092 – Marsina stretta Di solito il professor Gori aveva molta pazienza con la vecchia domestica, che lo serviva da circa vent’anni. Quel giorno però, per la prima volta in vita sua, gli toccava d’indossar la marsina, ed era fuori della grazia di Dio. Già il solo pensiero, che una cosa di così poco conto potesse mettere in orgasmo un animo come il suo, alieno da tutte le frivolezze e oppresso da tante gravi cure intellettuali, bastava a irritarlo. L’irritazione poi gli cresceva, considerando che con questo suo animo, potesse prestarsi a indossar quell’abito prescritto da una sciocca consuetudine per certe rappresentazioni di gala con cui la vita s’illude d’offrire a se stessa una festa o un divertimento. E poi, Dio mio, con quel corpaccio d’ippopotamo, di bestiaccia antidiluviana... E sbuffava, il professore, e fulminava con gli occhi la domestica che, piccola e boffice come una balla, si beava alla vista del grosso padrone in quell’insolito abito di parata, senz’avvertire, la sciagurata, che mortificazione dovevano averne tutt’intorno i vecchi e onesti mobili volgari e i poveri libri nella stanzetta quasi buja e in disordine. Quella marsina, s’intende, non l’aveva di suo, il professor Gori. La prendeva a nolo. Il commesso d’un negozio vicino glien’aveva portate su in casa una bracciata, per la scelta; e ora, con l’aria d’un compitissimo arbiter elegantiarum, tenendo gli occhi semichiusi e sulle labbra un sorrisetto di compiacente superiorità, lo esaminava, lo faceva voltare di qua e di là, – Pardon! Pardon! –, e quindi concludeva, scotendo il ciuffo: – Non va. Il professore sbuffava ancora una volta e s’asciugava il sudore. Ne aveva provate otto, nove, non sapeva più quante. Una più stretta dell’altra. E quel colletto in cui si sentiva impiccato! e quello sparato che gli strabuzzava, già tutto sgualcito, dal panciotto! e quella cravattina bianca inamidata e pendente, a cui ancora doveva fare il nodo, e non sapeva come! Alla fine il commesso si compiacque di dire: – Ecco, questa sì. Non potremmo trovar di meglio, creda pure, signore. Il professor Gori tornò prima a fulminar con uno sguardo la serva, per impedire che ripetesse: – Dipinta! Dipinta! –; poi si guardò la marsina, in considerazione della quale, senza dubbio, quel commesso gli dava del signore: poi si rivolse al commesso: – Non ne ha più altre con sé? – Ne ho portate su dodici, signore! – Questa sarebbe la dodicesima? – La dodicesima, a servirla. – E allora va benone! Era più stretta delle altre. Quel giovanotto, un po’ risentito, concesse: – Strettina è, ma può andare. Se volesse aver la bontà di guardarsi allo specchio... – Grazie tante! – squittì il professore. – Basta lo spettacolo che sto offrendo a lei e alla mia signora serva. Quegli, allora, pieno di dignità, inchinò appena il capo, e via, con le altre undici marsine. – Ma è credibile? – proruppe con un gemito rabbioso il professore, provandosi ad alzar le braccia. Si recò a guardare un profumato biglietto d’invito sul cassettone, e sbuffò di nuovo. Il convegno era per le otto, in casa della sposa, in via Milano. Venti minuti di cammino! Ed erano già le sette e un quarto. Rientrò nella stanzetta la vecchia serva che aveva accompagnato fino alla porta il commesso. – Zitta! – le impose subito il professore. – Provate, se vi riesce, a finir di strozzarmi con questa cravatta. – Piano piano... il colletto... – gli raccomandò la vecchia serva. E dopo essersi forbite ben bene con un fazzoletto le mani tremicchianti, s’accinse all’impresa. Regnò per cinque minuti il silenzio: il professore e tutta la stanza intorno parvero sospesi, come in attesa del giudizio universale. – Fatto? – Eh... – sospirò quella. Il professor Gori scattò in piedi, urlando: – Lasciate! Mi proverò io! Non ne posso più! Ma, appena si presentò allo specchio, diede in tali escandescenze, che quella poverina si spaventò. Si fece, prima di tutto, un goffo inchino; ma, nell’inchinarsi, vedendo le due falde aprirsi e subito richiudersi, si rivoltò come un gatto che si senta qualcosa legata alla coda; e, nel rivoltarsi, trac!, la marsina gli si spaccò sotto un’ascella. Diventò furibondo. – Scucita! scucita soltanto! – lo rassicurò subito, accorrendo, la vecchia serva. – Se la cavi, gliela ricucio! – Ma se non ho più tempo! – urlò, esasperato, il professore. – Andrò così, per castigo! Così... Vuol dire che non porgerò la mano a nessuno. Lasciatemi andare. S’annodò furiosamente la cravatta; nascose sotto il pastrano la vergogna di quell’abito; e via. Alla fin fine, però, doveva esser contento, che diamine! Si celebrava quella mattina il matrimonio d’una sua antica allieva, a lui carissima: Cesara Reis, la quale, per suo mezzo, con quelle nozze, otteneva il premio di tanti sacrifizii durati negli interminabili anni di scuola. Il professor Gori, via facendo, si mise a pensare alla strana combinazione per cui quel matrimonio s’effettuava. Sì; ma come si chiamava intanto lo sposo, quel ricco signore vedovo che un giorno gli s’era presentato all’Istituto di Magistero per avere indicata da lui una istitutrice per le sue bambine? – Grimi? Griti? No, Mitri! Ah, ecco, sì: Mitri, Mitri. Così era nato quel matrimonio. La Reis, povera figliuola, rimasta orfana a quindici anni, aveva eroicamente provveduto al mantenimento suo e della vecchia madre, lavorando un po’ da sarta, un po’ dando lezioni particolari: ed era riuscita a conseguire il diploma di professoressa. Egli, ammirato di tanta costanza, di tanta forza d’animo, pregando, brigando, aveva potuto procacciarle un posto a Roma, nelle scuole complementari. Richiesto da quel signor Griti... – Griti, Griti, ecco! Si chiama Griti. Che Mitri! – gli aveva indicato la Reis. Dopo alcuni giorni se l’era veduto tornar davanti afflitto, imbarazzato. Cesara Reis non aveva voluto accettare il posto d’istitutrice, in considerazione della sua età, del suo stato, della vecchia mamma che non poteva lasciar sola e, sopra tutto, del facile malignare della gente. E chi sa con qual voce, con quale espressione gli aveva dette queste cose, la birichina! Bella figliuola, la Reis: e di quella bellezza che a lui piaceva maggiormente: d’una bellezza a cui i diuturni dolori (non per nulla il Gori era professore d’italiano: diceva proprio così «diuturni dolori») d’una bellezza a cui i diuturni dolori avevano dato la grazia d’una soavissima mestizia, una cara e dolce nobiltà. Certo quel signor Grimi... – Ho gran paura che si chiami proprio Grimi, ora che ci penso! Certo quel signor Grimi, fin dal primo vederla, se n’era perdutamente innamorato. Cose che capitano, pare. E tre o quattro volte, quantunque senza speranza, era tornato a insistere, invano; alla fine, aveva pregato lui, il professor Gori, lo aveva anzi scongiurato d’interporsi, perché la signorina Reis, così bella, così modesta, così virtuosa, se non l’istitutrice diventasse la seconda madre delle sue bambine. E perché no? S’era interposto, felicissimo, il professor Gori, e la Reis aveva accettato: e ora il matrimonio si celebrava, a dispetto dei parenti del signor... Grimi o Griti o Mitri, che vi si erano opposti accanitamente: – E che il diavolo se li porti via tutti quanti! – concluse, sbuffando ancora una volta, il grosso professore. Conveniva intanto recare alla sposa un mazzolino di fiori. Ella lo aveva tanto pregato perché le facesse da testimonio; ma il professore le aveva fatto notare che, in qualità di testimonio, avrebbe dovuto poi farle un regalo degno della cospicua condizione dello sposo, e non poteva: in coscienza non poteva. Bastava il sacrifizio della marsina. Ma un mazzolino, intanto, sì, ecco. E il professor Gori entrò con molta titubanza e impacciatissimo in un negozio di fiori, dove gli misero insieme un gran fascio di verdura con pochissimi fiori e molta spesa. Pervenuto in via Milano, vide in fondo, davanti al portone in cui abitava la Reis, una frotta di curiosi. Suppose che fosse tardi; che già nell’atrio ci fossero le carrozze per il corteo nuziale, e che tutta questa gente stesse lì per assistere alla sfilata. Avanzò il passo. Ma perché tutti quei curiosi lo guardavano a quel modo? La marsina era nascosta dal soprabito. Forse... le falde? Si guardò dietro. No: non si vedevano. E dunque? Che era accaduto? Perché il portone era socchiuso? Il portinajo, con aria compunta, gli domandò: – Va su per il matrimonio, il signore? – Sì, signore. Invitato. – Ma... sa, il matrimonio non si fa più. – Come? – La povera signora... la madre... – Morta? – esclamò il Gori, stupefatto, guardando il portone. – Questa notte, improvvisamente. Il professore restò lì, come un ceppo. – Possibile! La madre? La signora Reis? E volse in giro uno sguardo ai radunati, come per leggere ne’ loro occhi la conferma dell’incredibile notizia. Il mazzo di fiori gli cadde di mano. Si chinò per raccattarlo, ma sentì la scucitura della marsina allargarsi sotto l’ascella, e rimase a metà. Oh Dio! la marsina... già! La marsina per le nozze, castigata così a comparire ora davanti alla morte. Che fare? Andar su, parato a quel modo? tornare indietro? Raccattò il mazzo, poi, imbalordito, lo porse al portinajo. – Mi faccia il piacere, me lo tenga lei. Ed entrò. Si provò a salire a balzi la scala; vi riuscì per la prima branca soltanto. All’ultimo piano – maledetto pancione! – non tirava più fiato. Introdotto nel salottino, sorprese in coloro che vi stavano radunati un certo imbarazzo, una confusione subito repressa, come se qualcuno, al suo entrare, fosse scappato via; o come se d’un tratto si