Dante Alighieri Divina Commedia INFERNO, Canto V (vv. 70 -- 142) Dante ascolta da Francesca da Rimini, dannata insieme a Paolo Malatesta, la vicenda dolorosa della sua colpa. Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito nomar le donne antiche e ' cavalieri, piet`a mi giunse, e fui quasi smarrito. I' cominciai: >>Poeta, volontieri parlerei a quei due che 'nsieme vanno, e paion s`i al vento esser leggieri<<. Ed elli a me: >>Vedrai quando saranno piu presso a noi; e tu allor li priega per quello amor che i mena, ed ei verranno<<. S`i tosto come il vento a noi li piega, mossi la voce: >>O anime affannate, venite a noi parlar, s'altri nol niega!<<. Quali colombe dal disio chiamate con l'ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l'aere, dal voler portate; cotali uscir de la schiera ov' e Dido, a noi venendo per l'aere maligno, s`i forte fu l'affettüoso grido. >>O animal grazioso e benigno che visitando vai per l'aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re de l'universo, noi pregheremmo lui de la tua pace, poi c'hai piet`a del nostro mal perverso. Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, mentre che 'l vento, come fa, ci tace. Siede la terra dove nata fui su la marina dove 'l Po discende per aver pace co' seguaci sui. Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer s`i forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona. Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense<<. Queste parole da lor ci fuor porte. Quand' io intesi quell' anime offense, china' il viso, e tanto il tenni basso, fin che 'l poeta mi disse: >>Che pense?<<. Quando rispuosi, cominciai: >>Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio meno costoro al doloroso passo!<<. Poi mi rivolsi a loro e parla' io, e cominciai: >>Francesca, i tuoi mart`iri a lagrimar mi fanno tristo e pio. Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri, a che e come concedette amore che conosceste i dubbiosi disiri?<<. E quella a me: >>Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e cio sa 'l tuo dottore. Ma s'a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, diro come colui che piange e dice. Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per piu fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disiato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi bascio tutto tremante. Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: quel giorno piu non vi leggemmo avante<<. Mentre che l'uno spirto questo disse, l'altro piangëa; s`i che di pietade io venni men cos`i com' io morisse. E caddi come corpo morto cade. INFERNO, Canto VII (vv. 67 -- 96) Virgilio chiarisce a Dante il valore dei beni della Fortuna, e come questa sia ministra della Provvidenza. >>Maestro mio<<, diss' io, >>or mi d`i anche: questa fortuna di che tu mi tocche, che e, che i ben del mondo ha s`i tra branche?<<. E quelli a me: >>Oh creature sciocche, quanta ignoranza e quella che v'offende! Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche. Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e die lor chi conduce s`i, ch'ogne parte ad ogne parte splende, distribuendo igualmente la luce. Similemente a li splendor mondani ordino general ministra e duce che permutasse a tempo li ben vani di gente in gente e d'uno in altro sangue, oltre la difension d'i senni umani; per ch'una gente impera e l'altra langue, seguendo lo giudicio di costei, che e occulto come in erba l'angue. Vostro saver non ha contasto a lei: questa provede, giudica, e persegue suo regno come il loro li altri dei. Le sue permutazion non hanno triegue: necessit`a la fa esser veloce; s`i spesso vien chi vicenda consegue. Quest' e colei ch'e tanto posta in croce pur da color che le dovrien dar lode, dandole biasmo a torto e mala voce; ma ella s'e beata e cio non ode: con l'altre prime creature lieta volve sua spera e beata si gode. INFERNO, Canto XIX (vv. 88 -- 120) L'invettiva di Dante contro i papi simoniaci. Io non so s'i' mi fui qui troppo folle, ch'i' pur rispuosi lui a questo metro: >>Deh, or mi d`i: quanto tesoro volle Nostro Segnore in prima da san Pietro ch'ei ponesse le chiavi in sua bal`ia? Certo non chiese se non "Viemmi retro". Né Pier né li altri tolsero a Matia oro od argento, quando fu sortito al loco che perdé l'anima ria. Pero ti sta, ché tu se' ben punito; e guarda ben la mal tolta moneta ch'esser ti fece contra Carlo ardito. E se non fosse ch'ancor lo mi vieta la reverenza de le somme chiavi che tu tenesti ne la vita lieta, io userei parole ancor piu gravi; ché la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi. Di voi pastor s'accorse il Vangelista, quando colei che siede sopra l'acque puttaneggiar coi regi a lui fu vista; quella che con le sette teste nacque, e da le diece corna ebbe argomento, fin che virtute al suo marito piacque. Fatto v'avete dio d'oro e d'argento; e che altro e da voi a l'idolatre, se non ch'elli uno, e voi ne orate cento? Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!<<. E mentr' io li cantava cotai note, o ira o coscienza che 'l mordesse, forte spingava con ambo le piote. INFERNO, Canto XXIV (vv. 79 -- 151) I poeti salgono nell'argine settimo, dove nella bolgia, piena di serpi, corrono i ladri. Tra i dannati e Vanni Fucci, che confessa il furto sacrilego del tesoro della sagrestia di S. Jacopo di Pistoia, e predice a Dante la sconfitta dei guelfi bianchi nell'agro pistoiese. Noi discendemmo il ponte da la testa dove s'aggiugne con l'ottava ripa, e poi mi fu la bolgia manifesta: e vidivi entro terribile stipa di serpenti, e di s`i diversa mena che la memoria il sangue ancor mi scipa. Piu non si vanti Libia con sua rena; ché se chelidri, iaculi e faree produce, e cencri con anfisibena, né tante pestilenzie né s`i ree mostro gi`a mai con tutta l'Etiopia né con cio che di sopra al Mar Rosso ee. Tra questa cruda e tristissima copia corrëan genti nude e spaventate, sanza sperar pertugio o elitropia: con serpi le man dietro avean legate; quelle ficcavan per le ren la coda e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate. Ed ecco a un ch'era da nostra proda, s'avvento un serpente che 'l trafisse l`a dove 'l collo a le spalle s'annoda. Né O s`i tosto mai né I si scrisse, com' el s'accese e arse, e cener tutto convenne che cascando divenisse; e poi che fu a terra s`i distrutto, la polver si raccolse per sé stessa e 'n quel medesmo ritorno di butto. Cos`i per li gran savi si confessa che la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa; erba né biado in sua vita non pasce, ma sol d'incenso lagrime e d'amomo, e nardo e mirra son l'ultime fasce. E qual e quel che cade, e non sa como, per forza di demon ch'a terra il tira, o d'altra oppilazion che lega l'omo, quando si leva, che 'ntorno si mira tutto smarrito de la grande angoscia ch'elli ha sofferta, e guardando sospira: tal era 'l peccator levato poscia. Oh potenza di Dio, quant' e severa, che cotai colpi per vendetta croscia! Lo duca il domando poi chi ello era; per ch'ei rispuose: >>Io piovvi di Toscana, poco tempo e, in questa gola fiera. Vita bestial mi piacque e non umana, s`i come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci bestia, e Pistoia mi fu degna tana<<. E io al duca: >>Dilli che non mucci, e domanda che colpa qua giu 'l pinse; ch'io 'l vidi uomo di sangue e di crucci<<. E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse, ma drizzo verso me l'animo e 'l volto, e di trista vergogna si dipinse; poi disse: >>Piu mi duol che tu m'hai colto ne la miseria dove tu mi vedi, che quando fui de l'altra vita tolto. Io non posso negar quel che tu chiedi; in giu son messo tanto perch' io fui ladro a la sagrestia d'i belli arredi, e falsamente gi`a fu apposto altrui. Ma perché di tal vista tu non godi, se mai sarai di fuor da' luoghi bui, apri li orecchi al mio annunzio, e odi. Pistoia in pria d'i Neri si dimagra; poi Fiorenza rinova gente e modi. Tragge Marte vapor di Val di Magra ch'e di torbidi nuvoli involuto; e con tempesta impetüosa e agra sovra Campo Picen fia combattuto; ond' ei repente spezzer`a la nebbia, s`i ch'ogne Bianco ne sar`a feruto. E detto l'ho perché doler ti debbia!<<. INFERNO, Canto XXV (vv. 1 -- 9) Vanni Fucci viene punito per il suo atto. Al fine de le sue parole il ladro le mani alzo con amendue le fiche, gridando: >>Togli, Dio, ch'a te le squadro!<<. Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, perch' una li s'avvolse allora al collo, come dicesse 'Non vo' che piu diche'; e un'altra a le braccia, e rilegollo, ribadendo sé stessa s`i dinanzi, che non potea con esse dare un crollo. PURGATORIO, Canto XXIII (vv. 40 -- 114) I golosi appaiono nella loro magrezza. Forese Donati riconosce il poeta e, dopo l`elogio della moglie Nella, inveisce sul malcostume delle donne fiorentine. ... ed ecco del profondo de la testa volse a me li occhi un'ombra e guardo fiso; poi grido forte: >>Qual grazia m'e questa?