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Introduzione
Fu cambiato l’ordine degli anelli.
Ma la catena rimase una catena.
Gianni Rodari
Questo libro contiene una scelta di indicazioni pratiche accompagnate da chiarimenti teorici essenziali sui fenomeni e gli usi interpuntivi. Chi lo ha scritto non ha preteso di accampare ipotesi innovative o di offrire una panoramica sullo stato degli studi e delle conoscenze in materia. Ha avuto solo la (modesta) ambizione di fare qualcosa di utile, sulla base di un’ovvietà e di ragionevoli constatazioni. È ovvio che con la punteggiatura abbia a che fare chiunque voglia e sappia scrivere. È ragionevole prendere atto che sono abbastanza frequenti i dubbi e le curiosità su una pratica aperta a incertezze, a problemi per i quali talvolta si improvvisano soluzioni arbitrarie – ma non è detto che l’arbitrio e l’improvvisazione portino necessariamente ad errori. È ragionevole anche osservare che incertezze e problemi possono sollecitare qualche interesse riguardo ai principi linguistici su cui si fondano le spiegazioni degli usi e dei fenomeni interpuntivi.
Si è cercato di dare alla materia una disposizione non del tutto consueta alla manualistica corrente. Il risultato è quello che l’arguzia di Rodari messa in epigrafe sintetizza.
Gianni Rodari non ci ha lasciato saggi sull’interpunzione. Ne ha trattato applicando con naturalezza forse inconsapevole qualcosa di assai vicino all’aureo principio da lui formulato per inventare storie: il principio del «binomio fantastico». Ne sono venute fuori trovate come queste, che riporto per sollievo del lettore:
Un Tizio salì in cima al Colosseo e gridò: – Mi butto?
– Non è regolare, – gli fecero osservare i passanti. – Lei doveva metterci il punto esclamativo, non il punto interrogativo. Torni a casa e studi la grammatica.
Qualche volta un errore di grammatica può salvare una vita.
(Favole minime, in Il cane di Magonza,
Editori Riuniti, Roma 1982, p. 82)
Nella bizzarra Tragedia di una virgola il segno grafico si anima:
C’era una volta / una povera virgola / che per colpa di uno scolaro / disattento / capitò al posto di un punto / dopo l’ultima parola / del componimento. / La poverina, da sola, / doveva reggere il peso / di cento paroloni, / alcuni perfino con l’accento.
(Filastrocche in cielo e in terra,
in I cinque libri, Einaudi, Torino 1993, p. 16)
Poi è la volta del punto, nello schizzo lapidario Il dittatore, beffato dall’indifferenza generale:
Tutto solo a mezza pagina / lo piantarono in asso, / e il mondo continuò / una riga più in basso.
(Ivi, p. 9)
Sappiamo che la scrittura proietta la sua immagine nell’attività di parola attraverso modi di pensare e di dire che vanno dalla nobile costellazione delle metafore raffiguranti il mondo (la natura è un libro scritto in caratteri matematici) e la mente (le espressioni dantesche: «libro della memoria», «o mente che scrivesti ciò ch’io vidi») a stereotipi di larga diffusione, come «voltare pagina», «tra le righe», «sopra le righe», «non capire un’acca», compresi quelli che si riferiscono all’ortografia e alla punteggiatura: «mettere l’accento su...», «mettere i puntini sulle i», «sottolineare», «punto e basta», «punto e a capo», «senza cambiare una virgola», «non manca una virgola», «puntini puntini», «(detto) tra parentesi / tra virgolette».
La forma stessa dei segni ha fornito il destro a immagini e a trovate argute. C’è il pirandelliano quadretto cimiteriale:
Qualche foglia caduta dalle siepi ingombrava i vialetti. Qualche sterpo era cresciuto qua e là. E i passeri monellacci, ignorando che lo stil lapidario non vuole interpunzioni, avevano seminato con le loro cacatine tra le tante virtù di cui erano ricche le iscrizioni di quelle pietre tombali, troppe virgole forse e troppi punti ammirativi.
(Pirandello, US, La cassa riposta, p. 650)
E l’incipit scherzoso di un bel libro umoristico:
Man mano che la notte arrivava in città la salutavano parole luminose. Alcune erano lunghe e pulsanti [...], altre erano semplici punteggiature, virgole di lampioni, esclamativi di semafori, file di punti rossi di auto incolonnate.
(S. Benni, Comici spaventati guerrieri,
Feltrinelli, Milano 1986)
Si dice comunemente che esistono forme diverse di punteggiatura: logica, stilistica, ritmica. Sono differenze che comportano gradi diversi di costrizione per chi scrive, corrispondenti a gradi diversi di rigidità delle convenzioni interpuntive, e quindi di libertà da queste. Libertà non significa anarchia. Ignorare le convenzioni d’uso elementari non è motivo onorevole per infrangerle. Sulle velleità scrittorie di chi non la pensa così (o non pensa nulla al riguardo) e si comporta disinvoltamente di conseguenza si è abbattuta l’ironia di scrittori grandi, consapevolmente liberi nell’interpungere a modo loro perché padroni di tutte le risorse del sistema. Leggiamo ciò che Gadda annota, «a proposito di interpunzione», sulle composizioni di alcuni dei partecipanti a un concorso letterario:
Una vaga disseminazione di virgole e di punti e virgole, buttati a caso, qua e là, dove vanno vanno, come capperi nella salsa tartara.
(Conforti della poesia, «La fiera letteraria»,
IV, 29, 1949)
Più la scrittura è formale, più vincolanti sono le convenzioni. Allora l’importante è richiamare l’attenzione su tipi e generi testuali che ammettono l’uno o l’altro modo di interpungere. E sui diversi modi di scrivere, secondo il variare della situazione comunicativa (destinatari, rapporti e legami personali fra chi comunica, occasioni, argomenti e altro ancora) all’interno dello stesso genere. L’originalità di soluzioni innovative, le infrazioni all’uso comune, più o meno motivate, più o meno plausibili, i risultati di scelte consapevoli o di ignoranza delle norme presuppongono un riferimento a parametri di «regolarità»: a un uso, per intenderci, neutro rispetto alle variazioni possibili. È questo che si tiene presente quando si discorre di valori e di impieghi delle unità interpuntive, con intento descrittivo, non prescrittivo. Gli eventuali giudizi sul grado di accettabilità dei modi di interpungere sono sempre relativi alle svariate situazioni di discorso.
Nel primo e nel secondo capitolo si torna più volte a trattare di uno stesso segno di punteggiatura. L’Indice delle cose notevoli, che si trova alla fine del libro, dovrebbe servire a mettere insieme i vari pezzi delle singole voci per avere sott’occhio almeno tutto quello che si è cercato di spiegare nel volume, visto che la completezza della trattazione è meta non raggiunta, e difficilmente raggiungibile.
Gli esempi sono solo in minima parte costruiti ad hoc. La grande maggioranza appartiene a testi autentici: scientifici, giuridici, di saggistica filosofica e letteraria, di narrativa. Le ragioni si desumono facilmente dalle casistiche dei fenomeni interpuntivi che i passi citati illustrano. Si è cercato di documentare usi esemplari nei diversi generi testuali e tipi compositivi. Per le peculiarità ammissibili, e talora perfino necessarie nell’economia di testi non sottoposti a vincoli di «formalità congelata», si sono cercate testimonianze in opere non programmaticamente eversive delle normali convenzioni. In contesti nei quali la punteggiatura «logica» non è bandita, anzi è prevalente nelle scelte, le soluzioni inattese, dovute allo stravolgimento dei valori tradizionalmente assegnati a un segno, appaiono meglio giustificate (sempre che non siano casuali o frutto di distrazioni momentanee), pienamente significative e talvolta addirittura riducibili a sistema.
Le dimensioni e il carattere stesso di questo prontuario escludono trattazioni della punteggiatura di singoli autori e delle tendenze dominanti nelle varie epoche della nostra storia linguistica e letteraria. Ognuno vede come sarebbe importante, stilisticamente decisivo in molti casi, occuparsi delle leggi compositive interne a ciascun testo, sia questo letterariamente costruito oppure appartenente a generi non letterari; leggi che sono intrinseche al «progetto testuale», e agiscono a ogni livello, compreso quello di cui ci occupiamo qui. Il complesso imponente delle analisi linguistiche, stilistiche e retoriche di opere singole, di documenti, di corpora di ogni genere offrirebbe fonti importanti a cui attingere. Impossibile qui darne conto; né saranno sufficienti le indicazioni essenziali che episodicamente capiterà di fornire su argomenti connessi a quelli che sono oggetto specifico del presente lavoro.
Solo qualche cenno occasionale si è riservato alla punteggiatura nella comunicazione in rete. Per quanto riguarda le modalità di lettura e di codificazione dei messaggi verbo-visivi trasmessi in Internet, c’è da osservare preliminarmente che le questioni elementari toccano la sfera semiotica del rapporto tra parole e immagini, la dinamica della disposizione e degli scorrimenti in pagina, la scelta di formati, colori, proporzioni e rese volumetriche (ma l’elenco è gravemente lacunoso). La punteggiatura «per lo schermo», naturalmente, è congrua con l’impostazione generale. Le demarcazioni sono date principalmente dai formati. Il colpo d’occhio è uno sguardo non solo su blocchi di parole come è nella scrittura sulla pagina cartacea, ma su blocchi di informazioni ricavate da figure, da nastri scorrevoli di scrittura, da finestre affiancate e sovrapponibili. Nei testi verbali in rete i segni di interpunzione tradizionali vedono ridotte e semplificate le loro funzioni: il punto e virgola, ad esempio, cede al punto e alla virgola, secondo la forza delle «pause» che si vogliono indicare; ma rimane come segno convenzionale di separazione dei nomi di più destinatari di uno stesso messaggio di posta elettronica. Prendono piede i segnali intonativi, come i punti esclamativo e interrogativo, abbinati o più spesso raddoppiati o triplicati per intensificare l’enfasi, e i puntini di sospensione. Per quanto riguarda gli scambi comunicativi, che Internet permette di compiere «in tempo reale», la scrittura veloce di messaggi nella posta elettronica induce a una certa sciatteria, fa perdonare la semplificazione e perfino l’incuria interpuntiva (e ortografica!), e incrementa l’impiego di sigle e abbreviature. L’intento di comunicare reazioni emotive senza verbalizzarle, ovviando con simboli visivi all’impossibile resa dei toni di voce, ha imposto la trovata e l’impiego delle «faccine» o «ciberfacce» o smiley o emoticon (termine, quest’ultimo, che si va imponendo; è la combinazione di emotion e di icon: «immagine che sintetizza un’emozione»), facili da comporre con la tastiera del computer. Ne esistono a centinaia, elencate (e di volta in volta rinnovate) in siti Internet e in pubblicazioni specialistiche. Una scelta assai ridotta si trova nel Dizionario di Internet (Rossi 2000). Un buon resoconto delle «nuove funzioni dei segni paragrafematici», con utili informazioni sui siti da consultare, si legge nel saggio di Serafini (2001, pp. 213-222).
Che dire infine sulla decisione di trattare gli usi odierni della punteggiatura prima di dare informazioni essenziali sulle sue vicende nel corso dei tempi, sul formarsi e sul mutare dei valori attribuiti a ciascun segno, sulla scomparsa di un buon numero degli accorgimenti usati per iniziative individuali, sulle origini e le ragioni degli acquisti e delle perdite? Sono temi che interessano, se non altro perché appagano una voglia di sapere che ha molto in comune con la curiosità etimologica quasi istintiva in chi almeno per poco rifletta sulla lingua. La decisione di andare a ritroso posponendo il passato al presente risponde al proposito di andare dal più al meno noto, nella presunzione – che si spera non infondata – di seguire il modo di procedere naturale nell’acquisto delle conoscenze.
Avvertenze
Tra parentesi quadre sono segnalati i rinvii alle diverse parti del testo: il numero romano indica il capitolo, le cifre arabe indicano i paragrafi.
Gli autori degli esempi sono citati in forma abbreviata con il solo cognome seguito da una sigla indicante il titolo dell’opera; nella sezione A dei Riferimenti bibliografici il lettore potrà trovare l’indicazione bibliografica completa dei testi da cui si cita. Gli studi sull’interpunzione, elencati per esteso nella sezione B degli stessi Riferimenti, sono citati nel testo e nelle note con il nome dell’Autore e la data di edizione. Nel testo e nelle note sono indicati altri studi (che non compaiono nei Riferimenti bibliografici), importanti per alcune nozioni di cui si tratta.
Gli esempi sono numerati, per comodità di riferimento. I numeri d’ordine sono chiusi normalmente tra parentesi tonde; queste sono sostituite da quadre quando i numeri compaiono all’interno di enunciati che si trovino tra parentesi tonde.
Il corsivo è usato (oltre che per trascrivere i titoli di volumi e di articoli, secondo le convenzioni tipografiche qui adottate) per le menzioni (ad esempio: la congiunzione ma). Negli esempi, come occasionalmente nei commenti, mette in evidenza espressioni su cui verte l’analisi.
Il grassetto segnala, occasionalmente, argomenti del discorso.
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I. La punteggiatura: istruzioni per l’uso
1. Giustificazioni preliminari
Dare «istruzioni per l’uso» della punteggiatura può avere più di una giustificazione. Una, ad esempio, fa leva su una circostanza abbastanza comune: a chiunque scriva possono sorgere dubbi o interrogativi sulla scelta di determinati segni, sulla necessità o sull’opportunità di usarne uno piuttosto che un altro, o nessuno dei due. Altre giustificazioni derivano da inconvenienti non banali né troppo rari: le decisioni che prendiamo sono talvolta – diciamo pure di solito – poco sistematiche; le incoerenze interpuntive serpeggiano in testi a cui si richiederebbe la massima coerenza anche in questo settore. Degli inconvenienti sono in parte responsabili la negligenza, la distrazione, la fretta di chi scrive, e perfino l’ignoranza o la sottovalutazione delle norme. Ma la causa prima delle incertezze e delle incoerenze è la natura polimorfa dell’interpunzione, unita alla relativa labilità dei suoi statuti, mutevoli nel tempo e non ben definiti. Il risultato più vistoso della polimorfia – causa ed effetto di ricchezza e di povertà – è la presenza di più funzioni in uno stesso segno.