fosse troncata un’intima e animatissima conversazione. Già impacciato per conto suo, il professor Gori si fermò poco oltre l’entrata; si guardò attorno perplesso; si sentì sperduto, quasi in mezzo a un campo nemico. Eran tutti signoroni, quelli: parenti e amici dello sposo. Quella vecchia lì era forse la madre; quelle altre due, che parevano zitellone, forse sorelle o cugine. S’inchinò goffamente. (Oh Dio, daccapo la marsina...) E, curvo, come tirato da dentro, volse un altro sguardo attorno, quasi per accertarsi se mai qualcuno avesse avvertito il crepito di quella maledettissima scucitura sotto l’ascella. Nessuno rispose al suo saluto, quasi che il lutto, la gravità del momento non consentissero neppure un lieve cenno del capo. Alcuni (forse intimi della famiglia) stavano costernati attorno a un signore, nel quale al Gori, guardando bene, parve di riconoscere lo sposo. Trasse un respiro di sollievo e gli s’appressò, premuroso. – Signor Grimi... – Migri, prego. – Ah già, Migri... ci penso da un’ora, mi creda! Dicevo Grimi, Mitri, Griti... e non m’è venuto in mente Migri! Scusi... Io sono il professor Fabio Gori, si ricorderà... quantunque ora mi veda in... – Piacere, ma... – fece quegli, osservandolo con fredda alterigia; poi, come sovvenendosi: – Ah, Gori... già! lei sarebbe quello... sì, dico, l’autore... l’autore, se vogliamo, indiretto del matrimonio! Mio fratello m’ha raccontato... – Come, come? scusi, lei sarebbe il fratello? – Carlo Migri, a servirla. – Favorirmi, grazie. Somigliantissimo, perbacco! Mi scusi, signor Gri... Migri, già, ma... ma questo fulmine a ciel sereno... Già! Io purtroppo... cioè, purtroppo no: non ho da recarmelo a colpa diciamo... – ma, sì, indirettamente, per combinazione, diciamo, ho contribuito... Il Migri lo interruppe con un gesto della mano e si alzò. – Permetta che la presenti a mia madre. – Onoratissimo, si figuri! Fu condotto davanti alla vecchia signora, che ingombrava con la sua enorme pinguedine mezzo canapè, vestita di nero, con una specie di cuffia pur nera su i capelli lanosi che le contornavano la faccia piatta, giallastra, quasi di cartapecora. – Mamma, il professor Gori. Sai? quello che aveva combinato il matrimonio di Andrea. La vecchia signora sollevò le palpebre gravi sonnolente, mostrando, uno più aperto e l’altro meno, gli occhi torbidi, ovati, quasi senza sguardo. – In verità, – corresse il professore, inchinandosi questa volta con trepidante riguardo per la marsina scucita, – in verità, ecco... combinato no: non... non sarebbe la parola... Io, semplicemente... – Voleva dare un’istitutrice alle mie nipotine, – compì la frase la vecchia signora, con voce cavernosa. – Benissimo! Così difatti sarebbe stato giusto. – Ecco, già... – fece il professor Gori. – Conoscendo i meriti, la modestia della signorina Reis. – Ah, ottima figliuola, nessuno lo nega! – riconobbe subito, riabbassando le palpebre, la vecchia signora. – E noi, creda, siamo oggi dolentissimi... – Che sciagura! Già! Così di colpo! – esclamò il Gori. – Come se non ci fosse veramente la volontà di Dio, – concluse la vecchia signora. Il Gori la guardò. – Fatalità crudele... Poi, guardando in giro per il salotto, domandò: – E il signor Andrea? Gli rispose il fratello, simulando indifferenza: – Ma... non so, era qui, poco fa. Sarà andato forse a prepararsi. – Ah! – esclamò allora il Gori, rallegrandosi improvvisamente. – Le nozze dunque si faranno lo stesso? – No! che dice mai! – scattò la vecchia signora, stupita, offesa. – Oh Signore Iddio! Con la morta in casa? Ooh! – Oooh! – echeggiarono, miagolando, le due zitellone con orrore. – Prepararsi per partire, – spiegò il Migri. – Doveva partire oggi stesso con la sposa per Torino. Abbiamo le nostre cartiere lassù, a Valsangone; dove c’è tanto bisogno di lui. – E... e partirà... così? – domandò il Gori. – Per forza. Se non oggi, domani. L’abbiamo persuaso noi, spinto anzi, poverino. Qui, capirà, non è più prudente, né conveniente che rimanga. – Per la ragazza... sola, ormai... – aggiunse la madre con la voce cavernosa. – Le male lingue... – Eh già, – riprese il fratello. – E poi gli affari... Era un matrimonio... – Precipitato! – proruppe una delle zitellone. – Diciamo improvvisato, – cercò d’attenuare il Migri. – Ora questa grave sciagura sopravviene fatalmente, come... sì, per dar tempo, ecco. Un differimento s’impone... per il lutto... e... E così si potrà pensare, riflettere da una parte e dall’altra... Il professor Gori rimase muto per un pezzo. L’impaccio irritante che gli cagionava quel discorso, così tutto sospeso in prudenti reticenze, era pur quello stesso che gli cagionava la sua marsina stretta e scucita sotto l’ascella. Scucito allo stesso modo gli sembrò quel discorso e da accogliere con lo stesso riguardo per la scucitura segreta, col quale era proferito. A sforzarlo un po’, a non tenerlo così composto e sospeso, con tutti i debiti riguardi, c’era pericolo che, come la manica della marsina si sarebbe staccata, così anche si sarebbe aperta e denudata l’ipocrisia di tutti quei signori. Sentì per un momento il bisogno d’astrarsi da quell’oppressione e anche dal fastidio che, nell’intontimento in cui era caduto, gli dava il merlettino bianco, che orlava il collo della casacca nera della vecchia signora. Ogni qual volta vedeva un merlettino bianco come quello, gli si riaffacciava alla memoria, chi sa perché, l’immagine d’un tal Pietro Cardella, merciajo del suo paesello lontano, afflitto da una cisti enorme alla nuca. Gli venne di sbuffare; si trattenne a tempo, e sospirò, come uno stupido: – Eh, già... Povera figliuola! Gli rispose un coro di commiserazioni per la sposa. Il professor Gori se ne sentì all’improvviso come sferzare, e domandò, irritatissimo: – Dov’è? Potrei vederla? Il Migri gl’indicò un uscio nel salottino: – Di là, si serva... E il professor Gori vi si diresse furiosamente. Sul lettino, bianco, rigidamente stirato, il cadavere della madre, con un’enorme cuffia in capo dalle tese inamidate. Non vide altro, in prima, il professor Gori, entrando. In preda a quell’irritazione crescente, di cui, nello stordimento e nell’impaccio, non riusciva a rendersi esatto conto, con la testa che già gli fumava, anziché commuoversene, se ne sentì irritare, come per una cosa veramente assurda: stupida e crudele soperchieria della sorte che, no, perdio, non si doveva a nessun costo lasciar passare! Tutta quella rigidità della morta gli parve di parata, come se quella povera vecchina si fosse stesa da sé, là, su quel letto, con quella enorme cuffia inamidata per prendersi lei, a tradimento, la festa preparata per la figliuola, e quasi quasi al professor Gori venne la tentazione di gridarle: – Su via, si alzi, mia cara vecchia signora! Non è il momento di fare scherzi di codesto genere! Cesara Reis stava per terra, caduta sui ginocchi; e tutta aggruppata, ora, presso il lettino su cui giaceva il cadavere della madre, non piangeva più, come sospesa in uno sbalordimento grave e vano. Tra i capelli neri, scarmigliati, aveva alcune ciocche ancora attorte dalla sera avanti in pezzetti di carta, per farsi i ricci. Ebbene, anziché pietà, provò anche per lei quasi dispetto il professor Gori. Gli sorse prepotente il bisogno di tirarla su da terra, di scuoterla da quello sbalordimento. Non si doveva darla vinta al destino, che favoriva così iniquamente l’ipocrisia di tutti quei signori radunati nell’altra stanza! No, no: era tutto preparato, tutto pronto; quei signori là erano venuti in marsina come lui per le nozze: ebbene, bastava un atto di volontà in qualcuno; costringere quella povera fanciulla, caduta lì per terra, ad alzarsi; condurla, trascinarla, anche così mezzo sbalordita, a concludere quelle nozze per salvarla dalla rovina. Ma stentava a sorgere in lui quell’atto di volontà, che con tanta evidenza sarebbe stato contrario alla volontà di tutti quei parenti. Come Cesara, però, senza muovere il capo, senza batter ciglio, levò appena una mano ad accennar la sua mamma lì distesa, dicendogli: – Vede, professore? – il professore ebbe uno scatto, e: – Sì, cara, sì! – le rispose con una concitazione quasi astiosa, che stordì la sua antica allieva. – Ma tu alzati! Non farmi calare, perché non posso calarmi! Alzati da te! Subito, via! Su, su, fammi il piacere! Senza volerlo, forzata da quella concitazione, la giovane si scosse dal suo abbattimento e guardò, quasi sgomenta, il professore: – Perché? – gli chiese. – Perché, figliuola mia... ma alzati prima! ti dico che non mi posso calare, santo Dio! – le rispose il Gori. Cesara si alzò. Rivedendo però sul lettino il cadavere della madre, si coprì il volto con le mani e scoppiò in violenti singhiozzi. Non s’aspettava di sentirsi afferrare per le braccia e scrollare e gridare dal professore, più che mai concitato: – No! no! no! Non piangere, ora! Abbi pazienza, figliuola! Da’ ascolto a me! Tornò a guardarlo, quasi atterrita questa volta, col pianto arrestato negli occhi, e disse: – Ma come vuole che non pianga? – Non devi piangere, perché non è ora di piangere, questa, per te! – tagliò corto il professore. – Tu sei rimasta sola, figliuola mia, e devi ajutarti da te! Lo capisci che devi ajutarti da te? Ora, sì, ora! Prendere tutto il tuo coraggio a due mani: stringere i denti e far quello che ti dico io! – Che cosa, professore? – Niente. Toglierti, prima di tutto, codesti pezzetti di carta dai capelli. – Oh Dio, – gemette la fanciulla, sovvenendosene, e portandosi subito le mani tremanti ai capelli. – Brava, così! – incalzò