<<. Mai non l'avrei riconosciuto al viso; ma ne la voce sua mi fu palese cio che l'aspetto in sé avea conquiso. Questa favilla tutta mi raccese mia conoscenza a la cangiata labbia, e ravvisai la faccia di Forese. >>Deh, non contendere a l'asciutta scabbia che mi scolora<<, pregava, >>la pelle, né a difetto di carne ch'io abbia; ma dimmi il ver di te, d`i chi son quelle due anime che l`a ti fanno scorta; non rimaner che tu non mi favelle!<<. >>La faccia tua, ch'io lagrimai gi`a morta, mi d`a di pianger mo non minor doglia<<, rispuos' io lui, >>veggendola s`i torta. Pero mi d`i, per Dio, che s`i vi sfoglia; non mi far dir mentr' io mi maraviglio, ché mal puo dir chi e pien d'altra voglia<<. Ed elli a me: >>De l'etterno consiglio cade vertu ne l'acqua e ne la pianta rimasa dietro, ond' io s`i m'assottiglio. Tutta esta gente che piangendo canta per seguitar la gola oltra misura, in fame e 'n sete qui si rif`a santa. Di bere e di mangiar n'accende cura l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo che si distende su per sua verdura. E non pur una volta, questo spazzo girando, si rinfresca nostra pena: io dico pena, e dovria dir sollazzo, ché quella voglia a li alberi ci mena che meno Cristo lieto a dire 'El`i', quando ne libero con la sua vena<<. E io a lui: >>Forese, da quel d`i nel qual mutasti mondo a miglior vita, cinqu' anni non son volti infino a qui. Se prima fu la possa in te finita di peccar piu, che sovvenisse l'ora del buon dolor ch'a Dio ne rimarita, come se' tu qua su venuto ancora? Io ti credea trovar l`a giu di sotto, dove tempo per tempo si ristora<<. Ond' elli a me: >>S`i tosto m'ha condotto a ber lo dolce assenzo d'i mart`iri la Nella mia con suo pianger dirotto. Con suoi prieghi devoti e con sospiri tratto m'ha de la costa ove s'aspetta, e liberato m'ha de li altri giri. Tanto e a Dio piu cara e piu diletta la vedovella mia, che molto amai, quanto in bene operare e piu soletta; ché la Barbagia di Sardigna assai ne le femmine sue piu e pudica che la Barbagia dov' io la lasciai. O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica? Tempo futuro m'e gi`a nel cospetto, cui non sar`a quest' ora molto antica, nel qual sar`a in pergamo interdetto a le sfacciate donne fiorentine l'andar mostrando con le poppe il petto. Quai barbare fuor mai, quai saracine, cui bisognasse, per farle ir coperte, o spiritali o altre discipline? Ma se le svergognate fosser certe di quel che 'l ciel veloce loro ammanna, gi`a per urlare avrian le bocche aperte; ché, se l'antiveder qui non m'inganna, prima fien triste che le guance impeli colui che mo si consola con nanna. Deh, frate, or fa che piu non mi ti celi! vedi che non pur io, ma questa gente tutta rimira l`a dove 'l sol veli<<. PARADISO, Canto XI (vv. 40 -- 117) San Tommaso fa l'elogio di San Francesco d'Assisi. De l'un diro, pero che d'amendue si dice l'un pregiando, qual ch'om prende, perch' ad un fine fur l'opere sue. Intra Tupino e l'acqua che discende del colle eletto dal beato Ubaldo, fertile costa d'alto monte pende, onde Perugia sente freddo e caldo da Porta Sole; e di rietro le piange per grave giogo Nocera con Gualdo. Di questa costa, l`a dov' ella frange piu sua rattezza, nacque al mondo un sole, come fa questo talvolta di Gange. Pero chi d'esso loco fa parole, non dica Ascesi, ché direbbe corto, ma Oriente, se proprio dir vuole. Non era ancor molto lontan da l'orto, ch'el comincio a far sentir la terra de la sua gran virtute alcun conforto; ché per tal donna, giovinetto, in guerra del padre corse, a cui, come a la morte, la porta del piacer nessun diserra; e dinanzi a la sua spirital corte et coram patre le si fece unito; poscia di d`i in d`i l'amo piu forte. Questa, privata del primo marito, millecent' anni e piu dispetta e scura fino a costui si stette sanza invito; né valse udir che la trovo sicura con Amiclate, al suon de la sua voce, colui ch'a tutto 'l mondo fé paura; né valse esser costante né feroce, s`i che, dove Maria rimase giuso, ella con Cristo pianse in su la croce. Ma perch' io non proceda troppo