Opere di Carlo Emilio Gadda nei Libri della Spiga ROMANZI E RACCONTI I ISOCN1 E LA FOLGORE La Madonna dei Filosofi II castello di Udine L'Adalgisa (disegni milanesi) La cognizione del dolore ROMANZI E RACCONTI II Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (redazione di «Letteratum», 1946-47) La meccanica Accoppiamenti giudiziosi Racconti dispersi Racconti incompiuti SAGGI GIORNALI FAVOLE I Le meraviglie d'ltalia Gli anni Verso la Certosa I viaggi la morte Scritti dispersi SAGGI GIORNALI FAVOLE II II primo libro delle Favole I Luigi di Francia Eros e Priapo (Da furore a cenere) II guerriero, ľamazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo Giornale di guerra e di prigionia Schede autobiograriche Poesie SCRITTI VARI E POSTUMl SCRITTI VARI PAGINE ĽI DIVULGAZIONE TECNICA TRADUZIONI II viaggio di saggezza (Barbadillo) II mondo come (Quevedo) La veritä sospetta (Alarcón) SCRITTI POSTVUI Racconto italiano di ignoto del novecento Meditazione milanese I miti del somaro II palazzo degli ori Gonnella buffone Háry Jánoš II Tevere Ultimi inediti Altri scritti Carlo Emilio Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana Garzanti I Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Fran-cesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei piú giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigati-va: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di sta-tura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po' tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla meta della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli me-tafisici dal bel sole d'Italia, aveva un'aria un po' assonnata, un'andatura greve e dinoccolata, un fare un po' tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline ďolio sul bavero, quasi impercettibili pero, quasi un ricordo della collina molisana. Una čerta prati-caccia del mondo, del nostro mondo detto «latino», benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una čerta conoscenza degli uomini: e anche delle donne. La sua padrona di casa lo venerava, a non dire adorava: in ragione di e nono-stante quelľarruffio strano ďogni trillo e ďogni busta gialla imprevista, e di chiamate notturne e ďore senza pace, che for-mavano il tormentato contesto del di lui tempo. «Non ha ora-rio, non ha orario! Ieri mi ě tornato che faceva giorno!» Era, per lei, lo «statale distintissimo» lungamente sognato, prece-duto da cinque A sulla inserzione del Messaggero, evocato, pompato fuori dalľassortimento infinito degli statali con quelľesca della «bella assolata affittasi» e non ostaňte la pe-rentoria intimazione in chiusura: «Escluse donne»: che nel gergo delle inserzioni del Messaggero offre, com'e noto, una duplice possibilitä ďinterpretazione. E poi era riuscito a far chiudere un occhio alla questura su quella ridicola storia del-1'ammenda... si, della multa per la mancata richiesta della li- 3 cenza di locazione... che se la dividevano a meta, la multa, tra governatorato e questura. «Una signora come me! Vedova del commendatore Antonini! Che si puô dire che tutta Roma lo conosceva: e quanti lo conoscevano, lo portavano tutti in par-ma de mano, non dico perché fosse mio marito, bon'anima! E mo me prendono per un'affittacamere! Io affittacamere? Madonna santa, piuttosto me butto a fiume.» Nella sua saggezza e nella sua povertä molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d'agnello d'Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoreti-ca idea (idea generále s'intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioě al primo udirle, sembravano banalita. Non erano banalita. Cosi quei rapidi enunciati, che face-vano sulla sua bocca il crepitio improvviso d'uno zolfanello il-luminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. «Giä!» riconosceva ľinteressato: «il dot-tor Ingravallo me ľaveva pur detto.» Sosteneva, fra l'altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l'ef-fetto che dir si voglia d'un