“Gli immigrati alla seconda un po´ italiani e un po´ no dall’inchiesta di Repubblica del 28 settembre 2011 Sono due le identità che le seconde generazioni di immigrati musulmani sentono come proprie, quella di origine e quella di destinazione, ma sono due anche le Italie che risultano da questa indagine sociologica di Abis: due Italie più lontane tra loro di quanto non siano lontane la nostra penisola dalla costa maghrebina. La prima Italia, quella dove arrivarono i padri di questi ragazzi e ragazze, era accogliente, ricca, e più che ricca, in crescita; la seconda, dove si trovano ora, è chiusa, un po´ razzista e, più che povera, in declino. Quando i genitori varcavano le nostre frontiere, magari negli aeroporti con il visto turistico, o in auto da Trieste, mescolati al ritornovacanze, o avventurosamente via mare, noi eravamo comunque “Lamerica”, di cui al celebre film di Amelio, intravista nebulosamente nelle pubblicità di Rai Uno («e mia mamma – dice qui una ragazza – guardava la tv anche per imparare bene la lingua»), adesso l´Italian dream lascia il posto a pensieri grigi, anche se i giovani cresciuti qui si sono intanto affezionati, si sentono italiani, ma non sono pienamente accettati, come tali, e la differenza pesa nella vita di tutti i giorni. “I ragazzi della moschea”, di VLADIMIRO POLCHI ROMA «Integrarmi è una parola che non mi piace, come se avessi qualcosa che mi manca. Semmai è il contrario: pur sentendomi italiana ho qualcosa in più rispetto agli italiani, visto che ho vissuto anche in Egitto». «Integrare significa sommare, unire, mantenendo quello che sono e cercando di apprendere le novità positive: se per integrarmi devo togliere il velo non è integrazione». A parlare sono le seconde generazioni di musulmani in Italia, ragazzi e ragazze che si sentono «met e metà»: mezzi italiani mezzi marocchini, o egiziani, o pachistani. La loro è un´identit bricolage, un mix di elementi presi a prestito dal Paese di origine e dall´Italia. Sono la generazione “50 e 50″, la doppia identità vissuta come ricchezza. Alla domanda «Cosa deve fare un immigrato nel Paese d´accoglienza?» la loro risposta è univoca: «Integrarsi, mantenendo le proprie tradizioni». Non mancano però i conflitti, specie nelle comunità più chiuse e impermeabili. Una per tutte: la pachistana. Il contesto: oggi in Italia vive quasi un milione di minorenni stranieri e i figli di immigrati nati nel nostro Paese sono oltre mezzo milione. I musulmani sono un milione e 350mila, il 32 per cento dei migranti (un dato in calo: nel 2007 erano il 33,5 per cento). Cosa vogliono e cosa sognano i musulmani di seconda generazione? A rispondere è un´ampia ricerca realizzata da “Abis Analisi e Strategie” per conto dell´associazione Genemaghrebina, in collaborazione con il Cise della Luiss e la fondazione Italianieuropei, che verrà presentata domani a Roma nel corso di una tavola rotonda presieduta da Giuliano Amato. Al centro dell´indagine, due comunità di area mediterranea (marocchini ed egiziani) e una di area asiatica (pakistani). Un passo indietro: chi sono i G2? «Coniata all´inizio del Novecento, l´espressione “immigrato di seconda generazione” è chiaramente un ossimoro – scrivono Marzio Barbagli e Camille Schmoll nel libro “La generazione dopo” in uscita il 13 ottobre per Il Mulino – per il buon motivo che una persona non può essere nata in un Paese e allo stesso tempo esservi immigrato». Stando comunque alle Raccomandazione del Consiglio d´Europa del ‘84 l´accezione di seconda generazione deve essere ristretta a quei figli d´immigrati che hanno compiuto nel Paese d´arrivo una parte della loro scolarizzazione o formazione professionale. Insomma ciò che determina il passaggio dalla prima alla seconda generazione è l´aver vissuto parte della “socializzazione primaria e secondaria” nel Paese di accoglienza. «Sono 100 per cento egiziano quando sono in Italia, 100 per cento italiano quando sono in Egitto. Sento che le mie radici sono egiziane e sento il dovere di difenderle, poi però tifo per la nazionale italiana». I musulmani G2 rivendicano una doppia appartenenza, ai loro occhi la parola “integrazione” sembra una forma di impoverimento. Chiedono non assorbimento e omologazione, ma reciprocità. «Mi sento italiana per l´apertura mentale – racconta una ragazza intervistata nella ricerca dell´Abis – mi sento marocchina per il rispetto dei miei valori