa il 1 luglio 1815. HYPERCALYPSIS * "7~ 4.-t,, ~~" DIDYMI HYPERCALYPSEOS 1 CAPUT PRIMUM t >t'-1..., M l 1. V1s10 Didymi clerici super Hieromomum2 monachum. 2. Et factum est ut Hieromomus nondum diaconus scriberet diaria in adyto templi de rege, grege, lege3 et prophetis: Et spiritus eius obediebat pecuniae. 3. Gaudebat quoque funeribus et exsequiis villicorum: Et cum orphani et viduae non haberent cereum propter sepulturam consanguineorum, Hieromomus minabatur eis verbum Domini: DELL'IPERCALISSE DI DIDIMO CAPITOLO PRIMO 1. VISIONE di Didimo chierico sul monaco leromomo. z. E avvenne che leromomo non ancora diacono scrivesse diari, nel sacrario del tempio, intorno al rege, al gregge, alla legge e ai profeti: E lo spirito suo ubbidiva al danaro. 3. Godeva pure dei funerali e delle esequie dei villici: E se orfani e vedove non avevano il cero per la sepoltura dei congiunti, leromomo minacciava loro la parola del Signore: 1. Didymi Hypercalypseos: vedi la Clavis, alle pp. 992-3, e le note relative. La traduzione della frase che circonda il disegno è la seguente: 1 Aromi con danaro altrui a gran prezzo comprati per abbruciare le ossa dell'uomo• (vedi pp. 973-4). z. Hieromomum: vedi la Clavis, alle pp. 993-4, e le note relative. 3. Et factum • •• lege: vedi la Clavis, a p. 994. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 941 4. Vae villici! quomodo receditis ab oratione sanctorum? Ferte vinum, et triticum, et obolos eleemosynae ne sacerdos contaminetur in luctu: Nisi sacerdos et clericus precati fuerint pro defunctis vestris, diabolus devorabit eos in gehenna ignis. 5. Et ego Didymus recordatus sum verbum Dei: Vae vobis, scribae et pharisaei hypocritae: quia comeditis domos viduarum orationes longas orantes.1 6. Propterea recessi a via Hieromomi: et tantummodo scribebam diaria cum eo~ CAPUT SECUNDUM 1. ET factum est ut in undevigesimo anno, in sexto mense, in tertia mensis2 a baptismate meo, in die dominica, hora prima ante vesperas, contremeret arbor, et vidi visionem: 2. In terram transmigrationis Haramheorum, secus fl.umen civitatis Firzah, in agro qui dicitur Ptomotaphion: quod viri Haramhei interpretantur, sepulcretum quadrupedum.3 3. Ego natus ad collem cyparissorum,4 loquar omnia quae vidi in visione et quae audivi in praesepia. 4. Guai a voi, villici! Come v'allontanate dalla preghiera dei santi°? Portate vino e frumento, e oboli d'elemosina, affinché il sacerdote non si contanùni nel lutto: Se il sacerdote e il chierico non avranno pregato per i vostri defunti, il diavolo se li divorerà nella geenna del fuoco. 5. Ed io Didimo mi sono ricordato la parola di Dio: Guai a voi, scribi e farisei ipocriti: perché vi mangiate le case delle vedove pregando lunghe preghiere. 6. Perciò m'allontanai dalla via di leromomo: e soltanto scrivevo diari con lui. CAPITOLO SECONDO 1. E avvenne che nel diciannovesimo anno, nel sesto mese-, nel giorno terzo del mese dal mio battesimo, nella domenica, nell'ora prima innanzi ai vesperi, tremasse l'albero, e vidi una visione: 2. Verso la terra della trasmigrazione degli Aramei, lungo il fiume della città di Firza, nel campo che è detto Ptomotafio: cioè, come interpretano gli Aramei, sepolcreto dei quadrupedi. 3. lo nato presso il colle dei cipressi, dirò tutte quelle cose che ho viste nella visione e che ho udite nella capanna. 1. Vae •.. orantes: vedi Matth., 23, 14. 2. Et .•• men.sis: vedi Ezech., 8, 1: • Et factum est, in anno sexto in sexto mense in quinta mensis [...]•· 3. In ... quadrupedum: vedi la Clavis, a p. 994; Haramheorum: • Il Giambullari nella lingua aramea cercava le origini tosc[ane]; ma in ridicolo forse de' suoi derisori» (TOMMASEO-BELLINI); Ptomotaphion: località presso Firenze, detta la Sardigna (e vedi Edizione Nazionale, v, pp. 32 e 233). 4. Ego ••• cypari.ssorum: vedi la Clavis, alle pp. 994-5, e la nota relativa. 942 PROSB 4. Qui audit, inquirat: et qui non habet oculos, quiescat in verba mea. 5.1 Et cum discumberem subter ficum, inhians labiis meis, si forte ventus qui agitabat ficum demitteret fructus in os meum:2 silentium stetit circum animam meam, et calor laxaverat mihi nervos et artus: erat enim mensis ficorum.3 6. Et aures meae audiverunt tonitrua in somnio: et ictus quasi grandinis percutiebant mihi nasum. 7. Ego autem expergefactus prae dolore nasi aperui oculos, et terror invasit in ossa mea: arbor enim concutiebatur veluti per procellam, et coelum erat sine procella. 8. Et ficus acerbiores percutiebant mihi nasum: et lac eorum manabat amarius felle et absynthio: ficus autem maturiores pendebant ramis. 9. Cogitans cogitavi quod diabolus sederet in arbore, ut scriptum est per poetas in carminibus gentium et in libris metamor- phoseon. 10. Et cum surrexissem vidi virum iuvenem militarem4 cum acinace et galea et crista, habentem manu sinistra cornu venatoris: dextera autem concutiebat truncum magnum ficus. 4. Chi ode, indaghi: e chi non ha occhi, stia quieto alle mie parole. 5. E dormendo io sotto un fico, con le mie labbra schiuse, se mai il vento che agitava il fico ne facesse cadere i frutti nella bocca mia: si fece silenzio intorno all'anima mia, e il calore m'aveva disteso i nervi e le membra: era di fatti il mese dei fichi. 6. E le orecchie mie udirono tuoni in sogno: e colpi come di grandine mi percuotevano il naso. 7. E io svegliato per il dolore del naso, aprii gli occhi, e il terrore entrò nelle mie ossa: l'albero infatti si scoteva come per tempesta e il cielo era senza tempesta. 8. E fichi più acerbi mi percotevano il naso: e il loro latte stillava più amaro di fiele e d~assenzio: fichi più maturi invece pendevano dai rami. 9. Pensando pensai che nell'albero ci fosse il diavolo; come è stato scritto dai poeti nei canti delle genti e nei libri delle metamorfosi. 10. E balzato in piedi vidi un giovane militare con sciabola ed elmo e cimiero, che aveva nella mano sinistra un comb di cacciatore: e con la destra scuoteva il gran tronco del fico. 1. Vedi la Clavis, vs. 5. sqq., a p. 995. 2. nforte ... meum: vedi Apoc., 6, 13: a[.••] sicut ficus emittit grossos suos cum a vento magno movetur •· 3. erat ... jicorum: vedi Mare., 11, 13: •[...]non enim erat tempus ficorum ». 4. virum ••• militarem: vedi la Clavis, a p. 995. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 943 11. Et dixi: Apage Satan: et pedes mei currebant procul ab arbore, currebant veluti super renes equorum. 12. Tunc sonitus terroris conversus paullatim in vocem hominis, clamavit: Sta: Ego autem cecidi in faciem meam et audivi vocem clamantis: Sta super pedes tuos et loquar tecum.1 Ego interim cum surrexissem currebam procul a voce. 13. Iterum vox appellans me nomine meo, et nomine patris mei, et nomine atavi mei, prosequebatur me: vir militaris currebat calceatus ocreis, et calcaribus ferreis: et sonus acinacis in vagina ferrea currentis super silices implevit frigore suras meas dum ingrederer praesepe bubulci contubernalis mei ad fugiendum terrorem inferni. 14. Et ecce ante oculos meos sedens super manipulum foeni cum calatho in manibus anicula quaedam quae vocabatur Margarita. 15. Vir autem militaris stans ad ianuam praesepis clangebat cornu clangore turmarum in die proelii. CAPUT TERTIUM 1. SIGNUM quod factum est Didymo clerico ab anicula Margaritaz 11. E dissi: Vattene Satana: e i piedi miei correvano lontano dall'albero, correvano come su reni di cavalli. 12. Allora un suono di terrore, mutatosi a poco a poco in voce d'uomo, gridò: Fermati: E io caddi sulla mia faccia e udii la voce d'uno che gridava: Sta fermo sui tuoi piedi e parlerò con te. Io intanto alzatomi correvo lontano dalla voce. I 3. Di nuovo la voce chiamandomi col nome mio e col nome del padre mio e col nome dell'avo mio m'inseguiva: il militare calzato di stivali e con speroni di ferro correva: e il suono della sciabola nel fodero di ferro, correndo egli sopra le pietre, empi di freddo i miei polpacci mentr'io entravo nella capanna del bifolco d'un mio mnico per fuggire il terrore d'in- ferno. 14. Ed ecco innanzi agli occhi miei seduta sopra un fascio di fieno con un canestro nelle mani una vecchierella, che si chiamava Margherita. 15. E il militare in piedi presso la porta faceva risonare col corno il suono degli squadroni al momento della battaglia. CAPITOLO TERZO 1. SEGNO che fu fatto a Didimo chierico dalla vecchierella Margheri- 1. Ego autem ••• tecum: vedi Ezech., 2, I: •Et vidi et cecidi in faciem meam et audivi vocem loquentis. Et dixit ad me: Fili hominis, sta super pedes tuos, et loquar tecum ». 2. anicula Margarita: vedi la ClafJis, a p. 995. Nota G. A. Martinetti: • Il canestro dei .fichi buoni presso Geremia 944 PROSE cum vir militaris clangore cornu arceret omnes animas puerorum lascivorum et filiarum agri a ianua praesepis. 2. Boves bubulci, cum tuba sonaret, timuerunt lanium et ploraverunt multo mugitu: Vis taurorum percutiebat cornibus praesepe, et virga generationis eorum extendebatur in ira: Agni lactentes currebant ad matres, et matres et agni stipabant ad invicem sese prae pavore: Et equi .aratoris hinnitu inhiabant pugnam: Et sues grunnientes cursabant undique perterriti per praesepe: Canis autem pastoris longo eiulatu dixit omen triste. At anicula Margarita orabat sine pavore mentis ad Dominum. 3. Et cum viderem fortitudinem et fidem aniculae amplexus sum eam: et plorans velut infans clamavi Aa Aa.1 4. Et cum tertio aperuissem os meum ad clamandum Aa, anicula illa posuit in gutture meo dulcedinem ficus quem unum habebat in calatho. 5. Et comedi ficum: et factus est in ore meo, sicut mel, dul- cis.2 6. Illa autem porrexit ante me calathum vacuum. Et vir militaris ta, mentre il militare col clangore del corno teneva lontano dall'uscio della capanna tutte le anime dei baldanzosi ragazzi e delle figlie della cam- pagna. :z. I buoi del bifolco, al suonar della tromba, temettero il macellaioe piansero con molto muggire: La forza dei tori percoteva con le coma la mangiatoia e la loro verga della generazione si distendeva nell'ira: Gli agnelli lattanti correvano alle madri, e le madri e gli agnelli si stringevano gli uni agli altri per la paura: E i cavalli dell'aratore col nitrito invocavano la b_attaglia: E i porci grugnendo correvano d'ogni parte per la stalla atterriti: Il cane poi del pastore, con un lungo ululato, disse il malo augurio. Ma la vecchierella Margherita pregava senza paura della mente il Signore. 3. E vedendo la fortezza e la fede della vecchierella io l'abbracciai e piangendo come un bambino esclamai Ah Ah. 4. E avendo aperto per la terza volta la mia bocca ad esclamare Ah, la vecchierella pose nella mia gola la dolcezza del fico che unico aveva nel canestro. 5. E mi mangiai il fico: e nella bocca mia si fece dolce come il miele. 6. Quella poi porse innanzi a me il canestro vuoto. E il militare disse (cap. xxiv) è simbolo de' buoni Giudei che lddio avrebbe liberato dalla cattività di Babilonia» (U. FoscoLo, L'Jpercalisse, cit., p. 53). 1. e/amavi Aa Aa: espressione usata frequentemente nel testo biblico. Vedi, ad esempio, loll, 1, 15; ler., 1, 6, e 14, 13. 2. Et comedi • •• dulcis: vedi Apoc., 10, 9: • [.•.] et devora illum [.••] sed in ore tuo erit dulce tanquam meh, e anche il versetto 10. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 945 dixit ad me: Si plantaveris vineam et fructetum venter tuus quiescet,1 et cogitationes tuae sanabuntur. 7. Fac ut calathus iste quem ego do tibi impleatur sudore et labore tuo2 in nomine Dei. 8. Quid enim resupinus expectas ventum et procellam ut deiiciant fructus in os tuum? somnus et mors deprehendent animam tuam. CAPUT QUARTUMl I. PosTHAEC exorsus est iterum clangor cornu viri militaris, et audivi vocem illius: stabat enim ad ostium praesepis. 2. Verumtamen melior est somnus quam fraus: melior est mors vitae quam malum nomen et ignominia:4 optimum autem manducare panem opera manuum tuarum et vigilare in labore bono. 3. Expergiscere, Didyme, expergiscere: convertere oculos ad lumina coeli, et ad Dominum qui creavit coelum et terram, et hominem5 ut desiderio coeli operaretur terram. a me: Se pianterai la vigna e il frutteto il ventre tuo starà in pace, e i pensieri tuoi saranno risanati. 7. Fa che codesto cestello che io ti do si riempia del sudore e del lavoro tuo nel nome di Dio. 8. Perché infatti aspetti supino il vento e la procella che faccian cadere i frutti nella tua bocca? Il sonno e la morte sorprenderanno l'anima tua. CAPITOLO QUARTO 1. DOPO QUBSTO, di nuovo s'alzò il clangore del corno del militare: e udii la voce di lui: stava egli infatti sulla porta della capanna. 2. Tuttavia realmente è migliore il sonno che la frode: è migliore la morte che il cattivo nome e Pignominia: ottima cosa è poi mangiare il pane opera delle tue mani e vegliare in un lavoro buono. 3. Svegliati, Didimo, svegliati: volgi i tuoi occhi alla luce del cielo, e al Signore che ha creato il cielo e la terra, e l'uomo, affinché per desiderio del cielo lavorasse la terra. 1. Si plantaveris .•• quiescet: vedi ler., 291 5: •[...] et piantate hortos et comedite fructum eorum», e anche Gen., 91 20: •Coepitque Noe, vir agricola, exercere terram et plantavit vineam ». 2. iste quem . .. t110: vedi Gen., 3, 19: u In sudore vultus tui vesceris pane [...]D. 3. Vedi la Clavis, o p. 995. 4. melior •.• ignomi,iia: vedi Prov., 22, 1: • Melius est nomen bonum quam divitiae multae [...] D, e anche Ecclt., 7, 2: • Melius est nomen bonum quam unguenta pretiosa [••.J». 5. Donrinum . •. hominem: vedi Gen., I, I e 27 6o PROSE 4. Scriptum est: Paululum dormies, paululum dormitabis, paululum conseres manus tuas ut dormias: et veniet ad te quasi viator egestas, et vituperium quasi vir armatus.1 5. Et ecce tu captas viaticum insipientiae et desidiae et scandali: scribis enim ephemeridas adversus fratres tuos quaerens lucrum in adulatione et calumnia. 6. Tu es clericus: quid ergo diaria cum clericis ? Doce parvulos orationem quam didicisti in tabernaculo sancto: lege tibi et agricolis parabolas veritatis: 7. Quia Deus diligit parvulos2 et pusillos et pauperes: reddet ergo tibi bonum secundum caritatem tuam erga eos. 8. Evangeliza pauperibus orationem dominicalem: ut petant in quiete mentis et in sudore frontis panem quotidianum: 9. Ut in patientia cordis discant dimittere debitum debitoribus praedivitibus qui non reddunt operario mercedem:3 10. Ut, cum leges, greges, reges filiorum Adam evertentur, subvertentur, revertentur super faciem terrae, agricolae et operarii adorantes clament: Fiat voluntas Dei sicut in coelo et in terra:~ 4, È scritto: Un poco dormirai, un poco dormicchierai, un poco intreccerai le mani tue per dormire: e verrà da te quasi viandante l'indigenza, e il vituperio quasi uomo annata. 5. Ed ecco tu prendi il viatico dell'insipienza e dell'ignavia e dello scandalo: scrivi infatti efemeridi contro i fratelli tuoi cercando lucro nell'adulazione e nella calunnia. 6. Tu sei chierico: che cosa dunque hanno a che fare i giornali coi chierici? Insegnerai ai fanciulli l'orazione che hai imparato nel tabernacolo santo: leggi a te e ai contadini le parabole della verità. 7. Perché Dio ama i fanciulli e i pusilli e i poveri: renderà dunque bene a te secondo la tua carità verso essi. 8. Ripeti ai poveri secondo il Vangelo l'orazione domenicale: perché chiedano in tranquillità di mente e nel sudore della fronte il pane quotidiano: 9. Perché in pazienza di cuore imparino a rimettere il debito ai debitori pur ricchissimi, i quali non danno all'operaio la mercede: 10. Perché, quando leggi, greggi, regi dei figli d'Adamo saranno travolti, sconvolti, e volti al ritorno sulla faccia della terra, i contadini, gli operai adorando, gridino: Sia fatta la volontà di Dio come in cielo, anche in terra. 1. Paululum .•• armatus: vedi Prov., 6, 10-1 (ma •pauperies » invece di vituperium). 2. Quia . .• parvulos: vedi Matth., 191 14: • [•..] Sinite parvulos et nolite eos prohibere ad me venire: talium est enim regnum caelorum •· 3. Evangeliza ... mercedem: vedi Matth., 6, 11-2: «Panem nostrum supersubstantialem da nobis hodie, et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris ». 4. Fiat .•• terra: vedi Matti,., 6, 10. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 947 1 1. Sic pro labore iusto habebis panem et pacem in domo cordis tui. I 2. Cave praesertim ne scribas diaria: melior est somnus quam fraus: melior est mors vitae quam malum nomen et ignominia. 13. Memoria scriptorum omnium ephemeridum in compositione adsentationis et obiurgationis fiet opus sterquilinii.1 CAPUT QUINTUM 1. ONUS Hieromomi. 2. Et vox viri militaris increpabat ultra: Homo homo de colle cyparissorum, fili Raphael filii Seraphim, scio opera tua, et adsentationem ad captandos improbos, et iurgia tua in prophetas, et insidias in animam meam:2 tu es vivus et mortuus. 3. Sed quia odisti opera Hieromomi3 adversus viduas, remitto tibi peccata. 4. Revertere a via tua pessima:4 leges enim cum coecis, et scribes cum sycophanta: et tempus irae prope est. I I. Così in cambio del lavoro giusto avrai pane e pace nella casa del cuore tuo. 12. Guardati soprattutto dallo scrivere giornali: è migliore il sonno che la frode: è migliore la morte che il cattivo nome e l'ignominia. 13. Di tutti gli scrittori di efemeridi si farà ricordo in una mescolanza di adulazione e di biasimo, opera di letamaio. CAPITOLO QUINTO 1. IL PESOS di leromomo. 2. E la voce del militare gridava ancora: Uomo, uomo del colle dei cipressi, o figlio di Rafael, figlio di Serafim, conosco le opere tue, e l'adulazione tua per cattivarti i malvagi, e le tue dispute contro i profeti, e le insidie tese a1l'anima mia: tu sei vivo e morto. 3. Ma poiché odii le opere di Ieromomo contro le vedove, ti rimetto i tuoi peccati. 4. Torna indietro dalla via tua pessima: ché tu leggerai coi ciechi e scriverai col calunniatore: e il tempo deWira è vicino. I. Memoria .•• sterq11ilinii: vedi Eccli., 49, 1 : • Memoria losiae in compositionem odoris facta opus pigmentarii ». 2. scio ••• meam: vedi Apoc., 2, 2: • Scio opera tua et laborem et patientiam tuam et quia non potes sustinere malos [.•.] ». 3. Sed . .. Hieromomi: vedi Apoc., 2, 6: a Sed hoc habes, quia odisti facta Nicolaitarum [...] ». 4. Revertere • •• pessima: vedi Jer., 25, s: a[••.] Revertinùni unusquisque a via sua mala et a pessimia cogitationibus vestris [•.•] •· 5. Il peso: la punizione. PROSE 5. Hieromomus fiet monachus et sacerdos in urbe transmigrationis Gallorum Senonum1 ad Austrum Alpis Penninae. 6. Et accinctus diploide2 impudentiae, docebit pueros doctrinas quas ne ipse quidem didicerat. 