il professore. – Poi andar di là a indossare il tuo abitino di scuola; metterti il cappellino, e venire con me! – Dove? che dice? – Al Municipio, figliuola mia! – Professore, che dice? – Dico al Municipio, allo stato civile, e poi in chiesa! Perché codesto matrimonio s’ha da fare, s’ha da fare ora stesso; o tu sei rovinata! Vedi come mi sono conciato per te? In marsina! E uno dei testimoni sarò io, come volevi tu! Lascia di qua la tua povera mamma; non pensare più a lei per un momento, non ti paja un sacrilegio! Lei stessa, la tua mamma, lo vuole! Da’ ascolto a me: va’ a vestirti! Io dispongo tutto di là per la cerimonia: ora stesso! – No... no... come potrei? – gridò Cesara, ripiegandosi sul letto della madre e affondando il capo tra le braccia, disperatamente. – Impossibile, professore! Per me è finita, lo so! Egli se ne andrà, non tornerà più, mi abbandonerà... ma io non posso... non posso... Il Gori non cedette; si chinò per sollevarla, per strapparla da quel letto; ma come stese le braccia, pestò rabbiosamente un piede, gridando: – Non me n’importa niente! Farò magari da testimonio con una manica sola, ma questo matrimonio oggi si farà! Lo comprendi tu... – guardami negli occhi! – lo comprendi, è vero? che se ti lasci scappare questo momento, tu sei perduta? Come resti, senza più il posto, senza più nessuno? Vuoi dar colpa a tua madre della tua rovina? Non sospirò tanto, povera donna, questo tuo matrimonio? E vuoi ora che, per causa sua, vada a monte? Che fai tu di male? Coraggio, Cesara! Ci sono qua io: lascia a me la responsabilità di quello che fai! Va’, va’ a vestirti, va’ a vestirti, figliuola mia, senza perder tempo... E, così dicendo, condusse la fanciulla fino all’uscio della sua cameretta, sorreggendola per le spalle. Poi riattraversò la camera mortuaria, ne serrò l’uscio, e rientrò come un guerriero nel salottino. – Non è ancora venuto lo sposo? I parenti, gl’invitati si voltarono a guardarlo, sorpresi dal tono imperioso della voce; e il Migri domandò con simulata premura: – Si sente male la signorina? – Si sente benone! – gli rispose il professore guardandolo con tanto d’occhi. – Anzi ho il piacere d’annunziare a lor signori che ho avuto la fortuna di persuaderla a vincersi per un momento, e soffocare in sé il cordoglio. Siamo qua tutti; tutto è pronto; basterà – mi lascino dire! – basterà che uno di loro... lei, per esempio, sarà tanto gentile – (aggiunse, rivolgendosi a uno degli invitati) – mi farà il piacere di correre con una vettura al Municipio e di prevenire l’ufficiale dello stato civile, che... Un coro di vivaci proteste interruppe a questo punto il professore. Scandalo, stupore, orrore, indignazione! – Mi lascino spiegare! – gridò il professor Gori, che dominava tutti con la persona. – Perché questo matrimonio non si farebbe? Per il lutto della sposa, è vero? Ora, se la sposa stessa... – Ma io non permetterò mai, – gridò più forte di lui, troncandogli la parola, la vecchia signora, – non permetterò mai che mio figlio... – Faccia il suo dovere e una buona azione? – domandò, pronto, il Gori, compiendo lui la frase questa volta. – Ma lei non stia a immischiarsi! – venne a dirgli, pallido e vibrante d’ira, il Migri in difesa della madre. – Perdoni! M’immischio, – rimbeccò subito il Gori, – perché so che lei è un gentiluomo, caro signor Grimi... – Migri, prego! – Migri, Migri, e comprenderà che non è lecito né onesto sottrarsi all’estreme esigenze d’una situazione come questa. Bisogna esser più forti della sciagura che colpisce quella povera figliuola, e salvarla! Può restar sola, così, senza ajuto e senz’alcuna posizione ormai? Lo dica lei! No: questo matrimonio si farà non ostante la sciagura, e non ostante... abbiano pazienza! S’interruppe, infuriato e sbuffante: si cacciò una mano sotto la manica del soprabito; afferrò la manica della marsina e con uno strappo violento se la tirò fuori e la lanciò per aria. Risero tutti, senza volerlo, a quel razzo inatteso, di nuovo genere, mentre il professore, con un gran sospiro di liberazione seguitava: – E non ostante questa manica che mi ha tormentato finora! – Lei scherza! – riprese, ricomponendosi, il Migri. – Nossignore: mi s’era scucita. – Scherza! Codeste sono violenze. – Quelle che consiglia il caso. – O l’interesse! Le dico che non è possibile, in queste condizioni... Sopravvenne per fortuna lo sposo. – No! No! Andrea, no! – gli gridarono subito parecchie voci, di qua, di là. Ma il Gori le sopraffece, avanzandosi verso il Migri. – Decida lei! Mi lascino dire! Si tratta di questo: ho indotto di là la signorina Reis a farsi forza; a vincersi, considerando la gravità della situazione, in cui, caro signore, lei l’ha messa e la lascerebbe. Piacendo a lei, signor Migri, si potrebbe, senz’alcuno apparato, zitti zitti, in una vettura chiusa, correre al Municipio, celebrare subito il matrimonio... Lei non vorrà, spero, negarsi. Ma dica, dica lei... Andrea Migri, così soprappreso, guardò prima il Gori, poi gli altri, e infine rispose esitante: – Ma... per me, se Cesara vuole... – Vuole! vuole – gridò il Gori, dominando col suo vocione le disapprovazioni degli altri. – Ecco finalmente una parola che parte dal cuore! Lei, dunque, venga, corra al Municipio, gentilissimo signore! Prese per un braccio quell’invitato, a cui s’era rivolto la prima volta; lo accompagnò fino alla porta. Nella saletta d’ingresso vide una gran quantità di magnifiche ceste di fiori, arrivate in dono per il matrimonio, e si fece all’uscio del salotto per chiamare lo sposo e liberarlo dai parenti inviperiti, che già l’attorniavano. – Signor Migri, signor Migri, una preghiera! Guardi... Quegli accorse. – Interpretiamo il sentimento di quella poverina. Tutti questi fiori, alla morta... Mi ajuti! Prese due ceste, e rientrò così nel salotto; reggendole trionfalmente, diretto alla camera mortuaria. Lo sposo lo seguiva, compunto, con altre due ceste. Fu una subitanea conversione della festa. Più d’uno accorse alla saletta, a prendere altre ceste, e a recarle in processione. – I fiori alla morta; benissimo; i fiori alla morta! Poco dopo, Cesara entrò nel salotto, pallidissima, col modesto abito nero della scuola, i capelli appena ravviati, tremante dello sforzo che faceva su se stessa per contenersi. Subito lo sposo le corse incontro, la raccolse tra le braccia, pietosamente. Tutti tacevano. Il professor Gori, con gli occhi lucenti di lagrime, pregò tre di quei signori che seguissero con lui gli sposi, per far da testimoni e s’avviarono in silenzio. La madre, il fratello, le zitellone, gl’invitati rimasti nel salotto, ripresero subito a dar sfogo alla loro indignazione frenata per un momento, all’apparire di Cesara. Fortuna, che la povera vecchia mamma, di là, in mezzo ai fiori, non poteva più ascoltare questa brava gente che si diceva proprio indignata per tanta irriverenza verso la morte di lei. Ma il professor Gori, durante il tragitto, pensando a ciò che, in quel momento, certo si diceva di lui in quel salotto, rimase come intronato, e giunse al Municipio, che pareva ubriaco: tanto che, non pensando più alla manica della marsina che s’era strappata, si tolse come gli altri il soprabito. – Professore! – Ah già! Perbacco! – esclamò, e se lo ricacciò di furia. Finanche Cesara ne sorrise. Ma il Gori, che s’era in certo qual modo confortato, dicendo a se stesso che, in fin dei conti, non sarebbe più tornato lì tra quella gente, non poté riderne: doveva tornarci per forza, ora, per quella manica da restituire insieme con la marsina al negoziante da cui l’aveva presa a nolo. La firma? Che firma? Ah già! sì, doveva apporre la firma come testimonio. Dove? Sbrigata in fretta l’altra funzione in chiesa, gli sposi e i quattro testimonii rientrarono in casa. Furono accolti con lo stesso silenzio glaciale. Il Gori, cercando di farsi quanto più piccolo gli fosse possibile, girò lo sguardo per il salotto e, rivolgendosi a uno degli invitati, col dito su la bocca, pregò: – Piano piano... Mi saprebbe dire di grazia dove sia andata a finire quella tal manica della mia marsina, che buttai all’aria poc’anzi? E ravvolgendosela, poco dopo, entro un giornale e andandosene via quatto quatto, si mise a considerare che, dopo tutto, egli doveva soltanto alla manica di quella marsina stretta la bella vittoria riportata quel giorno sul destino, perché, se quella marsina, con la manica scucita sotto l’ascella, non gli avesse suscitato tanta irritazione, egli, nella consueta ampiezza dei suoi comodi e logori abiti giornalieri, di fronte alla sciagura di quella morte improvvisa, si sarebbe abbandonato senz’altro, come un imbecille, alla commozione, a un inerte compianto della sorte infelice di quella povera fanciulla. Fuori della grazia di Dio per quella marsina stretta, aveva invece trovato, nell’irritazione, l’animo e la forza di ribellarvisi e di trionfarne. Il treno ha fischiato... Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d'ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall'ospizio, ov'erano stati a visitarlo. Pareva provassero un gusto particolare a darne l'annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via: - Frenesia, frenesia. - Encefalite. - Infiammazione della membrana. - Febbre cerebrale. E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale. - Morrà? Impazzirà? - Mah! - Morire, pare di no... - Ma che dice? che dice? - Sempre la stessa cosa. Farnetica... - Povero Belluca! E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell'infelice viveva da tant'anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso. Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s'era fieramente ribellato al suo capo-ufficio, e che poi, all'aspra riprensione di questo, per poco non gli s'era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d'una vera e propria alienazione mentale. Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare. Circoscritto... sì, chi l'aveva definito così? Uno dei suoi compagni d'ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz'altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, libri-mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi. Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po', a fargli almeno almeno drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S'era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com'era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte. Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d'una improvvisa alienazione mentale. Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo-ufficio. Già s'era presentato, la mattina, con un'aria insolita, nuova; e - cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d'una montagna - era venuto con più di mezz'ora di ritardo. Pareva che il viso, tutt'a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt'a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d'improvviso all'intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt'a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai. Così ilare, d'una ilarità vaga e piena di stordimento, s'era presentato all'ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente. La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte: - E come mai? Che hai combinato tutt'oggi? Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un'aria d'impudenza, aprendo le mani. - Che significa? - aveva allora esclamato il capo-ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. - Ohé, Belluca! - Niente, - aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d'impudenza e d'imbecillità su le labbra. - Il treno, signor Cavaliere. - Il treno? Che treno? - Ha fischiato. - Ma che diavolo dici? - Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare... - Il treno? - Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere! Gli altri impiegati, alle grida del capo-ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi. Allora il capo-ufficio - che quella sera doveva essere di malumore - urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli. Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s'era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch'egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo. Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all'ospizio dei matti. Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva: - Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove? E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d'un bambino o d'un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite, espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s'era mai occupato d'altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite. Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell'improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa. Difatti io accolsi in silenzio la notizia. E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi: - Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev'essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest'uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l'avrò veduto e avrò parlato con lui. Cammin facendo verso l'ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio: «A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita "impossibile", la cosa più ovvia, l'incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è "impossibile". Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev'essere, appartenendo a quel mostro. Una coda naturalissima.» Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca. Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell'uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita. Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; l'altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate. Tutt'e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l'una con quattro, l'altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto. Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt'e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa. Letti ampii, matrimoniali; ma tre. Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch'esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta. Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé. Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai. Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo. Quando andai a trovarlo all'ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po', ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito. - Magari! - diceva. - Magari! Signori, Belluca, s'era dimenticato da tanti e tanti anni - ma proprio dimenticato - che il mondo esisteva. Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d'una nòria o d'un molino, sissignori, s'era dimenticato da anni e anni - ma proprio dimenticato - che il mondo esisteva. Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l'eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d'addormentarsi subito. E, d'improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno. Gli era parso che gli orecchi, dopo tant'anni, chi sa come, d'improvviso gli si fossero sturati. Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s'era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt'intorno. S'era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s'allontanava nella notte. C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui!. E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s'era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell'arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L'attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l'immaginazione d'improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita «impossibile», tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... Sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così... c'erano gli oceani... le foreste... E, dunque, lui - ora che il mondo gli era rientrato nello spirito - poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo. Gli bastava! Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d'un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva. Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo: - Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato... LA PATENTE Con quale inflessione di voce e quale atteggiamento d'occhi e di mani, curvandosi, come chi regge rassegnatamente su le spalle un peso insopportabile, il magro giudice D'Andrea soleva ripetere: «Ah, figlio caro!» a chiunque gli facesse qualche scherzosa osservazione per il suo strambo modo di vivere! Non era ancor vecchio; poteva avere appena quarant'anni; ma cose stranissime e quasi inverosimili, mostruosi intrecci di razze, misteriosi travagli di secoli bisognava immaginare per giungere a una qualche approssimativa spiegazione di quel prodotto umano che si chiamava il giudice D'Andrea. E pareva ch'egli, oltre che della sua povera, umile, comunissima storia familiare, avesse notizia certa di quei mostruosi intrecci di razze, donde al suo smunto sparuto viso di bianco eran potuti venire quei capelli crespi gremiti da negro; e fosse consapevole di quei misteriosi infiniti travagli di secoli, che su la vasta fronte protuberante gli avevano accumulato tutto quel groviglio di rughe e tolto quasi la vista ai piccoli occhi plumbei, e sconforto tutta la magra, misera personcina. Così sbilenco, con una spalla più alta dell'altra, andava per via di traverso, come i cani. Nessuno però, moralmente, sapeva rigar più diritto di lui. Lo dicevano tutti. Vedere, non aveva potuto vedere molte cose, il giudice D'Andrea; ma certo moltissime ne aveva pensate, e quando il pensare è più triste, cioè di notte. Il giudice D'Andrea non poteva dormire. Passava quasi tutte le notti alla finestra a spazzolarsi una mano a quei duri gremiti suoi capelli da negro, con gli occhi alle stelle, placide e chiare le une come polle di luce, guizzanti e pungenti le altre; e metteva le più vive in rapporti ideali di figure geometriche, di triangoli e di quadrati, e, socchiudendo le palpebre dietro le lenti, pigliava tra i peli delle ciglia la luce d'una di quelle stelle, e tra l'occhio e la stella stabiliva il legame d'un sottilissimo filo luminoso, e vi avviava l'anima a passeggiare come un ragnetto smarrito. Il pensare così di notte non conferisce molto alla salute. L'arcana solennità che acquistano i pensieri produce quasi sempre, specie a certuni che hanno in sè una certezza su la quale non possono riposare, la certezza di non poter nulla sapere e nulla credere non sapendo, qualche seria costipazione. Costipazione d'anima, s'intende. E al giudice D'Andrea, quando si faceva giorno, pareva una cosa buffa e atroce nello stesso tempo, ch'egli dovesse recarsi al suo ufficio d'Istruzione ad amministrare - per quel tanto che a lui toccava - la giustizia ai piccoli poveri uomini feroci. Come non dormiva lui, così sul suo tavolino nell'ufficio d'Istruzione non lasciava mai dormire nessun incartamento, anche a costo di ritardare di due o tre ore il desinare e di rinunziar la sera, prima di cena, alla solita passeggiata coi colleghi per il viale attorno alle mura del paese. Questa