La decisione di anteporre le indicazioni pratiche alle riflessioni sulla natura e sui ruoli diversissimi che ha avuto nel corso dei tempi un sistema variabile come è quello di cui ci stiamo occupando nasce dall’intento di rispondere preliminarmente a una delle possibili aspettative di chi consulti un prontuario. Intento realistico, da cui è dipesa anche la scelta di dirigere l’attenzione sull’attualità prima che sul passato.
Quando si esaminano sia le peculiarità degli usi propri di generi e tipi compositivi, sia le svariate abitudini individuali, le omissioni e le trasgressioni o intenzionali o involontarie (è sempre la consapevolezza dei mezzi e dei loro impieghi che fa la differenza), si tengono ragionevolmente sullo sfondo – uno sfondo neutrale – le «regolarità» definibili in base alle convenzioni in vigore. A queste bisogna dunque riferirsi se si vogliono dare indicazioni sui modi di interpungere. È sul fondamento dei valori attribuiti a ciascuno dei segni che si riconoscono e si valutano le possibili variazioni: si descrivono modalità d’uso mostrando se sono o non sono appropriate al particolare tipo di testo con cui si ha a che fare.
Le istruzioni per l’uso della punteggiatura sono infatti relative ai generi della comunicazione (privata o pubblica, pratica o scientifica o letteraria o di consumo), ognuno dei quali non forma un complesso unitario e omogeneo, ma si suddivide in serie più o meno numerose di sottoclassi. All’interno di queste le differenze sono molte e dipendono da fattori disparati. Fra i più importanti, i destinatari per cui il testo è stato ideato e scritto, la sede e gli intenti che governano la pubblicazione (specialistica, scolastica, di larga divulgazione, ecc.) determinano, fra l’altro, il grado di formalità del messaggio. Prendiamo i libri delle discipline scientifiche destinati ai vari ordini delle scuole superiori: vi troviamo buoni esempi della variazione di rigidità nella trattazione degli argomenti e anche nella pratica interpuntiva. La maggiore regolarità si trova nelle formulazioni di regole, assiomi, teoremi, corollari; più libere le parti discorsive.
Altre differenze riguardano il mezzo (orale/scritto) in cui un discorso è stato prodotto, e il modo in cui viene trasmesso. Ad esempio, un discorso orale può essere trascritto, e in questo caso l’interpunzione conserverà evidenti le tracce del progetto testuale originario [II, 1.1].
Ogni tipo di testo avrà dunque norme interpuntive differenti? La domanda è mal posta. Non di norme si deve infatti parlare, ma di usi accettabili, e quindi di variazioni nell’impiego della punteggiatura rispetto a un paradigma di regolarità fissato convenzionalmente.
2. Vizi d’origine?
Parlare di «convenzioni in vigore» è un richiamo ovvio alla storicità dei sistemi interpuntivi. Meno ovvio sarà dirigere l’attenzione sulla debolezza dei loro statuti. Leggiamo che cosa scrive a questo proposito l’autore di una poderosa sistemazione delle regole grammaticali della lingua italiana: «Tra le varie norme che regolano la lingua scritta, quelle relative alla punteggiatura sono le meno codificate, non solo in italiano. Inoltre, alle incertezze pratiche si aggiunge il disaccordo degli studiosi sull’interpretazione complessiva del fenomeno, nonché sulla definizione e sulla classificazione delle singole unità interpuntive» (Serianni I, § 201). Partiremo dalle «incertezze pratiche»; e diremo subito che la causa prima della facilità con cui si producono va ricercata nelle origini del sistema stesso, o meglio nelle esigenze che hanno dato origine all’interpungere.
Il passaggio dalla scriptio continua, cioè dall’assenza di cesure all’introduzione di elementi divisori (spazi fra le parole, sbarre, iniziali colorate, rosette, segni di interpunzione tra unità del discorso – dalle minime come i costituenti di frase, alle più ampie quali i commi, i paragrafi, i capitoli, ecc.) ha a che fare con le diverse pratiche di lettura. La mancanza di demarcazioni nello scritto poteva essere superata nel rallentamento dei tempi di esecuzione della lettura ad alta voce, la cui scansione è misurata sulla frequenza e sugli intervalli del respiro. Secondo un’ipotesi accreditata negli studi di antropologia della comunicazione, le tradizioni che adottano la scriptio continua sarebbero la maggioranza rispetto a quelle che si servono di interpunzioni. Notava Cardona1: «l’uso di elementi demarcativi è probabilmente legato alla lettura endofasica; quanto più la lettura è mentale e veloce, tanto più si richiede che il testo sia presentato analiticamente, con indicazioni sul valore delle varie parti». Questo perché il lettore esperto non procede compitando lettera per lettera, sillaba per sillaba, ma è abituato a rappresentarsi blocchi di parole come forme organizzate (Gestaltungen) per effetto degli elementi di demarcazione che la pratica della scrittura gli fornisce, a cominciare dalla divisione tra le parole. Le interpunzioni vengono così a costituire via via un sistema «per l’occhio», adatto alla lettura silenziosa.
Un tale sistema ingloba, almeno negli statuti assegnati modernamente all’interpunzione nelle lingue occidentali, anche il complesso della punteggiatura «per l’orecchio», che comprende alcuni degli accorgimenti atti a manifestare ciò che contava originariamente per la lettura a voce. Per la lettura a voce contavano soprattutto il ritmo e la scansione degli intervalli secondo le esigenze della respirazione; ma per segnare questi intervalli le odierne sistemazioni della punteggiatura per lo scritto non codificano appositi segni. Tali segni esistono invece sia per marcare le differenze (standardizzate) di tono pertinenti al senso e alla forza illocutoria [II, 3] degli enunciati, cioè le curve intonative tipiche di domande, asserzioni, esclamazioni, enumerazioni, sospensioni e via elencando, sia per mettere in rilievo costituenti, o per cambiarne lo statuto sintattico-semantico [II, 2]. A ciò provvedono le interpunzioni adibite con gli stessi valori nella punteggiatura per l’occhio (pensiamo agli usi fondamentali dei punti interrogativo ed esclamativo), oppure con un cumulo di valori (sintattici e ritmici, ad esempio, come accade per la virgola), talvolta facendo prevalere le ragioni del ritmo in contrasto con quelle della sintassi.
L’essere contemporaneamente al servizio dell’orecchio e dell’occhio, l’essere nata per indicare le pause alla lettura e per provvedere alla demarcazione di unità sintattiche e delle loro relazioni ha fruttato alla punteggiatura in uso nelle varie epoche l’accusa di essere insoddisfacente. Valéry, finissimo artista della parola, riassumeva così i termini della questione che opponeva la punteggiatura «ritmica» alla punteggiatura «logica»: Notre ponctuation est vicieuse car à la fois phonétique et sémantique, et insuffisante dans les deux ordres2.
3. Regolarità e valori basilari
Parametri di regolarità si possono ricavare dal tipo di punteggiatura per l’occhio corrispondente a ciò che si intende per punteggiatura logica: fondata su criteri logico-sintattici relativi a strutture frasali normalizzate, qualunque sia il loro grado di complessità, omologhe a un’organizzazione concettuale chiara e coerente, anche se di architettura complicata.
Questo modo di interpungere ama l’uniformità e la costanza dell’applicazione, una volta stabiliti i valori e assegnate le relative funzioni a ciascuno dei segni. Si addice all’esattezza che ci si aspetta di trovare nella scrittura dei testi scientifici e dei testi legislativi. Mi riferisco, in particolare, alla redazione delle leggi fondamentali, destinate a lunga durata, come le costituzioni e i codici, che sono le principali fonti del diritto. La regolarità delle strutture, come si manifesta nell’ordinamento gerarchico delle materie, così richiede che anche la punteggiatura risponda a criteri rigorosi, applicati senza incoerenze e senza deviazioni, in accordo con l’esigenza di segnalare gli snodi del ragionamento e quindi le divisioni e le relazioni sia tra i membri delle frasi sia tra le frasi che compongono complessi più ampi e articolati. L’uniformità severa dell’interpungere corrisponde al rigore necessario all’organizzazione concettuale.
Francesco Sabatini ha affermato, con buone ragioni, che le leggi fondamentali appartengono al «tipo di testo» che pone i vincoli più stretti all’interpretazione, tanto da apparire prossimo al sistema virtuale della lingua in quanto tende a essere il più possibile esplicito, oggettivo, estraneo alla ricerca di effetti speciali. Nelle costituzioni e nei codici, quando questi sono formulati con la dovuta accuratezza compositiva, i segni di interpunzione che compaiono (alcuni infatti, come i punti esclamativo e interrogativo e i puntini di sospensione, ne sono esclusi per le ragioni che si intuiscono facilmente) mantengono i valori convenzionali che si possono considerare basilari. Questa condizione può essere condivisa da qualsiasi testo composto all’insegna della formalità, e in generale dalle scritture a cui convenga un grado abbastanza alto di neutralità emotiva.
Naturalmente, le varie sottoclassi dei testi di ogni genere avranno peculiarità compositive – e quindi anche interpuntive – non esportabili in altri settori. Ne discende che bisognerà considerare «non marcato», per i singoli segni, l’uso che sarà neutro, da un lato, rispetto alle particolari convenzioni stabilite per ognuno dei generi (ad esempio, gli accorgimenti che in un testo legislativo segnalano i confini dei commi); dal lato opposto, rispetto alle svariate imprevedibili prassi individuali, alle originalità innovative proprie dei modi di scrivere non convenzionali.
La qualifica di non convenzionali si può attribuire sia a prodotti letterari, o che vogliano essere tali nelle intenzioni degli autori, sia ai cosiddetti stili negligenti, che caratterizzano gli scritti informali o provvisori: ad esempio, lettere familiari, messaggi composti in fretta senza controllare la forma, appunti e annotazioni di carattere personale, abbozzi, promemoria e così via. Quando invece si scrive mirando alla regolarità formale, è giusto e decoroso che si avverta l’esigenza di uniformarsi alle convenzioni interpuntive comunemente accettate nella propria epoca. E che si cerchi di applicarle con la maggior coerenza possibile. Se questa non sarà perfetta (non lo è quasi mai), è desiderabile che se ne sia almeno consapevoli.
4. A ragionevoli dubbi qualche ragionata risposta
Chi va in cerca di regolarità può trovarsi a risolvere questioni, modeste ma non irrilevanti, come sono quelle di cui si offre qui un campionario essenziale. Più avanti, nel capitolo II, gli stessi temi saranno ripresi e trattati insieme con altri prima lasciati in ombra; si ricorrerà ad argomentazioni fondate su concetti che qui non sono ancora stati introdotti; le attestazioni di punteggiatura d’autore copriranno zone più ampie, e la casistica sarà più ricca. Quella che si troverà in formato ridotto nel presente capitolo è relativa alle incertezze e alle trascuratezze che l’esperienza comune mostra più frequenti: in primo luogo negli usi della virgola [4.1]; in secondo luogo nel riconoscimento dei valori assegnati ad alcuni altri segni paragrafematici. Sono stati denominati così da Arrigo Castellani3, oltre alle interpunzioni comunemente riconosciute come tali (punto, virgola, punto e virgola, due punti, punto interrogativo ed esclamativo, puntini di sospensione, parentesi e lineette) gli altri segni non alfabetici che possono valere come interpunzioni vere e proprie (ad esempio, le virgolette e le lineette impiegate come indicatori grafici del discorso diretto e del dialogo), acquistare valori sintattici e morfologici (come il trattino d’unione) o semantici (le virgolette di «distanziamento» o «riserva», le barre oblique che segnalano opposizione, l’asterisco negli usi lessicografico e grammaticale); e inoltre gli accorgimenti grafici quali il tipo di carattere a cui si assegnino precise funzioni distintive di vario genere: ad esempio, il corsivo che nell’uso giornalistico, specialmente, segnala le citazioni di parole e frasi; il corsivo dei titoli e delle menzioni; e infine il corsivo che segnala l’estraneità di una parola al sistema fonologico e lessicale della lingua italiana4.
Tale condizione si verifica con i prestiti non adattati da dialetti o da lingue straniere. Si dia il caso dei forestierismi. Quando occupano un vuoto del lessico italiano, oppure prendono il posto di una parola italiana caduta in disuso o rimasta come minoritaria (ad esempio, il latino “album” e i vocaboli inglesi “sport”, “tennis”, “film” [vincente su “pellicola cinematografica”], “computer” [prevalente su “calcolatore”]), la grafia non li segnala come non appartenenti al sistema della nostra lingua: il che significa che non li troviamo scritti in corsivo. Lo provano i migliori dizionari – fra i più recenti, s’intende – che registrano parole come queste in caratteri tondi, mentre mettono in corsivo termini come escamotage, hobby, habitué. Esistono tuttavia oscillazioni e differenze dall’uno all’altro dizionario e fra edizioni, più o meno lontane negli anni, dello stesso dizionario. Tutti invece concordano nel considerare invariabili, per quanto riguarda la formazione del plurale, i termini stranieri quando non sono segnalati come tali; perciò si dirà: “gli sport”, “i film”, “gli album”. I termini per i quali si ricorre al corsivo conservano, generalmente, il plurale originario: escamotages; hobbies; habitués al maschile e habituées al femminile. Ma si possono considerare invariabili quelli che hanno ampia diffusione o alta disponibilità, come hobby, handicap, ecc. Una norma sensata di comportamento è consultare, all’occorrenza, un buon dizionario recente e seguirne le indicazioni su grafie, caratteri, e formazione del plurale.