7.3 Et fiet apostata: ut confiteantur omnes quod scriptum est per sapientem: Homo apostata, vir inutilis; graditur ore perverso; annuit oculis; terit pede; digito loquitur; pravo corde machinatur malum; omni tempore iurgia seminat: huic extemplo venit perditio sua.4 8. Ideo Hieromomus scribet diaria ad iniiciendum ignem inter stipulas civitatis quam manus Dei liberavit ab eversione et perditione licentiae.5 9. Et replebitur maledictione populi sui: et sumens malitiam suam et atramentarium et baculum viatoris exulabit per gentes alienas, donec veniet in terra fertili,6 uhi sedet Babylo minima,' ad populum epulantem, de quo vaticinatus est Iacob: 10. Asinus8 fortis accubans inter terminos: vidit requiem quod 5. Ieromomo diventerà monaco e sacerdote nella città della trasmigrazione dei Galli Senoni ad Austro dell'Alpe Pennina. 6. E avvolto neWampio mantello delJ'impudenza, insegnerà ai fanciulli quelle dottrine che nemmeno egli stesso aveva imparato. 7. E diventerà apostata: perché tutti proclamino quello che è stato scritto dal sapiente: Uomo apostata, persona inutile; incede con faccia perversa; cogli occhi ammicca; striscia col piede; col dito parla; nel suo cuore malvagio macchina il male; in ogni tempo semina litigi: a costui presto viene la perdizione sua. 8. Perciò Ieromomo scriverà giornali a gettare il fuoco fra le stoppie della città che la mano di Dio liberò dalla distruzione e dalla perdizione della licenza. 9. E sarà riempito della maledizione del popolo suo: e prendendo con ~ la sua malizia e il calamaio e il bastone del viandante, andrà esule per genti straniere, finché giungerà in una terra fertile, dove siede la Babilonia minima, presso un popolo gozzovigliante del quale Giacobbe vaticinò: 10. Asino forte che se ne stava sdraiato entro i suoi confini: vide che il 1. Hieromomus .•• Senonum: si fa allusione al soggiorno del Lnmpredi in Francia. 2. diploide: vedi Bar., 5, 2: 11 Circumdabit te Dcus diploide iustitiae [...]D. 3. Per questo e i due versetti seguenti vedi la C/avis, n p. 996. 4. Homo .•. perditio n,a: vedi Prov., 6, 12-5. 5. quam . .. licentiae: vedi Ecc/i., 50, 4: «Qui curavit gentem sunm et liberavit eam a pcrditione ». 6. in terra fertili: vedi la Clavis, a p. 996. 7. Baby/o minima: vedi la ClatJis, a p. 996. 8. Asinus: vedi la C/avis, a p. 996. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 949 esset bona, et terra quod optima, et supposuit humerum suum ad portandum, factusque est serviens tributis.1 11. Ibi coluber devorans infantem interfectus est a malo cydonio agricolae: et malum cydonium conterritum a !ilio: lilium autem avulsum ab induperatore monacho cuius filii et abnepotes tenebant terram illam sub tributo per satrapas :2 12. Mox Deus dominus exercituum dedit Viraginem3 principem populi: sicarii, publicani, et lenones moechati sunt eam, et facta est meretrix. 13. Et Vultur4 prae se ferens vexillum Aquilae venit et dixit pullo suo: Ego dominus: tu autem princeps populi huius; et dabo tibi alas Leonis; et cornu unum Tauri bellicosi; et Piscatoris litora:5 verumtamen tu contemne prophetas, quia ego multitudine stultorum sapientiam prophetarum obruam. 14. Principio Deus induit fortitudine ensem pulli; et mentem eius iustitia; et cor eius misericordia:6 et pulchritudo et castitas osculatae sunt in thalamo suo:7 et vidit virgines et matronas versantes rosas in lectulo filiorum suorum. riposo era buono, e ottima la terra, e mise sotto il peso il suo dorso per portarlo, e divenne servo ai tributi. I 1. Ivi la biscia che divora il bambino fu uccisa dalla mela cotogna di un contadino: la mela cotogna fu sgominata dal giglio: il giglio poi fu strappato dall'imperatore monaco i cui figli e pronipoti tenevano quella terra sotto tributo per mezzo di satrapi. 12. Ben presto Dio signore degli eserciti diede una maschia Donna per principe del popolo: sicari, pubblicani, e lenoni la prostituirono e divenne una meretrice. 13. E l'Avvoltoio portando innanzi a sé il vessillo dell'Aquila venne e disse al pulcino suo: Io signore: e tu principe di questo popolo; e darò a te le ali del Leone; e un corno del Toro bellicoso; e i lidi del Pescatore: tuttavia tu spregia i profeti, perché io con la moltitudine degli stolti sommergerò la sapienza dei profeti. 14. In principio Dio rivesti di fortezza la spada del pulcino; e la mente sua di giustizia; e il cuore suo di misericordia: e la bellezza e la castità dettero baci nel suo talamo: e vide vergini e matrone che sporgevano rose sul lettuccio dei figli suoi. I. Asinus ... tributis: vedi Gen., 49, 14-5. 2~ lbi .•. satrapas: vedi la Clavis, a p. 996. 3. Viraginem: vedi la Clavis, a p. 996. 4. Vultur: vedi la Clavis, a p. 996. 5. pullo mo ... litora: vedi la Clavis, a p. 996. 6. Principio ..• misericordia: vedi la Clavis, a p. 996. 7. et cor .•• thalamo mo: vedi Psalm., 84, 11 : • Misericordia et veritas obviaverunt sibi, iustitia et 95° PROSE 15. Deinde res nimis prosperae et adulatores, et Synagoga Doctorum, et Senatus Parasitarum1 inflaverunt animam suam, et in ebrietate gloriae suae reiecit prophetam; vocavitque Synagogam Doctorum, et Senatum Parasitarum, et dixit ad eos verba Baruch: 16. Ecce misimus ad vos pecunias, de quibus emite holocautomata et thus, et facite manna, et veneramini Nabuchodonosor2 trium Babylonum,et me Baltassar3filium eius: magnificate bellipotentem:4 17. Ut omnes populi sileant sub umbra Nabuchodonosor:5 vos autem cantabitis euro sub umbra mea, ut serviatis mihi et servis meis multis diebus, et inveniatis gratiam in conspectu meo semper. 18. Et dedit Hieromomo grabatum et ferulam, et constituit euro paedagogum Chaldaeum epheborum atrii regis.6 CAPUT SEXTUM I. ONus Hieromomi. 2. Dixit spiritus Dei vivi: Necesse est ut veniant scandala.7 15. Poi l'eccessiva prosperità e gli adulatori, e la Sinagoga dei Dottori, e il Senato dei Parassiti gonfiarono l'anima sua, e nell'ebbrezza della sua gloria, respinse il Profeta; e chiamò la Sinagoga dei Dottori e il Senato dei Parassiti; e disse loro le parole di Baruch: 16. Ecco abbiamo a voi mandato denaro: comprate con esso vittime e incenso, e producete manna, e venerate il Nabucodonosor delle tre Babilonie, e me Baldassar figlio suo: magnificate il guerripotente. 17. Cosi che tutti i popoli tacciano sotto l'ombra di Nabucodonosor: e voi canterete lui sotto l'ombra mia, perché serviate me e i servi miei nei molti giorni e troviate grazia al mio cospetto sempre. 18. Diede a Ieromomo il lettuccio e la ferula, e lo fece pedagogo caldeo degli efebi dell'atrio del re. CAPITOLO SESTO 1. IL PESO di leromomo. 2. Disse lo spirito del Dio vivo: È necessario che avvengano scandali. pax osculatae sunt •· 1. Synagoga . .. Parasitarum: vedi la Clavis, a p. 996. 2. Nabuchodonosor: vedi la Clavis, a p. 996. 3. Ba/tassar: vedi la Clavis, a p. 996. 4. Ecce •.. belli'potentem: vedi Bar., I, 10-1: a[.•.] Ecce misimus ad vos pecunias, de quibus emite holocautomata et tus et facite manna [...] et orate pro vita Nabuchodonosor regis Babylonis et pro vita Balthassar filii eius, ut sint dies corum sicut dies caeli super terram ». 5. sub umbra Nabuchodonosor: vedi Psalm., 16, 8: a[...] sub umbra alarum tuarum protege me». 6. Et dedit ... regis: vedi la Clavis, a p. 997, e la nota relativa. 7. Dixit ••• scandalo: vedi Matth., 18, 7. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 951 3. Tradidit ergo Satanae scribas et paedagogos et anus poetrias libidinosas ut scandalizent. 4. Haec dixit vir militaris ad me: Gallus homo1 satiabitur fruc-- tibus terrae pinguis, et vociferabitur: 5. Obliviscimini linguae patrum vestrorum quia profert inania: loquimini linguam meam quae habet verba sapientiae, et cantat mirabiliter in orchestra. 6. Tunc et Hieromomus bibet vinum in convivio Eden satrapae,2 et una cum Gallo vociferabitur: Expuam fel e iecore meo super facies filiorum populi ad sanandos oculos eorum, quia prophetae excoecaverunt civitatem. 7. Cives autem boni dicent Hieromomo: Extendis linguam tuam quasi arcum mendacii et non veritatis:3 8. Comede et bibe in paupertate tua sub rege prodigo, et superpone digitum ori tuo :4 ne lictores equestres5 adducant te in castrum civitatis paludosae6 usque ad mortem. 9. Sed aures Hieromomi non erunt audientes verbo patientiae: 3. Ha dato dunque a Satana scribi e pedagoghi e vecchie poetesse libidinose perché scandalizzino. 4. Queste cose disse il militare a me: Un uomo Gallo si sazierà con i frutti della terra pingue e griderà: 5. Dimenticate la lingua dei padri vostri, perché proferisce insulsaggini: parlate la lingua mia che ha parole di sapienza e canta mirabilmente in teatro. 6. Allora anche leromomo berrà il vino al convito del satrapo Eden, e insieme col Gallo griderà: Sputerò fiele dal mio fegato sulle facce dei figli del popolo per sanare gli occhi loro, poiché i profeti acciecarono la città. 7. l\lla i cittadini buoni diranno a leromomo: Tu tendi la lingua tua quasi arco di menzogna e non di verità: 8. Mangia e bevi nella tua povertà sotto il re prodigo, e metti il dito sulla bocca tua: affinché i littori a cavallo non ti conducano al castello della città paludosa fino alla morte. 9. Ma le orecchie di Ieromomo non saranno disposte a udire la parola 1. Gal/us homo: vedi la Clavis, alle pp. 997-8, e le note relative. 2. Eden satrapae: vedi la Clavis, alle pp. 998-9, e la nota relativa. 3. Extendis . •• veritatis: vedi Jer., 91 3 (ma a extenderunt • invece di extendis, e II suam • invece di tuam). 4. et superpone ... tuo: vedi Jud., 18, 19: «[•••] Tace et pone digitum super os tuum [...] •, e lob, 21, s: «[ •••] et superponite digitum ori vestro •· 5. lictores equestres: vedi la Clavis, a p. 999. 6. castrum • .• paludosae: vedi la Clavis, a p. 999. 952 PROSE et iterum subsannabit prophetas iustos terrae pinguis, uhi sedet Babylo minima. 10. Cives autem dicent iterum: Hieromome presbyter; exue vestes amatorias iuvenum, et indue te indumento nigro levitico: 11. Abiura sacrilegium adulterium et simoniam: mitte calamum sycophantae: tolle librum psalmorum, et cum sacerdotibus et populo dic canticum in templo Dei ad exoptandam pacem urbis,1 libertatem civium, et gloriam principis: 12. Noli, tu sacerdos, magnificare clades triumphales: minus enim a Domino Deo petimus regem bellipotentem; magis vero sapientipotentem: 13. Scriptum est: Tu es sacerdos in aeternum.2 CAPUT SEPTIMUM 1. 0Nus Hieromomi. 2. Audi, Didyme, quia cives boni facient tertio verba patientiae Hieromomo: filiusque Vulturis3 praetendet alas suas super eum. 3. Apostata autem obduratur in praevaricatione; nec habebit della pazienza: e di nuovo sbeffeggerà i profeti giusti della terra pingue, dove siede la Babilonia minima. 10. E i cittadini di nuovo diranno: O leromomo prete; deponi le vesti amatorie dei giovani, e indossa il nero abito levitico: 11. Abiura il sacrilegio, l'adulterio e la simonia: getta la penna del calunniatore: prendi il libro dei salmi e coi sacerdoti e il popolo recita il cantico nel tempio di Dio ad implorare la pace della città, la libertà dei cittadini, e la gloria del principe: 12. Non volere, tu sacerdote, magnificare le stragi trionfali: meno infatti al Signore Dio chiediamo un re potente in guerra; ma più un re potente in sapienza. 13. È scritto: Tu sei sacerdote in eterno. CAPITOLO SETTIMO 1. IL PESO di leromomo. 2. Ascolta, Didimo, perché i cittadini buoni faranno per la terza volta discorsi di pazienza a leromomo: e il figlio dell'Avvoltoio distenderà le ali sue sopra lui. 3. Ma l'Apostata s'ostina nella prevaricazione; e non avrà più medicina: 1. et cum .•. urbis: vedi Jer., 291 7: «et quaerite pacem civitatis [..•] et orate pro ea ad Dominum [...] n. 2.. Scriptum .•• aeternum: vedi Psalm., 109, 4. 3.filiusque Vulturis: Eugenio Beauharnais. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 953 ultra medicinam: et cum tertio non audiet, et Vultur repulsus fuerit in nido ignominiae, onus ultionis corruet adversus eum. 4. Lictores equestres ligabunt manus eius in pollicibus ferreis, et circumdabunt eum vinculis. 5. Bibliopolae pro redemtione nummorum quos dederant ei ut scriberet cum atramento sycophantae ad liniendam libidinem improborum, venundabunt verromercatoribus1 papyrophylacium Hieromomi. 6. Lectores ephemeridum execrabuntur eum in amaritudine quia crediderunt mendacio, et persecuti sunt veritatem. 7. Ille recordatus dierum felicitatis suae, petet auxilium; et participes quoque sui recedent ab eo.2 8.3 Phlyrias histrio, filius Benach;4 et Ghoes poeta, filius Horos;5 et Psoriona ludimagister, filius Phthoniae;6 et Agyrtes bibliopola, filius Bethon:7 9.8 Et alia genimina Mammonae quorum frons est attrita et cor non est carneum:9 10. Qui dictabant diaria Hieromomo, et instaurabant eum testem e quando per la terza volta non ascolterà, e l'Avvoltoio sarà stato cacciato nel nido dell'ignominia, il peso della vendetta rovinerà su lui. 4. I littori 11 cavallo avvinceranno le mani sue in manette di ferro, e lo cingeranno di catene. 5. I librai per compenso dei danari che gli avevano dato affinché scrivesse con l'inchiostro del calunniatore a stuzzicare la libidine dei malvagi, offriranno in vendita agli antiquari la raccolta di papiri di leromomo. 6. I lettori di giornali lo esecreranno, nell'amarezza di aver creduto alla menzogna e aver perseguitato la verità. 7. Egli ricordando i giorni della felicità sua, chiederà aiuto; e anche i suoi partigiani si allontaneranno da lui. 8. L'istrione Fliria, figlio di Benac; e il poeta Goes, figlio di Oros; e il maestro di scuola Psoriona, figlio di Ftonia; e il libraio Agirte, figlio di Beton: 9. Ed altre procreazioni di Mammona, la cui fronte è consunta e il cuore non è di carne: 10. I quali dettavano quotidiane pagine a leromomo, e lo facevan esser 1. verromercaloribus: propriamente "mercanti di maiali". 2. 011us .•. ab eo: vedi la Clavis, a p. 999; li/e ... ab eo: vedi lob, 6, 13: «Ecce non est auxilium mihi in me, et necessarii quoque mei recesserunt a me•· 3. Vedi la Clavis, a p. 999. 4. Plrlyrias ... Benacli: vedi la Clavis, alle pp. 1002-3, e le note relative. 5. Ghoes . .. Horos: vedi la Clavis, a p. 1004, e le note relative. 6. Psoriona ..• Phthoniae: vedi la Clavis, alle pp. 1003-4, e le note relative. 7. Agyrtes ... Bethon: vedi la Clavis, a p. 1002, e le note relative. 8. Per questo versetto e i seguenti vedi la Clavis, a p. 999. 9. Et a/ia ... carneum: vedi Ezech., 3, 7: «[...] omnis quippe domus Israel attrita fronte est, et duro corde»; Mammonae: falso nume della ricchezza. 9S4 PROSE fornicationis calumniae in prophetas vivos, et in reges mortuos: 11. Et prandebant cum illo agnum pinguem de grege, et vitulos Vaccae Pastoris boni:1 12. Dicebantque Hieromomo: Affer vinum et bibemus: Et in crapula et ebrietate amplectebantur invicem clamantes: Pax: et non erat pax.2 13. Tu ergo despice eos: neve convivia illorum adeas: quia manducant panem pollutum.3 14. Neque sermones illorum audies: quia falsiloqui, et subversores, et irritatores sunt, et spiritus oris eorum multiplex. 15. Neque protuleris eloquium coram eis: quia increduli, invidi, delatores, et exasperantes.4 16. Quam oh rem, illis audientibus, pone signaculum labiis tuis: praestolator intellectus sui venundabit veritatem, et mercenarius animae suae tradet animam fratris sui. 17. lidem ergo omnes exprobrantes calamitatem Hieromomo, apponent peccata sua super eum.5 testimone del prostituirsi alla calunnia contro i profeti vivi, e contro i re morti: 11. E pranzavano con lui mangiando l'agnello pingue del gregge e i vitelli della Vacca del Pastore buono : u .. E dicevano a leromomo: Porta il vino e berremo: E nella crapula e nell'ebrezza si abbracciavano gridando: Pace: e non vi era pace. 13. Tu dunque disprezzati: e non andare ai conviti loro: perché mangiano pane polluto. 14. E non ascolterai i discorsi loro: perché sono falsi, e sovvertitori, e irritatori, e lo spirito della bocca loro è equivoco. I s. E non profferirai parole in presenza loro: perché increduli, invidi, delatori, ed esasperanti. 16. Per la qual cosa, se essi ascoltano, poni un sigillo sulle labbra tue: chi è pronto a far mercato del suo intelletto venderà la verità, e il mercenario dell'anima sua tradirà l'anima del fratello suo. 17. Dunque tutti quei medesimi che rimproverano a Ieromomo la sciagura, porranno i peccati loro sopra lui. 1. Vaccae • .. boni: vedi la Clavis, a p. 999, e la nota relativa. 2. clamantes ••• pax: vedi ler., 6, 14. 3. quia ..• pollutum: vedi Ezech., 4, 13: «[...] Sic comedent filii lsrael panem suum pollutum [...] ». 4. Neque .•• exasperantes: vedi Ezech., 2, 6: «Tu ergo, fili hominis, ne timcas eos neque sermones eorum metuas, quoniam increduli et subversores sunt tecum [•••] », e 7: «[•••] quoniam irritatores sunt ». Vedi per exasperantes la continuazione del versetto 6. 5. apponent ... eum: vedi Ezech., 7, 8: 11(.• •] et imponam tibi omnia scelera tua ». HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 955 18. Unusquisque autem in abscondito cordis sui obdurabit cogitationes suas in impietate. 19. Diu silet enim conscientia in praecordiis impiorum: conscientia impiorum leo dormiens. 20. Scriptum est: lniquitas surrexit in virga crudelitatis:1 sed crudelitas, sero quamvis, sibi flagellum. 21. Ideo dum lictores equestres adducent Hieromomum in castrum civitatis paludosae usque ad mortem: 22. Ghoes, et Psoriona, et Phlyrias, et Agyrtes filius Bethon prosequentur eum iacentem in compedibus super plaustrum, et canent tuba: Io. 23. Et fricabunt faciem eius urtica ut discat erubescere. 24. Tria tantum; Ara, Aratrum, et Arbor patibuli,2 filiis Adam opus sunt: unus vero inverecundis hominibus paedagogus optimus; Carnifex. CAPUT OCTAVUM 1. GLADIUS3 quem vidit Didymus clericus. 18. Ognuno poi nel segreto del cuore suo temprerà i pensieri suoi nel- 1'empietà. 19. A lungo tace infatti la coscienza nei precordi degli empi: la coscienza degli empi è un leone che dorme. 20. È scritto: L'iniquità spuntò sulla verga della crudeltà: ma la crudeltà, quantunque tardi, è flagello a sé stessa. 21. Perciò mentre i littori a cavallo condurranno Ieromomo nel castello della città paludosa fino alla morte: 22. Goes, e Psoriona, e Fliria, e Agirte figlio di Beton lo accompagneranno steso in catene sopra un carro, e canteranno a suon di trombe: Ev- viva. 23. E sfregheranno la faccia sua con ortica, perché impari ad arros- sire. 24. Tre cose soltanto occorrono ai figli d'Adamo: Ara, Aratro, e Albero del patibolo: uno solo invero agli uomini inverecondi è il pedagogo ottimo: il Carnefice. CAPITOLO OTTAVO 1. LA SPADA che Didimo chierico vide. I. lniquitas ••• crudelitatis: vedi Ezech., 7, II (ma II impietatis » invece di crude/itatis). 2. Tria • .• patibuli: vedi FoscoLO, Lettera apologetica: a E cosi l'aratro, l'altare e il patibolo, senza de' quali non v'è società su la terra [...] » (Edizione Nazionale, XIII, parte 11, p. 101). E vedi qui a p. 991. 