Sei in: home page > la mia musica > Francesco Guccini > radici.
Testi e musiche sono di Francesco Guccini.
La casa sul confine della sera oscura e silenziosa se ne sta:
respiri un'aria limpida e leggera, e senti voci forse di altra età.
La casa sul confine dei ricordi, la stessa sempre, come tu la sai,
e tu ricerchi là le tue radici se vuoi capire l'anima che hai.
Quanti tempi e quante vite sono scivolate via da te,
come il fiume che ti passa attorno;
tu che hai visto nascere e morire gli antenati miei,
lentamente, giorno dopo giorno;
ed io l'ultimo ti chiedo se conosci in me qualche segno, qualche traccia di ogni
vita,
o se solamente io ricerco in te risposta ad ogni cosa non capita.
Ma è inutile cercare le parole, la pietra antica non emette suono,
o parla come il mondo e come il sole, parole troppo grandi per un uomo.
E te li senti dentro quei legami: i riti antichi e i miti del passato,
e te li senti dentro come mani, ma non comprendi più il significato.
Ma che senso esiste in ciò che è nato dentro ai muri tuoi?
Tutto è morto e nessuno ha mai saputo,
o solamente non ha senso chiedersi:
io più mi chiedo e meno ho conosciuto.
Ed io l'ultimo ti chiedo se così sarà per un altro dopo che vorrà capire,
e se l'altro dopo qui troverà il solito silenzio senza fine.
La casa è come un punto di memoria: le tue radici danno la saggezza,
e proprio questa è forse la risposta, e provi un grande senso di dolcezza.
Non so che viso avesse, neppure come si chiamava,
con che voce parlasse, con quale voce poi cantava,
quanti anni avesse visto allora, di che colore i suoi capelli,
ma nella fantasia ho l'immagine sua: gli eroi sono tutti giovani e belli.
Conosco invece l'epoca dei fatti, qual era il suo mestiere:
i primi anni del secolo, macchinista, ferroviere.
I tempi in cui si cominciava la guerra santa dei pezzenti:
sembrava il treno anch'esso un mito di progresso, lanciato sopra i continenti.
E la locomotiva sembrava fosse un mostro strano,
che l'uomo dominava con il pensiero e con la mano:
ruggendo si lasciava indietro distanze che sembravano infinite,
sembrava avesse dentro un potere tremendo, la stessa forza della dinamite.
Ma un'altra grande forza spiegava allora le sue ali:
parole che dicevano "gli uomini sono tutti uguali",
e contro ai re e ai tiranni scoppiava nella via
la bomba proletaria, e illuminava l'aria la fiaccola dell'anarchia.
Un treno tutti i giorni passava per la sua stazione:
un treno di lusso, lontana destinazione.
Vedeva gente riverita, pensava a quei velluti, agli ori,
pensava al magro giorno della sua gente attorno, pensava un treno pieno di
signori.
Non so che cosa accadde, perché prese la decisione.
Forse una rabbia antica, generazioni senza nome
che urlarono vendetta, gli accecarono il cuore,
dimenticò pietà, scordò la sua bontà, la bomba sua la macchina a vapore.
E sul binario stava la locomotiva:
la macchina pulsante sembrava fosse cosa viva,
sembrava un giovane puledro che appena liberato il freno
mordesse la rotaia con muscoli d'acciaio, con forza cieca di baleno.
E un giorno come gli altri, ma forse con più rabbia in corpo,
pensò che aveva il modo di riparare a qualche torto:
salì sul mostro che dormiva, cercò di mandar via la sua paura,
e prima di pensare a quel che stava a fare, il mostro divorava la pianura.
Correva l'altro treno ignaro, quasi senza fretta:
nessuno immaginava di andare verso la vendetta.
Ma alla stazione di Bologna arrivò la notizia in un baleno:
"Notizia di emergenza, agite con urgenza, un pazzo si è lanciato contro il
treno!"
Ma intanto corre, corre, corre la locomotiva,
e sibila il vapore, sembra quasi cosa viva,
e sembra dire ai contadini curvi, il fischio che si spande in aria:
"Fratello non temere, ché corro al mio dovere! Trionfi la giustizia
proletaria!"
E intanto corre corre corre sempre più forte,
e corre, corre, corre, corre verso la morte,
e niente ormai può trattenere l'immensa forza distruttrice,
aspetta sol lo schianto e poi che giunga il manto della grande consolatrice.
La storia ci racconta come finì la corsa:
la macchina deviata lungo una linea morta.
Con l'ultimo suo grido d'animale la macchina eruttò lapilli e lava,
esplose contro il cielo, poi il fumo sparse il velo, lo raccolsero che ancora
respirava.
Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore,
mentre fa correr via la macchina a vapore,
e che ci giunga un giorno ancora la notizia
di una locomotiva come una cosa viva, lanciata a bomba contro l'ingiustizia!
Piccola città, bastardo posto, appena nato ti compresi,
o fu il fato che in tre mesi mi spinse via?