I principali interrogativi che l’esperienza mostra più frequenti riguardano le convenzioni da seguire: nell’uso delle virgolette [4.2]; nell’introdurre il discorso diretto e i dialoghi [4.3]; nel differenziare gli impieghi del trattino rispetto alla lineetta [4.4]; nella scelta dei tipi di parentesi [4.5]; nell’attribuire i valori alle barre verticali e oblique e all’asterisco [4.6], e infine nell’impiego del punto per le abbreviazioni [4.7].
Dei rimanenti segni non si tratterà nel presente capitolo, non perché manchino le incertezze sul modo di usarli. Sul punto e virgola (a cui si dà un primo sguardo in 4.1.6) e il punto fermo le domande più comuni vertono sulla durata e la graduazione delle pause, e sulla legittimità del procedimento, molto in voga da qualche tempo, di triturare la sintassi mediante un punto che rompe le normali relazioni di costruzione della frase. In questo caso le scelte stilistiche in gioco si spiegano con riferimento non solo alla sintassi, ma specialmente alla distribuzione dell’informazione e alla «messa a fuoco»: questioni che bisognerà affrontare dopo avere ragionato sui ruoli della punteggiatura nella costruzione del testo [II, 1]. Solo allora si potrà tentare una rassegna sistematica delle interpunzioni in quanto segnali della scansione del discorso (pause e demarcazioni sintattiche; giunzioni e snodi testuali) [II, 2]. Si punterà poi l’obiettivo sul valore di «marche dell’intonazione», tipico ma non certo esclusivo, dei punti esclamativo e interrogativo [II, 3]; e infine sui ruoli squisitamente testuali e retorici di segni come i due punti, le parentesi, le virgolette come «avvisi di distanziamento», i puntini di sospensione e di reticenza [II, 4].
4.1. Chiarimenti su alcuni usi della virgola
Le svariate funzioni della virgola appaiono fuse e confuse, nella percezione dei più, con le pause di lettura a cui questo segno corrisponde almeno in parte, mantenendo molte delle motivazioni che le erano assegnate in origine [III, 2]. Si aggiunga la diffusa tendenza a servirsi della virgola per mettere in rilievo un qualche elemento del discorso indipendentemente dalle relazioni sintattiche che questo intrattiene con gli altri componenti della frase in cui si trova. Sono condizioni che si riverberano sui quesiti qui sotto elencati:
1) in quali casi una virgola non si mette e in quali invece si può, o si deve, mettere immediatamente prima della congiunzione e?
2) come comportarsi con ma, né, sia, o?
3) con quale criterio si decide se separare con una virgola i sintagmi o le frasi che esprimono le svariate circostanze (tempo, luogo, causa, ecc.) all’inizio di enunciati?
4) quando la virgola può e quando non può essere posta tra soggetto e verbo, oppure tra verbo e oggetto, diretto o indiretto, o tra un verbo di forma passiva e il suo complemento di agente?
5) c’è una norma che ne regoli l’uso davanti a un pronome relativo?
6) in quali casi invece di una virgola occorre usare un punto e virgola?
Dalle risposte elementari che sembra lecito suggerire si potranno già intuire alcune delle riflessioni che faremo sotto diverso titolo [II, 2 e 3] sui valori che si accumulano su questo segno, i cui molti ruoli sono o ignorati o perduti di vista più spesso di quanto non si creda.
4.1.1. Le risposte alla prima domanda dipendono dai ruoli rivestiti di volta in volta dalla congiunzione e. Questa non è preceduta da una virgola se, in un elenco, collega un membro ai precedenti (o al precedente, se i membri da unire sono solo due) senza creare discontinuità nella serie:
(1) Ecco Gigliola, Paolo, Luca e Giorgio. / Entrano Luca e Giorgio, poi Gigliola e Paolo.
Lo stesso comportamento vale in casi più complessi per quanto riguarda gli effetti di senso. Si vedano gli esempi (2) e (3), dove troviamo disposte e concatenate in serie continua espressioni di significato opposto. Si tratta di campioni di scrittura alta, ma lo schema che rappresentano vale anche in situazioni di livello stilistico differente:
(2) A lui tutto serve: le parole rare e quelle dell’uso e del disuso; l’intarsio della citazione erudita e il perpetuo ribollimento del calderone delle streghe.
(Contini, UE, p. 199)
(3) [...] quasi che sentimenti e scaltra ragione, serietà e gioco, necessità e caso, profondità e superficie si invertissero gli uni negli altri incessantemente, inafferrabilmente.
(Mengaldo, AP, p. 238)
La virgola compare davanti alla e quando serve come strumento di separazione per sciogliere ambiguità di senso. Si vedano i due passi seguenti: «In Facciamo le parti: Giorgio, Ada, Ugo e Anna non è chiaro se si facciano quattro parti o tre (una per Ugo e Anna); mentre in Giorgio, Ada, Ugo, e Anna specifichiamo che si tratta di quattro parti» (Lepschy, Lepschy 1993, p. 92); «La sua era una dieta particolare: a mezzogiorno carne e verdura, alla sera riso e insalata, e frutta a volontà» (De Palma 1996, p. 53).
Analoga funzione disambiguante ha la virgola negli esemplari di discorso giuridico (4) e tecnico-scientifico (5):
(4) La Corte costituzionale giudica: [...] sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni […].
(Cost., art. 134)
(5) [...] si consideri dapprima il tripolo a stella [...]: il suo comportamento esterno può essere agevolmente studiato immaginando di applicare fra i morsetti A e C, e fra i morsetti B e C due generatori ideali di tensione [...].
(Civalleri, LE, p. 165)
Più frequenti le situazioni analoghe a quelle esemplificate nei due passi che seguono.
Nell’esempio (6) il distacco di uno dei componenti dell’elenco è giustificato anche dal «peso del costituente» sintattico, cioè dalla sua lunghezza e dalla complessità strutturale rispetto ai precedenti:
(6) Ecco Gigliola, Paolo, Luca, e Giorgio che arriva di corsa.
L’esemplare di scrittura scientifica proposto in (7) mostra l’uso della virgola davanti alle e che introducono espressioni collocate in posizione parentetica.
(7) Qui però appare con chiarezza che almeno alcuni presupposti ontologici, e segnatamente in questo caso la dicibilità del mondo nella sua varia molteplicità, sono in contrasto con la forza dell’elenchos, (e con la validità della consequentia).
(D’Agostini, DV, p. 111; corsivi nel testo originale)
La prima occorrenza di e introduce un segmento parentetico delimitato da due virgole; il valore di inciso esplicativo è sottolineato, nel testo originale, dal corsivo dei segmenti interrotti dall’inserzione. La seconda occorrenza di e in apertura dell’inciso messo tra parentesi tonde è preceduta, come la prima, da una virgola. In questo caso particolare è stata la volontà di sottolineare il carattere aggiuntivo dell’inciso a dare luogo a un cumulo di segni (virgola e parentesi) che in altre circostanze apparirebbero sovrabbondanti.
Se la congiunzione e ha valore avversativo, la virgola anteposta istituisce uno stacco che marca l’opposizione:
(8) Chiamava, chiamava, e nessuno rispondeva.
In ognuno dei casi prospettati è in gioco la funzione demarcativa della virgola rispetto alle unità sintattiche (un segno ha funzione demarcativa quando serve a indicare un confine linguistico). Eccone altre due prove:
(9) La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
(Cost., art. 2)
(10) La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
(Cost., art. 32)
Nell’esempio (9), la virgola che precede la e è il segno di chiusura del segmento collocato in posizione parentetica; il segno di apertura è la virgola che precede sia. Nell’esempio (10), invece, la virgola davanti alla seconda e ha il compito di rendere evidente la coordinazione istituita tra le due frasi («...tutela..., e garantisce...»), marcando la differenza rispetto alla e che, nella prima di queste, coordina senza stacchi due sintagmi («...diritto... e interesse...»).
4.1.2. Di fronte alla seconda domanda è ragionevole tenere un atteggiamento possibilista, e cauto. Si usa dire che ma usato come congiunzione avversativa per coordinare due frasi, come in (11), è preceduto da una virgola, di cui invece si può fare a meno quando ad essere coordinati avversativamente sono due sintagmi, come in (12), o due frasi brevi, come in (13), dove ognuna delle proposizioni è ridotta al solo sintagma verbale:
(11) Esiste in Italia un problema di riduzione della natalità? Non vi è dubbio, ma non ritengo che la riduzione della natalità sia un semplice effetto dell’aumento di densità della popolazione.
(Piazza, PT, p. 95)
(12) Poveri ma belli.
(13) Guarda ma non vede.
Ma l’esperienza mostra che le dimensioni di frasi e di costituenti non sono rilevanti, da sole, per decidere se l’opposizione debba essere marcata dalla punteggiatura, in quanto a prevalere sono ragioni funzionali. Queste possono riguardare:
a) il ruolo delle unità frasali nei complessi più ampi di cui sono parte, come in (14), dove l’assenza della virgola prima della congiunzione avversativa è giustificata dal fatto che la frase introdotta da ma è parte integrante della condizionale introdotta da se:
(14) Il matrimonio di chi è stato interdetto per infermità di mente [...] può essere impugnato [...] se la interdizione è stata pronunziata posteriormente ma l’infermità esisteva al tempo del matrimonio […].
(c.c., art. 119)
b) la struttura informativa [II, 1.2] degli enunciati, come in (15), oltre che in (12) e (13):
(15) Guarda, ma non vede.
Quando si contrappongono due segmenti brevi, se prima del ma c’è una virgola è messo a fuoco l’elemento che la precede: in (15) il verbo della prima frase. Se non c’è virgola è focalizzata la parte finale: in (12) l’aggettivo belli; in (13) il verbo della seconda frase.
Un’altra ragione sintattica che indirizzerebbe a separare con un segno di interpunzione (virgola o punto e virgola) due frasi coordinate è il cambiamento di soggetto nella seconda rispetto alla prima. Un esempio si ha in (11), e altri potremmo trovarne con altre congiunzioni, come la e nella continuazione dello stesso passo:
(16) Questa [la densità della popolazione] è dovuta a fattori esogeni non biologici quali le migrazioni, e la riduzione della natalità è un fenomeno comune a tutte le popolazioni europee con densità di popolazione e condizioni socioeconomiche diverse.
(Piazza, PT, p. 95)
Il trattamento che si riserva alle correlative sia... sia, né... né, e alla disgiuntiva o risente del grado di integrazione che gli elementi introdotti da tali congiunzioni presentano nelle strutture sintattiche in cui si trovano.
Per quanto riguarda la prima occorrenza della congiunzione, se questa collega un complemento direttamente al costituente di frase che lo regge non c’è posto per una virgola (17). La virgola ci sarebbe se tra il complemento e l’espressione a cui questo è collegato fosse inserita una qualche sequenza di parole, come quella evidenziata dal corsivo in (18):
(17) ...l’estradizione può essere concessa solo se il medesimo Stato dà assicurazioni, ritenute sufficienti sia dall’autorità giudiziaria sia dal ministro di grazia e giustizia, che tale pena non sarà inflitta o, se già inflitta, non sarà eseguita.
(c.p.p., art. 698)
(18) Nel caso che ci interessa, le assicurazioni di cui sopra non sono state ritenute sufficienti, benché senza ragioni plausibili, né dall’autorità giudiziaria né dal ministro.
Se la prima occorrenza della congiunzione si trova in apertura di frase, è naturale che la punteggiatura sia quella richiesta dalla posizione e dal ruolo della frase stessa nel periodo:
(19) Che l’Italia sia una mescolanza di culture differenti, risultato di storie e movimenti di popolazioni di origini molto eterogenee, è una osservazione comune, quasi scontata: sia l’uomo colto sia la persona appena un po’ curiosa si accorgono di quanto siano varie nella nostra penisola le popolazioni, le tradizioni, i paesaggi.
(Piazza, PT, p. 73)
Davanti alla seconda occorrenza della congiunzione sono le dimensioni delle catene verbali che si snodano tra le correlative, e quindi la distanza che intercorre fra queste, a determinare l’assenza o la presenza di una virgola. Questa manca se le correlative sono a breve distanza l’una dall’altra; è presente se la distanza è considerevole. Esempi della prima condizione: (17) «sia dall’autorità giudiziaria sia dal ministro»; (18) «né dall’autorità giudiziaria né dal ministro»; (19) «sia l’uomo colto sia la persona appena un po’ curiosa». Un esempio della seconda condizione si trova qui di seguito nel nostro testo (nella frase che inizia con «Non è superfluo ripetere...»), dove la seconda replica di sia è preceduta da una virgola.
Non è superfluo ripetere che, in ogni caso, ciascuna delle congiunzioni fin qui considerate è preceduta da virgola sia quando si intende dare valore parentetico alla frase introdotta dalla stessa congiunzione, sia quando lo stesso valore viene assegnato alla frase che viene prima.
L’uso della disgiuntiva o può ricadere sotto condizioni analoghe a quelle di sia. Questo vale per l’impiego di o tanto nelle alternative in cui l’uno dei termini non esclude l’altro (‘o’ disgiuntivo inclusivo = vel: «Questa o quella per me pari sono») quanto nei casi opposti, quando la disgiuntiva o ha significato esclusivo (o = aut): «O mangi questa minestra (,) o salti dalla finestra»; dove conta soprattutto la lunghezza dei disgiunti. Un esempio di saggistica linguistico-letteraria, dove la disgiuntiva è immessa nei membri di un’enumerazione, unità separate da altrettante virgole «seriali» [II, 2.3.1]:
(20) Segno e icona, pausa o distanziamento, stacco, rilievo o ombreggiatura, frattura e incisione del verso, allusione straniante e ironica, apostrofe o ‘a parte’, glossa esplicativa o complice ammicco ai lettori, commento o riflessione, il segmento parentetico [...] è schema istituzionalmente duttile [...].