3. G/adius: vedi la Clavis, a p. 1000. PROSE 2. Silentium circumstetit et tenehrae factae sunt in praesepia:1 vesperascehat enim dies. 3. Et audivi vocem dicentem: Sume calathum et accede. Et sumsi calathum et dix.i: Uhi es? 4. Et vir militaris evaginavit acinacem clamans: Sequere lumen fortitudinis. 5. Et vidi acinacem coruscantem nudum: et cecidi ad pedes eius tamquam mortuus.2 6. Et apprehendit me in cincinno tonsurae meae: et adduxit me ad flumen urbis Firzah in aggere qui respiciehat ad aquilonem, uhi est sepulcretum quadrupedum.3 7. Minae turbinis possidebant terram: et stellae retraxerant lumen: nox solitaria gradiehatur in circuitu sepulcreti: et in cursu aquarum tonitrua. 8. Gladius autem viri militaris, in aspectu aeris candentis,4 frangebat noctem. 9. Et ex utraque parte chalybis, velut stellae magnitudinis minimae, praefulgehant literae duodecim: 2. Fu tutt'intorno silenzio e si fece buio sui casolari: di fatti annottava. 3. E udii una voce che diceva: Prendi il canestro e avvicinati. E presi il canestro e dissi: Dove sei? 4. E il militare sguainò la sciabola gridando: Segui il lume della fortezza. s. E vidi la sciabola che, nuda, lampeggiava: e caddi ai piedi suoi come morto. 6. E mi afferrò per un riccio della mia tonsura e mi condusse al fiume della città di Firza sull'argine che guardava a settentrione, dove· è il sepolcreto dei quadrupedi. 7. Minacce di bufera possedevano la terra: e le stelle avevano ritratto la loro luce: notte solitaria spaziava entro il sepolcreto; e sul correr delle acque tuoni. 8. La lama del militare, a somiglianza di bronzo arroventato, fendeva la notte. 9. E da una parte e dall'altra del ferro, come stelle di minima grandezza, rifulgevano dodici lettere: 1. et tenebrae . •• praesepia: vedi Matlh., 27, 45: 11 [ •••] tenebrae factae sunt super universam terram [...] >1• 2. Et vidi ... mort11us: vedi Apoc., 1, 17: n Et cum vidissem eum, cecidi ad pedes eius tamquam mortuus [...] •· 3. Et apprehendit . .. quadrupedum: vedi Ezech., s; J: «Et [...] npprehendit me in cicinno capitis mei et [...] adduxit me in Ierusalem [...] iuxta ostium interius, quod respiciebat ad aquilonem, uhi erat statutum idolum [•••] ». 4. in •.. candentis: vedi Ezech., 1, 7: «[•••] et scintillae quasi adspectus aeris candentis ». HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 957 10. Ex parte una, literae sex: EST EST: ex parte altera, literae sex: NON NON.1 CAPUT NONUM 1. VERBUM super anum poetriam.2 2. Et ecce similitudo mulieris nudae, annorum sexaginta:3 quae, quasi vulpis sitiens praedam per solitudinem, explorabat undique penetralia fovearum quadrupedum; et sub lumine aeris tenebrescentis veniebat, 3. Distorquens oculos, intuitu procaci, dentibus fractis, mammis attritis, femore foedo proluvie, ventre praegrandi, cruribus valgis: 4. In capite eius calvitium: et nesciebat consistere pedibus.4 5. Et habebat manu sinistra calamum. 6. Et effodiebat morticina quadrupedum: congregabatque putredines conglutinans eas in ore suo. 7. Et expuebat conglutinatum: et coagulatum est in atramento seriptoris.5 10. Da una parte sei lettere: EST EST: dall'altra parte, sei lettere: NON NON. CAPITOLO NONO 1. PAROLA sopra la vecchia poetessa. 2. Ed ecco una parvenza di donna nuda, d'anni sessanta: che, quasi volpe in bramosa cerca di preda per luoghi deserti, esplorava da ogni parte nei lor penetrali le fosse dei quadrupedi; e veniva sotto la luce dell'aerc che s'abbuiava. 3. Storcendo gli occhi, con sguardo procace, con denti rotti, con mammelle consunte, con femore sudicio di diarrea, con ventre smodato, con gambe storte: 4. Sul capo suo calvizie: e non sapeva stare ferma sui piedi. 5. E aveva nella mano sinistra una penna. 6. E dissotterrava le carogne dei quadrupedi: e raccoglieva parti putrefatte, impastandole nella sua bocca. 7. E sputava l'impasto: e si rapprese in inchiostro di scrittore. 1. Est ... non: vedi la C/aw, a p. 1000. 2. anuin poetriam: vedi la Clavis, a p. 1000. 3. Et ecce .•• sexaginta: vedi Prov., 7, 10: •Et ecce occurrit illi mulier ornatu meretricio [...] ». 4. et ... pedibus: vedi Prov., 7, 11: •[...] nec valens in domo consistere pedibus suis ». 5. atramento scriptoris: vedi Ezech., 9, 2: e [•••] et atramentarium scriptoris ad renes eius [ •••] ». PROSE 8. Post haec quatiens colubrum rubrum immanem, percutiebat manu dextera nates suas magno cachinno: 9. Et continuo oculi mulieris sexagenariae insaniebant libidine. 1o. Et inhorruerunt pili carnis meae.1 CAPUT DECIMUM 1. MoRS Hieromomi. 2. Et ecce eunuchus2 quidam, ludimagister, nomine Philippus: homo spurius de terra transmigrationis Haramheorum. 3. Gradiens incessu anseris: et conspicilli equitabant nasum eius: erat enim varus et lippus. 4. Tenebatque ligonem vespillonis: et semitae eius erant involutae ambiguitate et caligine: quem cum conspexisset lamia clamavit currens obviam ei : 5. Ecce coagulavi secundum praeceptum Psorionae atramentum calamo suo et fratrum suorum. 6. Opus perfeci: veni et inebriemur amplexibus donec illucescat dies. 8. Dopo ciò, squassando un immane colubro rubro, percuoteva con la mano destra le natiche sue in una gran risata: 9. E subito gli occhi della donna sessantenne impazzivano di libidine. 1o. E si drizzarono i peli della carne mia. CAPITOLO DECIMO 1. MORTE di Ieromomo. 2. Ed ecco un certo eunuco, maestro di scuola di nome Filippo: uomo bastardo dell.a terra di trasmigrazione degli Aramei. 3. Che camminava con l'incedere dell'oca: e occhiali erano a cavallo del suo naso: era infatti sbilenco e guercio. 4. E teneva una zappa di becchino: e le sue vie erano involute per ambiguità e oscurità: quando lo scorse la strega urlò correndogli incontro: 5. Ecco ho preparato, secondo l'insegnamento di Psoriona, rinchiostro per la penna sua e dei fratelli suoi. 6. Ho compiuto l'opera: vieni e inebriamoci d'amplessi finché spunti il. giorno. I. Et ... meae: vedi lob, 4, 1 s: u[ •••] inhorrerunt pili carnis meae •· 2. eunuchus: vedi la Clavis, alle pp. 1000-1, e la nota relativa. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 959 7. Eunuchus respondens ait: Anna soror Calamoboa,1 Hieromomus cinaedus tuus mortuus est nudiustertius in vinculis et blasphemia. 8. Phlyrias et Ghoes, et Psoriona filius Phthoniae, et Agyrtes filius Bethon, mocchi tui, venient ad sepeliendum eum in Ptomotaphio: iidem enim exhumaverunt corpus eius de loco sancto uhi Synagoga Doctorum sepeliverant eum. 9. Et ecce hic ego fossor sepulturae rursum. 10. Et cum audivisset haec verba, poetria pererrabat ad similitudinem canis foetae lustrans tenebras et sepulcra: 11. Et eiulabat valde dicens: Venena latentia in putredine, et morticina pestifera: 12. Date mihi virus ad o_ccidendos in convivio Ghoes, et Psorionam et Phlyriam, et omnes Apostolos eorum Iscariotes Hieromo. .m1 me1: 13. Stillate atramentum et scribam alphabeto ftammeo maledictionem aeternam: optimates enim urbis crediderunt mihi: 14. Et sicut acuebam calumnias adversus maritos meos:2 et excoecavi Iustitiam calamo, et aperui aures suas lacrymis meis: Et e sacramento germinavit condemnatio innocentium: 7. L'eunuco rispondendo disse: Anna sorella Calamoboa, Ieromomo, il tuo cinedo, è morto ieri l'altro in catene e bestemmiando. 8. Fliria e Goes, e Psoriona figlio di Ftonia, e Agirte figlio di Beton, tuoi drudi, verranno a seppellirlo nel Ptomotafio: essi infatti esumarono il corpo suo dal luogo santo ove la Sinagoga dei Dottori l'avevano sepolto. 9. Ed eccomi qui, di nuovo affossatore per la sepoltura. 10. E udite queste parole, la poetessa s'aggirava a somiglianza di cagna gravida, perlustrando le tenebre e i sepolcri: 11. E ululava assai dicendo: Veleni ascosi nella putredine, e carogne pestifere: 1 z. Datemi il tossico per uccidere nel banchetto Goes, e Psoriona, e Fliria, e tutti gli apostoli loro, Iscarioti del mio Ieromomo: 13. Stillate inchiostro e scriverò a lettere di fuoco una maledizione eterna: gli ottimati infatti della città credettero a me: 14. E come aguzzavo calunnie contro i mariti miei: e acciecai la Giustizia con la penna, e apersi le orecchie sue con le lagrime mie: E dal giuramento germinò la condanna degli innocenti: 1. Calamoboa: vedi la Clmns, a p. 1001, e la nota relativa. 2. Et ticut ••• meos: vedi la ClatJis, a p. 1001, e la nota relativa. 960 PROSE 15. Sic scribam in libro imprecationem et iuramentum et vae ad perdendos etiam nocentes:1 16. Quoniam participes et proditores cinaedi mei vivi, persecutores etiam facti sunt mortuo. 17. Et bacchabor in Synagoga Doctorum, et in templo, et in emporio populi nuda: 18. Conspicite me populi omnes quia etiam_ vestimenta mea tandem abominantur me. 19. Cognoscite immunditiam meam quam texi indumento vir. . g1n1s: 20. Numerate super frontem femoris mei oscula Phlyriae, et Agyrtes, et Ghoes, et Psorionae inquilini domus meae. 21. Confitebor omnia facinora mea et fornicationes, et calumnias, et infanticidia; quoniam adulteri mei, adiutores mei hypocritae, exultant in amaritudine luctus mei: et sepulcrum Hieromomi erutum est manibus eorum. 22. Corripite ergo me fune et igne et forcipe dummodo excrucientur adulteri mei mecum: et dulcificabo amaritudinem meam opprobrio adulterorum meorum, et consolabor in inferno. 15. Cosi scriverò nel libro l'imprecazione e il giuramento e il guai a voi a mandare in perdizione anche i colpevoli: 16. Perché compagni e traditori del cinedo mio vivo anche sono diventati persecutori di lui morto. 17. E andrò smaniando come baccante nella Sinagoga dei Dottori, e nel tempio, e nel mercato del popolo, nuda: 18. Guardatemi, popoli tutti, perché anche le vesti mie finalmente hanno in abominio me. 19. Conoscete l'immondezza mia, che copersi con l'indumento della vergine. 20. Numerate sulla faccia del femore mio i baci di Fliria, e d'Agirte, e di Goes, e di Psoriona inquilino della casa mia. 21. Confesserò tutte le mie malefatte e fornicazioni, e calunnie, e infanticidi; poiché gli adulteri miei, aiutatori miei ipocriti, esultano nell'amarezza del lutto mio: e il sepolcro di leromomo è stato aperto dalle mani loro. 22. Afferrate me dunque con la fune e col fuoco e con la tenaglia purché siano torturati gli adulteri miei con me: e addolcirò l'amarezza mia con l'obbrobrio degli adulteri miei e sarò consolata nell'inferno. 1. Sic ... nocentes: vedi Num., S, 23: •Scrihetque sacerdos in libello ista maledicta [...] ». HYPERCALYPSEOS LIBER ·s1NGULARIS (1816) 961 CAPUT UNDECIMUM1 1. PosT haec mulier sexagenaria tinxit calamum atramento conglutinato in ore suo. 2. Et scripsit super convexum femoris sui multitudinem adulterorum suorum, numero arabico: nomina autem eorum litera Haramhea: 3. Et numerus et nomen convertebantur in ulcus: et nares meae abominatae sunt foetorem. 4. Et dum lamia illa eiularet, vidi lacertum viridem contorquentem sese ex ore suo: habebat enim lacertum pro lingua. 5. Et ex ore lacerti spicula mille: et in omni spiculo sulphur, et virus, et sanguis. 6. Eunuchus interea Philippus effodiebat foveam ligone. 7. Sedens autem fessus super aggerem glebae foveae deposuit ligonem in femore suo : et conserens manus suas, et emittens vocem tintinnabuli obtusi, dixit mulieri: 8. Audi, Anna Calamoboa: Synagoga Doctorum ne scandalizarent plebem et ecclesiam sepelierunt corpus Hieromomi in circuitu dormitionis fidelium: CAPITOLO UNDECIMO 1. Dopo questo la donna sessagenaria intinse la penna nell'inchiostro che aveva conglutinato nella sua bocca. 2. E sopra la convessità del femore suo scrisse la moltitudine degli adulteri suoi, in numero arabico: i loro nomi poi in scrittura aramea: 3. E il numero e il nome si mutavano in ulcere: e le narici mie schifaron il fetore. 4. E mentre quella strega ululava vidi un serpentello verde contorcersi dalla sua bocca: aveva infatti un serpentello per lingua. 5. E dalla bocca del serpentello mille pungiglioni e in ogni pungiglione zolfo, e veleno, e sangue. 6. L'eunuco Filippo intanto scavava la fossa con la zappa. 7. Sedendo poi stanco sopra il mucchio di terra della fossa depose la zappa sul femore suo: e intrecciando le dita sue, ed emettendo una voce di campanello roco, disse alla donna: 8. Ascolta, Anna Calamoboa: La Sinagoga dei Dottori per non scandalizzare la plebe e la chiesa seppellirono il corpo di Ieromomo entro il recinto del luogo di riposo dei fedeli: 1. Vedi la Clavis, alle pp. 1001-2. PROSE . 9. Pavor autem viatoris vespertini obtulit hesterna nocte oculo suo similitudinem Hieromomi egredientis e tumulo, evertentis cruces defunctorum in pace. 10. Et simulacra eorum in aspectu legionis columbarum timentium accipitrem orabant gementes ad Deum: Inimicus animae nostrae exterrens ossa pacifica. 11. Audi Anna, et parce mihi; quia conturbatio super conturbationem, et auditus super auditum :1 etenim inhabitantes apud locum religionis audivere vocem Hieromomi: 12. Clamabat enim ab inferis: Fili Horos, fili Bethon, fili Phthoniae, fili Benach: et vos omnes qui tractabatis consilium mecum: 13. Ad quid dereliquistis solum in proelio? 14. Eia depellite prophetas de nido vitae; umbra mea autem evertet reliquias eorum, et ossa eorum ludibria aquilonis: 15. Ne viventes in posterum commemorent virtutes eorum super tumulos, et lugeant eos. 16. Cives igitur qui audiverunt haec, reaedificaverunt hodie oriente sole sepulcra fidelium: et instauraverunt cruces super ea, et maledix.erunt Hieromomo. 9. Ma la paura a un viandante notturno fece apparire l'altra notte l'immagine di leromomo che usciva dal tumulo, e abbatteva le croci dei defunti in pace. 10. E le immagini loro in forma d'una legione di colombe che temono lo sparviero pregavano Dio gemendo: Nemico dell'anima nostra sconcertante le ossa ch'erano in pace. x1. Ascolta Anna, e perdonami: perché turbamento s'aggiunge a turbamento e udizione a udizione: infatti coloro che abitano presso il luogo sacro udirono la voce di leromomo: 12. Gridava infatti dagli inferi: Figlio di Oros, figlio di Beton, figlio di Ftonia, figlio di Benac: e voi tutti che tenevate consiglio con me: 13. Perché mi abbandonaste solo nella battaglia? 14. Orsù cacciate i profeti dal nido della vita; l'ombra mia poi sconvolgerà le reliquie loro, e le ossa loro saranno ludibrio dell'aquilone: 15. Perché i viventi nell'avvenire non ricordino le virtù loro sopra i tumuli, e li piangano. 16. I cittadini quindi, che udirono queste cose, riedificarono oggi al sorger del sole i sepolcri dei fedeli: e raddrizzarono le croci sopra essi, e maledissero leromomo. 1. quia ••• auditum: vedi Ezech., 7, 26: 1 [ •••] conturbatio super conturbationem veniet, et auditus super auditum [...] ». HYPERCALYPSEOS LI BER SINGULARIS (1816) 963 17. Postea irruerunt adversus Ghoes et poetas; et adversus Phlyrias et scurras; et adversus Psorionam et ludimagistros; et adversus Agyrtem et bibliopolas, et genus omne scriptorum ephe- meridum. 18. Et adversus Synagogam Doctorum. 19. Et etiam adversus me, quamvis custodiam vocem in faucibus meis, ne obstruantur in convivio Eden principis Parasitarum: quia .esuno. 20. Neque calamum tinxi in atramentario, neque chirographum dedi typographo: quia paveo. 21. Verbum meum invisibile iactum in praecordia aurium irrisoris divitis: et cum germinaverit zizania de semine meo in ore alieno, ego dicam: Non novi. 22. Ego ergo recogitans consilium, dixi in concilio adulteris tuis: effodiamus cito corpus Hieromomi; sepeliemus illud in Ptomo- taphio. 23. Futurum est enim ut locus sanctus sit in aeternum acies pugnae inter umbram· Hieromomi et umbras fidelium. 24. Sicut dictum est per poetam: Curae non ipsa in morte relin- quunt.1 I 7. Poi irruppero contro i Goes e i poeti; e contro i Fliria e i buffoni; e contro Psoriona e i maestri di scuola; e contro Agirte e i librai, e ogni genere di scrittori d'efemeridi. I 8. E contro la Sinagoga dei Dottori. I 9. Ed anche contro me, sebbene io custodisca la voce nelle fauci mie, affinché non si ostruiscano al convito d'Eden, principe dei Parassiti; perché ho fame. 20. Né penna intinsi nel calamaio, né manoscritto diedi al tipografo: perché ho paura. 2 I. Parola mia invisibile gettata nei labirinti degli orecchi del derisore ricco: e quando sarà germinata la zizzania dal mio seme nella bocca altrui, dirò: Non so. 22. lo dunque escogitando un consiglio, dissi in concilio agli adulteri tuoi: dissotterriamo subito il corpo di Ieromomo; lo seppelliremo nel Pto- motafio. 23. È per accadere infatti che il luogo santo sia in eterno campo di battaglia tra l'ombra di leromomo e le ombre dei fedeli. 24. Come è detto dal poeta: Gli affanni pur nella stessa morte non ci abbandonano. 1. Curae .•. relinquunt: vedi VIRGILIO, Aen., VI, 444. PROSE 25. Nam uhi rursus Hieromomus vocaverit vos ab inferis, revelans opera vestra, furor populi et lapides corruent in nos omnes. CAPUT DUODECIMUM 1 1. FUNUS Hieromomi. 2. Et vir militaris dixit ad me: Convertere Didyme ad plagam orientis, et vide: Et continuo facta est lux lurida in circuitu .aens. 3. Et vidi et ecce ibi sexcenta millia alarum vespertilionum rnicantia sulphure accenso, et supernatantia per fluenta fluminis. 4. Et supervecta alis properabat ad nos cymba nuda velis et rem1s. 5. Et .in cymba similitudines virorum sex, et feretrum. 6. Et cum adpropinquassent ligaverunt cymbam ad truncum arbuti in aggere. 7. Et primus egressus de cymba homo pusillus qui vescebatur spongiis et glycyrrhiza: hic Agyrtes filius Bethon.2 8. Habebatque super humerum corbem voluminum, et in manibus cymbalum: et festinabat clamans loquaciter: 25. Poiché quando nuovamente Ieromomo vi chiamerà dagli inferi, rivelando le opere vostre, furore di popolo e pietre rovineranno sopra noi tutti. CAPITOLO DUODECIMO I. IL FUNERALE di Ieromomo. 2. E il militare mi disse: Voltati, Didimo, alla piaggia d'oriente, e guarda: E subito si fece una luce lurida all'orizzonte. 3. E vidi, ed ecco ivi seicentomila ali di pipistrelli, che splendevano di zolfo acceso e sorvolavano lungo la corrente del fiume. 4. E trasportata su esso dalle ali veniva a noi veloce una barca spoglia di vele e di remi. 5. E nella barca sei parvenze d'uomini e il feretro. 6. E avvicinatisi legarono la barca al tronco d'un corbezzolo ch'era sull'argine. 7. E primo uscl dalla barca un uomo piccoletto che si nutriva di spugne e liquirizia: questi Agirte, figlio di Beton. 8. E aveva sopra una spalla una corba di volumi, e tra le mani un cembalo: e s'affrettava vociando loquacemente: 1. Vedi la ClafJis, a p. 1002. 2. Agyrtes filius Bethon: vedi la C/aw, a p. 1002, e le note relative. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 965 9. Ecce aromata mea, aere alieno magni parta ad comburenda ossa Hieromomi. 