unico motivo, d'una causa al singo-lare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclo-nica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicitä di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alia romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L'opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della ca-tegoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alia causa le cause era in lui una opinione centrále e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine so-leva atteggiare la meta inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero piceo della parrucca. Cosi, proprio cosi, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!..: Giä. Si me chiammeno a me... puô sta ssicure ch' e nu guaio: quacche gliuommero... de sberretä...» diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano. La causale apparente, la causale principe, era si, una. Ma il fattaccio era ľeffetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s'avviluppano a tromba in una depressione ci-clonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». Come si storce il collo a un pollo. E poi soleva dire, ma questo un po' stancamente, «ch'i femmene se retroveno addó n'i vuó truvä». Una tarda riedi-zione italica del vieto «cherchez la femme». E poi pareva pen-tirsi, come ďaver calunniato 'e femmene, e voler mutare idea. Ma allora si sarebbe andati nel difficile. Sicché taceva pensie-roso, come temendo d'aver detto troppo. Voleva significare che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto di affettivitä, un certo «quanto di erotia», si mescola-va anche ai «casi d'interesse», ai'delitti apparentemente piü lontani dalle tempeste d'amore. Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete piü edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, čerti uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse dei libri stráni: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma ser-vono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari. Erano questioni un po' da manicomio: una terminológia da medici dei matti. Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le filoso-ficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissa-riati e della squadra mobile é tutťun altro affare: ci vuole della gran pazienza, della gran caritä: uno stomaco pur anche a posto: e, quando non traballi tutta la baracca dei taliani, senso di responsabilitä e decisione sicura, moderazione civile; giä: giä: e polso fermo. Di queste obiezioni čosi giuste lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in pie-di, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta, regolarmente spenta. Per il 20 febbraio, domenica, Sant'Eleuterio, i Balducci lo avevano invitato a pranzo: «Alle tredici e mezzo, se le é co-modo.» Era, disse la signora, «il genetliaco di Remo»: e infat- 4 5 ti Remo, all'anagrafe, era stato inscritto come Remo Eleute-rio, e poi battezzato per tale a San Martino ai Monti, cosi da rammentare il natalizio. «Due nomi poco graditi a chelli 'rrec-chie,» pensö don Ciccio, «sia l'uno che Paltro.» Per un mene-freghista di quel calibro erano addirittura sprecati. L'invito, comme 1'ata vota, gli era stato fatto per telefono due giorni avanti, con una chiamata «dall'esterno» al Collegio Romano, cioě a Santo Stefano del Cacco. Prima, una voce melodiosa, gli aveva parlato la signora: «Sono Liliana Balducci»: era poi subentrato il caprone, il Balducci uomo, a rincalzo. Don Ciccio, dopo aver santificato la festa dal barbiere, porto una bot-tiglia ďuoglie alla signora. II pranzo domenicale fu lieto, nella luce ďun meraviglioso pomeriggio, rimasti al marciapiede i \ coriandoli e qualche gentile bautta, quacche trombetta, qual-che azzurra Cenerentola o nerovellutato diavoletto. Parlarono di caccia: di battute e di cani: di fucili: poi di Petrolini: poi dei vari nomi che danno al můgine lungo il litorale tirrenico, da Ventimiglia al Capo Lilibeo: poi dello scandalo