(Soletti, TS, p. 970)
Si tende, prevalentemente, a evitare la virgola quando o ha significato esplicativo equivalente a «cioè», «ossia» («I dieci comandamenti di Dio o decalogo») e a metterla (anzi a metterne due: una prima e una dopo) quando o in unione a meglio acquista valore correttivo («È tempo di muoversi, o meglio, di impegnarsi a fondo»).
Interpretazioni più fini portano a distinguere tra alternative, come nell’esempio seguente, dove il confine tracciato dalla virgola isola le prime due dalla terza:
(21) Lo stesso problema si pone per l’origine delle lingue romanze; si deve porre all’inizio del ramo che conduce al Rumeno o al ramo più tardo che porta al Sardo, o ancora dopo?
(Piazza, I-E, p. 317)
Finora abbiamo esaminato regolarità di uso, ma non abbiamo messo in conto le ragioni di opportunità che possono indurre, anche in scritture poco connotate nella direzione dell’arbitrio interpuntivo, a ridurre le presenze di virgole in porzioni di testi che ne siano già stipate per ragioni semantiche e sintattiche più forti di quelle che abbiamo visto agire a proposito delle congiunzioni analizzate. Come dire che le scelte qui illustrate non sono vincolate a norme imprescindibili, se vari fattori possono modificare quanto è sembrato ragionevole proporre. Il fattore più importante è l’esigenza di tutelare il senso e la comprensibilità degli enunciati. È in base a questo che si decide se una virgola è indispensabile o è di troppo. Spunti interessanti, e problematici, che converrà non trascurare quando se ne presenterà l’occasione.
4.1.3. Per regolare l’uso della virgola in presenza di determinazioni di tempo, luogo e altre circostanze si tiene conto di criteri svariati: la posizione di queste nelle frasi semplici (cioè costituite soltanto da sintagmi) e nelle frasi complesse (così chiamate perché almeno uno dei loro costituenti è una frase); la lunghezza delle espressioni (sintagmi e frasi) avverbiali o circostanziali; la forma (esplicita/implicita, se si tratta di frasi); le variazioni di significato (ad esempio, quando, mentre, se passano dal valore temporale al valore oppositivo, o se cumulano i due valori); l’incidenza del «fuoco» (focus) dell’informazione [II, 1.2]. Gli esempi seguenti possono chiarire gli usi fondamentali:
(22) Quando l’imputato è condannato a pena detentiva per il reato per il quale fu sottoposto a custodia cautelare, sono poste a suo carico le spese per il mantenimento durante il periodo di custodia.
(c.p.p., art. 692.1)
(23) Sarò contenta quando avrò finito il lavoro. / Sarò contenta, quando avrò finito il lavoro.
(24) Per trovare la strada senza perdere troppo tempo a cercarla, chiedi informazioni ai passanti. / Ho chiesto informazioni per trovare la strada.
(25) Per quanto riguarda le grammatiche, abbiamo considerato un paio di testi della fine del secolo [...].
(Lepschy, MN, p. 10)
(26) Per quanto riguarda i testi abbiamo esaminato dei passi – ognuno di circa 1000 parole – [...].
(Lepschy, MN, p. 13)
(27) Non riesce a concentrarsi mentre (quando) intorno c’è rumore.
(28) Te ne stai in ozio, mentre (quando) dovresti impegnarti seriamente.
In (22) la posizione iniziale e la lunghezza della frase introdotta da quando richiedono che questa sia separata dalla reggente mediante una virgola.
Nella prima parte di (23) a provocare la mancanza della virgola sono sia le dimensioni (ridotte) delle frasi componenti, sia la posizione del focus alla fine della seconda. Nella seconda parte dello stesso esempio l’interruzione dopo contenta concentra su questa parola il picco intonativo e il focus della frase.
In (24) l’implicita per trovare la strada è separata o meno dalla reggente secondo che la preceda o la segua; questa condizione è rinforzata dalla lunghezza dei rispettivi segmenti.
In (25) e (26) troviamo esempi di uso facoltativo della virgola dopo il medesimo complemento circostanziale.
In (27) il valore temporale di mentre/quando induce a fare a meno di una virgola davanti alla congiunzione. Ma se questa ha valore oppositivo, come in (28), la virgola opportunamente lo segnala.
4.1.4. Come regolarsi di fronte alla tendenza a separare con una virgola il soggetto dal verbo, oppure il verbo dall’oggetto diretto o indiretto, quando gli elementi in questione sono contigui? Questa domanda ammette risposte differenziate, secondo che l’uso della virgola debba essere regolato unicamente dai rapporti sintattici tra i costituenti del nucleo della frase (il che avviene in situazioni «non marcate» pragmaticamente [II, 1.2]) o, al contrario, dalle relazioni che compongono la struttura informativa della frase stessa (il che avviene in condizioni di marcatezza semantico-pragmatica).
Nel primo caso la risposta è tassativa: non si può separare con una virgola il soggetto dal suo verbo, e il verbo dall’oggetto diretto o indiretto (si dirà meglio: non si può separare con una virgola il verbo dai suoi argomenti), a meno che non si frapponga un qualche segmento, di lunghezza variabile, racchiuso tra due virgole (le virgole, insisto, devono essere due: una in apertura e una in chiusura del segmento). Si noti che, parlando di soggetto, si intendono comprese anche le sue espansioni complementari; ne abbiamo un esempio, poco più avanti, in (30), nell’espressione quattro elementi di una forma di prima specie. Si ritengono comprese inoltre, e ovviamente, le proposizioni soggettive, di cui possiamo trovare un campione in (19): Che l’Italia sia una mescolanza di culture differenti...
La restrizione che abbiamo formulato riguardo all’uso della virgola è valida innanzi tutto per le scritture caratterizzate dal rigore formale a cui si mira nell’esprimere concetti precisi, nel costruire con esattezza le impalcature del ragionamento, scandendone i nessi secondo le relazioni logico-sintattiche tra i componenti delle frasi. Esemplari tipici, i testi scientifici, tecnici, legali e simili, a cui compete istituzionalmente la punteggiatura «logica», applicata con chiarezza, senza cedimenti a stranezze o a variazioni occasionali rispetto al modello riconosciuto come regolare. Ma le stesse prescrizioni possono valere, in generale, per ogni modo di scrivere all’insegna della normalità, qualunque sia l’argomento e la destinazione, purché non intervengano motivate ragioni semantico-pragmatiche a marcare con variazioni della punteggiatura «canonica» i rapporti tra le unità sintattiche. Di quest’ultima condizione ci occuperemo più avanti [II, 2.3.2].
Qui di seguito si danno alcuni esempi di punteggiatura regolare rispetto alle relazioni sintattiche. Il (29) e il (30) sono ricavati da un testo scientifico, il (31) è un frammento di comunicazione pratica. Per contrasto si presentano, contrassegnati da un asterisco all’inizio dell’enunciato, usi inaccettabili della virgola: in (29a) ne ha fatto le spese la prima frase di (29), adattata arbitrariamente; in (31) le repliche del primo campione proposto. In (30) e (31) il corsivo segnala i segmenti delimitati, correttamente, da due virgole:
(29) La geometria algebrica si è sviluppata a partire dalla geometria analitica e dalla geometria proiettiva secondo tre indirizzi principali.
(Conte, GA, p. 262)
(29a) *La geometria algebrica, si è sviluppata a partire ecc.
(30) [...] quattro elementi di una forma di prima specie, considerati in un dato ordine, formano un gruppo armonico se il loro birapporto, in quell’ordine, vale –1.
(Conte, GP, p. 273)
(31) Il bollettino meteorologico non lascia prevedere un prossimo miglioramento del tempo. / *Il bollettino meteorologico, non lascia prevedere un prossimo miglioramento del tempo. / *Il bollettino meteorologico non lascia prevedere, un prossimo miglioramento del tempo. / Il bollettino meteorologico, da troppi giorni ormai, non lascia prevedere, purtroppo, un prossimo miglioramento del tempo.
Vorrei ancora fissare l’attenzione sulla soggettiva contenuta in (19). La virgola che la delimita apre un segmento appositivo chiuso da un’altra virgola; la separazione della soggettiva dalla reggente (è una osservazione comune...) è dunque legittimata dalla correttezza della punteggiatura con cui si assegna posizione parentetica all’apposizione (risultato di... eterogenee).
Il discorso non finisce qui. La posizione della virgola che abbiamo bollato come irregolare nei tipi di testo da cui è stata ricavata finora l’esemplificazione può essere giustificata, in strutture testuali e condizioni comunicative opportune, con riferimento alla distribuzione dell’informazione e all’organizzazione semantico-pragmatica degli enunciati. Come si cercherà di mostrare nel corso del secondo capitolo.
4.1.5. La presenza o l’assenza di una virgola davanti a un pronome relativo non dovrebbero essere casuali, in un uso sorvegliato. Ne tratteremo analiticamente in [II, 2.3], esempi (20) e (21). Per ora noterei soltanto l’assenza della virgola davanti ai pronomi relativi contenuti negli esempi (18), (21) e (22) del presente capitolo, rispettivamente: «Nel caso che ci interessa [...] le assicurazioni di cui sopra...»; «del ramo che conduce [...] o al ramo più tardo che porta...»; «il reato per il quale fu sottoposto a custodia cautelare». Si tratta di relative restrittive, che limitano il contenuto asserito («nel caso che = in quello e non in un altro / le assicurazioni di cui... = quelle e non altre», ecc.).
4.1.6. Per rispondere alla sesta domanda bisognerebbe tenere presenti tutte le funzioni del punto e virgola che saranno descritte più avanti [II, 2.2]. In questa fase preliminare basterà soffermarsi su due fra le principali motivazioni che inducono a preferire un punto e virgola a una virgola, specialmente negli stili di scrittura sorvegliati, ovunque si ponga una cura particolare nel graduare la durata connessa ai valori sintattici delle pause:
(i) l’intento di manifestare le gerarchie di componenti sintattici;
(ii) l’opportunità di marcare cambiamenti di soggetto o di tema in enunciati contigui o in espressioni disposte in serie.
Per la prima motivazione, si osservi il seguente passo:
(32) La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principî ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
(Cost., art. 19)
Qui i punti e virgola hanno carattere seriale, analogo a quello delle virgole usate nelle enumerazioni [I, 4.1.1]; e in effetti sembrerebbero sostituibili con altrettante virgole. Non lo sono, in questo come in nessun altro articolo della Costituzione, dove vige il criterio di separare con il punto e virgola i membri delle serie formati da frasi, anche perché in ciascuna di queste potrebbero occorrere delimitazioni di minor peso da segnare naturalmente con virgole. Come si vede nell’enunciato iniziale, in cui due virgole simmetriche racchiudono una coppia di attributi (una e indivisibile).
La seconda motivazione è illustrata dagli esempi (33) e (34):
(33) Vi sono [...] alcune famiglie che rispondono agli interventi terapeutici con rapidi cambiamenti; altre, che sembrano al momento confermare la validità dell’intervento, ritornano nella successiva seduta totalmente immodificate [...].
(Selvini Palazzoli, PC, p. 154).
(34) Le trasformazioni veloci hanno postulato un veloce adattamento delle forme giuridiche; ma in molti casi sono state le forme giuridiche a promuovere il cambiamento.
(Alpa, CR, p. 412)
In (33) il punto e virgola si trova tra frasi con soggetto diverso (alcune famiglie... / altre...) e giova alla chiarezza e all’equilibrio compositivo dell’enunciato perché risponde anche alla motivazione qui esposta in (i): nella seconda frase si trova infatti una relativa tra due virgole. Nell’esempio (34) il punto e virgola, nel periodo retoricamente connotato5, scandisce, insieme con la variazione di soggetto, la «messa a fuoco» [II, 1.2] dell’elemento tematizzato (le forme giuridiche) nella coordinata avversativa.
4.2. Virgolette citazionali
Per quanto riguarda la forma grafica, le virgolette possono essere: doppie e basse, dette anche francesi (« »); doppie e alte, dette anche inglesi (“ ”); semplici (singole) e alte, o apici, dette anche tedesche (‘ ’); semplici e basse (‹ ›), che possono apparire rovesciate (› ‹) secondo una consuetudine tipografica tedesca e inglese.
Per la loro forma le virgolette doppie basse sono designate indifferentemente come aguzze/acute/uncinate/ caporali oppure a sergente, dalla somiglianza con i gradi militari. A questo proposito, eccone un’arguta descrizione letteraria (il personaggio che narra in prima persona sta parlando a un amico sdraiato in un letto d’ospedale):
– Quali sono le virgolette a caporale? – mi domanda Francesco. [...]
– Quelle così, – gli dico, facendo con le dita il gesto di due angoli affiancati. Per farlo devo simulare un geroglifico egizio, tutto di lato.
– Gli accenti circonflessi? – mi domanda Francesco.
– Ma no, ma quali accenti! Le virgolette, queste qui... – Prendo una biro dal suo tavolinetto e gli scrivo su un pezzetto di carta prima il segno ‘«’ e poi il suo compare ‘»’.
– Ah, ho capito. Le chiamavo “sergenti”, scusa.
(Voltolini, P, pp. 172-173)
Per quanto riguarda l’uso, nella pubblicazione dei testi a stampa si adottano convenzioni tipografiche variabili dall’uno all’altro editore, e perfino tra l’una e l’altra collana sotto il medesimo marchio editoriale; ma ognuna delle normative viene seguita coerentemente nella pubblicazione del testo o delle serie di testi per cui è stata scelta. La stessa regola di comportamento dovrebbe valere per la compilazione di ogni scritto che aspiri alla regolarità formale.