10. Secundum autem egredientem de cymba vidi hominem loquaciorem, capite tecto caliendro de pelle simiae; et larva personae in manibus eius; et alebatur cicadis: hic Phlyrias filius Benach.1 I I. Tertius veniens oculis et lacertis excoriatis, manducans apes et expuens aculeos in os hominum concinnabat verba achaica, et in labiis eius murmur loiolitae; et in manibus eius radices verborum: hic Psoriona filius Phthoniae.2 12. Et vidi in fronte huius scriptos3 cum fuco auripigmenti numeros arabicos undecim 19876543210. 13. Et cum adpropinquaret ad fulgorem gladii viri militaris, ecce numeri decem priores facti evanidi: numerus autem postremus zero factus grandior in medio frontis. 14. Quartus autem egrediens intuitu tristi, manducans limaces et expuens salivam clamabat: Colligite argentum meum: Et commixta salivae exibant cornua limacis: hic Ghoes filius Horos.4 I 5. Et posuit super aggerem vasum plenum papyris carminum: 9. Ecco i miei aromi, con danaro altrui comprati a caro prezzo per bruciare le ossa di leromomo. Io. Secondo poi vidi uscire dalla barca un uomo più loquace, coperto il capo da una parrucca di pelle di scimmia; e una maschera nelle mani di lui; e si cibava di cicale: questi l'istrione Fliria figlio di Benac. I I. Terzo venendo con occhi e braccia sbucciati, mangiando api e sputando i pungiglioni sulla faccia degli uomini, acconciava parole greche, e sulle labbra sue un murmure di loiolita; e nelle mani sue radici di parole: questi Psoriona, figlio di Ftonia. 12. E vidi sulla fronte di costui scritti con tintura d'orpello undici numeri arabici 19876543210. 13. E avvicinandosi al fulgore della spada del militare, ecco i primi dieci numeri svanirono: l'ultimo numero invece, lo zero divenne più grande in mezzo alla fronte. 14. Il quarto poi uscendo con sguardo triste, mangiando lumache e sputando soliva, gridava: Raccogliete il denaro mio: E frammisti alla saliva uscivano corna di lumaca: questi Goes figlio di Oros. 15. E pose sull'argine un vaso pieno di papiri di carmi: e avendo un 1. Phlyrias filir,s Benach: vedi la Clav,·s, alle pp. 1002-3, e le note relative. 2. Psoriona filius Plzthoniae: vedi la Clavis, alle pp. 1003-41 e le note relative. 3. Et vidi . .. scriptos: vedi Apoc., 141 1: • Et vidi, et ecce Agnus [..•] habentes nomen eius et nomcn Patris eius scriptum in frontibus suis 11. 4. Ghoes filius Horos: vedi la Clavis, a p. 1004, e le note relative. 966 PROSE et cum spiritus venti rapuisset carmina et obtulisset illa omnia ante oculos meos: 16. Ego Didymus legens vidi: PRO LEGE, IN LEGEM: PRO REGE, IN REGEM: PRO GREGE, IN GREGEM. 17. Interea ille canebat carmina cum tumultu: et discordia personabat in cantico lirae suae: 18. Cumque dixisset carmen, circumspectans undique insidias1 et aemulos, praetendebat palmam dexterae suae ad eleemosynam, veluti caecus in vestibulo templi. 19. Sequebatur cos quattuor pygmaeus quidam anagnostes: et frons eius velut tabula et carics; vescebatur enim tineis librorum; clamabatquc voce ranarum: Miserere: 20. Et cum homo quartus proximus ei, plecteret illum valde crudeliter plectro lirae suae, anagnostes respondebat: Amen. 21. Hic schismaticus est, et sine nomine.2 22. Postremus autem et indutus vellere verris decoriati egressus est de cymba gigas3 altitudinis quinque cubitorum et palmi: 23. Vorans reliquias coenae magnae coenaculi filiorum Carnificis Sancti:4 soffio di vento portato via i carmi e avendoli tutti portati innanzi agli occhi m1e1: 16. Io Didimo leggendo vidi: PER LA LEGGE, CONTRO LA LEGGE: PER JL REGE, CONTRO IL REGE: PER IL GREGGE, CONTRO IL GREGGE. 17. Intanto egli cantava carmi tumultuosamente: e la discordia risuonava nel cantico della sua lira: 18. E detto un carme, mentre scorgeva in giro da ogni parte insidie cd emuli, protendeva la palma della destra sua all'elemosina, come il cieco nel vestibolo del tempio. 19. Seguiva quei quattro un pigmeo lettore: e la fronte di lui come una tavola intarlata; si cibava infatti delle tarme dei libri; e gridava con la voce delle rane: Miserere: 20. E come l'uomo quarto il più vicino a lui lo percuoteva assai crudelmente col plettro della sua lira, il lettore rispondeva: Amen. 21. Questi è uno scismatico, e senza nome. 22. Ultimo poi e vestito col vello di un verro scuoiato usci dalla barca un gigante di cinque cubiti e un palmo d'altezza: 23. Divorando i resti della gran cena del cenacolo dei figli del Carnefice Santo: 1. circumspectam ... insidiai: vedi lob, 15, 21-2: rr[•••] ille semper insidias suspicatur [...] circumspectans undique gladium •· 2. Sequebatur . .• nomine: vedi la Clavis, a p. 1005, e la nota relativa. 3. gigas: vedi la Clavis, alle pp. 1005-6, e le note relative. 4. coenaculi • •• Sancti: vedi la Clavis, a p. 1006. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 967 24. Et ruminabat epulas velut Bos: et eructabat eas clamans: 25. Unus ego omnia scio quae vos omnes nescitis: nam ludas lscariotes qui tradidit Filium hominis in osculo sancto erat de stirpe David. David enim rufus erat.1 26. Tunc vir militaris dixit ad me: Gigas ille indutus vellere verris nescit quod populi sciunt: etenim ipse quoque tradidit magistrum suum Synagogae Doctorum: Baltassar deceptus a Synagoga dedit quinque millia aureorum pretium proditionis, et constituit gigantem magistrum magistrorum. 27. Hi sunt viri sex quos ego Didymus vidi egredientes de cymba. CAPUT DECIMUM TERTIUM2 1. ET gigas ille erat sandapilarius: et deposuit feretrum prope foveam defossam ab eunucho. 2. Et cum subvertisset sandapilam ad eiiciendum cadaver, agnovi Hieromomum olim monachum, et Iacrymae obortae sunt in oculis meis, et palpebrae meae caligavere.3 3. Recordatus sum enim dierum innocentiae meae, et Iusus 24. E ruminava i cibi come bove: e li eruttava gridando: 25. Solo io so tutte quelle cose che voi tutti non sapete: poich~ Giuda Iscariota che tradì il Figlio dell'uomo nel bacio santo era della stirpe di Davide. Davide infatti era rosso. 26. Allora il militare disse a me: Quel gigante vestito col vello di un verro non sa ciò che i popoli sanno: infatti anch'egli tradì il maestro suo alla Sinagoga dei Dottori: Baldassar ingannato dalla Sinagoga diede cinquemila monete d'oro prezzo del tradimento e fece il gigante maestro dei maestri. 27. Questi sono i sei uomini che io Didimo vidi uscire dalla barca. CAPITOLO DECIMOTERZO 1. E quel gigante si fece becchino: e depose il feretro presso la fossa scavata dall'eunuco. 2. E avendo rivoltato la bara per gettar fuori il cadavere, io riconobbi leromomo una volta monaco, e lagrime spuntarono negli occhi miei, e le palpebre mie si ottenebrarono. 3. Mi ricordai infatti i giorni della mia innocenza e i giochi della fan- 1. Unus • •. erat: vedi la Clav,i, alle pp. 1006-7, e la nota relativa. 2. Vedi la C/at,,•i1, a p. 1007. 3. palpebrae meae caligavere: vedi lob, 16, 17: • [...] et palpebrae meae caligaverunt •· 968 PROSE pueritiae nostrae: et omnes cogitationes meae fractae sunt statim formidine mortis aeternae. 4. Et velavi manibus oculos meos ne forte vir militaris conspiceret veritatem adflictionis meae: 5. Ille scrutans praecordia mea dixit: Initium virtutis misericordia: scriptum est: Iusti omnes misericordes sunt; et Deus custos misericordiae:1 6. Et si hi omnes qui stant coram te minati fuerint animae tuae, .miserere eorum: 7. Et ubi omnes homines timeant eos, terebit eos tribulatio, et conscientia, sero quamvis, vallabit eos.2 8. Inter haec filius Bethon instaurabat rogum de voluminibus corbis. 9. Mulier sexagenaria assumpsit planctum super cadaver:3 10. Phlyrias autem cantabat iuxta eam voce meretricia cantiones melicas poetae exsecti: plorabatque lacrymis comoedi. 11. Later iacebat in Ptomotaphio, et gigas coelavit in eo unciullezza nostra: e tutti i miei pensieri furono subito infranti dalla paura della morte eterna. 4. E coprii con le mani gli occhi miei, perché per avventura il militare non vedesse la sincerità dell'afflizione mia: 5. Quegli scrutando il mio cuore disse: Principio della virtù la misericordia: è scritto: I giusti sono tutti misericordiosi; e Dio è custode della misericordia: 6. E se tutti questi che stanno innanzi a te minacceranno l'anima tua, abbi pietà di loro: 7. E quando gli uomini tutti li temano, la tribolazione li travaglierà, e la coscienza, benché tardi, li difenderà. 8. Frattanto il figlio di Beton innalzava il rogo coi volumi della corba. 9. La donna sessagenaria incominciò il pianto sopra il cadavere: 10. Fliria poi cantava presso lei con voce puttanesca canzoni meliche di poeta evirato: e piangeva con lagrime di commediante. 11. C'era in terra nel Ptomotafio un mattone e il gigante v'incise con le 1. Deus cwtos misericordiae: vedi Deut., 7, 9: •[...]ipse est Deus fortis et fidelis, custodiens pactum et misericordiam [...] •. :i. terebit . .. eos: ove non si tratti di un refuso per "terrebit", la forma del futuro, per verbo della terza coniugazione, appare palesemente errata. E vedi lob, 15, 24: • Terrebit eum tribulatio, et angustia vallabit eum [...] •· 3. Mulier .•• cadaver: vedi Ezech., 19, 1: «Et tu adsume planctum super principes lsrael 11. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 96<) guibus effigiem Hieromomi, atque epitaphium quod per alpha et beta pygmaeus anagnostes scripserat: sic: TA~OE.APAE.IEPON KìNAAOIIHE. IEPOMOMOI:. KEITAI NEKPOE.~AKNEI. ~ErrE 12. Pygmaeus ne forte alii conspicerent quae scripserat, sedit super laterem: et illudens illis locutus est sibi: 'AÀ1ClJx(Cetv 1tpòc; 'À'CX CùTClJXCX. 13. Et vir militaris, respondens illi, dixit ad me: "Oq>tc;, el 1111 ' 'I!. ~ ' , 'q,cxyot ocptv, opatXCi>V ou y&Vl]O'tTott. CAPUT DECIMUM QUARTUM 1. EuNUCHOMACHrA: Exorta est enim rabies aemulationis inter Psorionam et Ghoes: alter enim malebat Hieromomum laudare pro rostris: alter vero cantare in strepitu lirae epicedium. 2. Psoriona autem clamabat: Audi Ghoes; quia Nabuchodonosor rex trium Babylonum constituit me doctorem Synagogae suae minimae: quisquis igitur respuerit scripta mea, maiestatis reus erit; quippe qui subarguet ignorantiae Nabuchodonosor regem, qui me constituit doctorem. 3. Ghoes autem clamabat: Sile, fili Phthoniae; quia orationes unghie l'effigie di leromomo, e l'epitaffio che con alfabeto greco il pigmeo lettore aveva scritto: cosl: SEPOLCRO. TEMPIO. DI. MALEDIZIONE IL. CANEVOLPE. IEROMOMO. GIACE MORTO. MORDE. FUGGI 12. Il pigmeo perché altri per avventura non vedessero quel che aveva scritto, sedette sopra il mattone: e burlandosi di loro parlò a sé stesso: volpeggiare colla volpe. 13. E il militare, rispondendogli, disse a me: Serpente, se non mangerà serpente, non diventerà dragone. CAPITOLO DECIMOQUARTO J. EUNUCOMACHIA. Sorse infatti una rabbiosa emulazione tra Psoriona e Goes: l'uno infatti preferiva lodare Ieromomo innanzi ai rostri: l'altro invece cantare nello strepito della lira l'epicedio. 2. Psoriona poi gridava: Odi Goes; poiché Nabucodonosor re delle tre Babilonie ha fatto me dottore della Sinagoga sua minima: chiunque avrà a sdegno gli scritti miei, sarà reo di lesa maestà; come colui che accuserà d'ignoranza il re Nabucodonosor che mi ha fatto dottore. 3. Goes di rimando gridava: Taci, figlio di Ftonia; perché le tue orazioni 97° PROSE tuae ambulant pedetentim; carmina vero mea pennis volucribus volant: idcirco Nabuchodonosor rex constituit me praeconem nominis sui, ut confiteantur eum populi omnes: quisquis igitur antefert orationes suas pedestres cantionibus meis, antefert gloriam suam gloriae Nabuchodonosor regis: tu ergo maiestatis reus eris. 4. Haec ego Didymus audivi in visione argumtnta incredibiliter vera:1 futurum est itaque ut tradantur laudata posteritati per hebdomadas Polygraphi. 5. Tunc interim in Ptomotaphio invidia et livor antiquus exarsere in furore novo inter Psorionam et Ghoes: 6. Et iurgia et minae et execrationes, et recriminationes scelerum: et Ghoes exprobrabat furta Psorionae; et Psoriona exprobrabat Ghoes lenocinia: et petebantur calumniis ad invicem. 7. Et Ghoes adiunxerat sibi auxilium Agyrtes: Psoriona vero auxilium Phlyriae histrionis. 8. Gigas percutiebat alapis tum Ghoes et Agyrtem; tum Psorionam et Phlyriam. 9. Pygmaeus sedens seorsum, altero oculo plorans, deprecabatur rixam: altero vero subridens, exhilarabat hypocrisiam cordis sui. 10. Et Anna Calamoboa dum osculabatur proeliantes, vulnerabat eos omnes dentibus suis venenatis. camminano passo passo; i miei carmi invece con penne d'uccello volano: perciò il re Nabucodonosor ha fatto me banditore del nome suo affinché i popoli tutti lo riconoscano: quindi chiunque antepone le orazioni sue pedestri alle canzoni mie, antepone la gloria sua alla gloria del re Nabucodonosor: tu dunque sarai reo di lesa maestà. 4. Io Didimo udii nella visione questi argomenti incredibilmente veri: è per accadere pertanto che si tramandino lodati alla posterità per mezzo dei fogli settimanali del Poligrafo. 5. Allora intanto nel Ptomotafio l'invidia e l'antico livore riarsero con un furore nuovo tra Psoriona e Goes: 6. E alterchi e minacce ed esecrazioni, e recriminazioni di scellcraggini: e Goes rimproverava i furti a Psoriona e Psoriona rimproverava a Goes i lenocinii: e si assalivano con calunnie a vicenda. 7. E Goes aveva chiamato in aiuto Agirte: e Psoriona l'istrione Fliria. 8. Il gigante prendeva a schiaffi ora Goes ed Agirte; ora Psoriona e Fliria. 9. Il pigmeo seduto in disparte, con un occhio piangendo, deprecava la rissa: con l'altro invece sorridendo, esilarava l'ipocrisia del suo cuore. 10. E Anna Calamoboa mentre baciava i combattenti, li feriva tutti con i denti suoi avvelenati. 1. argumenta . .. tJera: vedi la ClatJis, a p. 1007, e la nota relativa. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 971 1 I. Et oriebatur rursum disputatio maligna, de lege, rege, grege: et in disputatione crimina maiestatis, et sanguis sine ense: saxa autem et ossa quadrupedum ministrabant arma. 12. Eunuchus interea Philippus exterritus fugiebat passibus anseris: meditabattir adire convivium Eden satrapae Pharisaei Doctoris Maximi: is enim ciebat Eunuchomachias, ut rideret Doctores rixantes, quibus tamen Pharisaeus iste Maximus praeerat. 13. Et sepulcretum versum est in tabernam ardelionum. 14. Et factus est terraemotus magnus.1 15. Et scissa est fragore horribili terra: et similitudo asini decoriati exsurgens de tumulo cursabat undique: 16. Et ruditus eius longior eheu centum virorum bellatorum morientium. 17. Et cum spiritus asini, me praesente, transiret, perterrita sunt omnia ossa mea.2 18. Rudor interim redactus est in cantilenam Synagogitae legentis ex cathedra sua. 11. E sorgeva di nuovo una disputa maligna, intorno alla legge, al rege, al gregge : e nella disputa delitti di lesa maestà e sangue senza spada: i sassi invece e le ossa dei quadrupedi fornivano le armi. 12. L'eunuco Filippo intanto spaventato fuggiva a passi d'oca: pensava d'andare al banchetto del satrapo Eden, Fariseo Dottore Massimo: egli infatti suscitava le Eunucomachie, per ridere dei Dottori rissanti, ai quali tuttavia codesto Fariseo Massimo presiedeva. 13. E il sepolcreto fu convertito in una taverna di faccendieri. 14. E avvenne un terremoto grande. 15. E si squarciò con un fragore orribile la terra: e una parvenza d'asino scuoiato sorgendo fuori d'un tumulo andava scorrazzando da ogni parte: 16. E il raglio suo più lungo dell'ahi di cento uomini guerrieri mori- bondi. 17. E trapassando lo spirito dell'asino, me presente, tutte le ossa mie furono corse dal terrore. 18. E il raglio intanto si trasform~ nella cantilena di un Sinagogita che legge dalla catte~ra sua. 1. Etfactw .•• magnus: vedi Apoc., 16, 18: «[.••]et terraemotus factus est magnus [.•.] •, e la nota 3 a p. 975. 2. Et cum ••• 011a mea: vedi il passo da lob, 4, 15, citato alla nota I di p. 958. 972 PROSE CAPUT DECIMUM QUINTUM 1 I. QUERIMONIA asini. 2. Loquente asino, viri omnes et eunuchus et mulier tacebant: et deambulante illo, stabant. 3. Haec locutus est asinus: 4. Patres mei et fratres mei, et equi et muli necessarii mei, et boves et oves aliique filii terrae noti mei: 5. Confecti labore, senio et tabe servitutis emortui sunt: et ad terram parentem nostram reversi, uhi pax. 6. Vos autem humanae belluae quod praeter omnes creaturas animalium habetis loquelam et manum, exactores et carnifices nostri facti estis: 7. Qui non reputatis vos filios terrae sicuti et nos, et affectatis viam coeli: sorduimus ergo coram vobis.2 8. Concedite saltem nobis domum terrae: domum maternam atque pacificam omnibus in aeternum. 9. Quare conturbatis requiem nostram et in solitudine mortis nostrae vigilatis ?3 10. Scilicet congeries putredinis asinorum et boum videtur vobis cathedra digna sapientiae: CAPITOLO DECIMOQUINTO I. QUERIMONIA dell'asino. 2. Parlando l'asino, gli uomini tutti e l'eunuco e la donna tacevano: e camminando lui, essi restavano fermi. 3. Queste cose l'asino disse: 4. Padri miei e fratelli miei, e cavalli e pecore e muli parenti miei, e buoi e pecore e altri figli della terra conoscenti miei: 5. Sfiniti dalla fatica, dalla vecchiezza e dalla consunzione della servitù sono morti: e alla terra madre nostra tornati, dove è pace. 6. Voi invece umane belve, poiché a differenza di tutte le altre creature degli animali, avete la parola e la mano, siete divenuti aguzzini e carnefici nostri: 7. Voi che non vi riputate figli della terra, come siamo anche noi, e aspirate alla via del cielo: noi quindi siamo divenuti spregevoli ai vostri occhi. 8. Concedeteci almeno la casa della terra: casa materna e pacifica per tutti in eterno. 9. Perché turbate il nostro riposo e nella solitudine della morte nostra vegliate? 10. Certo la congerie di pudredine degli asini e dei bovi sembra a voi degna cattedra di sapienza: I. Vedi la C/avis, a p. 1008. 2. sorduim11s ••• vobis: vedi lob, 18, 3: a[.•.] et sorduimus coram vobis ». 3. et ••. tJ1"gilatis: vedi lob, :u, 32: «[ •••) et in congerie mortuorum vigilabit •· HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 973 11. Vos enim, sicut audivi in lumine vitae meae, transvolatis nubes et luminaria firmamenti et Solem et septem moenia coelorum: Et oculo carneo, et cerebro carneo, et corde carneo,1 iudicatis Sanctum sanctorum in excelsioribus excelsi. 12. Verumtamen audivi etiam sapientes vestros dum portarem onus decimae et primitias villici mei ad ostium altaris: 13. Confitebantur enim haec tria in volumine sancto: Homo nihil habet iumento amplius: Unus interitus est hominis et iumentorum, et aequa utriusque conditio: Quis novit si spiritus filiorum Adam ascendat sursum, et si spiritus iumentorum descendat deorsum?2 14. Nos vero novimus duo munera guae seiungunt vos a nobis et superbire vos faciunt, esse munera aerumnae: loquela facit vos loquaces, falsiloquos, delatores; in manibus gladius et calamus: I 5. In ore vestro, fel; in manibus, sanguis: egetis ergo lege, quam fornicamini; et rege, quem adulamini; et vos estis grex devoratus aut devorans. 