del giorno, la contessina Pappalödoli: ch'era scappata di casa con un violini-sta: polacco, naturalmente. A diciassetťanni. Una storia che non finiva piů. Al suo entrare, la Lulů, la canina pechinese, un gomitolo, aveva abbaiato: con molta stizza, anche: be', lasciati i ringhi, gli aveva fiutato a lungo le scarpe. La vitalita di questi mostri-ciattoli ě una cosa incredibile. Verrebbe voglia di accarezzarli, poi di acciaccarli. A tavola eran quattro: lui don Ciccio, i co-niugi e la nipote. La nipote, pero, non era quella dell'ultima volta, cioě del giorno di San Francesco, ma molto piú giovine: appena uscita dalPinfanzia. Quella delPultima volta, cioě a San Francesco, era una nipote per modo di dire; pareva una sposa di campagna, coronata di trecce nere, forte, ampia, da tener lei tutto il letto: čerti occhi! un davanti! un didietro! Da sognarseli di notte. Questa qui era una ragazzina co la treccia appennolone, che annava a scola da le moniche. Don Ciccio, non ostaňte la sonnolenza, aveva memoria pronta, anzi infallibile: una memoria pragmatica, diceva. Anche la domestica era una faccia nuova, per quanto somigliasse, vagamente, alla nipote di prima. La chiamavano Tina. Duran-te il servizio un batuffolo di spinaci strizzati le esorbitö dal piatto ovale sul candore della tovaglia immacolata: «Assunta! » fece la signora. Assuntina la guardó. In quelPattimo sia la serva sia la padrona parvero a don Ciccio estremamente belle; la serva, piú aspra, aveva un'espressione severa, sicura, due occhi fermi, luminosissimi, quasi due gemme, un naso diritto con il piano della fronte: una «vergine» romana delPepoca di Clelia; la padrona un tratto cosi cordiale, un tono cosi alto, cosi nobilmente appassionato, cosi malinconico! una pelle in-cantevole. Guardando Pospite, quegli occhi fondi, con una luce di antica gentilezza, parevano scorgere, dietro la pověra persona del «dottore», tutta la pověra dignita di una vita! E lei era ricca: ricchissima, dicevano: suo marito stava bene, viaggiava tredici mesi alPanno, sempře in un gran da fare con quelli la di Vicenza. Ma lei era ancora piů ricca per conto suo. Giä in quer gran palazzo der ducentodicinnove nun ce staveno che signoři grossi: quarche famija der generone: ma soprat-tutto signoři novi de commercio, de quelli che un po' ďanni avanti li chiamaveno ancora pescicani. E il palazzo, poi, la gente der popolo lo chiamaveno er palazzo delPoro. Perché tutto er casamento insino ar tetto era come imbottito de quer metallo. Drento poi, c'ereno du scale, A e B, co sei piani e co dodici inquilini cadauna, due per piano. Ma il trionfo piů granne era su la scala A, piano terzo, do-ve che ce staveno de qua li Balducci ch'ereno signoři co li fioc-chi pure loro, e in faccia a li Balducci ce steva na signora, na contessa, che teneva nu sacco 'e solde pure essa, na vedova: la signora Menecacci: che a cacciaje na mano in quarziasi posto ne veniva fori oro, perle, diamanti: tutta la robba piú de valo-re che ce sia. E fogli da mille come farfalle: perché a tenelli a la banca nun se sa mai: quanno meno te Paspetti po pija foco. Sieche, ciaveva er commó cor doppio fonno. Questo, o press'a poco, il mito. Gli orecchi del dottor In-gravallo, che sotto alla parrucca nera e cresputa si confortava-no ďuna vitalita primaverile, lo avevano colto cosi, un po' nell'aria, come zirli di merli, o merule, dopo ogni frullo, da un ramo all'altro della primavera. Era sulle bocche di tutti, del resto, e in tutti i cervelli della gente, una di quelle idee che di-ventano, per la collettivita fantasiosa, idee coatte. Durante il pranzo Balducci aveva assunto, verso la Gina, 6 7 un contegno paterno: «Ginetta, per piacere, un po' di vino...