GIANNI A. PAPINI PAROLE E COSE LESSICOLOGIA ITALIANA EDIZIONI C.U.S.L. - MILANO 2000 PAROLE E COSE altro pasto leggero che si chiama merenda, che alia lettera vuol dire ' cio che si e raeritatodal latino merere che vuol dire appunto ' meritare\ Se si va a letto tardi e avendo cenato da molto si sente un po' di fame, si puo fare ancora uno spuntino; questo si chiama, o meglio si chiamava, pusigno, che e il latino postcenium che, alia lettera, vuol dire 'dopocena 9. Fra due sinonimi come porta e uscio, i vocabolari fondati sulPuso fiorentino o comunque toscano, ponevano in risal-to una differenza basata sulla grandezza e sulPimportanza. La porta ě quella per entrare in una cittä, in un edificio importante, in una chiesa, anche in un'abitazione. Vuscio ě invece quello di una stanza, di una capanna; qualcosa cioě di piů esiguo e comune. Si puö dire insomma Vuscio di cucina, ma non Vuscio del Paradiso per indicare la porta del Ghiberti nel battistero di Firenze. In realtä 1'uso del termine uscio é quasi esclusivamente limitato alle parlate toscane, e non si puö pretendere di instaurare una sinonimia a livello di lingua nazionale. Giä il vocabolario del Migliorini segnalava la regionalita della parola, confer-mata dal vocabolario De Felice-Duro, il primo che, per ragioni obiettive, equipara l'uso toscano a quello delle al-tre regioni, e quindi al limite della piattaforma standard generale. Sia porta che uscio sono parole di origíne latina. Porta aveva dapprima il significato generico di ' passaggio ', ma la parola si specializzö poi nel significato appunto di ' porta soprattutto di una cittä, in opposizione a fores con cui i romani indicavano la porta di casa. II poeta Ovidio sottolinea questa distinzione quando dice che il soldato ě uso sfondare le porte delle cittä (e quindi portas), mentre 1'amante quelle della casa (e quindi fores). Successivamen-te la distinzione scomparve, e mentre l'uso di porta si ě mantenuto nelle lingue neolatine, fores ě stato dimenticato e perduto. STORIA DI PAROLE Ma il latino porta aveva un doppione, che era portus, col significato primitivo di ' passaggio ' e con quello anche di ' apertura, ingresso ', cioě ' porta '. L'accezione ' apertu-ra-passaggio ' dovette persistere nel latino volgare poiché fu ereditata da alcuni idiomi romanzi occidentali (come il portoghese e il castigliano) nel senso di ' valico montano ' e anche di ' cima in una catena montuosa di solito si riferi-sce a monti alti e importanti dei Pirenei, della Cordigliera Cantabrica ecc. In séguito il latino portus si distaccö dai significati che ho detto, per assumerne uno particolare, quello precisamente di ' porto' in senso marittimo. E for-se pochi sanno che il nostro aggettivo opportuno ha un po' a che fare col porto. Il latino opportunus aveva, stricto sensu, il valore di ' che spinge verso il portoed era proprio della lingua nautica, e si attribuiva anzituttö al vento che soífiava in favore della nave diretta a un porto. Passando alia lingua comune, la parola assunse un'accezio-ne molto vasta, in quanto riferita a ogni cosa ' che ě o che viene a proposito, secondo il bisogno o il desiderio'. Tornando un passo indietro, occorre dire che il latino fores col quale i romani indicavano la porta di casa, pur essendo scomparso, ha lasciato qualche traccia in altre parole. Dagli avverbi latini foris e foras, imparentati con fores ' porta ', abbiamo anzituttö ereditato l'avverbio fuori, che oggi ě anche usato come primo elemento di parole compo-ste tipo fuoribordo, fuoriclasse, fuorilegge, fuoriserie, fuori-quota, fuoristrada ecc. Ma vi sono anche altri derivati. L'aggettivo foresto e d'uso antico per indicare luogo selvag-gio o persona o animale che vive in solitudine; ancora presente in qualche regione, riferito a cosa o persona origi-naria di un paese lontano, o anche nel senso di' campagno-lo ' e quindi ' rozzo o poco socievole'. Anche forästico ě antico o regionale per ' selvatico, rustico o