Le virgolette doppie, alte o basse, servono generalmente per racchiudere le citazioni (come per “bianca colomba”, in [35]), e quindi il discorso diretto, che è la forma citazionale per eccellenza del discorso riportato:
(35) Una ragazza s’innamorò di lui e copiò da un libro il messaggio di un amante abbandonato alla sua “bianca colomba”. Fece i necessari adattamenti e lo lesse alle mie cugine prima di spedirlo. Diceva:
“Torna a me, torna bianco colombo al tuo nido!”
(Meneghello, LNM, p. 80)
(36) È il lettore che allora si domanda: «Che cosa vuoi dirmi, che io non capisco a fondo?». E anche: «Come farò a capire davvero quel che vuoi dirmi?».
(Simone, MP, p. 92; corsivo nel testo originale)
(37) Oggi più che mai è da apprezzare la soluzione scelta da Albert Einstein, il grande scienziato ebreo tedesco, esule negli Stati Uniti, che sul modulo d’immigrazione, a fianco della domanda: «A quale razza appartiene?» scrisse: «Alla razza umana».
(Cavalli Sforza, Piazza, RP, p. 5)
Per esplicitare il significato di una parola oppure per segnalare che questa va intesa in un’accezione particolare (con riserva, come un tecnicismo ecc.) si possono usare le virgolette doppie (basse o alte) o gli apici, con l’avvertenza che la scelta fatta deve essere mantenuta coerentemente all’interno del medesimo testo. Per indicare che si fa una menzione, ossia che si fa riferimento alla forma della parola, non a ciò che essa significa, si ricorre o al corsivo o agli apici; nel secondo caso sarà inevitabile servirsi delle virgolette doppie per i significati. Nel presente volume ci serviamo del corsivo per le menzioni e delle virgolette doppie aguzze per le altre funzioni, come mostra l’esempio (38):
(38) Interpuntivo significa: «appartenente, o relativo, all’interpunzione». Questo vocabolo, benché poco frequente e considerato come «dotto», non è un tecnicismo specifico di alcun particolare «tipo di testo».
Le virgolette alte doppie segnalano citazioni all’interno di altre citazioni chiuse tra le uncinate. Se invece delle uncinate si usano le alte doppie, le virgolettature interne si fanno con gli apici. Si esemplifica qui la prima delle due opzioni:
(39) Leggiamo in Serianni (I, § 201): «Col termine di punteggiatura (o interpunzione) intendiamo “l’insieme di segni non alfabetici, funzionali alla scansione di un testo scritto e all’individuazione delle unità sintattico-semantiche in esso contenute” (Maraschio 1981, p. 188)».
Si tornerà più avanti [II, 4.3] a trattare dei valori delle virgolette impiegate sia per citare sia per segnalare che si prendono le distanze da ciò che si comunica.
4.3. Introduttori grafici del discorso diretto e dei dialoghi
A tale funzione sono dedicate, oltre alle virgolette (esempi [35], [36] e [37]), le lineette. Anche in questo caso valgono le preferenze individuali o le scelte editoriali. E vale il criterio di differenziare le citazioni dentro le citazioni.
(40) – Comincia, – mi ha sussurrato in un orecchio.
– Allora, c’era Pierino Pierone che si arrampicava sempre sugli alberi per mangiarsi la frutta. Un giorno stava là sopra quando è arrivata la strega Bistrega. E ha detto: «Pierino Pierone, dammi una pera che ho una fame tremenda». E Pierino Pierone le ha lanciato una pera.
(Ammaniti, INHP, p. 94)
(41) – Non abbia premura di arrivare in cima.
– Perché?
– Perché c’è il proverbio che dice: “La troppa fretta non è mai benedetta”.
(Voltolini, P, p. 75)
Nei dialoghi, a meno che le battute, come la prima di (40) e l’ultima di (42), siano seguite dall’enunciato «citante», si omettono le lineette di chiusura. A differenziare i turni di parola – funzione indispensabile per il senso del discorso – bastano le lineette di apertura e l’«a capo» alla fine di ogni turno.
(42) – Ma chi è?
– Una delle donne degli Ossi, che i critici cercano come i cani da tartufi.
– E l’hai amata.
– Era un’attrice teatrale genovese, lavorava con Lodovici. Gli altri andavano a letto con lei, io le mandavo poesie –. Sembrava parlasse più a se stesso che a me.
(Corti, OF, pp. 70-71)
Per le virgolette, bisogna invece osservare in ogni caso la regola del «chi apre chiuda»:
(43) “Ma cosa fa? Dov’è che sta andando?”
“Uhm...” grugnì l’autista. “Ha detto?”
“Voglio sapere perché va in questa direzione.”
“Where are you from?” fu la risposta.
(Corti, VNE, p. 120)
Quale punteggiatura associare agli indicatori grafici del discorso diretto è argomento controverso. Le scelte individuali prevalgono; a queste possono sovrapporsi le opzioni editoriali quando i testi siano sottoposti a editing accurati, o severi. Le incertezze di chi si interroga sugli usi possibili hanno, generalmente, un puntuale riscontro nelle oscillazioni che si registrano nelle pubblicazioni a stampa, e in stili sorvegliati, in scritti non sospettabili di incuria o di essere stati redatti in modo approssimativo. La norma più stabile sembra quella che riguarda l’impiego dei due punti quando l’enunciato introduttore precede il discorso diretto, e la maiuscola per la lettera iniziale della prima parola citata:
(44) Un giorno, mentre passeggio con Silvia, mi sento chiedere: «Papà, quando finiscono i giorni?» Non pensandoci troppo, rispondo: «Quali giorni, quelli di vacanza?». «No – dice lei – quelli del mondo; tutti i giorni, insomma».
(Simone, M, p. 16)
Ma anche questa prassi subisce variazioni testualmente giustificabili volta per volta (si osservi l’iniziale minuscola nella prima parola di ogni citazione, e l’omissione, voluta, dei due punti davanti all’ultima occorrenza del discorso diretto):
(45) Da tempo [...] qualcuno di questi comandi mi sfugge. Prima li controllavo in modo istintivo; ora mi è spesso necessario domandarmi: «come va il tono della voce?», «come va l’espressione della faccia?», o anche di dire a me stesso «devi essere forte dinanzi alle sciocchezze che stai ascoltando»...
(Simone, MP, p. 52; i puntini di sospensione finali
appartengono al testo originale)
Quando il discorso diretto è seguito o interrotto da didascalie, si possono trovare due o tre segni paragrafematici in successione: in (40) la virgola e la lineetta di chiusura della prima battuta; in (44) il punto fermo dopo il penultimo inserto di discorso diretto; in (45) la virgola dopo le virgolette che all’interno hanno il punto interrogativo.
Naturalmente, il punto interrogativo, il punto esclamativo e i puntini di sospensione vanno collocati prima della lineetta o delle virgolette di chiusura quando segnalano l’intonazione e il senso degli enunciati citati, come mostrano gli esempi (43), (44) e (45); vanno posti dopo gli indicatori grafici della citazione se riguardano l’intonazione e il senso dell’enunciato in cui è inserita la citazione. È questo il caso dei puntini di sospensione in (45) e del punto interrogativo in (46):
(46) Qual è il vero autore della folgorante definizione: «È un cretino con dei lampi di imbecillità»?
Agli altri segni, secondo una consuetudine invalsa da tempo (cfr. Malagoli 1912, pp. 200-201) si riconosce libertà di posizione, benché si preferisca anteporli alle lineette, come nella prima battuta di (40), dove la lineetta di chiusura è preceduta da una virgola, e in (47). La pratica opposta è attestata nella quarta battuta di (42).
I passi seguenti, da (47) a (50), illustrano una variabilità interpuntiva a cui danno coerenza non le «regolarità» esterne fissate da norme e convenzioni – le quali peraltro non appaiono disattese, volta per volta –, ma le ragioni interne alla compagine testuale. I corsivi appartengono al testo originale.
(47) Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
– Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan.
– Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, – risponde Marco, – ma dalla linea dell’arco che esse formano.
(Calvino, CI, p. 89)
(48) Pensai: «Forse Adelma è la città cui si arriva morendo e in cui ognuno ritrova le persone che ha conosciuto. È segno che sono morto anch’io». Pensai anche: «È segno che l’aldilà non è felice».
(Calvino, CI, p. 102)
(49) kublai: – Non so quando hai avuto il tempo di visitare tutti i paesi che mi descrivi. A me sembra che tu non ti sia mai mosso da questo giardino.
polo: – Ogni cosa che vedo e faccio prende senso in uno spazio della mente dove regna la stessa calma di qui, la stessa penombra, lo stesso silenzio percorso da fruscii di foglie.
(Calvino, CI, p. 109)
(50) La gente che s’incontra, se gli chiedi: – Per Pentesilea? – fanno un gesto intorno che non sai se voglia dire: «Qui», oppure: «Più in là», o: «Tutt’in giro», o ancora: «Dalla parte opposta».
(Calvino, CI, pp. 162-163)
Si sarà notato, in (48) e in (50), l’uso delle virgolette per le citazioni di parole supposte, che non si danno come realmente pronunciate. È la convenzione che si osserva per i discorsi «pensati» (in altri termini: per la citazione di pensieri in forma di discorso diretto). Le attestazioni si possono cogliere in un arco temporale esteso; di cui, ovviamente, i seguenti esempi non indicano i limiti:
(51) – Moriamo.
– Eccomi.
[...]
Ella guardava la morte e non credeva alla morte [...]
«No, non moriamo. Il cuore ti trema. Il tuo furore è vano [...]».
(D’Annunzio, FSFN, pp. 523-524)
(52) Leonardo si tolse il berretto. – Non sapevo –. [...] Gli giungevano folate di memoria: «Signore del tempo, signore dei secoli, perdono e pietà». – È compiuta l’opera, – disse.
(Biamonti, PN, p. 14)
Nel passo riprodotto in (49) l’indicazione dei personaggi ricorda lo stile dei testi teatrali. Salvo che in questi il nome del personaggio, scritto per intero o abbreviato, e per lo più in maiuscoletto, non è separato con segni paragrafematici dal testo della battuta6. Un solo, casuale, esempio:
(53) violante Domine adiutaci, che novelle?
purella Triste quanto le possono.
(Firenzuola, T, p. 33)
4.4. Usi del trattino
Chiamiamo trattino – senza aggettivi – il segno che altri designano come trattino breve, distinto dal trattino lungo che qui chiamiamo lineetta. Il primo differisce dal secondo (o dalla seconda) nel tracciato: è più corto e ha più spessore, almeno nelle stampe più precise. Si lega senza interruzione di spazio ai segmenti verbali ai quali è intercalato, mentre le lineette (o trattini lunghi) vanno sempre distanziate con uno spazio vuoto da ciò che le precede e da ciò che le segue. «Il trattino lungo ha in genere la funzione di separare, il trattino breve di unire le parole fra cui si trova» (Lepschy, Lepschy 1993, p. 92).
L’uso del trattino in cui ci si imbatte primariamente è quello devoluto, nella stampa, a indicare che una parola è stata divisa in fin di riga andando a capo; nella scrittura a mano si ricorre prevalentemente al segno =.
Oltre al compito puramente strumentale di ricostituire l’unità di una parola provvisoriamente spezzata, il trattino segnala relazioni sintattiche tra unità linguistiche:
a) equivale a una congiunzione indicante unione o alternativa, ad esempio quando è posto tra due numerali, scritti sia in cifre sia in lettere (il fascicolo del 2-3 luglio [= 2 e 3] / due-tre compresse al giorno [= due o tre]);
b) mette i componenti di una coppia in rapporto analogo a quello che si stabilirebbe ricorrendo a costrutti analitici (con da...a...; tra...e; di...e). Rispetto a questi si hanno dunque formazioni ellittiche, istituzionalizzate al punto da risultare, in molti casi, insostituibili (il tratto Torino-Milano [da Torino a Milano] / orario di apertura: lunedì-venerdì, 9-13 [da lunedì a venerdi, dalle 9 alle 13] / pagine 15-18 [da pagina 15 a pagina 18] / due-tre compresse al giorno [da due a tre]; le trattative governo-sindacati [tra governo e sindacati] / la partita Italia-Germania [tra Italia e Germania] / il colloquio X-Y [di X e Y] / la proposta di legge X-Y [di X e Y]) / i rapporti scuola-famiglia [tra scuola e famiglia / di scuola e ...]);
c) marca vari tipi di legami tra due nomi: ad esempio, il secondo di questi potrebbe essere considerato equivalente a un attributo o a un predicato, rispetto al primo («lo status di cittadino di uno Stato-nazione»7 / ascolti-record / l’incontro-scontro delle parti in causa); oppure il legame evidenziato dal trattino si presta a più interpretazioni del ruolo sintattico tra i due membri (la narrativa-saggistica di Leonardo Sciascia /“Rigidità-esplicitezza” vs “elasticità-implicitezza”8). In calchi di costruzioni dall’inglese (ad esempio, calcio-mercato, Rossi-pensiero, Tangenti-story, penicillino-resistente), si capovolge l’ordine, normale per i costrutti italiani, “determinato-determinante” («il mercato del calcio = dei calciatori», ecc.)9;
d) è segno della giustapposizione di aggettivi, il primo dei quali è sempre nella forma del maschile singolare (comunicazione tecnico-scientifica / termini giuridico-burocratici / procedimento sintattico-lessicale).