*, «Gina, bada, versa al dottore», «Gina, ti prego, un portacenere... »: proprio come un buon papá: e lei rispondeva puntualmente: «Si, zio.» La signora Liliana allora la guardava compiaciuta, quasi con tenerezza: come vedesse un fiore an-cor chiuso e un po' raggelato dall'aurora dischiudersi, e ri-splendere sotto i suoi occhi nel prodigio del giorno. II giorno era la voce maschia e baritonale del Balducci, la voce del «padre »: lei, moglie e sposa del papá, era dunque la mamma. Se-guiva con gran sollecitudine e con una certa ansia la gentile manina della pupilla ancora un po' titubante in quell'atto del mescere: glu glu, oro di Frascati, a giudicarlo dal tono: la bot-tiglia di cristallo era pesa: il braccino esile sembrava non arri-vasse a reggerla. II dottor Ingravallo mangió e bevve con mi-sura, come al solito: ma di buon appetito e a buon sorso. Non pensó, non credé opportuno di pensare di chieder nulla: né della nuova nipote né della nuova serva. Cerco di reprimere l'ammirazione che 1'Assunta destava in lui: un po' come lo strano fascino della sfolgorante nipote dell'altra volta: un fascino, un imperio tutto latino e sabellico, per cui gli andavano insieme i nomi antichi, d'antiche vergini guerriere e latine o di mogli non reluttanti giá tolte a forza ne la sagra lupercale, con l'idea dei colli e delle vigne e degli scabri pa-lazzi, e con le sagre e col Papa in carrozza, e coi bei moccolo-ni di Sant'Agnese in Agone e di Santa Maria in Porta Para-disi a la Candelora, a la benedizione dei ceri: un senso d'aria dei giorni sereni e lontani tra frascatano e tiburtino, soffiata a le ragazze del Pinelli tra le rovine del Piranesi, vigendo le efemeridi e i calendari della Chiesa, e, nella vivida lor porpo-ra, tutti gli alti suoi Principi. Come stupende aragoste. I Principi di Santa Romana Chiesa Apostolica. E al centro quegli occhi dell'Assunta: quell'alterigia: come fosse una sua degnazione servirli a tavola. Al centro... di tutto il sistema... tolemaico: giá, tolemaico. Al centro, parlanno co rispetto, quer po' po' de signorino. Gli bisognó reprimere, reprimere. Facilitato nella dura oc-correnza dalla nobile malinconia della signora Liliana: il di cui sguardo pareva licenziare misteriosamente ogni fantasma im-proprio, instituendo per le anime una disciplina armoniosa: quasi una musica: cioě un contesto di sognate architetture so-pra le derogazioni ambigue del senso. Fu, Ingravallo, fu molto cortese, addirittura anzi uno zio-cavaliere, con la piccola Gina; dal di lei collo, ancora piuttosto lungo sotto alla treccia, veniva fuori quella vocina fatta di si e di no, come le poche note del lamento di un clarino. Ignoró, volle ignorare PAssunta, dai maccheroni in poi, come si con-viene a un ospite che sia, anche, una persona educata. La signora Liliana, di quando in quando, si sarebbe creduto sospi-rasse. Ingravallo noto che due o tre volte, a mezza voce, aveva detto mah! Chi dice ma, cuore contento non ha. Una strana mestizia pareva soffonderle il viso, nei momenti in cui non parlava o non guardava ai commensali. Una idea, una preoccu-pazione la teneva? celandosi dietro alla cortina dei sorrisi, o delle attenzioni gentili? e dei discorsi non giá voluti o studiati, ma pur sempře molto garbati, di cui amava inghirlandare il suo ospite? II dottor Ingravallo a quei sospiri, a quel modo di porgere, a quegli sguardi che talora divagavano tristi, e pare-vano tentare uno spazio o un tempo irreali da lei sola presagi-ti, si sarebbe detto, a poco a poco aveva preso a farci caso: ne aveva dedotto altrettanti indizi, non forse di una disposizione originaria ma di una condizione attuale deU'animo, di uno scoramento crescente. E poi qualche mezza parola: del Balducci stesso: quel maritone rubizzo tutto affari e tutto lepri che ora cianciava cosi fragorosamente, sotto lauta inspirazio-ne albana. Aveva creduto ďintuire: non hanno figli. «Eccetera eccete-ra,» aveva poi soggiunto una volta, al parlare col dottor Fumi, come alludesse a una fenomenologia ben nota, a una esperien-za certa e di comune dominio. Conosceva il Balducci per cac-ciatore, e cacciatore fortunato. Cacciatore in utroque. In cuor suo gli rimproverava certa mascolina grossezza, čerte fanfaro-nate, čerte risate