Piccola città, io ti conosco: nebbia e fumo, non so darvi
il profumo del ricordo che cambia in meglio;
ma sono qui nei pensieri le strade di ieri, e tornano
visi e dolori e stagioni, amori e mattoni che parlano.
Piccola città, io poi rividi le tue pietre sconosciute,
le tue case diroccate da guerra antica;
mia nemica strana, sei lontana coi peccati, fra macerie
e fra giochi consumati dentro al Florida;
cento finestre, un cortile, le voci, le liti e la miseria:
io, la montagna nel cuore, scoprivo l'odore del dopoguerra.
Piccola città, vetrate viola, primi giorni della scuola,
la parola e il mesto odore di religione;
vecchie suore nere, con che fede in quelle sere avete dato
a noi il senso di peccato e di espiazione!
Gli occhi guardavano voi ma sognavan gli eroi, le armi e la bilia;
correva la fantasia verso la prateria, fra la Via Emilia e il West.
Sciocca adolescenza, falsa e stupida innocenza, continenza,
vuoto mito americano di terza mano;
pubertà infelice, spesso urlata a mezza voce, a toni acuti,
casti affetti denigrati, cercati invano;
se penso a un giorno o a un momento ritrovo soltanto malinconia;
è tutto un incubo scuro, un periodo di buio gettato via.
Piccola città, vecchia bambina, che mi fu tanto fedele,
a cui fui tanto fedele, tre lunghi mesi;
angoli di strada, testimoni degli erotici miei sogni,
frustrazioni e amori a vuoto, mai compresi.
Dove sei ora, che fai? Neghi ancora o ti dài, sabato sera?
Quelle di adesso disprezzi o invidi e singhiozzi se passano davanti a te?
Piccola città, vecchi cortili, sogni e di primaverili, rime e fedi giovanili,
bimbe ora vecchie; piango e non rimpiango la tua polvere e il tuo fango,
le tue vite, le tue pietre, l'oro e il marmo, le catapecchie;
così diversa sei adesso, io son sempre lo stesso, sempre diverso:
cerco le notti ed il fiasco, se muoio rinasco, finché non finirà.
E correndo mi incontrò lungo le scale: quasi nulla mi sembrò cambiato in lei.
La tristezza poi ci avvolse come miele, per il tempo scivolato su noi due.
Il sole che calava già, rosseggiava la città,
già nostra e ora straniera e incredibile e fredda;
come un istante "déja vu", ombra della gioventù, ci circondava la
nebbia.
Auto ferme ci guardavano in silenzio, vecchi muri proponevan nuovi eroi.
Dieci anni da narrare l'uno all'altro, ma le frasi rimanevan dentro in noi.
"Cosa fai ora, ti ricordi, eran belli i nostri tempi,
ti ho scritto, è un anno, mi han detto che eri ancor via".
Poi la cena a casa sua, la mia nuova cortesia, stoviglie color nostalgia.
E le frasi quasi fossimo due vecchi, rincorrevan solo il tempo dietro a noi.
per la prima volta vidi quegli specchi, capii i quadri, i soprammobili ed i
suoi.
I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway,
il sentirsi nuovi, le cose sognate e ora viste,
la mia America e la sua, diventate nella via la nostra città tanto triste.
Carte e vento volan via nella stazione, freddo e luci accese forse per noi lì,
ed infine in breve la sua situazione, uguale quasi a tanti nostri film:
come in un libro scritto male lui s'era ucciso per natale,
ma il triste racconto sembrava assorbito dal buio.
Povera amica che narravi dieci anni in poche frasi, ed io i miei in un solo
saluto.
E pensavo dondolato dal vagone: "Cara amica, il tempo prende e il tempo dà.
Noi corriamo sempre in una direzione, ma qual sia e che senso abbia chi lo sa.
Restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento,
le luci nel buio, di case intraviste da un treno.
Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa, e il cuore di simboli
pieno.
Viene Gennaio silenzioso e lieve, un fiume addormentato
fra le cui rive giace come neve il mio corpo malato.
Sono distese lungo la pianura bianche file di campi,
son come amanti dopo l'avventura neri alberi stanchi.
Viene Febbraio, e il mondo è a capo chino ma nei convitti e in piazza
lascia i dolori e vesti da Arlecchino, il carnevale impazza.
L'inverno è lungo ancora, ma nel cuore appare la speranza:
nei primi giorni di malato sole la primavera danza.
Cantando Marzo porta le sue piogge, la nebbia squarcia il velo,
porta la neve sciolta nelle rogge il riso del disgelo.
Riempi il bicchiere, e con l'inverno butta la penitenza vana,
l'ala del tempo batte troppo in fretta, la guardi, è già lontana.
O giorni, o mesi che andate sempre via;
sempre simile a voi è questa vita mia;
diverso tutti gli anni ma tutti gli anni uguale,
la mano di tarocchi che non sai mai giocare.
Con giorni lunghi al sonno dedicati il dolce Aprile viene:
quali segreti scoprì in te il poeta che ti chiamò crudele?