Quando si unisce un prefisso o un prefissoide a una parola (Serianni I, § 234), il trattino compare, di preferenza, nei «composti occasionali» (anti-ingrassante/ante-riforma/vetero-forense) e, in genere, nella prima fase della diffusione di un nuovo composto (maxi-schermo/eco-incentivi); sparisce nei «composti stabili» (anteguerra/anteprima/antifascista/veterotestamentario/ ecosistema). Anche per le parole che si impiegano si direbbe che valga il principio secondo il quale si diventa stabile per promozione oppure lo si è per contratto fin dal momento dell’assunzione: con la differenza che le due condizioni non sempre si possono distinguere basandosi sulle abitudini grafiche senza documentarsi sulle vicende del propagarsi e sulle prime attestazioni di una data forma. Certi composti indiscutibilmente «stabili» per anzianità e comune accettazione si trovano scritti indifferentemente con o senza trattino; così come la forma unificata si può rivelare più antica della variante con il trattino: è il caso di ecoincentivo, attestato in questa forma, secondo il Grande Dizionario Italiano dell’Uso (GRADIT), nel 1998 nel «Corriere della Sera», mentre nella grafia concorrente appare ancora in data posteriore: «per gli eco-incentivi fa testo la data di immatricolazione» («Il Sole 24 Ore», 8 agosto 2002, p. 1).
Le oscillazioni di grafia, per i fatti lessicali che stiamo esaminando, sono la regola anziché l’eccezione. Lo sono nelle formazioni relativamente recenti (ad esempio, dove un avverbio ha il ruolo di un aggettivo: la gente-bene / la gente bene) come anche nell’impiego di termini di conio antico (indo-europeo/indoeuropeo; balto-slavo/baltoslavo), per i quali le preferenze individuali sono di solito ben motivate. Lo sono, ovviamente, per gli accostamenti «d’autore» (ad esempio, titoli-esca, alla p. 323 del saggio di Dardano citato qui alla nota 9). Nelle combinazioni che abbiamo elencato riducendo le testimonianze all’essenziale, è facile trovare altri esemplari che ammettono la doppia scrittura: con o senza trattino fra i componenti, qualunque sia la loro natura grammaticale (ascolti record; incontro scontro; il tratto Torino Milano; la partita Italia Germania; la legge XY; tecnicoscientifica; maxischermo, calciomercato, ecc.)10.
La funzione abbreviatrice del trattino è morfologicamente rilevante, specialmente in testi scientifici, «quando si susseguano due parole composte che abbiano in comune il secondo elemento»; in tale circostanza si adotta una convenzione assai diffusa in altre lingue per ogni tipo di testo: «la parola iniziale per esigenze di brevità può ridursi al primo elemento, seguito dal trattino: “nel caso di epato- e nefropatie” (= di epatopatie e nefropatie)» (Serianni I, § 234).
4.5. Tipi di parentesi
Quando si usano le parentesi tonde? Si usano, in alternativa a lineette e a virgole (talora con differenze rilevabili solo in relazione ai contesti), per tutte le espressioni collocate in posizione parentetica [II, 4.2]. Tra queste, notiamo qui:
– i richiami alle fonti bibliografiche, alle pagine eccetera;
– nei testi di legge, i rinvii ad altri testi o ad articoli della medesima legge;
– le didascalie nei testi teatrali:
(54) nonò (a Paolino che rientra) Han cacciato fuori la testa, sai?
S.ra perella (tremante) M’hanno vista! M’hanno vista!
nonò Prima l’uno e poi l’altro! E mi hanno fatto così (Caccia fuori la lingua.)
(Pirandello, UBV, Atto I, scena V)
E le parentesi quadre? Queste servono:
– per le incidentali inserite in altre incidentali che siano chiuse fra parentesi tonde;
– per le integrazioni necessarie a intendere il senso di passi che si citano estrapolandoli dal loro contesto: come si vede nell’esempio (16);
– per segnalare le omissioni, di qualsiasi lunghezza, nelle citazioni. Per economia di spazio, e non volendo superare l’imbarazzo della scelta, rinvio agli esempi (4), (5), (14), (20), (25), (26), (30), (33), (45), (51), (52)11.
Non prendo in considerazione i tipi e gli usi delle parentesi nelle scienze matematiche, fisiche e naturali, e in filologia. Le norme variano dall’una all’altra disciplina e fra sistemi concorrenti all’interno di uno stesso settore: basti pensare ai diversi modelli in vigore in ciascuno degli ambiti della filologia dei testi classici, medioevali e moderni.
Fedele ai limiti e ai fini del presente lavoro, mi limito a richiamare una norma pratica di galateo redazionale: si dichiarino le proprie scelte quando si prendono decisioni differenti dalle consuetudini più comuni; in ogni caso, si renda inequivoco il valore che noi diamo alle parentesi in un determinato testo, osservando la più scrupolosa uniformità nell’applicare i criteri che abbiamo adottato anche senza esporli esplicitamente. Per finire in gioco, ricordo la spiritosa invenzione di Rodari, Il caso di una parentesi:
C’era una volta / una parentesi aperta / e uno scolaro / si scordò di chiuderla. / Per colpa di quel somaro / la poveretta buscò un raffreddore / e faceva uno starnuto al minuto. / Passato il malore / fece scrivere da un pittore / il seguente cartello: / «Chi mi apre, mi chiuda, per favore».
(Filastrocche in cielo e in terra,
in I cinque libri, Einaudi, Torino 1993, p. 13)
4.6. Barre e asterischi
Le informazioni ricavabili dall’impiego di barre verticali e oblique sono elementari; e sono utili, se l’impiego è corretto. Più raro è l’uso degli asterischi, di cui è bene essere avvertiti per interpretare nel modo giusto i valori assegnati in ambito specialistico.
Le barre (o sbarrette) di uso più comune sono quelle oblique (delle verticali si fanno usi specialistici in linguistica e in altri settori scientifici). La funzione più semplice è divisoria: ad esempio, negli elenchi, quando si allineano in orizzontale le voci anziché sistemarle in verticale (è il criterio seguito qui, in [I, 4.4]); o quando si citano versi rinunciando, per economia di spazio, ad andare a capo tra l’uno e l’altro; o in bibliografia per separare tra loro i nomi di più autori di un’opera.
Più interessante per le sue implicazioni semantiche è il valore oppositivo, negli aspetti del contrasto («il criterio di verifica vero/falso») o dell’alternativa tra soluzioni ugualmente ammissibili (indo-europeo/indoeuropeo)12.
L’asterisco ha funzioni diverse secondo i settori nei quali viene impiegato.
In contesti svariati indica l’omissione volontaria del nome di una persona o di una località, in concorrenza con i puntini «di reticenza» [II, 4.4].
Nelle trattazioni di linguistica storica si antepone a una qualsiasi unità lessicale per indicare che si tratta di una forma ricostruita o congetturata («arrivare»: dal latino parlato *adripare «portare a riva»).
Nei lavori di linguistica descrittiva segnala che il costrutto a cui viene preposto è agrammaticale (esempio, se *andaressimo / noi *s’incontriamo / *un bello libro). Si vedano anche gli esempi (29a) e (31), dove sono precedute da un asterisco le frasi che contengono una virgola in posizione inaccettabile.
Nei Salmi biblici segna le pause della voce a metà di ogni versetto.
4.7. Il punto nelle abbreviazioni
Come segno di abbreviazione13 il punto si può trovare o all’interno della parola abbreviata o alla fine. In certe abbreviazioni si fa a meno del punto.
All’interno dell’abbreviatura il punto segnala una contrazione della parola, di cui si conservano le lettere iniziali e finali (ill.mo/ill.mo «illustrissimo»; chiar.mo/ chiar.mo «chiarissimo»; f.lli/ f.lli «fratelli»; n.o «numero»).
Anche in fine di abbreviazione il punto può indicare una contrazione (ca. «circa»). Più spesso il punto chiude un’abbreviatura formata:
a) dalle prime lettere di una parola, come nei titoli professionali e onorifici (dott./prof./avv./ing./geom./ rag./cav./comm.), e in svariate espressioni convenzionali: op. cit. «opera citata» (da intendersi correttamente come l’ablativo neutro latino con significato locativo: opere citato); ecc. «eccetera»; pag./pagg. «pagina/-e»; art./artt. «articolo/-i»; cap./capp. «capitolo/-i»; vol./voll. «volume/-i»; l’abbreviatura può constare di una sola lettera (raddoppiata al plurale): l. «libro»; n. «nota»; p./pp. «pagina/-e»; v./vv. «verso/-i»;
b) da un gruppo consonantico, formato dall’unione della consonante iniziale con una o più delle successive: sg./sgg. «seguente/-i»; ms./mss. «manoscritto/-i»; prn. «pronuncia».
Le abbreviazioni «composte» (di espressioni formate da più parole) constano delle iniziali, minuscole o maiuscole, dei termini principali abbreviati: c.p.c. «codice di procedura civile»; G.U. «Gazzetta Ufficiale»; D.P.R. «Decreto del Presidente della Repubblica»; s.l.m. «sul livello del mare».
Negli acronimi o sigle il punto generalmente si omette (CAP, FAI, FAO, FIAT, ISTAT, UTET).
Si fa a meno del punto in dr e in cfr se si considerano tali abbreviature come riduzioni-contrazioni rispettivamente della parola tronca dottor e del latino confer «confronta». Se si scrive, come è pure d’abitudine, dr. e cfr. con il punto abbreviativo finale, vuol dire che si contraggono in un gruppo consonantico (qui descritto in b) i termini dottore e confronta.
Il punto che chiude un’abbreviazione si congloba con il punto come segno di chiusura di frase: «Hanno fatto provvista di libri, giornali ecc.», in base a «una regola del sistema grafico dell’italiano (e presumibilmente di tutte le lingue), che non ammette che lo stesso elemento grafico sia duplicato immediatamente» (Simone 1991, p. 225).
1 G.R. Cardona, Antropologia della scrittura, Loescher, Torino 1981, p. 102.
2 [La nostra punteggiatura è viziosa perché a un tempo fonetica e semantica, e insufficiente a entrambi i livelli.]
3 A. Castellani, Problemi di lingua, di grafia, di interpunzione nell’allestimento dell’edizione critica, in AA.VV., La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro, Salerno Editrice, Roma 1985, pp. 229-254.
4 Sono segni paragrafematici anche l’apostrofo e le varie forme dell’accento. Rimangono esclusi dalla presente trattazione in quanto appartengono al sistema ortografico.
5 Delle due frasi che il punto e virgola separa, la seconda è un bell’esempio di una variante della figura denominata dai retori antichi reversio. La variante è un tipo di chiasmo detto antimetabole, che consiste nel ripercorrere a ritroso la successione concettuale di cui consta il primo membro.
6 Qualcosa di simile si trova nella redazione di verbali dove gli interventi in un dibattito sono registrati in forma diretta, facendoli precedere dal nome di chi li ha pronunciati, separato dai due punti, o anche da un trattino, dal testo del discorso riportato.
7 Esempio tratto dal volume a cura di V. Ferrari et al., Conflitti e diritti nella società transnazionale, Franco Angeli, Milano 2001, p. 112.
8 È la prima parte del titolo di un articolo di F. Sabatini, “Rigidità-esplicitezza” vs “elasticità-implicitezza”: possibili parametri massimi per una tipologia dei testi, in G. Skytte, F. Sabatini (a cura di), Linguistica testuale comparativa, Museum Tusculanum, København 1999, pp. 141-172.
9 Per gli svariati modi di formare composti nell’italiano contemporaneo e in particolare per la «pressione esercitata dai composti allogeni» rimando alle pp. 347-349 del saggio di M. Dardano, Lessico e semantica, in A.A. Sobrero (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo, vol. I, Le strutture, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 291-370.
10 Dardano (La formazione delle parole nell’italiano di oggi, Bulzoni, Roma 1978, pp. 66-67) mostra che le due varianti, con o senza trattino, sono attestate indifferentemente per tutte le forme giustapposte.
11 Rimando, per l’uso dei segni grafici di parentesi e per la relativa nomenclatura, ai §§ 1.4.1 e 1.4.2 dello studio di Cignetti (2001).
12 Nel presente volume le barre oblique sono usate, per comodità pratica, con entrambe le funzioni, divisoria e oppositiva. Il contesto dovrebbe chiarire di volta in volta di quale si tratti.
13 Casistiche precise in Serianni I, §§ 211-213, e in Lesina 1986, pp. 145-152.
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II. Per filo e per segno
[Il titolo è uguale a quello di un bel testo scolastico di grammatica italiana, pubblicato nel 1989 per i tipi di Bompiani da Maria Corti e Claudia Caffi. La dichiarazione della fonte rende «onesto» il furto.]
1. La punteggiatura nella costruzione del testo
Per chi abbia una certa pratica della scrittura l’operazione dell’interpungere è parzialmente automatica, almeno nella sua fase iniziale. Riflessioni sull’adeguatezza dei segni impiegati, modifiche, ripensamenti sulle scelte avvengono, di solito, in momenti successivi della composizione, di pari passo con i cambiamenti che si possono apportare al progetto e alle sue graduali attuazioni.
Qualunque decisione si prenda, o si trascuri di prendere, riguardo all’opportunità di usare l’uno o l’altro segno rivela, in positivo o in negativo, qualcosa di essenziale sull’organizzazione del discorso, sull’architettura e gli snodi degli enunciati; evidenzia le eventuali incoerenze nel graduarne i componenti e nel metterli in relazione reciproca. Una strutturazione difettosa di ciò che si intende scrivere sarà manifestata da un disagio interpuntivo. In questo caso un uso insufficiente o improprio dei segni di punteggiatura sarà un sintomo di quel male oscuro che è l’incapacità di costruire un testo.
C’è poi un altro tipo di errore nell’interpungere: quello che falsa un ordine compositivo accettabile. Il testo c’è (risponde alle indispensabili condizioni di coerenza), i congegni argomentativi funzionano, i ritmi del narrare, le fasi del descrivere sembrano a posto, ma il tutto è mal servito da una punteggiatura inadeguata. Si può benissimo essere capaci di costruire un testo e conoscere poco e male le norme (ma è meglio dire «le convenzioni») interpuntive, oppure non curarsi di applicare anche quelle che si conoscono. In ogni caso viene compromesso il pacifico svolgersi del filo del discorso; che sarà anche il «filo» conduttore della nostra indagine, «segno per segno».