un po' troppo clamorose per quanto bonarie, certo egoismo o egotismo un po' da gallinaccio: con una crea-tura simile! Si sarebbe detto, a voler fantasticare, ch'egli, il Balducci, non avesse valutato, non avesse penetrato tutta la bellezza di lei: quanto vi era in lei di nobile e di recondito: e allora... i figli non erano arrivati. Quasi per una incompatibili-ta gamica dei due spiriti. I figli discendono da una compene- 9 trazione ideále dei genitori. Lei pero lo amava: era il padre in imagine, il maschio e padre in virtu, in virtu se non in facto, in potenza se non in atto. Era stato il possibile padre di una prole sperata. Delia fedeltä di lui, forse, neppure era certa: quanto a questo, le pareva che la inadempiuta sua maternita potesse giustificare qualche esorbitazione venatoria del mari-to, qualche curiositä, qualche estravaganza del maschio e padre possibile e cupido a ogni cantone, come tutti i maschi. «Provare con altro soggetto!» Quello che mai non avrebbe ar-dito nemmeno immaginare per sé (il matrimonio ě un Sacramento, uno dei sette del Signor nostro), non lo voleva, no, per lui: anche don Corpi diceva ch'era una brutta cosa, da parte di un marito cristiano: ma insomma... in tutto ci vuol pazienza: prudenza, prudenza. Don Lorenzo Corpi era un'anima di cui si poteva fidare pienamente. La «prudenza* era una delle quattro virtu cardinali. Tutto questo il dottor Ingravallo lo aveva in parte intuito, in parte integrato da qualche accenno del Balducci, o dai dol-cissimi «momenti» della tristezza di lei: anche don Corpi, don Lorenzo, don Lorenzo Corpi, don Corpi Lorenzo dei Santi Quattro brillava spesso lui pure, nei ragionamenti della signora Liliana. Al diavolo anche don Lorenzo! Si sarebbe detto che in ogni omone lei venerasse... un padre onorario, un padre in potenza: anche in don Lorenzo, si: nonostante la veste ne-ra, nonostante ľincompatibilitä sacramentale, dei due sacra-menti... divergenti. Anche in don Lorenzo. Che doveva essere una discreta tor-re, sto mulo. A giudicare da certe allusioni di lei, uno di quelli che devono inclinare il capo, a passare sotto ogni porta. Per lo meno la hvvafiiq del padre doveva avercela. In simili materie, don Ciccio era piuttosto versato: intuizione viva, e fino dagli anni di puberta: aperta, poi, a tutti gli incontri demici della stirpe «fertile in opre e acerrima in armi»: nativo genio piú che letture sistematiche. Dal folto brulicare delle generazioni, dalle guardine delle questure, tra il Lazio e la Marska, tra il Piceno e il Sannio, o fino alia sua collina molisana: duri monti, dure cervici, duro il diavolo! E la validita santa ed immemore delle matrici. Tra le sue genti, ricche di figli, aveva avuto mo-do di distinguere i fatti della prolificazione da quelli della non-prolificazione. Quel che cominciava a meravigliarlo, tut-tavia, era che il serbatoio delle nepoti dei Balducci fosse tanto colmo di cosi prosperose o di cosi gentili nepoti: cioě: questa qui gentile, ma le altre semplicemente stupende. Da che fre-quentava i coniugi, ne aveva giä conosciute tre o quattro. E poi c'era anche questo: una volta via di scena, la nipote era come il nome di una morta. Non tornava a galla neanche a ba-stonarla. Come un console o un presidente di repubblica quando il mandato ě scaduto. Don Ciccio stava per vedere il fondo delľultimo per cosi dire calice - un cinque anni bianco extra-secco, ora, del cavalier Gabbioni Empedocle & Figlio, Albano Laziale, da sognarseli perfino in questura, il vino, il bicchiere, il Padre, il Figlio e il Lazio - allorché il fardello delle sue private opinioni sulle con-cause affettive (lui diceva anzi erotiche) degli accadimenti umani lo portô a considerare, ovviamente, che una nipote in quelle condizioni non era una nipote ordinaria: una Luciana o un'Adriana, che oggi viene in cittä dagli zii, poi se ne va, poi torna, poi telegrafa, poi parte, poi arriva a casa sua, poi man-da una cartolina con tanti bacioni, poi riarriva