16. Nune fons calumniarum vobis est: an lex sit ante regem et gregem ; vel an rex sit ante gregem et legem; vel an grex sit ante legem et regem: I 7. At uhi veritas? nonne dixistis scripta vestra esse aromata II. Voi infatti, come udii nel lume della vita mia, volate oltre le nubi e le luci del firmamento e il Sole e le sette mura dei cieli: E con rocchio di carne, col cervello di carne, col cuore di carne eccelsi in luoghi più eccelsi giudicate il Santo dei santi. 12. Ma tuttavia ho udito anche vostri sapienti, mentre portavo il carico della decima e le primizie del villico mio all'ingresso dell'altare: 13. Confessavano infatti queste tre cose nel volume santo: L'uomo non ha niente più del giumento: Una è la morte dell'uomo e dei giumenti ed uguale è la condizione di quello e di questi: Chi sa se lo spirito dei figli di Adamo ascenda verso 1•aJto, e se lo spirito dei giumenti scenda verso il basso? 14. In verità noi sappiamo che i due doni, i quali separano voi da noi e vi fanno insuperbire, sono doni di tribolazione: la loquela vi fa loquaci, falsiloqui, delatori; nelle mani la spada e la penna: 15. Nella bocca vostra, fiele; nelle mani, sangue: avete dunque bisogno della legge che violentate, e del rege che adulate; e voi siete il gregge divorato o divorante. 16. Ora vi è fonte di cavilli: se la legge sia innanzi al rege e al gregge; o se il rege sia innanzi al gregge e alla legge; o se il gregge sia innanzi alla legge e al rege: 17. Ma dove è la verità? Non diceste forse che gli scritti vostri sono aromi J. oculo ..• eameo: vedi lob, 10, 4: • Numquid oculi carnei tibi sunt [...] •· 2. Unus ••• deorsum?: vedi Eecle., 3, 19 e 21. 974 PROSE aere alieno magni parta ad comburenda ossa hominis? nonne venter vester devorat veritatem? nonne in statera praeponderat au- rum? 18. Sed veritas ex ore meo quia ego asinus et mortuus. 19. Grex, est populus; lex, est canis vigilans; rex, est pastor: ergo rex primus et ante omnia, quia sine pastore neque canis neque pecus; praeterea habet baculum. Sed vulpes sunt inter pecora; et vos vulpes estis: nunc dicite in corde vestro: Ignorantia potior est stultitia; asinus novit nos. 20. Neque ego arguerem aenigmata vestra dummodo quiescerem cum fratribus meis: sed nunc vos coinquinatis reliquias nostras cadavere inimico. 21. Frater vester Hieromomus filius olim fuit agri huius. 22. Et cum carnifices nostri venirent ad mactandos nos per cultrum et malleum, Hieromomus puer laniabat nos longa morte: 23. Et excoriavit me senem et claudicantem admodum vivum cum scalpro librario, ad quaestum pecuniae: nolo ergo carnificem meum inquilinum esse domus meae sempiternae. 24. Vobis itaque nullus exitus de loco isto, quin prius sepeliatis in ventre vestro cadaver Hieromomi. con danaro altrui a gran prezzo comprati per abbruciare le ossa dell'uomo? Non divora forse il ventre vostro la verità? Nella bilancia non tracolla forse l'oro? 18. Ma la verità è dalla bocca mia, perché io sono asino e morto. 19. Gregge, è il popolo; legge, è il cane di guardia; rege è il pastore: dunque il rege è primo e innanzi a tutto, perché senza pastore, né cane né gregge; inoltre ha il bastone. Ma volpi vi sono tra le pecore; e voi siete le volpi: ora dite in cuor vostro: L'ignoranza vale più della stoltezza; l'asino c1 conosce. 20. Né io denunzierei i vostri enigmi, purché potessi riposare coi fratelli miei: ma ora voi contaminate le nostre reliquie con un cadavere nemico. 21. Il fratello vostro leromomo fu un giorno figlio di questo cam- po. 22. E venendo i carnefici nostri ad ammazzarci con coltello e maglio, Ieromomo fanciullo ci straziava con una lunga morte: 23. E scuoiò me vecchio e zoppicante ancor vivo con un temperino, per guadagnar danaro: non voglio perciò che il mio carnefice sia inquilino della mia casa eterna. 24. A voi pertanto non sarà nessuna via d'uscita da codesto luogo, se prima non seppellirete nel ventre vostro il cadavere di Ieromomo. HYPERCALYPSF.OS LIBER SINGULARIS (1816) 975 25. Saturamini carnibus fratris vestri1 antequam fames deprehendat vos, et mors visibilis sternat corpora vestra convivia ferarum. ~+o CAPUT DECIMUM SEXTUM2 1. SEPULTURA Hieromomi. 2. Et factus est terrae motus maior: et scissa est terra rursus;3 et similitudo asini reversa in habitaculo suo. 3. Et lumen sulphuris accensi alarum vespertilionum vertebatur in fumum; et multiplicatae sunt tenebrae: et ventus rugiens arefecit gramina Ptomotaphii: et undae fluminis equitabant per tu- mulos. 4. Et quattuor viri et pygmaeus et gigas et eunuchus et anus clamabant eiulatu teterrimo: Vae: 25. Saziatevi di carni del fratello vostro prima che la fame vi prenda e la morte visibile stenda i vostri corpi in pasto alle fiere. CAPITOLO DECIMOSESTO 1. SBPOLTIJRA di leromomo. 2. E avvenne un terremoto più grande: e la terra si squarciò di nuovo; e la parvenza deU-asino tornò nell'abitacolo suo. 3. E la luce di zolfo acceso delle ali dei pipistrelli si convertiva in fumo; e s'infittirono le tenebre: e un vento ruggente inaridì le erbe del Ptomotafio: e le onde del fiume scavallavano pei tumuli. 4. E i quattro uomini e il pigmeo e il gigante e l'eunuco e la vecchia gridavano con ululato orridissimo: Guai: 1. Saturamini..• tJestri: vedi lob, 19, 22: • [•••]et camibus meis saturamini •· 2. Vedi la C/QtJÙ, a p. 1008. 3. Et /actw •• • rurnu: vedi Apoc., 16, 18- 9: • [...] et terraemotus factus est magnus [•.•]. Et facta est civitas magna in tres partes [•.•] •, e la nota I a p. 971. PROSE 5. Et cum vae hominum vox vulpis et lupae et canis foetae, et ranarum sexcentarum: et bubo et bufo et noctua et upupa, lugubri et funereo singultu :1 et chersydrorum, chelydrorum sibila, iaculorum, cenchrium, amphisbaenarum, aspidum, basiliscorum, parearum, et totius progeniei viperarum.2 6. Homines autem quaerebant cymbam in aggere, et cursabant palpantes tenebras: cymba vero nabat per aequor Tyrrhenum procul ab aggere. 7. Et ecce legio corvorum super corpus Hieromomi: et omnia reptilia et animantia immunda cum eis. 8. Clamavitque eunuchus: Esurio: Fratres viri, adimpleatur verbum asini, antequam animalia coeli, amnis, et terrae devorent coenam nostram, et mors visibilis epuletur nos omnes in Ptomo- taphio. 9. Timentes igitur filii hominis minas spiritus asini, comedebant carnes fratris putrefactas. 10. Vir militaris exhorruit epulas sceleratas et dixit: Attende. Cucurritque cum gladio et cornu in medio convivii: 11. Et ad fulgorem gladii, vidi Hieromomi carnes statim consumptas: et belluae rapiebant sibi ossa arida. 5. E col guai degli uomini la voce della volpe e della lupa e della cagna pregna e di mille rane: e il gufo e il rospo e la civetta, e l'upupa con lugubre e funereo singulto: e i sibili dei chersidri, dei chelidri, degli iaculi, dei ceneri, delle anfesibene, degli aspidi, dei basilischi, delle paree e di tutta la progenie delle vipere. 6. E gli uomini poi cercavano la barca sull'argine, e correvano palpando le tenebre: ma la barca nuotava pel mare Tirreno lungi dall'argine. 7. Ed ecco una legione di corvi sul corpo di leromomo: e tutti i rettili e gli animali immondi con essi. 8. E gridò l'eunuco: Ho fame: Fratelli uomini, si compia la parola dell'asino, prima che gli animali del cielo, del fiume e della terra divorino la nostra cena, e la morte visibile faccia banchetto di noi tutti nel Pto- motafio. 9. Temendo quindi i figli dell'uomo le minacce dello spirito dell'asino, mangiavano le carni del fratello putrefatte. IO. Il militare senti orrore del banchetto scellerato e disse: Aspetta. E corse con la spada e il corno in mezzo al convito: I I. E al fulgore della spada, vidi le carni di Ieromomo subito consumate: e le bestie rapivano per sé le spolpate ossa. 1. upupa .•• singultu: vedi Sepolcri, 82-5, a p. 305. 2. chersydrorum ••• fJiperarum: vedi LUCANO, Phars., 1x, 707-33, e DANTB, lnf., xxiv, 85-90. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 977 12. Vidi sex homines et poetriam et eunuchum madentes a vertice capitis usque ad plantas pedum sanguine bullienti, et lambentes sanguinem linguis ad potum: 13. Cumque vir militaris vibraret acinacem ad iugulandos eos, retraxit gladium, et abstinuit a caede, clamans voce magna: 14. Non ego ultor iniquitatum quas iniqui perficiunt super iniquos; et calix irae nondum superfluens: 15. Vivite nunc omnes a quibus ego aliquando immolatus fuero: tu autem, terra, ne operias sanguinem meum ante ultionem.1 16. Et adposuit cornu labiis suis, et sepulcretum desolatum est a multitudine illa: et restituit ensem vaginae suae, et obtenebratus est aer, et silentium et umbrae steterunt circum animam meam. CAPUT DECIMUM SEPTIMUM 1. NuoITAS trium Babylonum. 2. Et cum mansissem una cum viro iuveni militari in solitudine obscuritatis, agnovi punctum medium noctis per duodecim ictus campanae turris urbis Firzah. 12. Vidi i sei uomini e la poetessa e l'eunuco che grondavano di bulicante sangue dalla cima del capo fino alle piante dei piedi e lambivano con le lingue il sangue per bevanda: 13. E come il militare già vibrava la sciabola per scannarli, ritrasse l'arma, e s'astcnne dalla strage, gridando a gran voce: 14. Non io vendicatore delle iniquità che gli iniqui compiono sugli iniqui; e il calice dell'ira non ancora trabocca: 15. Vivete ora tutti voi dai quali io un giorno sarò immolato: ma tu, terra, non coprire il corpo mio prima della vendetta. 16. E pose il corno alle labbra sue e il sepolcreto fu abbandonato da quella moltitudine: e rimise la spada nella vagina sua e s'abbuiò l'aria e silenzio e ombre stettero inton10 all'anima mia. CAPITOLO DECIMOSETTIMO 1. NUDITÀ delle tre Babilonie. 2. Ed essendo rimasto insieme col giovane militare nella solitudine dell'oscurità, riconobbi la mezzanotte dai dodici tocchi di campana d'una torre della città di Firza. 1. tu autem ••• ultionem: vedi lob, 16, 19: •Terra, ne operias sanguinem meum [.•.] •· 6z PROSE 3. Et audivi voces commotionis magnae1 discurrentes per nubes coelorum sicut tonitrua: et tendebant ad alam sinistram Aquilonis, dicentes: 4. Babylo maxima,2 quia quaesivisti veritatem et invenisti et pervertisti eam, furiosa, in impietate libidinum populi tui; si sanguis effusus a te et per te reftuxerit super te, fiet in te lacus sanguinis profundus altitudinis moenium tuorum, et latus latitudinis ter millia passum a Meridie ad septem Triones, et longus longitudinis sex millia passuum ab ortu ad occasum:3 Vae civitas! propter te veritas facta est execrabilis: ostendam gentibus nuditatem tuam; non recedet a te rapina.4 5. Et voces commotionis conversae sunt retrorsum quasi fulmina repercussa: et properabant ad plagam intra Solis ortum et Austrum, dicentes: 6. Babylo perpetua,5 quia aperti sunt coeli et missa fuit lux super te; tu autem, vaferrima, super pulchritudinem collium tuorum offudisti nebulam commodam pastoribus tuis ut devorent greges alienos et tuos; et principes tui, septi obscuritate, in muneribus 3. E udii voci di commozione grande che trascorrevano per le nubi dei cieli come tuoni: e tendevano all'ala sinistra d'Aquilone dicendo: 4. Babilonia massima, poiché cercasti la verità e la trovasti e la pervertisti, pazza, nell'empietà delle libidini del popolo tuo; se il sangue sparso da te e per te rifluirà sopra te, si farà in te un lago di sangue profondo quanto sono alte le mura tue, e largo di larghezza tre mila passi da Mezzogiorno a Settentrione, e lungo di lunghezza seimila passi da oriente a occidente: Guai cittàI per cagion tua la verità è divenuta esecranda: mostrerò alle genti la tua nudità; non si terrà lontana da te la rapina. 5. E le voci della commozione si rivolsero indietro quasi eco di fulmini: e s'affrettavano alla plaga tra il sorgere del Sole e l'Austro, dicendo: 6. Babilonia perpetua, perché si sono aperti i cieli e fu mandata sopra te la luce; ma tu, furbissima, sulla bellezza dei colli tuoi spargesti nebbia comoda ai pastori tuoi, perché divorino le greggi altrui e le tue; e i principi 1. Et audivi .•• magnae: vedi Ezech., 3, 12: •Et adsumpsit me spiritus, et audivi post me vocem cornmotionis magnae [•.•] ». 2. Babylo maxima: vedi Apoc., 17, s: «[•••] Babylon magna [...] », e la Clavis, a p. 1008. 3. fiet • .• occasum: vedi Apoc., 14, 20: • Et calcatus est lacus extra civitatem, et exivit sanguis de lacu usque ad frenos equorum per stadia mille sescenta•. 4. Vae ..• rapina: vedi Nahum, 3, 1 e 5: «Vne civitas sanguinum, universa mendacii [...] non recedet a te rapina»; • [.. ,] et revelnbo pudenda tua in facie tua et ostendam gentibus nuditatem tuam et regnis ignominiam tuam ». 5. Babylo perpetua: vedi la C/avis, a p, 1008. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 979 iudicant, et sacerdotes tui docent in mercede, et prophetae tui divinant in pecunia, dicentes: Numquid non lux in medio nostrum ?1 Vae civitas! lumen habes divinum, et obtenebras id umbris terrae: ostendam gentibus nuditatem tuam; non recedet a te rapina.2 7. Repente voces flexerunt cursus tonitruum ad plagam intra Solis occasum et Aquilonem, dicentes: 8. Babylo minima,3 quia stupida neque invenisti neque quaesivisti vias veritatis; sed aperuisti aures tuas ut satiarentur mendacio; obserasti oculos tuos ne cernerent lucem; et lingua tua promta in ebrietate, et mens tua lenta propter pinguedinem miscuerunt adulationem et iurgia; neque secernis iustos ab impiis, vel cives ab alienis; Vae civitas! piscina calumniarum, et invidiae dilaceratione piena: ostendam nuditatem tuam; non recedet a te rapina.4 9. Nunc gloriare et Iaetare, Babylo dives,5 in nuditate trium ~abylonum: ad te quoque perveniet calix; inebriaberis atque nu- daberis.6 10. Cum autem voces conticuissent, ego quidem stans admiratuoi, circondati di oscurità, ricevendo doni giudicano, e i sacerdoti tuoi insegnano ricevendo una mercede, e i profeti tuoi profetano ricevendo danaro, e dicono: Forse che non c'è la luce in mezzo a noi? Guai cittàI Hai lume divino e l'ottenebri con le ombre della terra; mostrerò alle genti la tua nudità e non si terrà lontana da te la rapina. 7. Repentinamente le voci piegarono il corso dei loro tuoni verso la plaga fra il tramonto del Sole e l'Aquilone, dicendo: 8. Babilonia minima, perché stupida né trovasti né cercasti le vie della verità; ma apristi le orecchie tue, affinché si saziassero di menzogna; serrasti gli occhi tuoi affinché non vedessero la luce; e la tua lingua pronta neIl'ebrezza e la tua mente lenta per pinguedine mescolarono adulazione e risse; e non distingui i giusti dagli empi, o i cittadini dai forestieri; Guai città! piscina di calunnie, e piena della dilacerante invidia: mostrerò la tua nudità; non si terrà lontana da te la rapina. 9. Ora gloriati e rallegrati, Babilonia ricca, nella nudità delle tre Babilonie: anche a te giungerà il calice; sarai inebriata e denudata. 10. Essendosi poi le voci taciute, io davvero H ritto in piedi mi mera- 1. et prina"pes ... nostrum: vedi Mich., 3, 1 I : 11 Principes eius in muneribus iudicabant, et sacerdotes eius in mercede docebant, et prophetae eius in pecunia divinabant [...] dicentes: Numquid non Dominus in medio nostrum [.•.] ». 2. Vae ... rapina: vedi la nota 3 a p. 978. 3. Baby/o minima: vedi la C/avis, a p. 1008. 4. Vae ••• rapina: vedi la nota 4 a p. 978. 5. Baby/o dives: vedi la Clavis, a p. 1008. 6. Nunc .•. nudaberis: vedi Jer. Lam., 41 21: Cl Gaude et lactare, filia Edom, quoe habitas in terra Husl ad te quoque perveniet calix, incbriaberis atque nudaberis ». 980 PROSE bar: et sciscitatus sum a viro militari quid praenuntiarent; neque audivi responsum. I 1. Ille enim sedens in terra plorabat abunde, in desperatione: et lacrymae suae manabant tacitae quasi pluvia verna matutina quae fallit oculos aratoris. 12. Propterea ego quoque sedens in terra iuxta eum non loquebar ei verbum: animadvertebam enim fletum suum esse sine consolatione.1 CAPUT DECIMUM OCTAVUM 1. VERBA novissima. 2. Cum autem pertransisset dimidium primum noctis, et dimidium dimidii secundi, vir militaris adsurgens, statuit me super pedes meos ;2 3. Ut faceret mihi verba novissima: neque ego quibam cernere eum per opaca noctis; verumtamen accepi in corde meo vocem ems. 4. Et loquebatur ad me: Cum redieris ad collem cyparissorum, vigliavo: e domandai al militare che cosa preannunziassero; e non udii risposta. 11. Quegli infatti seduto in terra piangeva dirottamente nella disperazione: e le sue lacrime sgorgavano tacite quasi primaverile pioggia mattutina che inganna gli occhi dell'aratore. 12. Perciò anch'io sedendo in terra vicino a lui non gli dicevo parola: capivo infatti che il suo pianto era senza consolazione. CAPITOLO DECIMOTTAVO 1. PAROLE ultime. 2. Essendo poi trascorsa !a prima metà della notte, e metà della seconda metà, il militare alzatosi, mi fece star ritto sopra i miei piedi; 3. Per dirmi le ultime parole: e io non potevo scorgerlo per il buio della notte; ma tuttavia ho accolto nel cuore mio la voce sua. 4. E mi diceva: Quando sarai tornato al colle dei cipressi, e avrai 1. Propterea .•. consolatione: vedi lob, 2, 13: •et sederunt cum eo in terra septem diebus et septem noctibus, et nemo loquebatur ci verbum, videbant enim dolorem esse vehementcm •· 2. statuii . .. meos: vedi Ezech., 2, 2: u [ •••] et statuit me supra pcdes meos [...] •· HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS ( 1816) 981 et plantaveris vineam et fructetum1 ut impleas calathum Jabore tuo: 5. Revertere in urbem tuam, et vaticinare visionem quam vidisti: neque posces eleemosynam, neque accipies mercedem ab homine ullo: scriptum est: Ignis devorabit tabernacula eorum qui munera libenter accipiunt.2 6. Ego autem recordatus ludibria prophetarum, clamavi dicens: Ecce omnia vidit oculus meus, et audivit auris mea, et intellexi singula:3 7. Concutit artus meus tremor:4 contritum est cor meum, et in cogitationibus meis sanitas. 8. Pusillus sum tamen et insipiens et adolescens et pauper et clericus: ideo irridebunt me multi; et si quis inclinaverit aures ad me, quaeret signum.s 9. Respondit ille: Scriptum est: Lampas contemta apud cogitationes potentium parata ad tempus statutum.6 Requirentibus signum, signum sit fortitudo tua in paupertate. 10. Verumtamen ure ephemerides et volumina paedagogiae monachorum qui abutebantur pueritia tua: vade ad sacerdotem ecpiantato la vigna ed il frutteto per riempire il canestro con la fatica tua: 5. Ritorna alla tua città, e riferisci come un profeta la visione che hai visto: né chiederai elemosina, né riceverai mercede da uomo alcuno: è scritto: Il fuoco divorerà le case di coloro che accettano volontieri doni. 6. E io ricordando i dileggi dei profeti, gridai dicendo: Ecco tutto ha visto l'occhio mio, e udito l'orecchio mio, e ho intese le cose una per una: 7. Il mio tremore mi scuote le membra: contrito è il mio cuore, e sani sono . . . . . 