scontroso '. Nel-la lingua antica c'era il termine foretano per designare lo straniero o chi abitasse fuori della cittä, cioě il campagno-lo. Cosa o persona che sia di campagna ě chiamata lettera-riamente forese; la gente di campagna del capitolo XI dei Promessi sposi erano / fore si nell'edizione ventisettana. Da PAROLE E COSE STOMA DI PAROLE forese ě tratto forosetta, che ě la ' contadinella' del linguag-gio letterario e poetico. Foraneo vuol dire ' esternoma il suo uso ě quasi del tutto limita to a locuzioni particolari: vicario foraneo ě il ' parroco preposto a un gruppo di parrocchie (detto vicariate foraneo o forania) in cui ě divi-sa una diocesidiga o difesa foranea ě un'' opera esterna a un porto o a un'insenatura'; il ven to foraneo ě quello che spira dal largo, dal mare aperto. Che cosa sia una for est a tutti lo sanno; il termine risale al latino tardo forestis silva col quale si indicava il bosco che si trovava subito fuori di un luogo abitato. La voce comincia a essere documentata in Italia, in sostituzione di silva, giá nell'VIII secolo, anche se probabilmente la forma italiana ha la sua motivazione prossima nel francese antico forest che in origine designava la foresta del re di Francia. Riprendendo il discorso iniziale, si dirá come il termine uscio continui il latino ustium, forma volgare per il classi-co ostium; e questo ostium era nato da os che significava ' boccae che poteva figuratamente denotare qualsiasi im-boccatura o en tra ta o orifizio. Di qui il suo primitivo signifi-cato di ' apertura, entratae poi quello particolare di ' foce di un fiume'. Anche Ostia, il nome del porto di Roma, deriva da qui, cioě da ostium, il cui valore semanti-co, sempře piú restringendosi, fini per essere solo quello di ' porta '; e si capisce quindi il nostro uscio. II latino os ' bocca' non ha avuto continuatori nelle lingue romanze, ed era giá scomparso nel latino parlato; scomparso per due ragioni: 1'esiguitá del corpo fonetico (cioě era parola troppo breve) e l'identificazione con os ' osso quando venne a cadere il senso della quantitá. Le vocali latine si distinguevano, opponendosi, in vocali di quantitá lunga e vocali di quantitá breve, ovviamente pro-nunziate in maniera diversa; os ' bocca ' aveva la o lunga, os ' osso' aveva la o breve. Quando nell'uso questa distin-zione non si avvertl piú, le due parole risultarono omofo-ne, cioě venivano pronunziate nelío stesso modo. Fu allora che bucca, che prima significava ' guanciafu adoperata per designare la bocca, e la parola guancia fu prelevata da una lingua germanica (mentre go ta ě parola di origine gallica). Ě evidente quindi che una parola come orale, usata nel linguaggio medico e farmaceutico (tipo la cavith orale) o per indicare cose che si fanno a voce in opposizione á quelle scritte (tipo esame orale), non sia di tradizione popo-lare, ma riesumata dai dotti. Lo stesso si dica per oro-quale primo elemento di parole come orofaringe; da non confondersi col prefisso presente in termini come orografia, oronimo, orogenesi e simili, dove oro- ě forma di origine greca e vuol dire ' monte si tratta infatti di parole della terminologia geografica. Voglio anche rilevare la presenza nascosta del latino os ' bocca' nel verbo oscillare. Ošcillum, diminutivo di os, voleva dire ' mascherina', e delle mascherine si appendeva-no agli alberi in onore di Bacco e a protezione dei campi: il dondolare di queste mascherine era appunto un oscillare. Un'altra parola avevano i latini per indicare la porta, specialmente la porta di casa, ed era ianua; parola stretta-mente imparentata con ianus ' passaggio', particolarmente ' passaggio coperto, galleria '. I due termini si riconnettono al nome di una delle divinitá piú antiche del culto pubbli-co romano, Giano (in latino Janus). Questo dio presiedeva aí passaggi (in senso non soltanto spaziale), come simboleg-giavano la sua immagine formata da due volti opposti (Giano bifroňte), il suo tempio che