d´origine, una morale ben precisa che qui tende a volte a mancare». Dalle interviste emerge «una doppia identità – spiega Karima Moual, presidente di Genemaghrebina – un´integrazione come terza via, diversa dalle due esperienze principali, quella britannica e quella francese». Un risultato, questo, che trova conferma in altri studi: «L´identità trae spesso senso da un bricolage tra elementi presi dal Paese di origine e altri da quello di insediamento, in una combinazione di repertori culturali e pratiche sociali facenti riferimento a due mondi – scrive Elena Caneva che nel volume “La generazione dopo” in uscita per il Mulino analizza le diverse sfumature che l´identità assume – i confini dell´identità diventano più labili e meno definiti, si richiamano in modo interscambiabile al “qui” e al “là”, assumono un carattere transnazionale». Non è tutto. Il testo del Mulino riporta anche una ricerca dalla quale emerge che mentre l´86 per cento degli studenti italiani frequenta solo amici italiani, la metà dei giovani immigrati frequenta gruppi misti (composti cioè da italiani e stranieri). Il rapporto dei giovani musulmani con il nostro Paese resta ambivalente: «Amano l´Italia che ha accolto le loro famiglie in anni ricchi (´80 e ‘90) – si legge nella ricerca Abis – ma vivono in un´Italia diversa, in declino, che da anni patisce una grave crisi economica. Un Paese che oggi tende a respingere, a fare sentire indesiderato lo straniero soprattutto se musulmano». I G2 dicono infatti di sentirsi doppiamente penalizzati dal loro essere stranieri e musulmani. Non si accontenteranno come i loro padri: «Desiderano buoni posti di lavoro e non immaginano di fare i lavori umili dei loro genitori. Hanno aspettative in linea con i loro diplomi e i loro sogni». Se l´Italia è vista come un Paese invecchiato, in crisi e un po´ razzista (anche per colpa dei media che diffondono «un´immagine stereotipata e sminuente di noi musulmani»), i Paesi arabi dai quali provengono le loro famiglie stanno vivendo invece una nuova epoca e molti sognano di tornarvi. «Noi diciamo che vogliamo tornare in patria perché la società ti fa sentire che non sei a casa, che non appartieni a questa società – sostiene un ragazzo egiziano – ti fanno sentire ingombrante, sei straniero, sei quello che porta via il lavoro, sei quello che non paga le tasse, invece non è vero». I giovani intervistati non negano le responsabilità delle proprie comunità e il ruolo negativo di alcuni imam: «La chiusura nei nostri confronti non si vede tanto a scuola ma per strada, nei supermercati, dove ti danno risposte sgarbate. È anche colpa nostra, però, che dopo 20 anni non ci siamo ancora aperti». Tutti si definiscono musulmani credenti e l´islam resta il più forte riferimento culturale e morale che abbiano. Le ragazze sottolineano che indossare il velo è una scelta personale, che nessuno le ha costrette a fare. Non manca però (in particolare tra le pakistane) la forte influenza, se non la costrizione, da parte delle famiglie. Non solo. Si registrano anche forti rotture con la cultura d´origine e l´adesione a modelli culturali della società italiana, soprattutto negli aspetti secolarizzati. «Genitori e figli, ma soprattutto figlie, si trovano spesso a vivere un conflitto feroce – avverte Karima Moual – la trasformazione di nuove identità sconvolge equilibri tradizionali consolidati. Porta a rotture definitive». Dell´Italia, molti lamentano che la libertà di culto affermata dalla Costituzione resti solo sulla carta: poche le moschee e i luoghi di preghiera, molte le discriminazioni verso le ragazze velate («Indosso il velo – dichiara una marocchina – ma se voglio lavorare da un commercialista non mi prendono, posso fare solo le pulizie»). I G2 sono lontani dalla politica, mostrano un qualche interesse solo verso i partiti di sinistra e verso Fini quando parla di voto amministrativo agli immigrati. Forte invece è l´ostilità verso la Lega e verso le posizioni xenofobe che esprimono molti uomini del Carroccio. La ricerca sottolinea infine la specificità della comunità pakistana, spesso impermeabile al mondo esterno, isolata e dove «risulta evidente una minore integrazione della donna» che vive quasi esclusivamente all´interno della comunità familiare: «Le donne pakistane – ammette un intervistato – sono libere solo secondo la nostra cultura asiatica, secondo la vostra cultura no».