da Viterbo o da Zagarolo perché deve riandare dal dentista: e cosi di seguito. «Ccä ce sta una nepote cchiú 'mbrogliata,» rimuginô tra sé e sé, con quel bianco secco in Porta Paradisi che ancora gli ti-tillava il velopendolo. Si, si. Dietro quel nome «nipote», ci doveva star nascosto tutto un groviglio... di fili, un ragnatelo di sentimenti, dei piu rari,... delicati. Lei. Lui. Lei, pe rispet-to a lui. Lui, pe riguardo a lei. Lei allora ha pescato 'a nepote, dopo anni: pene, lacrime, la notte, e di giorno candele a san-ťAntonio pe tutte le chiese de Roma: e speranze, e cure di Salsomaggiore, sia in loco che a domicilio, e visitě del professor Beltramelli e del professor Macchioro. A ogni nuova can-dela una speranza. A ogni nuova speranza un nuovo profes-sore. Ha pescato sta Gina, povera Ginetta! Ma prima della Gi-netta la storia aveva tutto un altro indirizzo, tutto un sapore. Una cosa strana, davvero, penso Ingravallo. La Virginia! (l'immagine fu un lampo di gloria, un repenti-no fulgore nella tenebra): e prima della Virginia, chell'ata 'e Monteleone: comme se chiamava? E le serve! Sta bene che 10 11 frullan via come passere al primo stormire ďun capriccio: ma i Balducci, via! ne cambiavano, si puó dire, una al mese. Gli venne un pensiero, con una parola irriverente: era il vino. La signora Liliana, non potendo scodellare del proprio... Cosi ogni anno: il cambio della nipote doveva di certo valere nel suo inconscio come un simbolo, in sostituzione del manca-to scodellamento. Come per sua madre, che ne aveva fatti Otto, il figlio vero a ogni nuova primavera. Quelli che a maggio nascono, son figli ad agosto. «Mese buono!» pensó don Cic-cio, «anche per i gatti: che ce cumbineno čerte caciare, la notte.» D'anno in anno... una nuova nipote: quasi a simboleggiare, nel cuore, i successivi natali della prole. «Jedeš Jahr ein Kind, jedeš Jahr ein Kind...» gli cantava quel tedesco, ad Anzio: che pareva una foca. E lui, lui, il cacciatore (lo guardó), lui che cosa prova, che cosa si sente, dentro, quando gli arriva in casa la nipote, la ni-potina di turno? Che ne aveva pensato delle varie... nipoti? Per lei, dal Tevere in giú, lá, lá, dietro i diroccati castelli e dopo le bionde vigne, c'era, sui colli e sui monti e nelle brevi pianě ďltalia, come un grande ventre fecondo, due salpingi grasse, zigrinate ďuna dovizia di granuli, il granuloso e un-tuoso, il felice caviale della gente. Di quando in quando dal grande Ovario follicoli maturati si aprivano, come ciche ďuna melagrana: e rossi chicchi, pazzi d'un'amorosa certezza, ne di-scendevano ad urbe, a incontrare Pafflato maschile, 1'impulso vitalizzante, quelFaura spermatica di cui favoleggiavano gli ovaristi del Settecento. E a via Merulana 219, scala A, piano terzo, ci rifioriva la nipote, nel meglio grumolo, propio, del palazzo deirOro. La nipote! La nepote albana, fiore dell'eterna gente sabelli-ca. L'afflato dei predatori. Giá. Le sabine non c'era piú biso-gno di toglierle... cosi profonde! attesa della notte mediatrice, tepide carni dell'alba. Le albane ci pensavan loro, oggi, a sce-gne a fiume. E il fiume andava, andava, superati i clamori, a raggiungere, al lido, 1'indefettibile attesa delFeternitá. Ma lui? il signor Balducci? Che ne pensava, il cacciatore, della nepote albana, della tiburtina? II campanello trilló. La Lulú řece il diavolo a quattro. L'As- 12 sunta era andata ad aprire. Dopo qualche parlottio, di lá, en-tró in sala un giovane, vestito ďun completo grigio di taglio non inelegante. Fu fatto sedere. «Un'altra tazza, Tina, per il signorino Giuliano.» Subito fu presentato e si presentó da sé: «Valdarena.» «Dottor Ingravallo,» bofonchió Ingravallo spiccicandosi appena dalla sedia, e stringendo appena, e quasi a malincuore, la mano che quello gli porgeva. «11 dottor Val-darena...» fece Liliana alle prese col caffě, con le tazze. «Cu-gino di mia moglie,» spiegó il Balducci, rubizzo. Cera, duole dirlo, in don Ciccio, una čerta