puntualità, considerata da lui come dovere imprescindibile, gli accresceva terribilmente il supplizio. Non solo d'amministrare la giustizia gli toccava; ma d'amministrarla così, su due piedi. Per poter essere meno frettolosamente puntuale, credeva d'aiutarsi meditando la notte. Ma, neanche a farlo apposta, la notte, spazzolando la mano a quei suoi capelli da negro e guardando le stelle, gli venivano tutti i pensieri contrarii a quelli che dovevano fare al caso per lui, data la sua qualità di giudice istruttore; così che, la mattina dopo, anziché aiutata, vedeva insidiata e ostacolata la sua puntualità da quei pensieri della notte e cresciuto enormemente lo stento di tenersi stretto a quell'odiosa sua qualità di giudice istruttore. Eppure, per la prima volta, da circa una settimana, dormiva un incartamento sul tavolino del giudice D'Andrea. E per quel processo che stava lì da tanti giorni in attesa, egli era in preda a un'irritazione smaniosa, a una tetraggine soffocante. Si sprofondava tanto in questa tetraggine, che gli occhi aggrottati, a un certo punto, gli si chiudevano. Con la penna in mano, dritto sul busto, il giudice D'Andrea si metteva allora a pisolare, prima raccorciandosi, poi attrappandosi come un baco infratito che non possa più fare il bozzolo. Appena, o per qualche rumore o per un crollo più forte del capo, si ridestava e gli occhi gli andavano lì, a quell'angolo del tavolino dove giaceva l'incartamento, voltava la faccia e, serrando le labbra, tirava con le nari fischianti aria aria aria e la mandava dentro, quanto più dentro poteva, ad allargar le viscere contratte dall'esasperazione, poi la ributtava via spalancando la bocca con un versaccio di nausea, e subito si portava una mano sul naso adunco a regger le lenti che, per il sudore, gli scivolavano. Era veramente iniquo quel processo là: iniquo perché includeva una spietata ingiustizia contro alla quale un pover'uomo tentava disperatamente di ribellarsi senza alcuna probabilità di scampo. C'era in quel processo una vittima che non poteva prendersela con nessuno. Aveva voluto prendersela con due, lì in quel processo, coi primi due che gli erano capitati sotto mano, e sissignori - la giustizia doveva dargli torto, torto, torto, senza remissione, ribadendo così, ferocemente, l'iniquità di cui quel pover'uomo era vittima. A passeggio, di parlarne coi colleghi, ma questi, appena egli faceva il nome del Chiàrchiaro, cioè di colui che aveva intentato il processo, si alteravano in viso e si ficcavano subito una mano in tasca a stringervi una chiave, o sotto sotto allungavano l'indice e il mignolo a far le corna, o s'afferravano sul panciotto i gobbetti d'argento, i chiodi, i corni di corallo pendenti dalla catena dell'orologio. Qualcuno, più francamente, prorompeva: - Per la Madonna Santissima, ti vuoi star zitto? Ma non poteva starsi zitto il magro giudice D'Andrea. Se n'era fatta proprio una fissazione, di quel processo. Gira gira, ricascava per forza a parlarne. Per avere un qualche lume dai colleghi - diceva - per discutere così in astratto il caso. Perché, in verità, era un caso insolito e speciosissimo quello d'un jettatore che si querelava per diffamazione contro i primi due che gli erano caduti sotto gli occhi nell'atto di far gli scongiuri di rito al suo passaggio. Diffamazione? Ma che diffamazione, povero disgraziato, se già da qualche anno era diffusissima in tutto il paese la sua fama di jettatore? se innumerevoli testimonii potevano venire in tribunale a giurare che egli in tante e tante occasioni aveva dato segno di conoscere quella sua fama, ribellandosi con proteste violente? Come condannare, in coscienza, quei due giovanotti quali diffamatori per aver fatto al passaggio di lui il gesto che da tempo solevano fare apertamente tutti gli altri, e primi fra tutti - eccoli là - gli stessi giudici? E il D'Andrea si struggeva; si struggeva di più incontrando per via gli avvocati, nelle cui mani si erano messi quei due giovanotti, l'esile e patitissimo avvocato Grigli, dal profilo di vecchio uccello di rapina, e il grasso Manin Baracca, il quale, portando in trionfo su la pancia un enorme corno comperato per l'occasione e ridendo con tutta la pallida carnaccia di biondo maiale eloquente, prometteva ai concittadini che presto in tribunale sarebbe stata per tutti una magnifica festa. Orbene, proprio per non dare al paese lo spettacolo di quella «magnifica festa» alle spalle d'un povero disgraziato, il giudice D'Andrea prese alla fine la risoluzione di mandare un usciere in casa del Chiàrchiaro per invitarlo a venire all'ufficio d'Istruzione. Anche a costo di pagar lui le spese, voleva indurlo a desistere dalla querela, dimostrandogli quattro e quattr'otto che quei due giovanotti non potevano essere condannati, secondo giustizia, e che dalla loro assoluzione inevitabile sarebbe venuto a lui certamente maggior danno, una più crudele persecuzione. Ahimè, è proprio vero che è molto più facile fare il male che il bene, non solo perché il male si può fare a tutti e il bene solo a quelli che ne hanno bisogno; ma anche, anzi sopra tutto, perché questo bisogno di aver fatto il bene rende spesso così acerbi e irti gli animi di coloro che si vorrebbero beneficare, che il beneficio diventa difficilissimo. Se n'accorse bene quella volta il giudice D'Andrea, appena alzò gli occhi a guardar il Chiàrchiaro, che gli era entrato nella stanza, mentr'egli era intento a scrivere. Ebbe uno scatto violentissimo e buttò all'aria le carte, balzando in piedi e gridandogli: - Ma fatemi il piacere! Che storie son queste? Vergognatevi! Il Chiàrchiaro s'era combinata una faccia da jettatore, ch'era una meraviglia a vedere. S'era lasciata crescere su le cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliata; si era insellato sul naso un paio di grossi occhiali cerchiati d'osso, che gli davano l'aspetto d'un barbagianni; aveva poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfiava da tutte le parti. Allo scatto del giudice non si scompose. Dilatò le nari, digrignò i denti gialli e disse sottovoce: - Lei dunque non ci crede? - Ma fatemi il piacere! - ripeté il giudice D'Andrea. - Non facciamo scherzi, caro Chiàrchiaro! O siete impazzito? Via, via, sedete, sedete qua. E gli s'accostò e fece per posargli una mano su la spalla. Subito il Chiàrchiaro sfagliò come un mulo, fremendo: - Signor giudice, non mi tocchi! Se ne guardi bene! O lei, com'è vero Dio, diventa cieco! Il D'Andrea stette a guardarlo freddamente, poi disse: - Quando sarete comodo... Vi ho mandato a chiamare per il vostro bene. Là c'è una sedia, sedete. Il Chiàrchiaro sedette e, facendo rotolar con le mani su le cosce la canna d'India a mo' d'un matterello, si mise a tentennare il capo. - Per il mio bene? Ah, lei si figura di fare il mio bene, signor giudice, dicendo di non credere alla jettatura? Il D'Andrea sedette anche lui e disse: - Volete che vi dica che ci credo? E vi dirò che ci credo! Va bene così? - Nossignore, - negò recisamente il Chiàrchiaro, col tono di chi non ammette scherzi. - Lei deve crederci sul serio, e deve anche dimostrarlo istruendo il processo! - Questo sarà un po' difficile, - sorrise mestamente il D'Andrea. - Ma vediamo di intenderci, caro Chiàrchiaro. Voglio dimostrarvi che la via che avete preso non è propriamente quella che possa condurvi a buon porto. - Via? porto? Che porto e che via? - domandò, aggrondato, il Chiàrchiaro. - Né questa d'adesso, - rispose il D'Andrea, - né quella là del processo. Già l'una l'altra scusate, son tra loro così. F il giudice D'Andrea infrontò gl'indici delle mani per significai che le due vie gli parevano opposte. Il Chiàrchiaro si chinò e tra i due indici così infrontati del giudice ne inserì uno suo, tozzo, peloso e non molto pulito. - Non è vero niente, signor giudice! - disse, agitando quel dito. - Come no? - esclamò il D'Andrea. - Là accusate come diffamatori due giovani perché vi credono jettatore, e ora qua voi stesso vi presentate innanzi a me in veste di jettatore e pretendete anzi ch'io creda alla vostra jettatura. - Sissignore. - E non vi pare che ci sia contraddizione? Il Chiàrchiaro scosse più volte il capo con la bocca aperta a un muto ghigno di sdegnosa commiserazione. - Mi pare piuttosto, signor giudice, - poi disse, - che lei non capisca niente. Il D'Andrea lo guardò un pezzo, imbalordito. - Dite pure, dite pure, caro Chiàrchiaro. Forse è una verità sacrosanta questa che vi è scappata dalla bocca. Ma abbiate la bontà di spiegarmi perché non capisco niente. - Sissignore. Eccomi qua, - disse il Chiàrchiaro, accostando la seggiola. - Non solo le farò vedere che lei non capisce niente; ma anche che lei è un mio mortale nemico. Lei, lei, sissignore. Lei che crede di fare il mio bene. Il mio più acerrimo nemico! Sa o non sa che i due imputati hanno chiesto il patrocinio dell'avvocato Manin Baracca? - Sì. Questo lo so. - Ebbene, all'avvocato Manin Baracca io, Rosario Chiàrchiaro, io stesso sono andato a fornire le prove del fatto: cioè, che non solo mi ero accorto da più d'un anno che tutti, vedendomi passare, facevano le corna, ma le prove anche, prove documentate e testimonianze irrepetibili dei fatti spaventosi su cui è edificata incrollabilmente, incrollabilmente, capisce, signor giudice? La mia fama di jettatore! - Voi? Dal Baracca? - Sissignore, io. Il giudice lo guardò, più imbalordito che mai: - Capisco anche meno di prima. Ma come? Per render più sicura l'assoluzione di quei giovanotti? E perché allora vi siete querelato? Il Chiàrchiaro