1 n11e1 pcns1en. 8. Piccoletto sono tuttavia e ignorante e povero e chierico: perciò molti mi derideranno; e se qualcuno volgerà le sue orecchie a me, cercherà un segno. 9. Rispose quello: È scritto: Lampada sprezzata nei pensieri dei potenti è pronta per il tempo stabilito. A quelli che cercano un segno sia segno la tua fortezza nella povertà. 10. Tuttavia brucia le efemeridi e i volumi di pedagogia dei monaci che abusavano della tua fanciullezza: va dal sacerdote della tua chiesa patema, e 1. Cum redieris .•. froctetum: vedi Levit., 19, 23: • Quando ingressi fueritis terram et plantnveritis in ea ligna pomifera [...] ». a Plantavit vineam » ricorre spesso nella Bibbia: si veda, ad esempio, Gen., 9, 20, e le,., 31, 5. z. lgnis ... accipiunt: vedi lob, 15, 34. 3. Ecce ... si11gula: vedi lob, 13, 1. 4. Concutit .. . tremor: vedi lob, 21, 6: • [...] et concutit carnem meam tremor 11, 5. qr,aret signurn: vedi Mattlr., 12, 38-9: « [ •••] Magister volumus a te signum videre. Qui respondens ait illis: Generatio mala et adultera signum quaerit, et signum non dabitur ei [...] ». 6. Lampas ••• statutum: vedi lob, 12, s (ma a divitum » invece di potentium). 982 PROSE clesiae tuae paternae, et accipies VOLUMEN UNICUM1 1n quo prophetabis, et non fies contemtibilis. I 1. Igitur cum redieris in urbem aperi VOLUMEN, et dic Synagogae Doctorum: In antiquis est sapientia;2 audite quod dictum est antiquis: I 2. Congregatio hypocritarum sterilis3 in vaniloquio: utinam taceretis, et videremini esse sapientes.4 13. Deinde interroga Senatum Parasitarum qui aedificant sibi domos. Uhi est litura quam linistis ? 14. Scriptum est enim: Erumpere faciam spiritum tempestatum, et imbrem inundantem, et perniciem hiemis ab Aquilone; et destruam parietem quem reges liniunt absque temperamento, et revelabitur fundamentum inane.5 15. Propterea manus puerorum lascivorum diruet extemplo fastigium domus vestrae, et eiicient vos de sedibus vestris, et clamabunt: Non est domus; et qui modo aedificabant, non sunt.6 riceverai il VOLUME UNICO nel quale profeterai, e non diventerai disprezzabile. I 1. Quindi allorché sarai tornato nella città apri il VOLUME, e dì alla Sinagoga dei Dottori: Negli antichi è la sapienza; udite ciò che è stato detto dagli antichi: I 2. Congrega di ipocriti sterile in vaniloquio: volesse il cielo che taceste, e sembraste essere sapienti. I 3. Poi interroga il Senato dei .Parassiti, i quali si costruiscono case. Dove è la tintura con cui tingeste? 14. È infatti scritto: Farò erompere il soffio delle tempeste, e la pioggia inondatrice, e il rovinoso inverno dall'Aquilone; e distruggerò la parete che i re tingono senza giusta misura, e nullo si rivelerà il fondamento. 15. Perciò la mano di baldanzosi ragazzi distruggerà subitamente il fastigio della casa vostra, e vi scacceranno dalle sedi vostre, e grideranno: Non c'è più casa; e quelli che testé costruivano, più non ci sono. 1. vade ... unicum: vedi Apoc., 10, 8: •[...] vade, et accipe librum apertum de manu angeli [...] ». 2. In .•• sapientia: vedi lob, 121 12. 3. Congregatio ••. sterilis: vedi lob, I 5, 34: • Congregatio enim hypocritae sterilis [...] 11, 4. utinam ... sapientes: vedi lob, 13, s: 11 Atque utinam taceretis, ut putaremini esse sapientesl ». 5. Deinde .. . inane: vedi Ezech., 13, 10-4: «[ •••] et ipse aedificabat parietem, illi autem liniebant cum luto absque paleis; dic ad eos [...] : Uhi est litura, quam linistis? Propterea hoec dicit Dominus Deus: Et erompere faciam spiritum tempestatum in indignatione mea et imber inundans in furore meo erit [...] et destruam parietem, quem linistis absquc temperamento [...] et revelabitur fundamentum cius, et cadet [...] ». E per Scriptum ... inane, vedi la Clavis, a p. 1008. 6. Propterea .•. sunt: vedi la Clavis, alle pp. 1008-91 e la nota relativa. E per Non est . .. sunt vedi Ezech., 13, 15: • [...] Non est paries, et non sunt qui liniunt eum •· HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 983 I 6. Deinde dic praedivitibus: Quando alieni capient exercitum civitatis vestrae, et ingredientur portas eius, et super fratres vestros mittent sortes: 17. Nolite, confisi opibus vestris, laetari in die paupertatis fratrum vestrorum, neque magnificare os vestrum in die angustiae:1 Divites sumus et Iocupletati a patribus nostris, et nullius egemus. I 8. Suadeo vos emere aliquantulum caritatis et verecundiae, et animadvertetis vos esse cives eiusdem miserae civitatis, et in vinculis et in opprobrio sicut et alii habitant civitatem; at abiectio vestra, propter opes vestras splendidior.2 19. Quia vos estis aurei et argentei similes Diis idololatriae, qui dum caderent nesciebant consurgere;3 et cum superveniet vastatio, spoliati fueritis a potentiore: nonne bestiae agri meliores sunt vobis, quae possunt aut fuga aut furore prodesse sibi in die proelii ?4 16. Poi dì ai ricconi: Quando stranieri prenderanno l'esercito della città vostra, e entreranno nelle sue porte, e sopra i fratelli vostri trarranno le sorti: 17. Non vogliate, confidando nelle vostre ricchezze, allietarvi nel giorno della povertà dei fratelli vostri, né esaltarvi dicendo nel giorno della angustia: Ricchi siamo e arricchiti dai nostri padri, e non abbiamo bisogno di nessuno. 18. Vi consiglio di comperare un poco di carità e di verecondia, e vi accorgerete che siete cittadini della stessa misera città, e nelle catene e nell'obbrobrio come anche gli altri che abitano la città; e l'abiezione vostra, per le vostre ricchezze spicca di più. 19. Perché voi siete d'oro e d'argento simili agli dèi dell'idolatria, i quali una volta che fossero caduti non sapevano risollevarsi; e quando sopravverrà la devastazione, sarete spogliati da uno più potente: non sono forse migliori di voi le bestie del campo, le quali o con la fuga o col furore possono giovare a sé nel giorno della battaglia? 1. Orlando ..• angustiae: vedi Abd., 1, 11-2: a[.•.] quando capiebant alieni excrcitum eius, et extranei ingrcdiebantur portas eius et super Ierusalem mittebant sortcm [.•.]. Et non dcspicics in die fratris tui, in die peregrinationis eius, et non laetaberis super filios luda in die pcrditionis eorum et non magnificabis os tuum in die angustiae •. 2. Divites .•• splendidior: vedi Apoc., 3, 17-8: •quia dicis: Quod dives sum et locupletatus et nullius egeo, et nescis quia tu es miser et miserabilis et pauper et caecus et nudus. Suadeo tibi emere a me aurum [...] •· 3. Quia . .. consurgere: vedi Bar., 6, 3 e 26: 11 Nunc autem videbitis in Babylonia deos aureos et argenteos [...] li; «Propterca si cecidcrint in terram, a semetipsis non consurgunt [...] •. 4. Deinde dic ... proelii: vedi la Clavis, a p. 1009. E per nonne • •. sibi vedi Bar., 6, 67: • Bcstiae meliores sunt illis, quae possunt fugere sub tectum, ac prodesse sibi li, PROSE 20. Deinde in alios qui sedent in tabernis, et sub porticibus platearum potantes, vociferantes, reprobantes omnia, exprobrantes omnibus, mitte sagittas asperrimas LIBRI: 21. Vos estis nubes aqua carentes; arbores emarcidae, ventis omnibus circumactae, infrugiferae; undae maris efferatae, fallaces; lebetes bullientes et despumantes dedecora; aves excoecatae, clangentes quae alis errantibus quaerunt escam per caliginem tempestatum :1 22. Murmuratores queruli: in libidinibus vestris incedentes; quorum os eructat praetumida;2 multa minantes, nihil perficientes; dominationem iustam reiicientes; dignitatem quam timetis, probris secretis exagitatis: quaeque non nostis vituperatis: 23. lnermes, inertes, flagitatis redemtionem ab alienis; libertatem poscitis, et irritabitis plebem ad seditionem; regem desideratis, et adulamini, utilitatis vestrae gratia, tyrannidem: 24. Virtutem quaeritis et omnia recta pervertitis;3 qui neque scitis vulnerare hostes gladio, sed neque non calumniari victori: contradictione peribitis.4 20. Poi contro altri che siedono in taverne o sotto portici di piazze bevendo, vociferando, riprovando tutto, rimproverando tutti, scaglia le più acute saette del LIBRO: 21. Voi siete nubi senz'acqua; alberi appassiti che tutti i venti squassano, infruttiferi; onde del mare furiose, fallaci; caldaie ribollenti e schiumanti obbrobri; uccelli acciecati, squittenti che svolazzando cercano l'esca traverso la tenebra delle tempeste: 22. Mormoratori queruli: che nelle passioni vostre incedete altezzosi; la cui bocca erutta grandissima superbia; che molto minacciate, nulla compite, che respingete il potere giusto; la dignità che temete con segrete infamie inquietate, e le cose che non conoscete, vituperate: 23. Inermi, inerti, richiedete la redenzione agli stranieri; domandate la libertà, e istigherete la plebe alla rivolta; desiderate un re, e adulate, per l'utilità vostra, la tirannide: 24. Virtù cercate e tutto ciò che è retto pervertite; voi che né sapete colpire i nemici con la spada, ma neppure non calunniare il vincitore: di contraddizione perirete. I. Vos estis ... tempestatum: vedi Ep. B. lrldae, 12-3: n Hi sunt [...] nubes sine aqua, quae a ventis circumferuntur, arborcs autumnalcs, infructuosae, bis mortuae, eradicatae, fluctus ferì maris despumantcs suas confusiones, sidera errantia, quibus procella tenebrarum servata est in aetcrnum ». 2. Murmuratores ... praetumida: vedi Ep. B. l"dae, 16: «Hi sunt murmuratores qucrulosi, sccundum desideria sua ambulantes, et os eorum loquitur superba [...] 11. 3. Virtutem .. . peroertitis: vedi Miei,., 31 9: • [...] qui abominamini iudicium et omnia rccta pcrvertitis 11. 4. Murmuratores ... peribitis: vedi la Clavis, a p. 1009. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 985 25. Deinde et aliis, qui disserentes in concilio tenebrarum,1 praeclara moliuntur, dic tantum: Nil praeclarum in tenebris. 26. Deinde illis omnibus qui cubantes in lectulis suis somniant somnium de universali felicitate filiorum Adam in terris, et expectant libertatem civitatis ab aequitate potentium, abrumpe somnum et spem, et dic unicuique: 27. Novi te neque frigidum esse neque fervidum: utinam frigidus esses aut fervidus: itaque quoniam tepidus es, futurum est ut te evomam ex ore meo.2 28. Deinde praenuntia civibus optimis perpetuitatem antiquae et hodiernae captivitatis; et lege illis omnibus LIBRUM: 29. Habeo adversus vos pauca;3 quia nimium laetati estis in spe redemtionis et gloriae: nunc estate animaequiores: nam reges terrae sedebunt loquentes adversus nos; servi autem excercebimur in iustificationibus:4 verumtamen in desperatione rerum unusquisque sibi dicat: Accingar zona fortitudinis, et patiens silebo.5 25. Poi anche ad altri che dissertando nel concilio delle tenebre, chiare opere disegnano, dì soltanto: Nulla di chiaro nelle tenebre. 26. Poi a tutti quelli che sdraiati sui loro divani sognano un sogno di universale felicità per i figli di Adamo in terra, e aspettano la libertà della città dalla giustizia dei potenti, rompi il sonno e la speranza e dì a cia- scuno: 27. So che tu non sei né freddo né caldo: volesse il cielo che tu fossi freddo o caldo: perciò poiché sei tiepido, avverrà che io ti vomiti dalla mia bocca. 28. Poi annunzia a tutti i cittadini migliori la perpetuità dell'antica e odierna schiavitù; e leggi a tutti loro il LIBRO: 29. Contro di voi ho poco; perché vi siete troppo rallegrati nella speranza della redenzione e della gloria: ora siate d'animo più calmo: poiché i re della terra siederanno parlando contro di noi; e noi servi c'ingegneremo di giustificarci: tuttavia nella disperazione generale ciascuno dica a sé stesso: Mi cingerò col cinto della fortezza e me ne starò paziente in silenzio. 1. aliis ... tenebramm: vedi la Clavis, a p. 1009. 2. Deinde illis .•• meo: vedi lo Clavis, a p. 1009. E per Nooi te . .. ore meo vedi Apoc., 3, I 5-6: • [...] quia neque frigidus es neque calidus: utinam frigidus esses, aut calidusl Scd, quia tepidus es et nec frigidus, nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo •. 3. Habeo • .. pa11ca: vedi Apoc., 2 1 14 e 20: • Sed habeo adversus te pauca [...] 11, 4. nam reges ... iustificationibus: vedi Psalm., 118, 23: • Etenim sederunt principes, et adversum me loquebantur: servus autem tuus exercebatur in iustificationibus tuis •· 5. Deinde praenuntia • .. silebo: vedi la C/avis, a p. 1010. 986 PROSE 30. Vade quoque ad seniores Ecclesiae1 ut a te sciant multos extare Hieromomos in arca salutis: videant ergo ne fiat arca naufraga; eo quod sustinet, et quidem multos, apostatas, pharisaeos, et Simonis magi discipulos inhiantes aurum morientis, inquisitiones et sanguinem: 3I. Et in superliminaria aedium uhi satrapae novi2 aliquando congregabuntur, excribe de LIBRO: Eiicite adulatores, et exibit calumnia cum eis; eiicite delatores, et coniuratio quiescet; eiicite derisores, et cessabunt simultates et contumeliae.3 32. Haec dices denique plebi: Sudor thesaurus innocentiae. Et cum plebs clamaverit, compesce clamores; et si nudaverit gladios, accipe eos in sanguine tuo antequam convertat eos adversus ci- vitatem. 33. Post haec perge usque ad altitudinem iugi maximi Alpis mediae: et cum lustraveris oculis tuis universam terram patrum nostrorum, aperi rursus VOLUMEN :4 34.5 Assume luctum lacrymarum insolabilium et lege; exarata sunt enim in LIBRO omnia quae fuere, sunt, fient; quaeque adim- 30. Recati anche dai seniori della Chiesa, perché da te sappiano che ci sono ancora molti leromomi nell'arca della salvezza: vedano dunque che l'arca non faccia naufragio; poiché porta in sé, e in verità molti, apostati, farisei, e discepoli di Simon mago che anelano all'oro del moribondo, alle inquisizioni e al sangue: 3 I. E sul frontone del palazzo dove i nuovi satrapi un giorno s'aduneranno trascrivi dal LIBRO: Cacciate via gli adulatori e uscirà la calunnia con essi; cacciate via i delatori, e la congiura finirà; cacciate via i derisori e cesseranno le inimicizie e le contumelie. 32. Questo dirai infine alla plebe: Il sudore è il tesoro dell'innocenza. E quando la plebe si metterà a gridare, reprimi le grida; e se snuderà le spade, ricevile nel sangue tuo, prima che le rivolga contro la città. 33. Dopo questo prosegui fino alla sommità del giogo massimo dell'Alpe media: e quando avrai con gli occhi tuoi percorsa tutta quanta la terra dei padri nostri, apri di nuovo il VOLUME: 34. Prendi il lutto del pianto inconsolabile e leggi; sono infatti descritte nel LIBRO tutte quelle cose che furono, sono, avverranno; e che sono state J. seniores Ecclesiae: vedi la Clavis, a p. 1010. 2. satrapae novi: vedi la Clavis, a p. 1010. 3. eiicite derisores . •. contumeliae: vedi Prov., 22, 10: • Ecce derisorem, et exibit cum eo iurgium, cessabuntque causae et contumeliae •· 4. Volumen: vedi la Clavis, a p. 1oI o. 5. Per questo versetto e i seguenti vedi la Clavis, a p. 1010. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 987 pleta sunt in praeteritum, et adimplebuntur in posterum. Lege ergo super terram patrum nostrorum: 35. Egressum est nomen tuum in gentes propter speciem tuam: et habens fiduciam in decore tuo,1 exposuisti fornicationem tuam omni transeunti, ut eius fieres.2 36. Et tulisti filios tuos et immolasti eos adulteris alienis: num-- quid parva est fornicatio tua ?3 37. Et aedificasti tibi lupanar in omnibus civitatibus tuis: ad omne caput viae, ab umbilico usque ad sepes montium tuorum et ad duo maria tua, sustulisti signum prostitutionis tuae, et abominabilem fecisti decorem tuum, quia multiplicasti et multiplicabis fornicationes.4 38. Et ecce vapulas ab adulteris tuis, et nuda, et confusione piena, et petis auxilium filiorum tuorum quos tradidisti adulteris tuis; et ululas conculcata in sanguine tuo.5 39. Facta non es quasi meretrix fastidio augens pretium: tu es compiute in passato e che si compiranno in futuro. Leggi dunque sopra la terra dei padri nostri: 35. È uscito il nome tuo fra le genti per la bellezza tua: e avendo fiducia nel tuo decoro ti esponesti a fornicare con ognuno che passasse, cosi che divenivi sua. 36. E offristi i figli tuoi e li immolasti ad adulteri stranieri: forse che è piccola la tua fornicazione ? 37. E ti costruisti un lupanare in tutte le tue città: ad ogni capo di via, dall'ombelico fino alle siepi dei tuoi monti e ai due mari tuoi, innalzasti l'insegna della prostituzione tua, e abominevole facesti il tuo decoro, poiché moltiplicasti e moltiplicherai le fornicazioni. 38. Ed ecco sci percossa dagli adulteri tuoi, e nuda, e piena di confusione, e chiedi l'aiuto dei figli tuoi che consegnasti agli adulteri tuoi; e ululi calpestata nel sangue tuo. 39. Divenuta non sei quasi meretrice che per fastidio aumenta il prez• 1. Egressr,s ••• decore tuo: vedi Ezech., 16, 14: «et egressum est nomen tuum in gentes propter speciem tuam: quia perfecta eros in decore meo [•..] ». 2. et Jiabe,is ..• fieres: vedi Ezecli., 16, 1s (ma «pulchritudine • invece di decore). 3. Et tulisti ... tua?: vedi Ezech., 16, 20: •et tulisti filios tuos [...] et immolasti eis ad devorandum. Numquid parva est fornicatio tua?». 4. Et aedificasti ... fornicationes: vedi Ezech., 16, 24-5: «et aedificasti tibi lupanar [...] : ad omne caput viae aedificasti signum prostitutionis tuae: et abominabilem fecisti decorem tuum [...] et multiplicasti fornicationes tuas». 5. Et ecce .•. sangr,ine tuo: vedi Ezech., 16, 22: «Et post omnes abominationes tuas et fornicationes, non es recordata dierum adolescentiae tuae, quando eras nuda et confusione piena conculcata in sanguine tuo•· 988 PROSE mater adultera quae super haereditatem pupillorum suorum inducit extraneos: 40. Omnibus meretricibus dantur mercedes fornicationis: tu autem dedisti mercedes omnibus amatoribus, et lumen quoque oculorum tuorum donabis, ut intrent extranei ad te undique ad fornicandum tecum:1 et quos reieceras, petis. 41. Propterea, meretrix, audi verbum Dei: 42. Quia effusum est aes tuum, et revelata est ignominia tua, et abominationes tuae in sanguine filiorum tuorum: 43. Ecce ego congregabo omnes amatores quibus commista es; et omnes super te undique quos dilexisti, cum universis quos oderas: 44. Qui revelabunt sibi invicem pudenda tua:2 et adulter tradet te adultero, quia sibi pignerati erant te carne sua. 45. Et iudicabunt te iudiciis adulterarum;3 et destruent lupanar zo: tu sei madre adultera che sulla eredità dei pupilli suoi fa venir gli stranieri: 40. A tutte le meretrici si danno mercedi per la fornicazione: tu invece desti mercedi a tutti gli amatori, e anche il lume degli occhi tuoi donerai, perché entrino stranieri da te d'ogni parte per fornicare con te: e quelli che avevi respinto, cerchi. 