chiuso, Francesco e Povert`a per questi amanti prendi oramai nel mio parlar diffuso. La lor concordia e i lor lieti sembianti, amore e maraviglia e dolce sguardo facieno esser cagion di pensier santi; tanto che 'l venerabile Bernardo si scalzo prima, e dietro a tanta pace corse e, correndo, li parve esser tardo. Oh ignota ricchezza! oh ben ferace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro a lo sposo, s`i la sposa piace. Indi sen va quel padre e quel maestro con la sua donna e con quella famiglia che gi`a legava l'umile capestro. Né li gravo vilt`a di cuor le ciglia per esser fi' di Pietro Bernardone, né per parer dispetto a maraviglia; ma regalmente sua dura intenzione ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe primo sigillo a sua religione. Poi che la gente poverella crebbe dietro a costui, la cui mirabil vita meglio in gloria del ciel si canterebbe, di seconda corona redimita fu per Onorio da l'Etterno Spiro la santa voglia d'esto archimandrita. E poi che, per la sete del martiro, ne la presenza del Soldan superba predico Cristo e li altri che 'l seguiro, e per trovare a conversione acerba troppo la gente e per non stare indarno, redissi al frutto de l'italica erba, nel crudo sasso intra Tevero e Arno da Cristo prese l'ultimo sigillo, che le sue membra due anni portarno. Quando a colui ch'a tanto ben sortillo piacque di trarlo suso a la mercede ch'el merito nel suo farsi pusillo, a' frati suoi, s`i com' a giuste rede, raccomando la donna sua piu cara, e comando che l'amassero a fede; e del suo grembo l'anima preclara mover si volle, tornando al suo regno, e al suo corpo non volle altra bara. PARADISO, Canto XXIII (vv. 1-69) Beatrice e in ansiosa attesa. Appare, in alto, tra migliaia di luci, la luce di Cristo. Dante perde i sensi, e poi diviene capace di sostenere il sorriso della sua donna. Come l'augello, intra l'amate fronde, posato al nido de' suoi dolci nati la notte che le cose ci nasconde, che, per veder li aspetti disiati e per trovar lo cibo onde li pasca, in che gravi labor li sono aggrati, previene il tempo in su aperta frasca, e con ardente affetto il sole aspetta, fiso guardando pur che l'alba nasca; cos`i la donna mia stava eretta e attenta, rivolta inver' la plaga sotto la quale il sol mostra men fretta: s`i che, veggendola io sospesa e vaga, fecimi qual e quei che disiando altro vorria, e sperando s'appaga. Ma poco fu tra uno e altro quando, del mio attender, dico, e del vedere lo ciel venir piu e piu rischiarando; e Bëatrice disse: >>Ecco le schiere del triunfo di Cristo e tutto 'l frutto ricolto del girar di queste spere!<<. Pariemi che 'l suo viso ardesse tutto, e li occhi avea di letizia s`i pieni, che passarmen convien sanza costrutto. Quale ne' plenilunii sereni Trivia ride tra le ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni, vid' i' sopra migliaia di lucerne un sol che tutte quante l'accendea, come fa 'l nostro le viste superne; e per la viva luce trasparea la lucente sustanza tanto chiara nel viso mio, che non la sostenea. Oh Bëatrice, dolce guida e cara! Ella mi disse: >>Quel che ti sobranza e virtu da cui nulla si ripara. Quivi e la sapienza e la possanza ch'apr`i le strade tra 'l cielo e la terra, onde fu gi`a s`i lunga disianza<<. Come foco di nube si diserra per dilatarsi s`i che non vi cape, e fuor di sua natura in giu s'atterra, la mente mia cos`i, tra quelle dape fatta piu grande, di sé stessa usc`io, e che si fesse rimembrar non sape. >>Apri li occhi e riguarda qual son io; tu hai vedute cose, che possente se' fatto a sostener lo riso mio<<. Io era come quei che si risente di visione oblita e che s'ingegna indarno di ridurlasi a la mente, quand' io udi' questa proferta, degna di tanto grato, che mai non si stingue del libro che 'l preterito rassegna. Se mo sonasser tutte quelle lingue che Polimnia con le suore fero del latte lor dolcissimo piu pingue, per aiutarmi, al millesmo del vero non si verria, cantando il santo riso e quanto il santo aspetto facea mero; e cos`i, figurando il paradiso, convien saltar lo sacrato poema, come chi trova suo cammin riciso. Ma chi pensasse il ponderoso tema e l'omero mortal che se ne carca, nol biasmerebbe se sott' esso trema: non e pareggio da picciola barca quel che fendendo va l'ardita prora, né da nocchier ch'a sé medesmo parca.