ebbe un prorompimento di stizza per la durezza di mente del giudice D'Andrea; si levò in piedi, gridando con le braccia per aria: - Ma perché io voglio, signor giudice, un riconoscimento ufficiale della mia potenza, non capisce ancora? Voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza spaventosa, che è ormai l'unico mio capitale! E ansimando, protese il braccio, batté forte sul pavimento la canna d'India e rimase un pezzo impostato in quell'atteggiamento grottescamente imperioso. Il giudice D'Andrea si curvò, si prese la testa tra le mani, commosso, e ripeté: Povero caro Chiàrchiaro mio, povero caro Chiàrchiaro mio, bel capitale! E che te ne fai? che te ne fai? - Che me ne faccio? - rimbeccò pronto il Chiàrchiaro. - Lei, padrone mio, per esercitare codesta professione di giudice, anche così male come la esercita, mi dica un po', non ha dovuto prender la laurea? - La laurea, sì. - Ebbene, voglio anch'io la mia patente, signor giudice! La patente di jettatore. Col bollo. Con tanto di bollo legale! Jettatore patentato dal regio tribunale. - E poi? - E poi? Me lo metto come titolo nei biglietti da visita. Signor giudice, mi hanno assassinato. Lavoravo. Mi hanno fatto cacciar via dal banco dov'ero scritturale, con la scusa che, essendoci io, nessuno più veniva a far debiti e pegni; mi hanno buttato in mezzo a una strada, con la moglie paralitica da tre anni e due ragazze nubili, di cui nessuno vorrà più sapere, perché sono figlie mie; viviamo del soccorso che ci manda da Napoli un mio figliuolo, il quale ha famiglia anche lui, quattro bambini, e non può fare a lungo questo sacrifizio per noi. Signor giudice, non mi resta altro che di mettermi a fare la professione del jettatore! Mi sono parato così, con questi occhiali, con quest'abito; mi sono lasciato crescere la barba; e ora aspetto la patente per entrare in campo! Lei mi domanda come? Me lo domanda perché, le ripeto, lei è un mio nemico! - Io? - Sissignore. Perché mostra di non credere alla mia potenza! Ma per fortuna ci credono gli altri, sa? Tutti, tutti ci credono! E ci son tante case da giuoco in questo paese! Basterà che io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per farmi andar via! Mi metterò a ronzare attorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti, tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell'ignoranza? io dico la tassa della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d'avere ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città! Il giudice D'Andrea, ancora con la testa tra le mani, aspettò un pezzo che l'angoscia che gli serrava la gola desse adito alla voce. Ma la voce non volle venir fuori; e allora egli, socchiudendo dietro le lenti i piccoli occhi plumbei, stese le mani e abbracciò il Chiàrchiaro a lungo, forte forte, a lungo. Questi lo lasciò fare. - Gli vuol bene davvero? - gli domandò. E allora istruisca subito il processo, e in modo da farmi avere al più presto quello che desidero. - La patente? Il Chiàrchiaro protese di nuovo il braccio, batté la canna d'India sul pavimento e, portandosi l'altra mano al petto, ripeté con tragica solennità: - La patente. Luigi Pirandello La patente (1917) linecol.gif (2432 byte) La patente" copyright La Rivista d'Italia 1918. Copyright 1950 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano per la raccolta di tutto il teatro in lingua italiana. Prima edizione B.M.M. gennaio 1950. 4 edizioni Oscar Mondadori. Prima edizione Oscar Teatro e Cinema novembre 1984. Quinta ristampa Oscar Teatro maggio 1991. Atto unico tratto dalla novella omonima del 1911, scritto nel 1917 e pubblicato nella "Rivista d'Italia" del 31 gennaio 1918, quindi, nel 1920, presso la casa editrice Treves di Milano. La prima rappresentazione (nella versione in dialetto siciliano curata dallo stesso autore e intitolata "'A patenti") avvenne il 19 febbraio 1919 al Teatro Argentina di Roma con la compagnia del "Teatro Mediterraneo" diretta da Nino Martoglio, nell'interpretazione di Angelo Musco. La patente fu tradotta anche in dialetto genovese (da Gilberto Govi) nel 1931 e, nel 1937, in napoletano e in veneziano. Con altre opere pirandelliane ("La giara", "Il ventaglino", "Marsina stretta") è stata ripresa nel 1953 in un film a sketch dal titolo "Questa è la vita", per la regia di Luigi Zampa e l'interpretazione di Totò. Dalla trama esilissima della novella Pirandello è arrivato a comporre in quest'atto unico un insieme di brevi quadri di schietto umore teatrale. Il dramma e il grottesco della vicenda si risolvono teatralmente in un accorato e vivo monologo cui fa da contrappunto - come nel teatro classico - un "coro": in questo caso i giudici. Come sempre l'autore fissa l'attenzione del pubblico su un nucleo, su un fatto icasticamente rappresentato: in quest'atto unico è la sfortunata storia di Rosario Chiàrchiaro, un disgraziato padre di famiglia cui è stato misteriosamente attribuito il potere di iettatore. Licenziato dal lavoro in seguito a questa fama, al colmo della disperazione, egli "non può vivere" scrive Mario Apollonio "se non codificando la sua fama di jettatore, facendosi riconoscere ufficialmente come possessore di un potere funesto e invincibile" e ottenere in tal modo la sua "patente". «La patente!» grida infatti il pover'uomo «Sarà la mia professione! Io sono stato assassinato, signor giudice! Sono un povero padre di famiglia. Lavoravo onestamente. M'hanno cacciato via e buttato in mezzo a una strada... con la moglie paralitica... e con due ragazze... Signor giudice, non mi resta altro che di mettermi a far la professione di jettatore...»: solo così, infatti, potrà guadagnarsi da vivere perché tutti, per tenerlo lontano, saranno costretti a pagargli una tassa. Nella "Patente" si ha dunque la denuncia di tutto un gioco di rapporti e preconcetti in cui la persona umana è inevitabilmente coinvolta dalla presenza dei più: per sopravvivere l'uomo deve crearsi delle "apparenze", "ci vediamo vivere", dice Pirandello. Sviluppato con assoluta efficacia anche nel presente atto unico, è questo il punto focale della tematica pirandelliana già abbozzato in precedenti commedie e romanzi (ad esempio Il berretto a sonagli e Il fu Mattia Pascal) e destinato a giungere all'esasperazione nel Giuoco delle parti e, soprattutto, nell'Enrico IV. Come Rosario Chiàrchiaro, ciascuno ha una maschera, un ruolo da giocare, maschera e ruolo che gli sono plasmati addosso dagli altri, dalla gente che gli vive attorno, maschera e ruolo cui nessuno può sottrarsi, perché il pregiudizio della massa non solo ha una parte importante nella vita del singolo, ma finisce per avere sempre il sopravvento. "La tragedia dell'uomo è proprio questa" dice in proposito Silvio D'Amico "che per illudersi di vivere non ha altra risorsa se non d'affidarsi a codesta maschera, a cotesta larva, come gli altri (o lui stesso) l'hanno foggiata." Quella "larva", quella maschera sociale che accomuna tutti gli uomini in una situazione di angosciosa solidarietà, e che nel Berretto a sonagli ha fatto esplodere Pirandello nel grido crudele del protagonista: «... Pupi siamo, pupo io, pupo lei, pupi tutti...», uomini svuotati d'ogni vera realtà, costretti a vivere una vita che non avrebbero mai voluto vivere. Personaggi: Rosario Chiàrchiaro. Rosinella, sua figlia. Il Giudice istruttore D'Andrea. Tre altri Giudici. Marranca, usciere. Stanza del Giudice istruttore D'Andrea. Grande scaffale che prende quasi tutta la parete di fondo, pieno di scatole verdi a casellario, che si suppongono zeppe d'incartarnenti. Scrivania, sovraccarica di fascicoli, a destra, in fondo e, accanto, addossato alla parete di destra, un altro palchetto. Un seggiolone di cuojo per il Giudice, davanti la scrivania. Altre seggiole antiche. Lo stanzone è squallido. La comune è nella parete di destra. A sinistra, un'ampia finestra, alta, con vetrata antica, scompartita. Davanti alla finestra, come un quadricello alto, che regge una grande gabbia. Lateralmente a, sinistra, un usciolino nascosto. Il giudice D'Andrea entra per la comune col cappello in capo e il soprabito. Reca in mano una gabbiola poco più grossa d'un pugno. Va davanti alla gabbia grande sul quadricello, ne apre lo sportello, poi apre lo sportellino della gabbiola e fa passare da questa nella gabbia grande un cardellino. D'Andrea: Via, dentro! - E su, pigrone! - Oh! finalmente... - Zitto adesso, al solito, e lasciami amministrare la giustizia a questi poveri piccoli uomini feroci. Si leva il soprabito e lo appende insieme col cappello all'attaccapanni. Siede alla scrivania, prende il fascicolo del processo che deve istruire, lo scuote in aria con impazienza, sbuffa: Benedett'uomo! Resta un po' assorto a pensare, poi suona il campanello e dalla comune si presenta l'usciere Marranca. Marranca: Comandi, signor cavaliere! D'Andrea: Ecco, Marranca: andate al vicolo del Forno, qua vicino; a casa del Chiàrchiaro. Marranca (con un balzo indietro, facendo le corna): Per amor di Dio, non lo nomini, signor cavaliere! D'Andrea (irritatissimo, dando un pugno sulla scrivania): Basta, perdio! Vi proibisco di manifestare così, davanti a me, la vostra bestialità, a danno d'un pover'uomo. E sia detto una volta per sempre. Marranca: Mi scusi, signor cavaliere. L'ho detto anche per il suo bene! D'Andrea: Ah, seguitate? Marranca: Non parlo più. Che vuole che vada a fare in casa di... di questo... di questo galantuomo? D'Andrea: Gli direte che il giudice istruttore ha da parlargli, e lo introdurrete subito da me. Marranca: Subito, va bene, signor cavaliere. Ha altri comandi? D'Andrea: Nient'altro. Andate. Marranca esce, tenendo la porta per dar passo ai tre Giudici colleghi, che entrano con le toghe e i tocchi in capo e scambiano i saluti col D'Andrea, poi vanno tutti e tre a guardare il cardellino nella gabbia. Primo giudice: Che dice eh, questo signor cardellino? Secondo giudice: Ma sai che sei davvero curioso con codesto cardellino che ti porti appresso? Terzo giudice: Tutto il paese ti chiama: il Giudice Cardello. Primo giudice: Dov'è, dov'è la gabbiolina con cui te lo porti? Secondo giudice (prendendola dalla scrivania a cui s'è accostato): Eccola qua! Signori miei, guardate: cose da bambini! Un uomo serio... D'Andrea: Ah, io, cose da bambini, per codesta gabbiola? E voi, allora, parati così? Terzo giudice: Ohè, ohè, rispettiamo la toga! D'Andrea: Ma andate là, non scherziamo! siamo in "camera caritatis". Ragazzo, giocavo coi miei compagni «al tribunale». Uno faceva da imputato; uno, da presidente; poi, altri da giudici, da avvocati... Ci avrete giocato anche voi. Vi assicuro, che eravamo più serii allora! Primo giudice: Eh, altro! Secondo giudice: Finiva sempre a legnate! Terzo giudice (mostrando una vecchia cicatrice alla fronte): Ecco qua: cicatrice d'una pietrata che mi tirò un avvocato difensore mentre fungevo da regio procuratore! D'Andrea: Tutto il bello era nella toga con cui ci paravamo. Nella toga era la grandezza, e dentro di essa noi eravamo bambini. Ora è al contrario: noi, grandi, e la toga, il giuoco di quand'eravamo bambini. Ci vuole un gran coraggio a prenderla sul serio! Ecco qua, signori miei, prende dalla scrivania il fascicolo del processo Chiàrchiaro io debbo istruire questo processo. Niente di più iniquo di questo processo. Iniquo, perché include la più spietata ingiustizia contro alla quale un pover'uomo tenta disperatamente di ribellarsi, senza nessuna probabilità di scampo. C'è una vittima qua, che non può prendersela con nessuno! Ha voluto, in questo processo, prendersela con due, coi primi due che gli sono capitati sotto mano, e - sissignori - la giustizia deve dargli torto, torto, torto, senza remissione, ribadendo così, ferocemente, la iniquità di cui questo pover'uomo è vittima. Primo giudice: Ma che processo è? D'Andrea: Quello intentato da Rosario Chiàrchiaro. Subito, al nome i tre Giudici, come già Marranca, danno un balzo indietro, facendo scongiuri, atti di spavento, e gridando. Tutti e tre: Per la Madonna Santissima! - Tocca ferro! - Ti vuoi star zitto? D'Andrea: Ecco, vedete? E dovreste proprio voi rendere giustizia a questo pover'uomo! Primo giudice: Ma che giustizia! È un pazzo! D'Andrea: Un disgraziato! Secondo giudice: Sarà magari un disgraziato! ma scusa, è pure un pazzo! Ha sporto querela per diffamazione, contro il figlio del sindaco, nientemeno, e anche - D'Andrea: - contro l'assessore Fazio - Terzo giudice: - per diffamazione? - Primo giudice: - già, capisci? perché dice, li sorprese nell'atto che facevano gli scongiuri al suo passaggio. Secondo giudice: Ma che diffamazione se in tutto il paese, da almeno due anni, è diffusissima la sua fama di jettatore? D'Andrea: E innumerevoli testimonii possono venire in tribunale a giurare che in tante e tante occasioni ha dato segno di conoscere questa sua fama, ribellandosi con proteste violente! Primo giudice: Ah, vedi? Lo dici tu stesso! Secondo giudice: Come condannare, in coscienza, il figliuolo del sindaco e l'assessore Fazio quali diffamatori per aver fatto, vedendolo passare, il gesto che da tempo sogliono fare apertamente tutti? D'Andrea: E primi fra tutti vojaltri? Tutti e tre: Ma certo! - È terribile, sai? - Dio ne liberi e scampi! D'Andrea: E poi vi fate meraviglia, amici miei, che io mi porti qua il cardellino... Eppure, me lo porto - voi lo sapete - perché sono rimasto solo da un anno. Era di mia madre quel cardellino; e per me è il ricordo vivo di lei: non me ne so staccare. Gli parlo, imitando, così, col fischio, il suo verso, e lui mi risponde. Io non so che gli dico; ma lui, se mi risponde, è segno che coglie qualche senso nei suoni che gli faccio. Tale e quale come noi, amici miei, quando crediamo che la natura ci parli con la poesia dei suoi fiori, o con le stelle del cielo, mentre la natura forse non sa neppure che noi esistiamo. Primo giudice: Séguita, séguita, mio caro, con codesta filosofia, e vedrai come finirai contento! Si sente picchiare alla comune, e, poco dopo, Marranca sporge il capo. Marranca: Permesso? D'Andrea. Avanti, Marranca. Marranca: Lui in casa non c'era, signor cavaliere. Ho lasciato detto a una delle figliuole che, appena arriva, lo mandino qua. È venuta intanto con me la minore delle figliuole: Rosinella. Se Vossignoria vuol riceverla.., D'Andrea: Ma no: io voglio parlare con lui! Marranca: Dice che vuol rivolgerle non so che preghiera, signor cavaliere. È tutta impaurita. Primo giudice. Noi ce n'andiamo. A rivederci, D'Andrea! Scambio di saluti: e i tre Giudici vanno via. D'Andrea: Fate passare. Marranca: Subito, signor cavaliere. Via, anche lui. Rosinella, sui sedici anni, poveramente vestita, ma con una certa decenza, sporge il capo dalla comune, mostrando appena il volto dallo scialle nero di lana. Rosinella: Permesso? D'Andrea. Avanti, avanti. Rosinella: Serva di Vossignoria. Ah, Gesù mio, signor giudice, Vossignoria ha fatto chiamare mio padre? Che cosa è stato, signor giudice? Perché? Non abbiamo più sangue nelle vene, dallo spavento! D'Andrea: Calmatevi! Di che vi spaventate? Rosinella: È che noi, Eccellenza, non abbiamo avuto mai da fare con la giustizia! D'Andrea: Vi fa tanto terrore, la giustizia? Rosinella: Sissignore. Le dico, non abbiamo più sangue nelle vene! La mala gente, Eccellenza, ha da fare con la giustizia. Noi siamo quattro poveri disgraziati. E se anche la giustizia ora si mette contro di noi... D'Andrea: Ma no. Chi ve l'ha detto? State tranquilla. La giustizia non si mette contro di voi. Rosinella: E perché allora Vossignoria ha fatto chiamare mio padre? D'Andrea: Perché vostro padre vuol mettersi lui contro la giustizia. Rosinella: Mio padre? Che dice! D'Andrea: Non vi spaventate. Vedete che sorrido... Ma come? Non sapete che vostro padre s'è querelato contro il figlio del sindaco e l'assessore Fazio? Rosinella: Mio padre? Nossignore! Non ne sappiamo nulla! Mio padre s'è querelato? D'Andrea: Ecco qua gli atti! Rosinella: Dio mio! Dio mio! Non gli dia retta, signor giudice! È come impazzito mio padre: da più d'un mese! Non lavora più da un anno, capisce? perché l'hanno cacciato via, l'hanno gettato in mezzo a una strada; fustigato da tutti, sfuggito da tutto il paese come un appestato! Ah, s'è querelato? Contro il figlio del sindaco s'è querelato? È pazzo! È pazzo! Questa guerra infame che gli fanno tutti, con questa fama che gli hanno fatto, l'ha levato di cervello! Per carità, signor giudice: gliela faccia ritirare codesta querela! gliela faccia ritirare! D'Andrea: Ma sì, carina! Voglio proprio questo. E l'ho fatto chiamare per questo. Spero che ci riuscirò. Ma voi sapete: è molto più facile fare il male che il bene. Rosinella: Come, Eccellenza! Per Vossignoria? D'Andrea: Anche per me. Perché il male, carina, si può fare a tutti e da tutti; il bene, solo a coloro che ne hanno bisogno. Rosinella: E lei crede che mio padre non ne abbia bisogno? D'Andrea: Lo credo, lo credo. Ma è che questo bisogno d'aver fatto il bene, figliuola, rende spesso così nemici gli animi di coloro che si vorrebbero beneficare, che il beneficio diventa difficilissimo. Capite? Rosinella: Nossignore, non capisco. Ma faccia di tutto Vossignoria! Per nojaltri non c'è più bene, non c'è più pace, in questo paese. D'Andrea: E non potreste andar via da questo paese? Rosinella: Dove? Ah, Vossignoria non lo sa com'è! Ce la portiamo appresso, la fama, dovunque andiamo. Non si leva più neppure col coltello. Ah, se vedesse mio padre, come s'è ridotto! S'è fatto crescere la barba. Una barbaccia, che pare un gufo... e s'è tagliato e cucito da sé un certo abito. Eccellenza, che quando se lo metterà, farà spaventare la gente, fuggire i cani finanche! D'Andrea. E perché? Rosinella: Se lo sa lui perché! È come impazzito, le dico! Gliela faccia, gliela faccia ritirare la querela, per carità! Si sente di nuovo picchiare alla comune. D'Andrea: Chi è? Avanti. Marranca (tutto tremante): Eccolo, signor cavaliere! Che... che debbo fare? Rosinella: Mio padre? Balza in piedi. Dio! Dio! Non mi faccia trovare qua, Eccellenza, per carità! D'Andrea: Perché? Che cos'è? Vi mangia, se vi trova qua? Rosinella: Nossignore. Ma non vuole che usciamo di casa. Dove mi nascondo? D'Andrea. Ecco. Non temete. Apre l'usciolino nascosto nella parete di destra. Andate via di qua; poi girate per il corridojo e troverete l'uscita. Rosinella: Sissignore, grazie. Mi raccomando a Vossignoria! Serva sua. Via ranca ranca per l'usciolino a destra. D'Andrea lo richiude. D'Andrea: Introducetelo. Marranca (tenendo aperto quanto più può la comune per tenersi discosto): Avanti, avanti... introducetevi... E come Chiàrchiaro entra, va via di furia. Rosario Chiàrchiaro s'è combinata una faccia da jettatore che è una meraviglia a vedere. S'è lasciato crescere su le cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliuta; s'è insellato sul naso un paio di grossi occhiali cerchiati d'osso che gli dànno l'aspetto d'un barbagianni. Ha poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfia da tutte le parti, e tiene una canna d'India in mano col manico di corno. Entra