L’opera di Leonardo Sciascia (1921-1989) ha costituito un eccezionale esempio di coincidenza tra il lavoro letterario e un impegno politico condotto con assoluta indipendenza intellettuale: vicino di volta in volta al P.C.I. o al partito radicale, è rimasto fedele ad un suo ideale illuministico di società civile, razionale, trasparente. È un ideale che Sciascia sa sconfitto, ma che non si stanca di riproporre, con tenacia disillusa, in opere narrative e saggistiche. È tra i primi a rappresentare la corruzione mafiosa e a denunciarne la connivenza con il potere politico: ma come in altri siciliani, da Brancati a Tomasi di Lampedusa, la Sicilia diventa esemplare di situazioni che interessano tutta la società italiana. La sua opera consiste in gran parte di brevi romanzi di impianto poliziesco, che utilizzano con grande maestria la suspense propria del genere per offrire squarci inquietanti di realtà sociale: tali i due romanzi su delitti di mafia che hanno sancito la sua popolarità, Il giorno della civetta (1961) e A ciascuno il suo (1966). Nel 1965, in un dibattito al Circolo Culturale Palermitano, Sciascia dichiara: “Indubbiamente la mafia è un problema nostro. Io ne ho fatto un’esemplificazione narrativa: fino a quel momento sulla mafia esistevano degli studi, studi molto interessanti, classici addirittura; esisteva una commedia di un autore siciliano che era un’apologia della mafia, e nessuno aveva messo l’accento su questo problema in un’opera narrativa di largo consumo. Io l’ho fatto”. Che Sciascia, della mafia, abbia letto non pochi saggi, è chiaro. Il giorno della civetta esemplifica perfettamente la tesi sostenuta da uno studioso della mafia, per cui quest’ultima si configurerebbe come “un’associazione a delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro (tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato); mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza”. Colasberna è stato ucciso perché non ha voluto ricorrere alla “guardania”, cioè a quella protezione, a quella mediazione tra proprietà e lavoro che dagli amici di don Mariano Arena gli veniva consigliata. Tutte attività di mediazione e di gestione del proprio patrimonio, quelle di don Mariano: raccomandazioni varie, interessamento alla costruzione di strade o altre opere pubbliche, prestiti etc. Per chi non vuole sottostare a quella legge c’è la punizione, fino alla uccisione con la lupara. Nel suddetto dibattito Sciascia precisa che il suo scopo non è stato illustrare solo la base e la struttura del sistema mafioso, ma anche le sue sovrastrutture: “i giornalisti avevano già scritto della mafia. Io ho cercato di capire perché una persona è mafiosa, In questo senso ho scritto un libro, e credo sia un libro dopotutto buono, sebbene a me non piaccia. Io, in un certo senso, quel libro lo detesto: ma credo appunto di aver spiegato perché un individuo è mafioso. Cosa che i giornalisti raramente avevano fatto”. Quel situarsi rispetto ai giornalisti intende segnare un passaggio dal descrittivismo alla riflessione; inoltre, va notato che ci si sposta dalla mafia al mafioso. A Sciascia interessa come un individuo interiorizzi una situazione non scelta e inventi una risposta. E tale volontà di capire “perché la mafia” a livello di storia e struttura di una società Sciascia l’ha trasferita, in parte, sul suo personaggio centrale, il capitano Bellodi.