Prenderò le mosse da un carattere comune alle interpunzioni, qualunque sia il modo di raggrupparle (cfr. ad esempio, Tournier 1980, pp. 36-39): la prerogativa di essere «istruzioni» per la lettura (interpretativa) degli scritti in cui compaiono (Conte, Parisi 1979, p. 379). Tali istruzioni, spiragli sulle gerarchie concettuali del discorso, riguardano principalmente: la struttura e il senso degli enunciati [II, 2] in rapporto alla distribuzione dell’informazione [II, 1.2] e alla forza illocutiva [II, 3] delle enunciazioni; i legami intra- e interfrasali, le connessioni testuali e i rapporti fra piani di enunciazione diversi [II, 4].
I principali argomenti che sembra ragionevole accampare quando si discorre di punteggiatura dipendono da nozioni stabilmente acquisite negli studi linguistici. Ne elenco alcune, elementari e facilmente accessibili:
(i) La costruzione del testo non segue le stesse procedure nel parlato e nello scritto. Le unità del parlato – per limitarci al settore che ci interessa qui – sono governate dall’intonazione e intervallate da pause che hanno motivazioni e valori eterogenei. La corrispondenza tra queste pause e le demarcazioni stabilite dalla punteggiatura nello scritto è solo parziale, e in molti casi fortuita. Cosa ovvia, ma oscurata nell’intuizione dei più dal persistere di un’idea «ingenua» della pausazione. Esperimenti compiuti da psicologi e da insegnanti14 mostrano che segnare le pause e le differenze di intonazione è il compito primario attribuito alla punteggiatura da chi (bambino o adulto) sta imparando a interpungere ciò che scrive. Un simile compito è destinato a scontrarsi con una funzione importante dei segni interpuntivi: la funzione demarcativa [II, 2], la più importante per la maggior parte dei tipi di scrittura. Le «pause che si fanno nel parlare» non trovano riscontri adeguati nelle convenzioni scritturali. Lo dimostrano le esperienze di chiunque si prefigga di dare trascrizioni il più possibile fedeli del parlato. A tale scopo i segni di punteggiatura in uso per lo scritto non bastano: bisogna introdurne altri, che sembrino più adatti a rappresentare, sia pure ancora approssimativamente, la scansione del discorso orale.
La «confusione tra punteggiatura scritta e punteggiatura orale» ha preoccupato gli studiosi della materia più avveduti. L’autore di un fortunato trattato sull’interpunzione francese (Drillon 1991) riporta tale confusione a un errore antico: l’associare ai principali segni di interpunzione la nozione di pausa. La funzione e la terminologia della punteggiatura hanno avuto origine diretta dalla pratica vocale, e la voce segna realmente delle «pause». La sopravvivenza di questo termine, sostiene Drillon (1991, p. 100), ha fatto sì che si continui «a parlare di ponctuation respiratoire, di segni pausativi [signes pausaux], sconsideratamente. A quanto ne sappiamo, l’occhio non respira mica». Torneremo sull’argomento poco più avanti [II, 2].
(ii) Il sistema interpuntivo dello scritto è un «rivelatore di struttura»:
aggiunge al testo scritto delle «istruzioni» che, una volta interpretate, mostrano che gli enunciati sono strutturati (muniti cioè di diversi strati gerarchicamente ordinati) – ciò che contrasta fortemente con l’apparenza lineare con la quale essi si presentano a prima vista. Il sistema interpuntivo [...] non serve affatto a scandire e segmentare una linea, ma rappresenta l’affiorare superficiale residuo dello schiacciamento che le strutture dell’enunciato subiscono nella linearizzazione.
(Simone 1991, p. 221)
In quanto serve a distinguere i piani dell’enunciazione dentro la linearità degli enunciati la punteggiatura ha la prerogativa pratica di dare al lettore indicazioni riguardo all’architettura del testo, mettendone in evidenza gli elementi costruttivi e le giunture.
(iii) Le norme che disciplinano la punteggiatura sono sensibili alle distinzioni di generi testuali e di tipi compositivi [I, 1]. Abbiamo già osservato che le convenzioni interpuntive sono tanto più rigide quanto maggiore è la formalità nel modo di comporre richiesto dai testi vincolati a modelli ufficiali, o anche solo dalle sezioni di questi nelle quali è d’obbligo l’uso di formule (penso ai dispositivi di sentenze, ad esempio, o alle parti formulari di scritti scientifici). Negli scritti svincolati da rigorose normative di genere le iniziative stilistiche individuali hanno uno spazio di manovra ampio e variegato: la varietà delle motivazioni rende le scelte interpuntorie largamente imprevedibili.
(iv) L’interpunzione «logica» – per così dire, «canonica» – dà indicazioni sulla struttura frasale e sulle connessioni tra le frasi sulla base delle regolarità sintattiche. Per questo modo di interpungere si possono individuare valori, costanti d’uso e norme, sia pure con una certa elasticità. Si può stabilire così l’assetto «normale» del sistema interpuntivo: operazione utile didatticamente, necessaria per valutare il senso e la portata delle infrazioni, siano queste involontarie o volute. Ogni forzatura consapevole degli usi interpuntivi standard rappresenta un ridimensionamento dell’architettura testuale normale (ove la normalità si oppone alla marcatezza).
Gli esiti originali, come abbiamo già osservato, sono imprevedibili per definizione. Tuttavia possiamo spiegarci perché certe infrazioni sono accettabili, anche se stranianti, paradossali, scomode per il lettore, e certe altre non trovano giustificazione alcuna. Il metro con cui giudicare è la congruenza delle scelte interpuntive con il progetto testuale: la loro capacità di corrispondere alle articolazioni del testo, di renderne evidenti l’architettura e le ragioni delle irregolarità. La valutazione della punteggiatura andrà dunque di pari passo con il giudizio sulla solidità costruttiva del testo e sulla tenuta delle sue commessure.
1.1. Il progetto testuale
In che cosa questo consista si può desumere da un’operazione consueta non solo ai filologi quando apprestano edizioni non diplomatiche di testi, ma a chiunque si trovi a mettere la punteggiatura in scritti altrui che ne siano privi, o a modificarla quando sia o sembri difettosa. Che cosa si fa in tali circostanze? Oltre al senso degli enunciati (una cosa è scrivere: «Mario, è arrivato Paolo», un’altra è: «Mario è arrivato, Paolo»; e similmente, come si trova in Scherma 1983, p. 403: «I rapinatori fuggirono sparando. La polizia li inseguì» rispetto a: «I rapinatori fuggirono. Sparando, la polizia li inseguì»), si cerca di ricostruire l’ordine che l’autore dello scritto intendeva dare alle sue idee nel momento in cui le esprimeva: la graduatoria dei pensieri messi in forma in segmenti verbali che appaiono non chiaramente delimitati; il prima e il dopo, i rapporti di causa e di effetto non esplicitati con mezzi grammaticali, e così via. Attraverso le relazioni sintattiche, semantiche e pragmatiche riconoscibili entro e fra gli enunciati si delinea una sorta di mappa mentale che lascia congetturare i modi e i momenti della pianificazione del testo e i suoi principi organizzativi. Un progetto difettoso non sopporta, generalmente, che una punteggiatura elementare; e talvolta questa non riesce ad altro che a sottolineare le lacune sintattiche o la mancanza di connessioni.
Il riconoscimento del carattere e della responsabilità «testuali» propri dell’interpungere ha avuto importanti implicazioni: penso, ad esempio, all’interesse degli psicolinguisti per l’acquisizione e la pratica della punteggiatura. Interesse tardivo, che non si è manifestato finché la psicolinguistica è stata influenzata da modelli linguistici «frasali» (così denominati perché considerano la frase – semplice e complessa – come unità massima di costruzione sintattica). Il punto di vista cognitivo è importante per precisare il ruolo dell’interpungere sul piano della testualità: la distribuzione dei segni è infatti studiata (cito liberamente da Passerault 1991) come indizio dell’attività del soggetto quando pianifica e dispone linearmente la rappresentazione «prediscorsiva» a cui vuole dare forma (che vuole mettre en texte), e ordina il suo testo e ne rende visibili le articolazioni in modo da facilitare il lavoro del lettore. La punteggiatura, dunque, è «traccia dei processi di pianificazione» e guida per la lettura; è parte integrante della compagine del discorso.
I segni di interpunzione sono spie della padronanza della testualità da parte di chi li usa. Incapacità o incertezze nel disporre e nell’esporre gli argomenti, nel connetterli e nel renderne esplicite con mezzi adeguati le unioni e le separazioni hanno un preciso riscontro nell’insufficienza o nelle improprietà dell’interpungere. Elementari verifiche su testi che rivelano una scarsissima pratica dello scrivere mostrano che lo «smarrimento interpuntivo» da cui è caratterizzata la cosiddetta scrittura popolare15 non dipende solo da ignoranza delle convenzioni: dipende anche dalla mancata o difettosa strutturazione del testo. Chi decide di pubblicare scritti composti da persone che hanno avuto un grado basso di alfabetizzazione si trova spesso in difficoltà quando cerca di rendere più leggibili i testi mettendo la punteggiatura ove manca o correggendola o modernizzandola (operazioni analoghe si fanno sulle opere letterarie di secoli passati). È arduo applicare a discorsi mal costruiti segni di demarcazione buoni per una sintassi corretta; specialmente quando le tracce dell’oralità sono evidenti proprio sul piano testuale.
1.2. Categorie semantico-pragmatiche basilari
Nella fase anteriore a quella in cui il discorso appare fissato in una struttura grammaticale definita, la cosiddetta pianificazione risponde a criteri pragmatici. Nella messa in forma del testo sono ancora questi i criteri che determinano, in larga misura, l’ordine delle parole e delle frasi fino a prevalere, talvolta, sull’osservanza stessa delle regolarità sintattiche. Quest’ultima evenienza si può verificare in tipi disparati di scrittura: nelle composizioni di chi ha scarsa dimestichezza con lo scrivere, nella provvisorietà della comunicazione informale anche di chi «è del mestiere» e nella consapevole finzione letteraria. Basti ricordare, per ora, il fenomeno noto tradizionalmente come anacoluto, meglio definito come «tema sospeso».
I criteri pragmatici basilari che regolano la distribuzione dell’informazione negli enunciati si possono sintetizzare, semplificandoli, così: ci deve essere un tema o argomento rispetto al quale «si dice» qualcosa. Nel far questo si va dal noto (o dato) al nuovo (si va da ciò che si assume come «dato» da condizioni esterne al testo, o da elementi già contenuti nel testo, alle informazioni che si presentano come nuove). Le categorie semantico-pragmatiche in base alle quali si analizzano gli enunciati sono state definite negli ambiti della linguistica funzionale e di qui si sono diffuse in diversi settori delle scienze del linguaggio. Nella terminologia della Scuola di Praga ciò di cui si parla è il tema; ciò che si dice del tema è il rema (o rhema). Le etichette inglesi corrispondenti sono rispettivamente: topic «argomento» e comment «commento». La parte tematica dell’enunciato coincide di solito, ma non necessariamente, con il dato; la parte rematica con il nuovo; quest’ultimo, nella disposizione non marcata delle parole, in italiano, tende a occupare la fine degli enunciati o di loro segmenti. Alla parte tematica appartengono anche le informazioni dette di setting: ad esempio, le determinazioni di tempo e di luogo. Nella progressione del discorso la parte rematica può diventare il tema «dato» in un enunciato che segua o immediatamente o a distanza. Nelle interconnessioni testuali l’articolazione semantica e pragmatica degli enunciati, specialmente in quelli di struttura sintattica complessa, ha reso problematica l’applicazione degli schemi binari a cui qui si è accennato, tanto da indurre ad analisi più fini, in grado di illustrare l’insieme dei fenomeni che sono stati teorizzati nell’ambito del funzionalismo praghese come «dinamismo comunicativo».
Purché comunichi un significato, ogni elemento linguistico [...] contribuisce allo sviluppo, vale a dire alla dinamica, della comunicazione; è portatore di un grado di dinamismo comunicativo. Per grado di dinamismo comunicativo intendo la misura relativa in cui un elemento contribuisce allo sviluppo ulteriore della comunicazione16.
In italiano, negli enunciati costituiti da una sola proposizione l’ordine normale delle parole è “soggetto-verbo-oggetto (diretto o indiretto)”. In questa struttura frasale canonica il soggetto grammaticale tende a funzionare come tema (topic), mentre la parte di enunciato successiva al soggetto si configura come rema (comment). Allo stesso modo si comportano quegli elementi che possono occupare la posizione tipica del soggetto, cioè a sinistra del verbo (ad esempio «Ieri e oggi è stato bel tempo»), oppure funzionare come il cosiddetto «soggetto logico o psicologico»; ad esempio, nella frase: «A Mario piace la musica classica» l’espressione a Mario è il «soggetto psicologico» (che non coincide con il soggetto grammaticale: la musica classica).
Tra i fattori sintattici che influiscono sull’ordine delle parole e delle frasi, la lunghezza o peso dei costituenti (a cui si è già accennato in [I, 4.1.1] a proposito dell’esempio [6], a cui rinvio) induce a spostare verso la fine degli enunciati i costituenti più «pesanti».
Riferita all’ordine delle parole, la qualifica di normale è equivalente a non marcato. La marcatezza può riguardare l’intonazione, la sintassi, le dimensioni testuale e pragmatica degli enunciati. È non marcata, cioè neutrale, foneticamente, sintatticamente, eccetera, la disposizione delle parole che si riveli appropriata al maggior numero di contesti possibile. Ad esempio, una frase come «Un buon uso della punteggiatura contribuisce alla chiarezza dello scritto», se è pronunciata con intonazione normale (cioè se non è foneticamente marcata) può essere risposta adeguata a più domande: «Di che si tratta?»; «Che fa un buon uso della punteggiatura?»; «A che cosa contribuisce un buon uso ecc.?»; «Alla chiarezza di che cosa contribuisce ecc.?». Se si facesse convergere il «fuoco» dell’informazione su uno dei componenti della frase o per mezzo dell’intonazione (per esempio, ponendo il picco intonazionale su punteggiatúra), o con mezzi sintattici («È un buon uso della punteggiatura che...»), l’enunciato risponderebbe a una sola delle possibili domande: «Che cos’è che contribuisce alla chiarezza dello scritto?».