Ma nei tuoi giorni è bello addormentarsi, dopo fatto l'amore,
come la terra dorme nella notte dopo un giorno di sole.
Ben venga Maggio e il gonfalone amico, ben venga primavera,
il nuovo amore getti via l'antico nell'ombra della sera.
Ben venga Maggio, ben venga la rosa, che è dei poeti il fiore:
mentre la canto con la mia chitarra brindo a Cenne e a Folgore.
Giugno, che sei maturità dell'anno, di te ringrazio Dio
in un tuo giorno, sotto al sole caldo ci sono nato io.
E con le messi che hai fra le tue mani ci porti il tuo tesoro:
con le tue spighe doni all'uomo il pane, alle femmine l'oro.
O giorni...
Con giorni lunghi di colori chiari ecco Luglio il leone:
riposa e bevi, e il mondo attorno appare come in una visione.
Non si lavora Agosto, nelle stanche tue lunghe oziose ore,
mai come adesso è bello inebriarsi di vino e di calore.
Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull'età,
dopo l'estate porti il dono usato della perplessità.
Ti siedi e pensi e ricominci il gioco della tua identità:
come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità.
Non so se tutti hanno capito, Ottobre, la tua grande bellezza:
nei tini grassi come pance piene prepari mosto e ebbrezza.
Lungo i miei monti, come uccelli tristi fuggono nubi pazze;
lungo i miei monti colorati in rame fumano nubi basse.
O giorni...
Cala Novembre, e le inquietanti nebbie gravi coprono gli orti:
lungo i giardini consacrati al pianto si festeggiano i morti.
Cade la pioggia, ed il tuo viso bagna di gocce di rugiada,
te pure, un giorno, cambierà la sorte in fango della strada.
E mi addormento come in un letargo, Dicembre, alle tue porte,
lungo i tuoi giorni con la mente spargo tristi semi di morte.
Uomini e cose lasciano per terra esili ombre pigre
ma nei tuoi giorni dai profeti detti nasce Cristo la tigre.
O giorni...
E poi e poi, gente viene qui e ti dice di sapere già ogni legge delle cose.
E tutti, sai, vantano un orgoglio cieco di verità fatte di formule vuote.
E tutti, sai, ti san dire come fare, quali leggi rispettare, quali regole
osservare,
qual è il vero vero, e poi, e poi, tutti chiusi in tante celle,
fanno a chi parla più forte per non dir che stelle morte fan paura.
Al caldo del sole, al mare scendeva la bambina portoghese.
Non c'eran parole, rumori soltanto, come voci sorprese.
Il mare soltanto, e il suo primo bikini amaranto:
le cose più belle e la gioia del caldo alla pelle.
Gli amici vicino sembravan sommersi dalla voce del mare;
o sogni o visioni, qualcosa la prese e si mise a pensare:
sentì che era un punto al limite di un continente,
sentì che era un niente, l'Atlantico immenso di fronte.
E in questo sentiva qualcosa di grande
che non riusciva a capire, che non poteva intuire;
che avrebbe spiegato, se avesse capito lei, e l'oceano infinito
ma il caldo l'avvolse, si sentì svanire e si mise a dormire.
E fu solo del sole, come di mani future: restaron soltanto il mare e un bikini
amaranto.
E poi e poi, se ti scopri a ricordare,
ti accorgerai che non te ne importa niente.
E capirai che una sera o una stagione
son come lampi, luci accese e dopo spente.
E capirai che la vera ambiguità è la vita che viviamo,
il qualcosa che chiamiamo esser uomini.
E poi, e poi, che quel vizio che ci ucciderà
non sarà fumare o bere, ma il qualcosa che ti porti dentro, cioè vivere.
Un vecchio e un bambino si preser per mano e andarono insieme incontro alla
sera.
La polvere rossa si alzava lontano e il sole brillava di luce non vera.
L'immensa pianura sembrava arrivare fin dove l'occhio di un uomo poteva
guardare,
e tutto d'intorno non c'era nessuno: solo il tetro contorno di torri di fumo.
I due camminavano, il giorno cadeva, il vecchio parlava e piano piangeva.
Con l'anima assente, con gli occhi bagnati, seguiva il ricordo di miti passati.
I vecchi subiscon le ingiurie degli anni, non sanno distinguere il vero dai
sogni,
i vecchi non sanno nel loro pensiero distinguer nei sogni il falso dal vero.
E il vecchio diceva, guardando lontano: "Immagina questo coperto di grano,
immagina i frutti, immagina i fiori, e pensa alle voci e pensa ai colori,
e in questa pianura fin dove si perde crescevano gli alberi e tutto era verde,
cadeva la pioggia, segnavano i soli il ritmo dell'uomo e delle stagioni."
Il bimbo ristette, lo sguardo era triste, e gli occhi guardavano cose mai viste,
e poi disse al vecchio con voce sognante: "Mi piaccion le fiabe, raccontane
altre."