freddezza, come un'astiosa gelosia verso i giovani, specie i bei giovani, e tanto piú i figli dei ricchi. Questo sentimento non valicava per altro i limiti ammissibili ďun fenomeno interno, non avrebbe mai influito sulla sua condotta di commissario di P.S.: lui, no, no, non era «bello»: e nemmeno gli riusciva di consolarsi con quel proverbio che aveva udito a Milano da una ragazza, al di-spensario celtico di via delle Oche: «1 omen hin semper běi.» Sentiva giá, in cuore, un disappunto, una voce: una voce poco fa... che giá sussurrava in cassa, nella cassa non sapeva neanche lui se del cervello o del cuore, ma forse era Peffetto del bianco secco del Gabbioni, ch'ě un vino un po' nervoso, una voce che gli andava bucinando maledettamente: «Chiste ě lťamico», come il tan tan feroce di čerti mali di těsta, che lo prendevano alle tempie. Non sapeva perché, ma gli parve, o si figuro, che il giovane fosse uno di quelli che vogliono arrivare a tutti i costi: anche lui: di quelli piuttosto «attaccati», cioě sedotti all'idea de li papabbraschi, che del resto, s'ha un bel dire, ma fanno como-do un po' a tutti. Entrando aveva adocchiato mobili e suppel-lettili, le belle tazze, e la cuccuma ďargento, e quella zucche-riera ďargento sopravvanzata ai vecchi barbagli umbertini, memore delle vacche grasse, con una ghianda ďoro e due fo-glioline ďargento sul coperchio. Giá: per tirarlo su. Aveva ac-cettato una polputa sigaretta dal Balducci (che gli squadernó il portasigarette ďoro sotto il mento, con un tatrác repentino): e la fumava, ora, con una sua ritenuta voluttá e con elegante naturalezza ad un tempo. Ingravallo fu colto allora da un'idea strana, come avesse be-vuto un veleno, era il vino secco del Gabbioni: gli venne 1'idea 13 che il «cugino» corteggiasse la signora Liliana per... ma sü... per averne favori di denaro. Ciö lo mise in furore: un furore secreto e dissimulato, un dubbio, naturalmente. Un dubbio perfido perö... che gli faceva dolorar le tempie, un dubbio dei piü ingravalleschi, dei piu doncicciani. Alľanulare destro, sulla mano bianca dalle lunghe dita di signore, che gli servivano da scotere la sigaretta, er signorino ci aveva un anello: d'oro vecchio, assai giallo: magnifico: un dia-spro sanguigno nel castone; un diaspro ovale con una cifra a matrice. Forse il sigillo di famiglia. Gli sembrava, a don Cic-cio, al di lä dal velo delle parole e dei contegno, che ci fosse della freddezza, tra lui e il Balducci... «Giuliano ě tutťocchi e tutto attenzioni per la cugina,» pensö Ingravallo, «per quanto signore.» La Gina non ľ aveva neppur guardata, dopo una stretta di mano di dovere. Fece solo una carezzaccia alla cani-na: che da quei běf běf cosi stizzosi, cattiva! trascorse ad alcu-ni ringhi decrescenti, come d'un temporalino in ritirata, e alfine si chetö. La signora Liliana pur con qualche sospiro mal rattenuto (a giorni) sotto le trasvolanti nubi di tristezza, era, era una desi-derabile donna: tutti ne coglievano l'immagine, per via. Al-l'imbrunire, in quel primo abbandono della notte romana ch'e cosi gremito di sogni, rincasando... ecco dai cantoni de' palaz-zi e dai marciapiedi le fiorivano incontro omaggi, o singoli o collettivi, di sguardi: lampi e lucide occhiate giovanili: un sus-surro, talora, la sfiorava: come un'appassionata mormorazio-ne della sera. A volte, ad ottobre,, da quel trascolorare delle cose e dal tepore dei muri emanava un inseguitore improvvisa-to, Ermes con brevi ali di mistero: o, forse, da strani erebi ce-meteriali risalito a popolo e ad urbe. Uno piu pomicione dei tanti. E piu scemo... Roma ě Roma. E lei pareva compatire al somaro, cosi gloriosamente sospinto dietro a fortuna da quelle gran vele delle orecchie: ďuna occhiata fra sdegnosa e miseri-corde, fra gratitudine e sdegno pareva chiedergli: «Mbe?» Donna quasi velata ai piu cupidi, di timbro dolce e profondo: con una pelle stupenda: assorta, a volte, in un suo sogno: con un viluppo di bei capelli castani che le irrompevano