a passo di marcia funebre, battendo a terra la canna a ogni passo, e si para davanti al giudice. D'Andrea (con uno scatto violento d'irritazione, buttando via le carte del processo): Ma fatemi il piacere! Che storie son queste! Vergognatevi! Chiàrchiaro (senza scomporsi minimamente allo scatto del giudice, digrigna i denti gialli e dice sottovoce): Lei dunque non ci crede? D'Andrea: V'ho detto di farmi il piacere! Non facciamo scherzi, via, caro Chiàrchiaro! - Sedete, sedete qua! Gli s'accosta e fa per posargli una mano sulla spalla. Chiàrchiaro (subito, tirandosi indietro e tremendo): Non mi s'accosti! Se ne guardi bene! Vuol perdere la vista degli occhi? D'Andrea (lo guarda freddamente, poi dice): Seguitate... Quando sarete comodo... - Vi ho mandato a chiamare per il vostro bene. Là c'è una sedia: sedete. Chiàrchiaro (prende la seggiola. Siede, guarda il giudice, poi si mette a far rotolare con le mani su le gambe la canna d'India come un matterello e tentenna a lungo il capo. Alla fine mastica): Per il mio bene... Per il mio bene, lei dice... Ha il coraggio di dire per il mio bene! E lei si figura di fare il mio bene, signor giudice, dicendo che non crede alla jettatura? D'Andrea (sedendo anche lui): Volete che vi dica che ci credo? Vi dirò che ci credo! Va bene? Chiàrchiaro (recisamente, col tono di chi non ammette scherzi): Nossignore! Lei ci ha da credere sul serio, sul se-ri-o! Non solo, ma deve dimostrarlo istruendo il processo. D'Andrea. Ah, vedete: questo sarà un po' difficile. Chiàrchiaro (alzandosi e facendo per avviarsi): E allora me ne vado. D'Andrea: Eh, via! Sedete! V'ho detto di non fare storie! Chiàrchiaro: Io, storie? Non mi cimenti; o ne farà una tale esperienza... - Si tocchi, si tocchi! D'Andrea: Ma io non mi tocco niente. Chiàrchiaro: Si tocchi, le dico! Sono terribile, sa? D'Andrea (severo): Basta, Chiàrchiaro! Non mi seccate. Sedete e vediamo d'intenderci. Vi ho fatto chiamare per dimostrarvi che la via che avete preso non è propriamente quella che possa condurvi a buon porto. Chiàrchiaro: Signor giudice, io sono con le spalle al muro dentro un vicolo cieco. Di che porto, di che via mi parla? D'Andrea: Di questa per cui vi vedo incamminato e di quella là della querela che avete sporto. Già l'una e l'altra, scusate, sono tra loro così. Infronta gl'indici delle due mani per significare che le due vie sembrano in contrasto. Chiàrchiaro: Nossignore. Pare a lei, signor giudice. D'Andrea: Come no? Là nel processo, accusate come diffamatori due, perché vi credono jettatore; e ora qua vi presentate a me, parato così, in vesti di jettatore, e pretendete anzi ch'io creda alla vostra jettatura. Chiàrchiaro: Sissignore. Perfettamente. D'Andrea: E non pare anche a voi che ci sia contraddizione? Chiàrchiaro: Mi pare, signor giudice, un'altra cosa. Che lei non capisce niente! D'Andrea: Dite, dite, caro Chiàrchiaro! Forse è una sacrosanta verità, questa che mi dite. Ma abbiate la bontà di spiegarmi perché non capisco niente. Chiàrchiaro: La servo subito. Non solo le farò vedere che lei non capisce niente; ma anche toccare con mano che lei è un mio nemico. D'Andrea: Io? Chiàrchiaro: Lei, lei, sissignore. Mi dica un po': sa o non sa che il figlio del sindaco ha chiesto il patrocinio dell'avvocato Lorecchio? D'Andrea: Lo so. Chiàrchiaro: E lo sa che io - io, Rosario Chiàrchiaro - io stesso sono andato dall'avvocato Lorecchio a dargli sottomano tutte le prove del fatto: cioè, che non solo io mi ero accorto da più di un anno che tutti, vedendomi passare, facevano le corna e altri scongiuri più o meno puliti; ma anche le prove, signor giudice, prove documentate, testimonianze irrepetibili, sa? ir-re-pe-ti-bi-li di tutti i fatti spaventosi, su cui è edificata incrollabilmente, in-crol-la-bilmente, la mia fama di jettatore? D'Andrea: Voi? Come? Voi siete andato a dar le prove all'avvocato avversario? Chiàrchiaro: A Lorecchio. Sissignore. D'Andrea (più imbalordito che mai): Eh... Vi confesso che capisco anche meno di prima. Chiàrchiaro: Meno? Lei non capisce niente! D'Andrea: Scusate... Siete andato a portare codeste prove contro di voi stesso all'avvocato avversario; perché? Per rendere più sicura l'assoluzione di quei due? E perché allora vi siete querelato? Chiàrchiaro: Ma in questa domanda appunto è la prova, signor giudice, che lei non capisce niente! Io mi sono querelato perché voglio il riconoscimento ufficiale della mia potenza. Non capisce ancora? Voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza terribile, che è ormai l'unico mio capitale, signor giudice! D'Andrea (facendo per abbracciarlo, commosso): Ah, povero Chiàrchiaro, povero Chiàrchiaro mio, ora capisco! Bel capitale, povero Chiàrchiaro! E che te ne fai? Chiàrchiaro: Che me ne faccio? Come, che me ne faccio? Lei, caro signore, per esercitare codesta professione di giudice - anche così male come la esercita - mi dica un po', non ha dovuto prendere la laurea? D'Andrea: Eh sì, la laurea... Chiàrchiaro: E dunque! Voglio anch'io la mia patente. La patente di jettatore. Con tanto di bollo. Bollo legale. Jettatore patentato dal regio tribunale. D'Andrea: E poi? Che te ne farai? Chiàrchiaro: Che me ne farò? Ma dunque è proprio deficiente lei? Me lo metterò come titolo nei biglietti da visita! Ah, le par poco? La patente! Sarà la mia professione! Io sono stato assassinato, signor giudice! Sono un povero padre di famiglia. Lavoravo onestamente. Mi hanno cacciato via e buttato in mezzo a una strada, perché jettatore! In mezzo a una strada, con la moglie paralitica, da tre anni in un fondo di letto! e con due ragazze, che se lei le vede, signor giudice, le strappano il cuore dalla pena che le fanno: belline tutte e due; ma nessuno vorrà più saperne, perché figlie mie, capisce? E lo sa di che campiamo adesso tutt'e quattro? Del pane che si leva di bocca il mio figliuolo, che ha pure la sua famiglia, tre bambini! E le pare che possa fare ancora a lungo, povero figlio mio, questo sacrificio per me? Signor giudice, non mi resta altro che di mettermi a fare la professione di jettatore! D'Andrea: Ma che ci guadagnerete? Chiàrchiaro: Che ci guadagnerò? Ora glielo spiego. Intanto, mi vede: mi sono combinato con questo vestito. Faccio spavento! Questa barba... questi occhiali... Appena lei mi fa ottenere la patente, entro in campo! Lei dice, come? Me lo domanda - ripeto - perché è mio nemico! D'Andrea: Io? Ma vi pare? Chiàrchiaro: Sissignore, lei! Perché s'ostina a non credere alla mia potenza! Ma per fortuna ci credono gli altri, sa? Tutti, ci credono! Questa è la mia fortuna! Ci sono tante case da giuoco nel nostro paese! Basterà che io mi presenti. Non ci sarà bisogno di dir niente. Il tenutario della casa, i giocatori, mi pagheranno sottomano, per non avermi accanto e per farmene andar via! Mi metterò a ronzare come un moscone attorno a tutte le fabbriche; andrò a impostarmi ora davanti a una bottega, ora davanti a un'altra. Là c'è un giojelliere? - Davanti alla vetrina di quel giojelliere: mi pianto lì, eseguisce mi metto a squadrare la gente così, eseguisce e chi vuole che entri più a comprare in quella bottega una gioja, o a guardare a quella vetrina? Verrà fuori il padrone, e mi metterà in mano tre, cinque lire per farmi scostare e impostare da sentinella davanti alla bottega del suo rivale. Capisce? Sarà una specie di tassa che io d'ora in poi mi metterò a esigere! D'Andrea: La tassa dell'ignoranza! Chiàrchiaro: Dell'ignoranza? Ma no, caro lei! La tassa della salute! Perché ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo, signor giudice, d'avere qua, in questi occhi, la potenza di far crollare dalle fondamenta un'intera città! - Si tocchi! Si tocchi, perdio! Non vede? Lei è rimasto come una statua di sale! D'Andrea, compreso di profonda pietà, è rimasto veramente come un balordo a mirarlo. Si alzi, via! E si metta a istruire questo processo che farà epoca, in modo che i due imputati siano assolti per inesistenza di reato; questo vorrà dire per me il riconoscimento ufficiale della mia professione di jettatore! D'Andrea (alzandosi): La patente? Chiàrchiaro (impostandosi grottescamente e battendo la canna): La patente, sissignore! Non ha finito di dire così, che la vetrata della finestra si apre pian piano, come mossa dal vento, urta contro il quadricello e la gabbia, e li fa cadere con fracasso. D'Andrea (con un grido, accorrendo): Ah, Dio! Il cardellino! Il cardellino! Ah, Dio! È morto... è morto... L'unico ricordo di mia madre... Morto... morto... Alle grida, si spalanca la comune e accorrono i tre Giudici e Marranca, che subito si trattengono allibiti alla vista di Chiàrchiaro. Tutti: Che è stato? Che è stato? D'Andrea: Il vento... la vetrata... il cardellino... Chiàrchiaro (con un grido di trionfo): Ma che vento! Che vetrata! Sono stato io! Non voleva crederci e gliene ho dato la prova! Io! Io! E come è morto quel cardellino, subito, gli atti di terrore degli astanti, che si scostano da lui: così, a uno a uno, morirete tutti! Tutti (protestando, imprecando, supplicando in coro): Per l'anima vostra! Ti caschi la lingua! Dio, ajutaci! Sono un padre di famiglia! Chiàrchiaro (imperioso, protendendo una mano): E allora qua, subito - pagate la tassa! - Tutti! I tre giudici (facendo atto di cavar danari dalla tasca): Sì, subito! Ecco qua! Purché ve n'andiate! Per carità di Dio! Chiàrchiaro (esultante, rivolgendosi al giudice D'Andrea, sempre con la mano protesa): Ha visto? E non ho ancora la patente! Istruisca il processo! Sono ricco! Sono ricco! TELA