aveva ugualmente due porte opposte, e il suo attributo che erano le chiavi. A lui erano dedicati gli inizi, a lui era consacrato il mese di gennaio (Januarius mensis) che segna il passaggio da un anno a un altro, cioě 1'inizio delTanno nuovo. Si diceva anche che Giano fosse stato il primo re del Lazio e avesse avuto dimora sul Gianicolo, il cui nome {Janiculum) deriva indubbiamente dal suo. PAROLE E COSE STOMA DI PAROLE 10. Una frase pubblicitaria di qualche anno fa, a proposito di un formaggio, sonava cosl: « Regalate il favoloso parmi-giano-reggiano — Questa e un'idea! — Parmigiano-reggia-no a tavola e favoloso ». Ora se quel favoloso volesse dire che si tratta di cosa ' che appartiene al mondo delle favole, che tiene della favo-la ', e quindi ' leggendaria, mitica, fiabesca ', bisognerebbe riconoscere all'anonimo pubblicitario rispettabili doti divina-torie: siamo quasi al livello di ambrosia e nettare di cui gli antichi appunto favoleggiavano nutrirsi gli dei. In fondo per il formaggio parmigiano una storia di favola c'e. Non intendo riferirmi al mito di Aristeo, figlio di Apollo, che, nutrito e cresciuto dalle ninfe con una dieta di formaggio, divenuto grande e robusto, insegno Parte casearia agli uomini. Penso invece alia celebre novella del Boccaccio, quella di Calandrino e l'elitropia, cioe la pietra fantastica (si potrebbe anche dire favolosa) che avreb-be avuto la virtu di rendere invisibili. Maso del Saggio, a cui l'ingenuo Calandrino ha chiesto « dove queste pietre cosl virtuose si trovassero », risponde « che le piu si trova-vano in Berlinzone, terra de' Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un'oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugia-to, sopra la quale stavano genti che niuna altra cosa face-van che far maccheroni e raviuoli ». £ probabile che gia al tempo del Boccaccio il parmigiano avesse raggiunto i piu rinomati mercati europei e vi si sia poi mantenuto. con rinomanza attraverso i secoli, da meritare di essere menzio-nato neU'Encyclopedie di Diderot e D'Alambert, dove alia voce Parmesan si legge: « £ il nome che si da a un formaggio italiano molto pregiato, che si fa nel Parmigiano, don-de si porta in tutte le parti d'Europa ». Fin qui le reminiscenze mitiche, letterarie e storiche. Linguisticamente in italiano sono presenti due parole con-correnti per indicare la stessa cosa: formaggio e each, ma all'atto pratico il successo ě dalla parte di formaggio. II perché ce lo fa ben comprendere il recente vocabolario De Felice-Duro che alia voce cacio spiega: « sinonimo di for-maggio, comune soprattutto nell'uso toscano e delTIta-i lia meridionale ». Siamo di fronte a un fenomeno che non interessa soltanto la geografia linguistica, cioě l'uso di regio-ni diverse che possono indicare la stessa cosa con nomi diversi, ma constatiamo anche l'effetto di un predominio economico-industriale sulla frequenza di una parola nella i lingua italiana standard. Alia fine del secolo scorso, il voca- j bolario del Petrocchi, redatto secondo i canoni della teoria i manzoniana che poneva a base dell'italiano l'uso fiorentino cólto, metteva in primo piano il termine cacio, precisando ■ che quando si trattava di « forme sode » si usava anche formaggio (si sarebbe quindi potuto adoperare questo termi-' ne per il parmigiano ma non per lo stracchino). La ragione etimologica dell'una e dell'altra parola, cioě di formaggio e di cacio, ě questa. La parola con cui i latini ? denominavano il ' cacio' ě caseus, che si ě tramandata in tutte le lingue romanze ad eccezione del francese, anzi ě passata addirittura in alcune lingue germaniche (in tedesco \ si ha infatti Käse e in inglese cheese). II francese invece, come si ě detto, si sgancia dalla parentela di caseus e ha altra parola con altra storia, che ě appunto la storia del nostro termine formaggio. Formaggio infatti deriva dal ' •■ francese antico formage (la forma moderna ě fromage), che a sua volta procede dal latino