41. Perciò, meretrice, odi la parola di Dio: 42. Perché è stato profuso il tuo danaro, ed è stata rivelata l'ignominia tua, e le tue abominazioni nel sangue dei figli tuoi: 43. Ecco io radunerò tutti gli amatori, ai quali ti sei congiunta; e tutti sopra te d'ogni parte quelli che amasti, con tutti quanti quelli che odiavi: 44. I quali si sveleranno vicendevolmente le tue vergogne: e l'adultero ti consegnerà all'adultero, perché si erano presi in pegno te con la carne loro. 45. E ti giudicheranno con i giudizi delle adultere; e distruggeran- 1. Facta ... tecum: vedi Ezech., 16, 31-3: •[...] nec facta es quasi merctrix fastidio augens pretium, sed quasi mulier adultera, guae super virum suum inducit alienos. Omnibus meretricibus dantur merccdes; tu autcm dedisti mercedes cunctis amatoribus tuis, et dona donabas eis, ut intrarent ad te undique ad fornicandum tecum ». 2. Propterea •.. tua: vedi Ezech., 16, 35-7: •Propterea meretrix audi verbum Domini.[...] Quia effusum est aes tuum, et revelata est ignominia tua in fornicationibus tuis super amatores tuos et super idola abominationum tunrum, in sanguine filiorum tuorum [...] ; ecce ego congregabo omncs amatores tuos, quibus commixta es, et omnes, quos dilexisti, cum universis quos oderas [...] et nudabo ignominiam tuam coram eis [...] ». 3. Et ... adulterarum: vedi Ezech., 16, 38 (ma u iudicabo » invece di iudicabunt). HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS {1816) 989 tuum recens, et de maceriis reaedificabunt tibi postribulum vetus, et lapidabunt te lapidibus,1 et ex mammis tuis facient emulsionem lactis et sanguinis: neque desines fornicari, sed mercedcs ultra non dabis. 46. Haec ter a te, Didyme, recitata sint super terram patrum nostrorum, ut misereantur sui omnes: nam sicut autumnus et hiems in singulos annos, sic gloria et calamitas visitant certis tempestatibus saeculorum singulos populos terrae. 47. Et cum descensum feceris2 de iugo Alpis mediae obsigna os tuum, atque abstine a civitatibus gressus tuos; et versare inter multitudinem agricolarum: et si ploraverint, plora cum multitudine, et dic: 48. FIAT VOLUNTAS DEI.3 no il lupanare tuo recente, e con le macerie ti riedificheranno l'antico postribolo, e ti lapideranno con le pietre, e dalle tue mammelle smungeranno latte e sangue: né cesserai di fornicare, ma non darai più mer- cedi. 46. Queste cose tre volte, o Didimo, siano da te recitate sopra la terra dei padri nostri, affinché tutti abbiano di sé misericordia: poiché come l'autunno e l'inverno per i singoli anni, così la gloria e la calamità visitano in determinate stagioni dei secoli i singoli popoli della terra. 47. E quando sarai disceso dal giogo dell'Alpe media sigilla la tua bocca, e tieni i passi tuoi lontani dalle città; e aggirati fra la moltitudine dei contadini e se piangeranno, piangi con la moltitudine, e dì: 48. SI FACCIA LA VOLONTÀ DI DIO. J. et destruent •.. lapidibus: vedi Ezech., 16, 39-40: «[••.]et destruent lupanar tuum et demolientur postribulum tuum [...] et lapidnbunt te lapidibus [...] ». 2. descens11111feceris: nelle Corrigenda, si legge:« Foedissima denique macula est cap. xv111, vs. 47. Et cum descensus fueris de iugo: quam quidcm callidissime eluerimus scribendo, descensus vel descensum f eceris, nisi malis degressus Jueris ». 3. Fiat • •• dei: vedi la nota 4 a p. 946. 99° PROSE CAPUT ULTIMUM 1. ET cum vir militaris dixisset haec tria verba tantum, ecce caligo illa domus mortis scissa ante oculos meos. 2. Et unda amnis sicut electrum; et murmur aquarum velut cantus longinquus tibicinae; et cursus earum nitentes claro sub lumine lunae: 3. Et spiramenta aeris suavia refrigerabant venas meas; et olentia florum in gyro aeris exhilarabant cor meum: 4. Et magnificentia et gloria per caerula firmamenti; dulcisque horror, et amor harmoniae, quies et intelligentia ex omnibus splendoribus noctis. 5. Et vir militaris clamavit: Hoc est tabernaculum Dei vivi ;1 et conscius meus in excelsis.2 Et procidit in genua sua et adoravit. 6. Et conversus ad me dixit mihi: Non sum apostolus nec propheta nec angelus, sed centurio Draconum: 7. Et si fuero iudicatus, scio quod iustus inveniar:3 sed bora remigrationis meae instat. CAPITOLO ULTIMO 1. E quando il militare ebbe dette queste sei parole soltanto, ecco che quella caligine della casa di morte si squarciò innanzi agli occhi miei. 2. E l'onda del fiume come ambra; e il munnure delle acque come il canto lontano d'una suonatrice di flauto; e il corso d'esse lucente sotto il chiaro lume della luna: 3. E aliti d'aria soavi rinfrescavano le mie vene; e profumi di fiori nel giro dell'aria allietavano il mio cuore: 4. E magnificenza e gloria per l'azzurro del firmamento; e un dolce orrore, e amore d'armonia, quiete e intelligenza da tutti gli splendori della notte. 5. E il militare esclamò: Questo è il tabernacolo del Dio vivo; e testimonio mio nell'altissimo. E cadde in ginocchio e adorò. 6. E a me volto mi disse: Non sono apostolo né profeta né angelo, ma centurione dei .Dragoni: 7. E se sarò giudicato, so che sarò trovato giusto: ma l'ora del mio ritorno incalza. 1. Hoc . .. vivi: vedi Apoc., 21, 3: • [...] Ecce tabemaculum Dei cum hominibus [...] •· 2. et ••• excelris: vedi lob, 16, 20. 3. Et si • •• inveniar: vedi lob, 13, 18. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 991 8. Et cum consummasset haec verba, conscendit equum, et oculi non viderunt eum amplius. 9. Retuli pedes meos in praesepia ad aniculam Margaritam: et vidi eam dormientem super manipulum foeni. 10. Et cum pax et silentium sederent in praesepe, abii cum calatho vacuo in manibus meis. H~C 'l~RIA TANTUM EXPLICIT HYPERCALYPSIS EXARATA PER CAPITA XIX. ET PER COLA 333. LAUS DEO. 8. E quando ebbe terminate queste parole, montò a cavallo e gli occhi non lo videro più. 9. Mi riportarono i piedi miei nella capanna dalla vecchierella Margherita: e vidi ch1 ella dormiva sopra un fascio di fieno. 1o. E pace e silenzio regnando nella capanna, me ne andai col cesto vuoto nelle mani mie. FINISCE L'IPERCALISSB STESA IN XIX CAPITOLI B 333 VERSETTI. LODE A DIO. EN • HYPERCALYPSEOS • CLAVIS • CUIUS • Xli • TANTUM • PRODEUNT EXEMPLARIA • SUO • UNUMQUODQUE • ET • NUMERO • ET • NOMINE • AC PROPRIA • EX • ANTIQUORUM • LIBRIS • EPIGRAPHE • DESIGNATUM. DIDYMUS: est persona ficta hominis qui postquam litterarum studia coluit virosque doctos cognovit, multorumque hominum mores inspexit et urbes, intellexit denique et rerum humanarum vanitatem et itinerum librorumque inanitatem.1 Ab anno tricesimo noluit quidquam amplius legere aut scribere, aut se ad quempiam applicare, aut quo loco moraretur scire, in otio et tranquillitate suis unice vivens moribus et opinionibus, citra aliorum offensionem: cui quidem persuasum esset, non id agi in hominum vita, ut ipsum inveniretur verum, sed ut quaedam haberemus probabilia, quae segui facile, affirmare vix possumus.2 HYPERCALYPSIS: est satira in viros doctos ltaliae, qui et disciplinam et veritatem cauponantes ipsius gentis litteras corruperunt; ambitionem atque errores Napoleontis aluerunt. In ea adumbrantur Ecco. LA. CHIAVE. DELL'IPERCALISSE. DELLA. QUALE. COMPAIONO. SOLO Xli • ESEMPLARI • CIASCUNO · CON • UN • SUO • NUMERO • E · NOME • E · UNA SUA • PROPRIA • EPIGRAFE • DF.sUNTA • DA · LIBRI • DI • ANTICHI. DIDIMO: è persona immaginaria d'uomo che dopo aver coltivato gli studi letterari e conosciuto uomini dotti, dopo aver osservato i costumi di molti uomini e le città, alla fine comprese e la vanità delle cose umane e l'inutilità dei viaggi e dei libri. Dal suo trentesimo anno più non volle leggere o scrivere alcunché, o legarsi a qualcuno o che qualcuno sapesse dove abitava; in riposo e tranquillità vivendo unicamente secondo i suoi costumi e le sue idee, senza urtare gli altri: essendo egli persuaso che nella vita degli uomini non si consegue questo, cioè che si scopra il vero stesso, ma che possiamo avere certi principi probabili, i quali possiamo facilmente seguire, a stento proclamare. IPERCALISSE: èuna satira contro i dotti italiani, i quali facendo mercatodella dottrina e della verità corruppero le lettere della gente italica; alimentarono l'ambizione e gli errori di Napoleone. Si adombrano in essa i costumi e i J. virosque .. , inanitatem: vedi nella Notizia intorno a Didimo Chierico, a p. 904, la nota 1: «[•••] parla de' molti paesi da lui veduti, e si pente d'averli veduti: ma più che d'altro si pente della sua vita perduta fra gli uomini letterati; e mentre par ch'ei gli esalti, fa pur sentire ch'ei li disprezza•· 2. in otio ... possumus: vedi la Notizia intorno a Didimo Chierico, a p. 906: • A me disse una volta: Che la gran TJalle è intersecata da molte TJiottole tortuosissime, e chi non si contenta di camminare sempre per una sola, TJiTJe e muore perplesso, né arriva mai a un luogo dooe tu"tti que' sentieri conducono l'uomo a vivere in pace seco e con gli altri•, e le note 2 e 3. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 993 istiusmodi doctorum mores affectusque turpes et propria quorundam natura; eo consilio, ut intelligatur, calamitates rerum in Europa conversarum ac servitudinis ltaliae ex litteratorum hominum natas esse mendaciis ad temporariam imperantium utilitatem promulgatis. CAPUT PRIMUM Vs. 1. HIEROMOMus: nomen compositum ex tcp6ç, sacer, et Mwµo,; qui est deus convicii. Est monachus quidam Urbanus Lampredius,1 scriptor ephemeridum et paedagogus litterarum doctrinarumque omnium. Huius profecto ea natura est, ut, ubicumque est, discordias ac lites serat, eademque hebdomade et laudes et in eosdem satiras edat. Senae monachus fuit, scripsitque inter turbas rei publicae Romae MONITOREM libellum famosum et teterrimum: abiecit togam atque adeo sacerdotium exuit. ltinera per Galliam fecit, ludimagistri partes agens: in ltaliam reversus, in collegio apparitorum regis ltaliae mathematica docuit: fecit cum Lambertio et aliis nonnullis POLYCRAturpi affetti dei dotti di codesta specie, e di certuni la loro propria natura; mirando a questo, che si capisca essere nate le sventure delle rivoluzioni in Europa e della servitù d'Italia dalle menzogne dei letterati divulgate per la temporanea utilità dei governanti. CAPITOLO PRIMO Vs. 1. IEROMOMO: nome composto di le:p6,;, sacro, e Mwµoç, che è il dio della maldicenza. È un certo monaco Urbano Lampredi, scrittore di giornali e maestro di lettere e di tutte le discipline. Di costui per vero tale è la natura, che dovunque egli sia semina discordie e liti e nella stessa settimana mette fuori lodi e satire contro le stesse persone. A Siena fu monaco, e scrisse fra le turbolenze della repubblica a Roma il MONITORE, libello infame e turpissimo: gettò via la tonaca e si spogliò del sacerdozio. Fece viaggi attraverso la Francia, esercitando la professione di maestro: ritornato in Italia insegnò matematica nel collegio dei Paggi del re d'Italia: fece col 1. Urbanus Lamprediw (Firenze 13 febbraio 1761 - Napoli 23 febbraio 1838). Quale traduttore diede buon saggio di sé nelle versioni dell'Odissea, dell'Iliade, di Arato, di Appiano e di Apollonio Rodio. Nel periodo della Repubblica romana (1798-1799) diresse il • Monitore di Roma». La polemica tra il Lampredi e il Foscolo, iniziata con l'attacco di quello alla recensione al saggio sulla Traduzione de' primi due canti de/l'Odissea ecc. del Pindemonte (vedi il Ragguaglio d'un'adunanza dell'Accademia de' Pitagorici, a p. 7121 la nota 1)1 proseguì con la pubblicazione sul a Poligrafo II di una serie di articoli nei quali il Lampredi criticava l'orazione inaugurale per la cattedra pavese Dell'origine e dell'ufficio della letteratura (qui nel tomo 11), da poco pubblicata in Milano per i tipi della Stamperia Reale, negli articoli: Il Genio e le regole (n. XVI, 21 luglio 1811, pp. 245-51), Quintiliano e il Padre Soave (n. XXI, 25 agosto 1811, pp. 328-31) e Gl'Inspirati (n. XXII, 1 settembre 1811, pp. 344-9). E vedi la nota introduttiva al Ragguaglio, alle pp. 707-9. 63 994 PROSB PHUM,1 diarium litterarium, idque bile sua perfudit. Denique munus suum et Longobardiam reliquit; neque vero, quantum equidem cognovi, receptus est Florentiae in patria urbe sua. Ad annum MDCCCXIII Neapoli egit: ex eo tempore nusquam mihi visus vel auditus. Vs. 2. Studium scribentis ephemeridas. - REx LEX GREX: vide cap. xv, 16 sqq. - Reliquum hoc caput omne describit mores sacerdotum catholicorum per agros Italiae, qui, specie religionis, spoliant agricolas in Italia, magis quam alibi, egenos. CAPUT SECUNDUM Vs. 2. FIRZAH: Florentiae nomen vetustissimum, ut antiquarii volunt. Secundum eosdem, HARAMHEI sunt populi Arabiae qui ante Romam conditam terras incoluerunt Etruriae. FLUMEN: Arnus. PTOMOTAPHION: in ripa boreali fluminis Ami prope Florentiam infodiunt asinos, mulos, equos: baud longe ab isto ferarum sepulcreto vicus uhi natus est monachus Lampredius. Vs. 3. COLLIS CYPARISSORUM: secundum notitiam de Didymo ediLamberti e alcuni altri il POLIGRAFO, giornale letterario, e lo imbevve della sua bile. Infine lasciò il suo ufficio e la Lombardia; ma, per quel che in realtà io so, non fu accolto in Firenze, sua città natale. Fino al 181 3 visse a Napoli: da quel tempo non l'ho più visto né udito in nessun luogo. Vs. 2. Studio di chi scrive giornali. - REGB LEGGE GREGGE: vedi cap. xv, 16 sgg. - Il resto di questo capitolo descrive tutto i costumi dei sacerdoti cattolici per le campagne d,ltalia, i quali, col pretesto della religione, spogliano i contadini in Italia, più che altrove, poveri. CAPITOLO SECONDO Vs. 2. FIRZA: nome antichissimo di Firenze, come vogliono gli archeologi. Secondo i medesimi gli ARAMEI sono popoli dell'Arabia, che prima della fondazione di Roma abitarono le terre dell'Etruria. FIUME: l'Arno. PTOMOTAFIO: sulla riva settentrionale del fiume Arno, presso Firenze, seppelliscono asini, muli, cavalli: non lontano da questo sepolcreto di bestie è il borgo dove nacque il monaco Lampredi. Vs. 3. CoLLB DBI CIPRESSI: secondo la notizia su Didimo edita in Italia, 1. Polygraphum: a Il Poligrafo», periodico domenicale ideato da Luigi Lamberti e Vincenzo Monti, e diretto dal primo, usci a Milano dal I aprile 1811 al 27 marzo 1814, per i tipi del Veladini, e si valse della collaborazione di Francesco Pezzi per il teatro, e di Urbano Lampredi per gli articoli di polemica letteraria. Altri collaboratori occasionali furono Cesare Arici, Robustiano Gironi, Andrea Mustoxidi e Giulio Perticari. E vedi, nel tomo II, quanto scrive ancora il Foscolo in proposito, nelParticolo sulla Letteratura italiana periodica. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 99S tam in Italia, natus is fuit in loco Inverigo/ qui est collis undique cyparissis exornatus inter Mediolanum oppidum et ripas fluminis Adduae. Vs. 5. sqq. Reliquum caput adumbrat inertiam et miseriam improbitatemque eorum, qui, quum nihil boni sciant, ephemeridas con- scribunt. Vs. 10. V1R MILITARIS: est Hugo Phoscholos. CAPUT TERTIUM MARGARITA ANICULA, guae rerum ignara nihil fere extimescit, dum agrestes et animalia tubae viri militaris sonitu conterrentur, imaginem praebet hominum sirnplicium, qui nihil, nisi suas res agitant, atque interim infelices consolantur: itaque Margarita amplexu suo fractam Didymi mentem erigit. CAPUT QUARTUM Hoc toto capite comparatur improbum negotium scribentium ephemeridas cum honesto bonorum sacerdotum usu. Non enim ignorari licet, plerosque omnes ephemeridas per Italiam conscribillantium aut homines esse Ecclesiasticos, aut sacerdotio exutos, qui simul praetorum speculatores sunt. egli nacque a Inverigo che è un colle da ogni parte adorno di cipressi tra la città di Milano e le rive del fiume Adda. Vs. 5. sgg. Il resto del capitolo adombra l'inerzia, la miseria, la malvagità di quelli che, non sapendo nulla di buono, compilano giornali. Vs. 10. MILITARE: è Ugo Foscolo. CAPITOLO TERZO LA VECCHIERELLA MARGHERITA, che ignara d'ogni cosa nulla quasi teme, mentre i contadini e gli animali dal suono della tromba del militare sono atterriti, offre l'immagine degli uomini semplici, i quali di nulla s'occupano se non delle cose loro, e talora consolano gli infelici: e così Margherita col suo abbraccio solleva la mente di Didimo abbattuta. CAPITOLO QUARTO In tutto questo capitolo si paragona la malvagia opera di quelli che scrivono giornali con l'onesto costume dei buoni sacerdoti. Non è lecito infatti che si ignori come per l'Italia la maggior parte di quelli che scribacchiano su tutti i giornali sono ecclesiastici, o spretati, che sono a un tempo spie di preti. 1. secundum . .. lnven"go: vedi la Notizia intorno a Didimo Chierico, a p.911, e le note 2 e 3. 996 PROSE CAPUT QUINTUM Vs. 7-9. Vid. supra notam Cap. 1, vs. 1. BABYLO MINIMA: est Mediolanum. TERRA FERTILIS: Longobardia. Vs. 10. AslNUS: Populus Mediolanus. Vs. 11. Domus Visconti in armis suae gentis habebat insignia colubri infantem tenentis mordicus. Deiecti fuerunt a F. Sforza, nepote cuiusdam rustici cuius erat scutum malo cydonio distinctum : Sforzae autem pulsi ab Gallis liligeris; hique rursus a Carolo V in monachorJm ordinem transituro; cuius posteri primum Hispani, deinde Austriaci Longobardiam tenuere sub tributo per satrapas. Vs. 12. V1RAGINEM: Libertatem. Vs. 13. VULTUR: Napoleon. PULLUS: princeps Eugenius Boharnensis. Conflatum fuit Italiae regnum partim ex vetere Longobardia Austriaca civitatibusque Venetiarum Leonis alati imagine conspicuis; partim ex fertilissimis Pedemontanorum regionibus, quorum insigne Taurus; partim ex civitatibus Papae ad mare Hadriaticum. Vs. 14. Tale Proregis ingenium fuit sub initia imperii sui. Vs. 15[-16]. SYNAGOGA D0CT0RUM: lnstitutum Regium doctrinarum, litterarum et artium regni ltaliae. SENATUS PARASITARUM: Senatus regni. NABUCHODONOSOR: Napoleon. BALTASSAR: Prorex. CAPITOLO QUINTO Vs. 7-9. Vedi sopra la nota al cap. 1, vs. 1. BABILONIA MINIMA: è Milano. TERRA FERTILE: )a Lombardia. Vs. 10. ASINO: il popolo milanese. Vs. 11. Casa Visconti aveva per insegna nello stemma della sua gente una biscia che ha già mezzo ingoiato un infante. Furono abbattuti da F. Sforza, nipote di un contadino, il cui scudo era fregiato di una mela cotogna: gli Sforza poi furono cacciati dai gigli di Francia; e questi a lor volta da Carlo V, che doveva andar a finire in convento; e i suoi discendenti, prima Spagnuoli, poi Austriaci tennero la Lombardia sotto tributo per mezzo di governatori. Vs. 12. MASCHIA DONNA: la Libertà. Vs. 13. AvvoLTOIO: Napoleone. PULCINO: il principe EugenioBeauharnais. Il regno d'Italia fu costituito parte con la vecchia Lombardia austriaca e le città venete che avevano per insegna l'immagine di un leone alato; parte con le più fertili regioni del Piemonte, la cui insegna è un toro; parte con le città del papa lungo il mare Adriatico. Vs. 14. Tale fu l'indole del viceré al principio del suo governo. Vs. 15[-16]. SINAGOGA DEI DOTTORI: Regio Istituto di scienze, lettere e arti del regno d'Italia. SENATO DEI PARASSITI: il Senato del regno. NABUCODONOSOR Napoleone. BALDASSAR: il viceré. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 997 Vs. 18. Vid. not. I, cap. 1, sub finem.1 CAPUT SEXTUM Vs. 4-5. GALLUS HOM0:2 Abbas quidam Gullionius, homo Gallus, deposito sacerdotio, sub auspiciis popularium suorum in Italiam venit ediditque librum adulatorium superbiae ac puerilis Gallorum vanitatis. Hic probare instituit scribentibus ltalis Gallico sermone utendum suamque deserendum esse linguam. tamquam inutilem ad disciplinas atque adeo minus canoram quam Gallicam. Idem Gullionius terna quotannis milia librarum meruit scribendo de rebus litterariis in Diario Italico3 (Giornale Italiano), quae tabulae publica auctoritate Vs. 18. Vedi nota I cap. 1, verso la fine. CAPITOLO SESTO Vs. 4-5. UoMo FRANCESE: un certo abate Guillon, un francese, lasciato il sacerdozio, sotto gli auspici dei suoi connazionali venne in Italia e pubblicò un libro tutto adulazione della superbia e della puerile vanità dei Francesi. Si propose costui di provare agli scrittori italiani che devono usare la lingua francese, messa da parte la loro, come inetta alle scienze e persino meno armoniosa della francese. Il medesimo Guillon si guadagnò tremila lire aWanno scrivendo su argomenti letterari nel Giornale Italiano, e quei 1. «[ •••] in ltaliam reversus, in collegio apparitorum regis Italiae mathematica docuit [...] ». 2. Gallw homo: allude ad Aimé Guillon (1758- 1824) di Lione. La sua contesa con il Foscolo ebbe inizio il 22 giugno 1807 quando, sul n. 173 del« Giornale Italiano», l'abate francese pubblicava una stroncatura dei Sepolcri. Il FoscoLo replicava con un opuscolo, edito dal Bettoni, a Brescia, in cinquecento esemplari, Lettera a Monsieur Guill . .. su la sua incompetenza a giudicare i poeti italiani. Il GUILLON rispose all'opuscolo foscoliano con un altro intitolato Uno contro pirì (Milano, Silvestri, 1807)1 al quale Antonio Bianchi controreplicò, il 28 ottobre 1807, con l'Uno dei più contro l'uno ossia Risposta dell'abate ANTONIO BIANCHI alle critiche del signor Guill . .. fatte al carme sui Sepolcri del signor Ugo Foscolo, Brescia, Spinelli e Vallotti, 1808. Anche Pietro Borsieri prese parte alla polemica contro il Guillon con una Lettera di PIETRO BoRSIERI in risposta all'Uno contro più di Mr. Guill . .., Milano, Pirotta e Maspero, 1807. A proposito dell'incompetenza del Guillon a giudicare della lingua italiana, cosi scriveva Vincenzo Monti al reggiano professor Luigi Cagnoli 1'11 marzo 1807 da Milano: • Il Giornale Italiano presentemente è nelle mani di una bestia francese, che non sa sillaba di buon italiano, meno assai di latino, e decide di tutto. L'enormità dei suoi spropositi lo fa sicuro da ogni confutazione, perché nessuno vuol degradarsi con sl sciagurato avversario 11 (Epistolario di VINCENZO MONTI raccolto ordinato e annotato da Alfonso Berto/di, Firenze, Le Monnier, 111, 1929, p. 112). 3. Diario Italico: si tratta del • Giornale Italiano,, sorto il 2 gennaio 1802 ad opera di Vincenzo 998 PROSE prodierunt. Ipse ne verbum quidem Italice sciebat, suaque litteraria ex Gallico sermone transferri curavit, in quibus ipsis nihil nisi fatua protulit. Contemptus quidem et derisus timebatur tamen, utpote speculator principis, idemque magister apparitorum in lingua Gal- lica. Vs. 6. EDEN SATRAPA: appellatur etiam cap. XI, vs. 19. PRINCEPS PARASITARUM: et cap. XIV, VS. 12. PHARISAEUS MAXIMUS. Fuit is Comes Paradisius,1 homo unus omnium astutissimus, qui ipse contemnendus, multa arte omnes, qui circa eum erant, contemnere soleret. Qui quum esset et Senatui praefectus et Instituto Regio, quotidie magna ad eum ventitabat unda salutantum, habebatque apud se vespertinos hominum eruditorum coetus. Filius fuit poetae haud ignobilis Regiensis: patrisque fama filius ad nimiam de sua doctrina opinionem abusus est, inter poetas geometram se ferens, poetam inter geometras. Ceterum nihil aliud egit, nisi ut necessarius esset Bonapartae, cui fogli comparvero con l'approvazione della pubblica autorità. Egli non sapeva una parola d'italiano e i suoi pezzi letterari li fece tradurre dal francese, e in essi del resto nulla offri se non cose fatue. Invece pur disprezzato e deriso, era tuttavia temuto, come spia del principe, e per di più maestro dei paggi nella lingua francese. Vs. 6. SATRAPO EDEN: è pure chiamato al cap. XI, vs.19, PRINCIPE DEI PARASSITI: e al cap. XIV, vs. 12, FARISEO MASSIMO. Fu egli il conte Paradisi, uomo quant'altri mai astutissimo, il quale, pur essendo egli stesso spregevole, soleva sprezzare, con molta arte, tutti quelli che gli stavano intorno. Essendo poi presidente e del Senato e del Regio Istituto, ogni giorno una gran folla andava ad ossequiarlo e teneva a casa sua vespertini raduni d'uomini dotti. Era figlio d'un non oscuro poeta di Reggio: della fama del padre abusò, per esagerare l'opinione che s'aveva sulla sua dottrina, presentandosi fra i poeti come matematico, come poeta fra i matematici. Del resto a null'altro mirò se non a rendersi necessario a Bonaparte, al quale invero fece cosa Cuoco, coadiuvato da Bartolomeo Benincasa e Giovanni d'Aniello, per i tipi dell'editore Federico Agnelli. Nel 1806 il Cuoco abbandonava la direzione del giornale, sostituito da Giovanni Gherardini, e nello stesso periodo il Guillon veniva assunto in qualità di responsabile della rubrica letteraria. 1. Comes Paradisius: si tratta del conte Giovanni Paradisi (Reggio Emilia 19 novembre 1760 - ivi 25 agosto 1826). Professore di matematica nel liceo cittadino dal 1790, fu tra le figure più rappresentative della rivoluzione reggiana del 1796. Presidente del Consiglio dei Sessanta della Repubblica Cispadana, dal giugno 1797 all'aprile 1798 fece parte del Direttorio esecutivo della Cisalpina. Attivamente presente ai Comizi di Lione, poco dopo ebbe la carica di consultore di Stato, e direttore delle acque e strade. Eletto presidente del Senato, fu uno dei più caldi sostenitori, nel 1814, del conferimento della corona italica a Eugenio Beauharnais. Eden, che nella Volgata significa 11 Paradiso terrestre'', rimanda al cognome Paradisi. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) 999 quidem gratum fecit hominibus doctis in contemptum adducendis: hoc enim non abhorret a tyrannorum consiliis. Vs. 8. LICTORF.S EQ~TRES (La Gendarmeria). - CASTRUM c1v1TATIS PALUDOSAE: Mantuae. CAPUT SEPTIMUM Vs. 1-7. Quicquid de Lampredii punitione dicitur fictum, neque ulla inest rerum veritas: sed guae praecessit et quae hic legitur de illius vaniloquentia narratio ad vivum expressa est. Vs. 8. Quae hoc versu habentur nomina explicantur capite XII. Vs. 9. sqq. En ipsissimum nulla amplificatione deformatum ingenium hominum eruditorum, qui Mediolani ministrabant Bonapartae et aulae Eugenii. PASTOR BONUS CUM VACCA: intelligitur comes Vaccarius,1 homo animi nobilis, firmi rectique, sed qui malo suo Minister rerum domesticarum regni, facere non potuit, quin adhiberet mensae suae viros doctos aulae deditos; quibus ille multa conferens beneficia saepe expertus est immemores et ingratos. gradita gettando il ridicolo sugli uomini dotti: questo infatti non è estraneo ai disegni dei tiranni. Vs. 8. LITTORI A CAVALLO (La Gendarmeria). - CASTELLO DELLA CITTÀ PALUDOSA: di Mantova. CAPITOLO SETTIMO Vs. 1-7. Quanto è detto sulla punizione di Lampredi è immaginario, e non vi è alcuna verità di fatti: ma la narrazione antecedente, e quella che si legge qui sul suo anfanare lo ritraggono al vivo. Vs. 8. I nomi che si trovano in questo versetto sono spiegati nel cap. xn. Vs. 9 sgg. Ecco, non deformato da nessuna amplificazione, il carattere stessissimo dei dotti, che in Milano prestavano servizio a Bonaparte e alla corte di E11genio. Il BUON PASTORE CON LA VACCA: s'intende il conte Vaccari, uomo d'animo nobile, fermo, e retto, ma che per sua sventura, ministro degli affari interni del regno, non poté fare a meno d'invitare alla sua mensa i dotti devoti alla corte; e facendo loro molti benefizi li sperimentò spesso immemori e ingrati. 1. Pastor .. . Vaccarius: il modenese Luigi Vaccari (1766-1819), laureatosi in giurisprudenza, si impiegava nell'amministrazione finanziaria estense e, dopo la rivoluzione del 1796, veniva eletto deputato di Modena nel corpo legislativo della Cispadana e commissario del potere esecutivo per il Dipartimento del Panaro, successivamente partecipando ai Comizi di Lione. Segretario di Stato dal dicembre 1802, il 10 ottobre 1809 fu chiamato a succedere al marchese di Breme come ministro dell'Interno. 1000 PROSE CAPUT OCTAVUM In hoc capite omni GLADIUS VIRI MILITARIS est figura gladii, quam veritati tribuere solemus. - EST EST: NON NON: sunt verba Evangelii apud Matthaeum v, 37; guae annulo suo inscripsit Hugo Phoscholos. CAPUT NONUM ANUS LIBIDINOSIOR: est omnium imago doctarum muliercularum, expressa tamen ad naturam cuiusdam mulieris: cuius nomen non temere prodendum videtur. CAPUT DECIMUM Vs. 2. EUNUCHUS: est quidam Philippus del Rosso1 etiamnum Professor eloquentiae in Lyceo Breidensi: Florentinus, parasita, maledicus et delator professus. Ceterum hic et sequentibus capitibus, uhi de eodem senno fit, descripta est ipsa hominis natura, qua corpus qua animum. Vid. cap. XI, vss. 19, 20, 21, et cap. XIV, vs. CAPITOLO OTTAVO In tutto questo capitolo LA SPADA DEL MILITARE è simbolo della spada che siamo soliti attribuire alla verità. - EST EST: NON NON: sono parole del Vangelo di Matteo, v, 37: che Ugo Foscolo fece incidere sul suo anello. CAPITOLO NONO VECCHIA LIBIDINOSA: è immagine di tutte le donnaccole dotte, ma foggiata sulla natura di una certa donna; della quale il nome sembra non sia da svelarsi avventatamente. CAPITOLO DECIMO Vs. 2. EUNUCO: è un certo Filippo del Rosso ancora professore al Liceo di Brera: fiorentino, parassita, maledico e delatore confesso. Del resto qui e nei capitoli seguenti ove si discorre di lui, è descritta la natura stessa dell'uomo, di quale natura il corpo, di quale l'anima. Vedi il cap. Xl vss. 19, I. Eunuchus • .• Rosso: Filippo del Rosso (Roma 2 luglio 1761 - Milano metà settembre 1823). Segretario dell'Accademia dei teologi dogmatici in Firenze, nel 1785 veniva aggregato all'Accademia tiferna tiberina dei liberi. Il I dicembre 1805, con decreto imperiale, veniva nominato professore di belle lettere nella Regia scuola militare di Pavia, incarico che sostenne per due anni. Nel 1807 Pietro Moscati gli faceva assegnare la cattedra di eloquenza nel Collegio di Brera, dove succedeva al Lamberti, incarico da lui conservato fino alla caduta del Regno. Dagli Austriaci ebbe la cattedra dei Principii generali delle arti nel Ginnasio Sant'Alcssandro. Nel 1817, ritiratosi dall'insegnamento, otteneva dal governo austriaco una pensione. HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (18 I 6) 1001 12. Philippus erat unus e speculatoribus Paradisii: nihil umquam scripsit. Vs. 7. CALAMOBOA: ducta est appellatio ex nomine Demetrii cuiusdam Calamoboae de quo in Plutarchi, ut opinor, Opusculis Moralibus mentio fit.1 Illi hoc cognomen datum fuerat ab inani strepitu calami sui, quod convenit in mulierem doctam de qua hic agitur. Vs. 14. ANNA CALAMOBOA duobus deinceps viris nupta,2 calumniis in utrumque sparsis, duplicem sibi hoc artificio conciliavit annuam pensionem; eoque pretio ab illius viperae nodis soluti sunt. Sane incredibilis quaedam magnitudo tum stoliditatis tum improbitatis coniuncta est in ista muliere. CAPUT UNDECIMUM Integrum hoc caput poeticae inventionis est, neque adhuc mortuus Lampredius. Verum nobis ilio mortuo opus fuit ad declarandam 20, 21, e il cap. xiv, vs. 12. Filippo era una delle spie del Paradisi: non scrisse mai nulla. Vs. 7. CALAMOB0A: denominazione tratta dal nome di un certo Demetrio Ca/amoboa di cui si fa menzione, credo, nelle Operette Morali di Plutarco. Questo soprannome gli era stato dato per il vano strepito della sua penna, e conviene alla donna dotta, di cui qui si tratta. Vs. 14. ANNA CALAM0B0A, sposa successivamente a due mariti, sparse calunnie contro tutt'e due e si procurò con questo mezzo una duplice annua pensione; essi con tal prezzo si sciolsero dai nodi di quella vipera. Fu congiunta in codesta donna una certa grandezza e di stolidità e di malvagità, veramente incredibile. CAPITOLO UNDECIMO Questo intero capitolo è invenzione poetica; e il Lamprtdi non è ancora morto. Ma a noi occorreva morto, per mettere in luce la malvagità della sua 1. P/utarchi .•• fit: nota G. A. Martinetti: •Correggo il Foscolo riportando il passo di Plutarco (Della garrulità, verso il fine [23]): "Antipatro Stoico, non potendo, né volendo, come pareva, abboccarsi con Carneade, il quale disputava con grande veemenza contro gli Stoici, scrisse per ribatterlo di molti libri: per la qual cosa fu soprannominato Calamobòa, cioè gridante con la penna"» (U. FoscoLo, L'Ipercalisse ecc., cit., p. 55). 2. Anna . .• nupta: si tratta di Anna Vadori (Venezia I settembre 1761 - Napoli 20 novembre 1832), che nel 1785 sposava a Venezia Mattia Butturini. Dichiaratasi vedova, senza specificare il nome del marito, il 26 giugno 1805 si risposava in Milano con Giovanni Rasori, abbandonandolo il giorno successivo alle nozze. 1002 PROSE animi ipsius improbitatem, et ad corpus per sodales condecorandum. Vid. cap. XVI. CAPUT DUODECIMUM Spectacula huius capitis et sequentium usque ad finem Hypercalypseos, peraguntur in Ptomotaphio ad ripas ftuminis Ami. Vs. 7. AGYRTF.S1 FILIUS BETHON: est Bettoni" librarius Brixiae, homo omnium impudentissimus. Hic nihil aliud nisi libros suos novis imperantibus blandiens dedicat, semper quidem male de prioribus quos adulatus fuerat, loquens. Qua arte magnam pecuniam fecit: sed per nequitiam suam adeo rem familiarem pro.fligavit, ut iam ferme de- coxerit. Vs. 10. PHLYRIAS3 HISTRIO FILIUS BENACH: est quidam nomine anima e per far rendere al suo corpo gli estremi onori dai compagni. Vedi il cap. XVI. CAPITOLO DUODECIMO Le scene di questo capitolo e dei seguenti sino alla fine dell'Ipercalisse, si svolgono nel Ptomotafio sulle rive del fiume Arno. Vs. 7. AGIRTE FIGLIO DI BETON: è il Bettoni stampatore di libri in Brescia, sfacciato, quant'altri mai. Costui null'altro se non i suoi libri dedica ai nuovi governanti, lusingandoli, sempre invero sparlando dei precedenti, che egli aveva nelle sue parole adulato. E con quest'arte fece molto denaro; ma per la sua dappocaggine ha cosi rovinato il suo patrimonio, che ormai l'ha quasi liquidato. Vs. xo. L'ISTRIONE FURIA FIGLIO DI BENAC: è un tale di nome Anelli, che x. Agyrtes: dal greco dyup"t"r)c;, "ciarlatano", "furfante". 2. Niccolò Bettoni, per il quale vedi la nota 2 a p. 720. La contesa tra il Foscolo e l'editore bresciano ebbe inizio nel giugno del 1807 con la pubblicazione della Lettera a Monsieu, Guill ••. ecc., per la stampa della quale l'autore veniva addebitato della somma di 57 lire milanesi, che lo stesso rifiutava di corrispondere, ritenendola affatto eccessiva. Oltre che in occasionali sfoghi epistolari (vedi, ad esempio, Epistolario, 111, pp. 468-9, e Foscolo contro Bettoni con una lettera inedita, a cura di G. Acchiappati, Milano, Arti Grafiche Ghezzi, 1970, pp. 44-5), il risentimento foscoliano aveva modo di manifestarsi pubblicamente nel citato saggio sulla Traduzione de' due primi canti dell'Odissea del Pindemonte, dove il Bettoni era violentemente attaccato. L'editore reagiva pubblicando, a sua volta e per i suoi tipi, il 29 maggio 1810, l'opuscolo di trentun pagine intitolato Alcune verità ad Ugo Foscolo, nel quale, tra l'altro, al poeta era rivolta l'accusa di morosità. Per interessamento di comuni amici, la vertenza venne finalmente composta il 9 aprile 1812 con una dichiarazione, elaborata da Andrea Briche e Luigi Mabil, arbitri designati rispettivamente dal Foscolo e dal Bettoni, e da questo sottoscritta, nella quale si dichiarava che la partita tra il poeta e l'editore era da considerarsi chiusa in parità (la si veda in Epistolario, IV, p. 476). 3. Phlyrias: dal greco cpÀu«po<;, "chiacchierone inutile't, "buffone". HYPERCALYPSEOS LIBER SINGULARIS (1816) IOOJ Anelli,1 deditus in Opera Bufja, e lacu Garda, qui etiam Benacus vocatur. Homo omnium loquentissimus, qui nocet garriens sine fine: nec sentiens fortasse suam inconsiderantiam, saepe ignarus ipse speculatoris personam gessit. Vs. I I. PsoRIONA2 FILIUS PHTONIAE :3 Ludovicus Lambertius4 Bibliothecarius Breidensis, Inspector scholarum publicarum, Membrum Instituti, Eques duorum ordinum: corpus eius maculatum specie quadam gallae guae oculos et manus laniavit, animus sedes fuit invidiae sordidissimae et suspicacissimae. Nomen in philologia habuit, consultusque fuit de omnibus, guae pertinerent ad auctores classicos Italos, Latinos, Graecos: at nunquam quidquam tanto nomine dignum fecit, immo paucissima scripsit. Iuvenis, Horatium imitatus, pulcros aliquot versus composuit. Sed eius fama deminuta, et post mortem ipse oblivioni traditus est. Ceterum aulicis artibus peritus, cadente fama altius evectus, reditus multiplicavit. Multum suis rivalibus nocuit aliorum ministerio. Iesuita disertior, citra opifa libretti per l'Opera Buffa, del lago di Garda, chiamato anche Benaco. Uomo quant'altri mai loquace, che nuoce col suo ciarlar senza fine: e non avvertendo forse la sua sconsideratezza, spesso senza accorgersi, fece la parte della spia. Vs. 1 1. PsoRIONA FIGLIO DI FroNIA: Ludovico Lamherti, Bibliotecario della Braidense, Ispettore delle scuole pubbliche, membro dell'Istituto, cavaliere dei due ordini: il corpo di lui macchiato da una specie di rogna, che·gli lacerò gli occhi e le mani, l'anima sua fu sede di una sordidissima e sospettosissima invidia. Ebbe nome in filologia, e fu consultato intorno a tutto ciò che riguardasse i classici italiani, latini, greci: ma non mai fece qualcosa degna di un così gran nome, scrisse anzi pochissimo. Da giovane imitando Orazio compose alcuni bei versi. Ma la sua fama s•impicciolì, e dopo la sua morte egli fu consegnato all'oblio. Del resto esperto nelle arti del cortigiano, portato più in alto che non meritasse la sua tramontante fama, moltiplicò i suoi redditi. Molto nocque ai suoi rivali col servizio d'altri. Più eloquente 1. Angelo Anelli (Desenzano circa il 1751 -Pavia 3 aprile 1820). Professore di eloquenza e storia presso il liceo di Brera dal 1802, fu anteposto al Foscolo nell'assegnazione della cattedra di eloquenza forense a Milano nel 1809. Dal 1817 gli veniva affidata la cattedra di procedura giudiziaria presso l'Università di Pavia. Oltre a innumerevoli opere comiche, rappresentate alla Scala dal 1799 al 1817, si ricordano le Odae et Elegiae (1780); l'Argene, novella morale (1794); la Marianna e il Nicomede, tragedie (1784 e 1795); le Cronache di Pitrdo (18u-1818) e Il trionfo della Clemenza (1816). 2. Psoriona: potrebbe derivare dal greco ~wpcx, "rogna.,, ~(&)pa.Àioç, "rognoso". 3. Plitoniae: dal greco