dalla fronte; vestiva in modo ammirevole... Aveva occhi ardenti, soc-correvoli, quasi, in una luce (o per un'ombra?) di malinconica fraternita... All'annuncio un po' canoro e un po' pecoraro del-1'Assunta: «C'ě er signorino Giuliano», gli pareva, all'Ingra-vallo, ch'ella avesse come trasalito: o arrossito, anche: ďun rossore «sottocutaneo». Impercettibilmente. Quando i due agenti gli dissero: «Se so' sparati a via Meru-lana: ar ducentodicinnove: su le scale: ner palazzo de li pesci-cani...», un fiotto di sangue incuriosito, forse angosciato, gli inondó il ventricolo di destra. «Ducentodiciannove?» non poté a meno di chiedere: pure, in tono distratto. E ricadde subi-to in quella tale specie di sonnolenza lontana, ch'era, in lui, la maschera del senso ďufficio. Intanto gli entró nella stanza il capo della investigativa. Aveva il Messaggero ancora indelibato e un petalo, un solo petalo bianco alPocchiello. «Sciure 'e mandurlo,» pensó Ingravallo interrogando il superiore con gli occhi. «11 primo della stagione. Mo ce páveno pure U'ammen-nole.» «Ci andate voi, Ingravallo, a via Merulana? Vedete nu poco. Na fesseria, m'hanno detto. E stamattina, con chell'ata storia della marchesa di viale Liegi... e poi 'o pasticcio cca vidno, alle Botteghe Oscure: e poi chillo buchě 'e violette: 'e ddoje cugnate e 'e ttre nepote: e poi avimmo de pelá la coda dell'affare nuosto: e poi, e poi,» si porto una mano alla fronte, «mo ce vo, chella scocciatura ď 'o sottosegretario. Fin a 'ncoppa a 'a capa, ve dico. Sicché faciteme 'o favore, játece vuje.» «Jámmoce,» disse Ingravallo, e poi borbottó: «Jamecen-ne», e prese giú, dal piolo, il cappello. II male infitto cavicchio si disincastró e cadde al suolo, come ogni volta, indi rotoló per un pezzetto; lui lo raccolse, rificcó la radichetta mencia den-tro al buco: e con la manka dell'avambraccio, quasi fosse una spazzola, diede una lisciatina al cappello nero, cosi, lungo il nastro. I due agenti gli andaron dietro, quasi per un tacito or-dine del commissario-capo: erano Gaudenzio, noto alla mala-vita come er Biondone, e Pompeo, detto invece lo Sgranfia. Saliti sul PV e discesi appunto al Viminale, presero il tram di San Giovanni. Sicché in una ventina di minuti raggiunsero il civico ducentodicinnove. II palazzo delPOro, o dei pescicani che fusse, era lá: cinque plam, piú il mezzanine Intignazzato e grigio. A giudicare da 14 15 -----—-----RlASSUNTO-------- II romanzo ě ambientato a Roma nel 1927. II protagonista, ii commissario di poiizia Ciccio In-gravallo, ě invitato a pranzo dai coniugi BaSducci, che abitano in via Merulana. in un palazzo ehe la voce popolare chiama «dell'oro» per indicare che ě abitato da gente danarosa. Sullo stes-so pianerottoio dei Balducci abita la contessa Mantegazzi, che viene rapinata dei suoi gioielli da un finto manutentore dell'impianto di riscaldainento. Ingravallo ě incaricato delle indagini, che farmo comparire le diverse figure degli inquilini del palazzo, la portinaia, i garzoni. Ma il delitto vero capita quaíche giorno piu tardi: Liliana Balducci ě trovata con !a goia squarciata; ha scoperto i! cadavere il nipote Giuliano, conosciuio da Ingravallo a pranzc dai Balducci e che gii ispira diffidenza e sospetto;_dalľappartamento sono spariti i gioielli. Anche questo caso viene affidato ad Ingravallo che incrimina in un primo tempo il nipote, i! quale riesce perö a dimostrare la sua innocenza. Le indagini mettono in luce le ragioni deila malinconia che carat-terizzava i modi di Liliana: la mancata maternita era per lei una sofferenza e una umiliazione che l'aveva portata a tenersi in casa e beneficare giovani serve dalle quali veniva regolarmente delusa. Intanto la pista del caso Mantegazzi porta a scoprire nella tintcria equivoca di Zamira, dove Iavora anche una delle ex protette di Liliana, la complice della rapina. Costoro potrebbero essere i colpevoli anche della uccisione di Liliana, ma su questa possibiütä il romanzo si chiude.