medievale formaticum, deri-vato di forma, e vorrebbe dire propriamente 'cacio che si mette nella forma'. II termine francese cominció a invadere il dominio lin-guistico italiano di cacio giä nelPalto Medioevo, e anche i il Boccaccio nella novella di Calandrino parla di formag- gio; l'invasione ha raggiunto ai nostri giorni risultati irre-versibili ricacciando cacio nell'uso esclusivamente regionale. Ě vero che in certe frasi tradizionali cacio ě insostituibi-: ^ le, come essere pane e cacio con uno, cioě 'essere molto intimi', alto come un soldo di cacio, cioě ' di statura assai " bassa', oppure nel proverbio Al contadino non lo far PAROLE E COSE sapere, quanto sta buono il cacio con le pere, dove oltre tutto se si inserisse il termine formaggio, il verso, che ě un endecasillabo, non tornerebbe piú. Ma proprio questi residuati confermano la sconfitta della voce in sede di italia-no nazionale. Resta 1'aggettivo caseario {industría casearia, prodotti caseari), ma non ě termine popolare, anzi nobile e dotto, e decorato al valore industriale. Se le parole formaggio-cacio possono vantare una storia di molto rispetto, una vicenda da non trascurare in sede di lingua contemporanea ha anche 1'aggettivo favoloso che ab-biamo ricordato nel contesto pubblicitario delPinizio. Dove ě chiaro non vuol dire ' mitico' e ' leggendario ', bensl, con tono enf atíco e con valore iperbolico, ' eccezionale, straordinario \ In questo senso ě databile, perlomeno, nel-la prima metá delPOttocento, ma 1'esplosione del favoloso si ě avuta pochi anni fa, dopo che l'accezione era apparsa e si era affermata negli ambienti snob. Di tutto si poteva dire che era favoloso: un viaggio, una donna, un vestito, e giú giů a non finire. Un aggettivo jolly insomma; forse il miracolo economico non poteva contentarsi di dire beílo, piacevole, elegante, e manifestava cosi, nella riduzione del-íe scelte linguistiche e nei surrogati delTiperbole, 1'ottusitá della massificazione consumistica anche in zona di comunica-zione linguistica. La pubblicitá si impossessó súbito della parola, comprendendone bene la carica psicologica non dis-giunta dalla suggestione acustica, ed allora ci fu « un favoloso bagno ďazzurro in un mare di schiuma », ci furono « splendide confezioni natalizie e favolose cassette della Fortuna », « favolosi monopezzi », « un favoloso bianco » otte-nuto con uno speciále ďetersivo, ed anche il pesce diventa-va « favoloso » se cotto, beninteso, con un certo olio. Ci sará da osservare come la persuasione del favoloso sia accen-tuata dalla struttura letteraria aggettivo + sostantivo (quin-di favoloso bagno non bagno favoloso); la suggestione di un fascino indeterminato ma fortemente seducente ě insi-nuata prima che venga proposto 1'oggetto. Dalla pubblicitá 1'aggettivo favoloso rimbalzb in zona di consumo linguistico medio-popolare, disponendosi a conno- STORIA DI PAROLE tare in senso superlativo ogni cosa: un non plus ultra generalizzato che finiva per conguagliare ogni privilegio. La moda ě decaduta abbastanza presto, e oggii le cose' favolose sono molte meno. Cionnonostante, all'inizio di un campionato di pallacanestro, un tecnico intervistato dalla TV parlava di « equilibri favolosi nel prossimo torneo di basket », e penso che intendesse dire che, essendoci diverse squadre ugualmente fořti, si prevedeva una lotta accani-ta e quindi un bel campionato. Ma dal momento che la preferenza viene data di solito a ció che appare piú scelto ed elevato, gli equilibri favolosi si presentavano in vestě di maggior prestigio. Tanťě vero che un telecronista, avendo recentemente presentato i gol di una partita di calcio e non avendo saputo dir altro se non che erano dei bei gol, si scusava per aver usato un aggettivo tanto spoglio e generico. Si vede che oggi le cose belle sono taňte da apparire banale il definirle cosi, e occorre dunque trovare un'aggettivazione piú violenta. 11. Quando si parla di sport invernali si capisce che s'inten-de indicare quegli sport che si svolgono sulla neve o sul ghiaccio, come lo sci, il pattinaggio su ghkccio, il bob ecc. La prima gara di sci si fa risalire al I860, ma la diífusione di questo sport si ebbe sul finire del secolo scorso. Pero lo sci, cioě il pattino da neve, che ě uría forma evolutá della scarpa da neve, ě nato molto anticamente nel Nord delPEu-ropa e dell'Asia. Strabone, storíco e geografo greco del periodo di Augusto, ne fa menzione per le popolazioni caucasiche addirittura prima/delPera volgare. La parola sci ě a noi venuta dal norvegese; e dal norvege-se si risale a un'antica parola nordica, probabilmente islan-dese, che voleva dire ' legno o scheggia di legno', e succes-sivamente ' scarpa di legno per camminare sulla neve '. Per lungo tempo ci f u incettezza e per la grafia e per la pronunzia di questa parola. II Panzini, nella prima edizione del suo Di-zionario moderno (1905), registra sky, e spiega: « specie di 248 249 La metafora fira latino e italiano. II caso di -testa- Molli cmnbianienti sémantici delle parole latine sono avvenn-ti attraverso proccssi metaforici. La metafora appartiene al lin-giiaggio figiirato e consist e, cora'c noto,'nella sostituzione di iiii termine con xin altro che ha una pärziale sovrapposizione : semantjca cori il primo. Hanno origine metaforica le denomi-nazioni di molte parti del cprpo umano. Ě il caso dell'italiano «testa». In latino la testa si chiamava caput é la voce těsta in-dicava il giiscio della tartaruga (la tartaruga a siia volta era dc-ňominata TESTÜdo) é, con im'estensione giä métaforica, «og-getto di coccio», «vaso di terracotta». La forma e la consisten-za del cranio suggerirono il paragone, e quindi la sostituzione, di caput con těstam1. La metafora ebbe successo, afferman-dosi in una vasta area dell'Italia settentrionale e centrale, sul versante adriatico, in Calabria e in Sicilia, dove, anche nei dia-letti, si continua il tipo «testa». In altre aree dell'Italia, al nord e al centro, sul versante tirrenico, in Corsica e nella Sardegna settentrionale, continuö ad essere usato il tipo «capo», di ge-nere maschile, La stessa voce, ma al femminile, ricorre in una vasta area dell'Italia meridionale, nella parte centro-setten-; trionale della Calabria e nel Salento (la kapu). In alcune aree si sono formate altre metafoře: kot\:a, che ě presente nella Pu-glia settentrionale, nel Mouse e nell'Abruzzo, viene dal latino cöchlkam, con cui si indicava il guscio della chiocciola, di forma tondeggiante e dura, come la testa, konka presente in tutta la Sardegna, eccetto che nell'area settentrionale, viene da cönchajm, che significava «conchiglia» e rimanda* anche in questo caso, alia forma e alia durezza di questo involucro cak careo che protegge il corpo di alcuni invertebrati. L'italiano conserva sia il tipo «testa» che 11. tipo «capo» : (di genere maschile). Su varieta piú basse si sono sviluppate anche «capoccia», voce regionale dell'area romana, attestata !:«La voce tkstüdo fu intanto sostituita da uná voce greca tartm mukös «tartaruga» disignificatö religioso «che ubita il Tartaro», poiché . pér i cristiani la tartaruga era un simbolo dello spirito maligno. tk-.: stöi>o ě stala uutavia conservata nella lingua speciale In cui ha dato-«testudine»/ «testuggine», «Testudinati». anche nell'nso generale, soprattutto con valore scherzoso, «capocciata» per «testata», «capoccione» per «persona che occupa un posto di rilievo», ma anche «persona cocciuta». La forma e Timportanza di questa parte del corpo umano han* no continuato poi a suggerire paragoni, soprattutto scherzo-si, per esempio nell'uso della voce «zucca», in espressioni del tipo: «metti un po' di sale in quella zucca!», e in quello di «cocuzza/cucuzza»: «che faccia lavorare quella sua cueuz-r za!», di carattere regionale. : Fig. 1. le denominazioni di «testa» in Italia (da Migliorini 19(56, con adat-tarnen ti). . f h:; : . ■ f..u:--\ I "-ItíífiKTitó:1-'-:'- vt;*A?SMíMíKš