Lo scritto non ha una punteggiatura specifica per segnalare la marcatezza fonetica. Le esigenze della focalizzazione contrastiva (esemplificata da una parafrasi quale «È un buon uso della punteggiatura, e non altro...») spiegano, anche se in contesti formali non sempre giustificano, un uso della virgola anomalo rispetto ai principi della punteggiatura canonica [I, 4.1.4; II, 2.3.2]17.
2. Pause e demarcazioni
Dopo quanto abbiamo appurato, al punto (i) di [II, 1], possiamo ancora dire che la punteggiatura dello scritto segna delle pause di varia durata, come l’intuizione comune e la tradizione normativa suggeriscono? Lo possiamo certamente, a patto di tenere ben distinte le funzioni interpuntive nello scritto dalle possibili esecuzioni orali del medesimo testo: l’istituzione di pause corrispondenti a segmentazioni funzionali degli enunciati o a scansioni ritmiche codificate nella scrittura, dalle pause (significative e volontarie o fortuite e involontarie) che la lettura o la recitazione comportano. Si tratta di togliere, per così dire, fisicità alla pausa, quando la riferiamo alla scrittura.
«L’oeil ne respire pas» scriveva Drillon (1991, p. 100). Aveva ragione quando si riferiva alla necessità di distinguere la scrittura dall’oralità, le istruzioni riguardanti l’organizzazione del discorso dai supporti pratici utili alle sue possibili e molteplici realizzazioni vocali (mi riferisco ai segni convenzionali, individuali o di scuola, con cui attori o lettori di discorsi in pubblico punteggiano talvolta i testi da imparare a memoria o da leggere). Avrebbe meno ragione chi, su tale base, spogliasse la «punteggiatura per l’occhio» della sua facoltà di scandire le movenze testuali – la focalizzazione ne è la forma più evidente – e di rendere percettibili le sfumature tonali.
Le interpunzioni sono «pause» ideali, come ideale è la loro durata, perché valgono anche se nella lettura non si facciano soste corrispondenti alle segmentazioni. Il valore demarcativo, cioè la capacità di indicare un confine linguistico, sussiste indipendentemente dall’effettiva esecuzione di una pausa: di una sospensione, qualunque ne sia l’entità, nel flusso della lettura a voce o delle cadenze ritmiche impresse in una lettura silenziosa.
Spostare i confini tra parti di frasi vuol dire cambiare, con la struttura, anche il senso. Chi non ricorda il proverbiale punto per cui «Martin perse la cappa»? Martino che, dovendo scrivere una bella epigrafe sulla porta del suo convento (porta patens esto. nulli claudatur honesto) spostò inavvertitamente il punto e lo mise dopo nulli. Così, invece di avvertire che la porta doveva restare aperta e non chiudersi davanti a nessuna persona onesta, si veniva a dire che la porta non sarebbe stata aperta a nessuno, e anzi sarebbe stata chiusa per chi era onesto. E il povero Martino vide troncata la sua carriera conventuale.
Per pignoleria bisognerebbe notare la scarsa verosimiglianza della leggenda: nello stile epigrafico infatti alla punteggiatura supplivano (suppliscono tuttora) l’allineamento e gli a capo.
Il latino medioevale abbonda di campioni di enunciati resi ambigui dalla mancanza di interpunzione, e quindi dalla possibilità di collocarla arbitrariamente. Sono campioni del procedimento che i retori descrivono come anfibolia o anfibologia. Antecedenti illustri, i responsi degli oracoli (Ibis redibis non morieris in bello) che permettevano almeno due letture opposte, a conferma della sacrale oscurità oracolare e a tutela del buon nome di chi la amministrava. Nella Rhetorica novissima di Boncompagno da Signa (1194-1243) sono citate tre anfibologie dovute a spostamenti interpuntivi. La prima è legata alla narrazione di come papa Innocenzo III intervenne in una causa intentata dal re di Ungheria contro l’arcivescovo che aveva mandato agli uccisori della regina il seguente messaggio:
Reginam occidere bonum est timere nolite et si omnes consenserint ego non contradico
La lettura più facile era quella che faceva una pausa dopo est [«Uccidere la regina è cosa buona»], si fermava dopo nolite [«non temete»], e faceva iniziare l’ultimo segmento con et [«e se tutti saranno d’accordo io non mi oppongo»]. Ma il papa, che favoriva il partito dell’arcivescovo, – narra Boncompagno – stabilì la pausazione in questo modo: un segno di punteggiatura dopo timere e un altro dopo nolite; dopo et si omnes consenserint inseriva una breve pausa («faciebat punctum suspensivum»: ciò che noi indichiamo con una virgola), e dopo ego non [«Io no»] metteva un punto fermo, rendendo contradico una proposizione chiusa a sua volta da un punto finale. Il messaggio si leggeva dunque così (nel trascriverlo uso i moderni segni di interpunzione):
Reginam occidere bonum est timere; nolite. Et si omnes consenserint, ego non. Contradico.
[«Di uccidere la regina è bene aver timore; non fatelo. Anche se saranno tutti d’accordo, io no. Mi oppongo.»]
Così, conclude severamente Boncompagno, il papa liberò l’arcivescovo dall’accusa, agendo non come giudice ma come amico18.
Il terzo esempio di ambiguità si riferiva all’astuzia di certi esegeti «superstitiosi» che, preoccupati di alleggerire Giacobbe dalla colpa della menzogna, sostenevano:
Iacob fecit punctum planum quando, persuadente Rebecca, respondit patri suo et dixit: «Ego sum. Esau primogenitus tuus». Et subintelligitur ‘est’.
[Giacobbe mise un punto fermo quando, mentre Rebecca cercava di persuaderlo, rispose a suo padre e disse: «Sono io. Esaù (è) il tuo primogenito». E si sottintende ‘est’].
Con la seconda anfibologia Boncompagno sfidava l’acume interpretativo dei suoi lettori-giuristi. Noi la proponiamo qui come rompicapo anche ai non giuristi:
Paulus tenetur solvere decem et Gaius numquam promisit Alphanus pro eo solvere non tenetur ex tali pacto
In questo discorso – sosteneva il retore – variando e spostando le interpunzioni si può dare luogo a quattro diverse letture.
2.1. Punto
Al latino punctum (punctus), da cui l’italiano punto, fa capo la famiglia dei vocaboli relativi all’operazione e al risultato del «mettere a dimora» i segni paragrafematici di cui ci stiamo occupando: interpungere, interpunzione (da cui interpuntivo, interpuntorio), l’arcaico puntare, e poi punteggiare, punteggiatura: la voce adombrata nell’elemento radicale acquista il valore di iperonimo per tutti gli altri segni impiegabili nella funzione indicata.
Frequente nelle epigrafi latine come espediente per separare le parole, questo antichissimo e basilare fra i segni interpuntivi ostenta una flessibilità negli usi – nelle sue possibilità di impiego – che contrasta con l’apparenza semplice del suo valore fondamentale: la chiusura. Dove il punto rappresenta il limite fra parola e silenzio.
Di «legame fra silenzio e parola» ha parlato Wassily Kandinsky a proposito del punto geometrico: «entità immateriale» che
ha trovato la sua forma materiale [...] nella scrittura – esso appartiene al linguaggio e significa silenzio. Nello scorrere del discorso, il punto è il simbolo dell’interruzione, del non essere (elemento negativo), e, nello stesso tempo, è un ponte da un essere a un altro essere (elemento positivo). Questo è il suo significato interno nella scrittura. Visto dall’esterno, si tratta qui solo di un segno usato funzionalmente, che porta in sé l’elemento del «pratico-funzionale», che noi conosciamo fin da bambini. Il segno esterno diventa un’abitudine [...]. L’interno viene murato dall’esterno.
(W. Kandinsky, Punto, linea, superficie.
Contributo all’analisi degli elementi pittorici,
trad. it. Adelphi, Milano 200122, pp. 17-18)
Il «significato interno» del punto, nella definizione che ne dà Kandinsky, è metafora della condizione costitutiva di questo segno: che chiude e connette, cade sotto la giurisdizione della grammatica della frase negli usi soggetti alla convenzionale regolarità sintattica, e non si lascia interpretare se non nell’ambito della «testualità» negli impieghi, sempre più frequenti e diffusi, che presuppongono il richiamo all’implicito del discorso.
Secondo i criteri della normalità sintattica il punto sancisce la conclusione di una frase, di un periodo, di un intero testo. Prerogativa sintetizzata nei rituali: «punto e basta», «fare punto» (per «fermarsi»): «Farò qui punto, poich’è pieno il foglio», come scriveva un autore del Seicento19.
In prospettiva testuale il punto si configura come elemento di divisione e, nello stesso tempo, di (forte) connessione quando interrompe una sequenza segnando una pausa significativa. Questa, nel parlato o nella lettura a voce, è una marcatura indispensabile per caratterizzare la struttura informativa dell’enunciato. Nello scritto, oltre che il punto fermo possiamo trovare in tale posizione un punto e virgola o una virgola o i due punti, sempre che il senso degli enunciati tolleri tutte queste alternative. Varia, caso per caso, l’intensità della connessione, tanto più marcata quanto maggiore è la forza – convenzionalmente stabilita – della pausa (la forza del punto come segno di chiusura supera quella del punto e virgola). Varia la natura stessa del legame sintattico-semantico, se l’interruzione è segnata dai due punti o, con diverso carico funzionale, dalla virgola. Si vedano le alternative:
(1) Se ne è accorto. Troppo tardi. / Se ne è accorto; troppo tardi. / Se ne è accorto, troppo tardi. / Se ne è accorto: troppo tardi.
La proposta vincente, per quanto riguarda la diffusione – penso prima di tutto alla pratica giornalistica – è la prima delle quattro. Rientra nella tendenza, che ha radici antiche e attualmente dilaga, a sovraestendere fino all’esasperazione l’uso del punto. La seconda proposta è probabilmente la meno fortunata, a conferma di un certo disamore, non si sa se momentaneo o duraturo, per il punto e virgola [II, 2.2]. La variante successiva reca una virgola provvista di debole valore avversativo: sembra sottintendere un ma. L’interruzione istituita dai due punti ingloba sia il valore avversativo sotteso all’uso della virgola nella variante precedente, sia una serie di inferenze a cui si induce il lettore, talora in modo provocatorio e forse anche con un sospetto di scarsa appropriatezza, come nell’esempio qui proposto.
Questa non è che una (debole) prova del valore «testuale» del punto in relazione ai costrutti che esso separa e al tempo stesso connette. Parliamo di valore testuale quando chiamiamo in causa l’implicito, ossia quando la funzione di un’entità linguistica (una parola, un enunciato o un suo segmento di qualsiasi dimensione, o una sequenza di enunciati) comporta legami di tipo semantico o pragmatico con qualcosa che non è stato esplicitato ma si può inferire da quanto è stato o sarà detto (un semplice esempio è dato dall’uso di allora, non come avverbio di tempo ma come segnale discorsivo all’inizio di un discorso: «Allora, che si fa?»). In generale, parliamo di valore testuale quando stabiliamo connessioni la cui portata eccede l’ambito delle relazioni sintattiche perché investe la sfera dei legami (relativi al senso e al valore informativo, al mantenimento della continuità tematica, alla focalizzazione, e così via) che assicurano il sussistere del «testo» come unità coerente.
Il punto che frammenta le frasi scindendone i legami interni ha certamente una portata testuale. Proviamo a esaminare qualche effetto della triturazione sintattica di cui abbiamo già avuto una prova nella prima parte dell’esempio (1); e confrontiamo l’esempio (2), uno slogan televisivo di parecchi anni or sono, con la sua «regolarizzazione» in (2a):
(2) Il mondo finì in una discarica. Abusiva.
(2a) Il mondo finì in una discarica abusiva.
In (2) con il punto che precede l’aggettivo e lo isola si crea un enunciato olofrastico e si istituisce nell’intera sequenza una doppia focalizzazione. Dei due fuochi («in una discarica» e «abusiva») il più marcato è il secondo, per effetto dell’isolamento e del lavoro inferenziale a cui questo invita il lettore (e questa discarica, per di più, era...): un lavoro, per sua natura, testualmente coesivo e retoricamente connotato. Nella riscrittura di (2a) che regolarizza la struttura frasale e dimezza la focalizzazione si riduce anche la carica comunicativa.
Dovrebbe essere superfluo aggiungere che la frammentazione del discorso qui illustrata sarebbe fuori posto in una scrittura puramente, e per necessità, referenziale; nel caso, poniamo, di una comunicazione «ufficiale» del tipo: «I materiali suddetti finirono in una discarica abusiva». Il che ci riporta a quanto già detto sulla dipendenza delle scelte linguistiche, e perciò anche dell’interpunzione, dai tipi di testo e dai relativi registri stilistici.
Non tutti i costituenti di frase (o anche di sintagmi), e in non tutte le posizioni, possono essere preceduti da una pausa sensibile e dotati di un picco intonativo indipendente. Ma questo è tema che travalica i limiti del presente lavoro. Rimaniamo invece in argomento se diamo esempi di come il costume – o vezzo – interpuntorio di cui ci stiamo occupando può sortire effetti opposti: di evidenza narrativo-descrittiva (come negli esempi [3] e [4]), e di ostacolo alla comprensione (come in [5]). Spinta all’eccesso, la frantumazione sintattica obbliga il lettore a un continuo defatigante lavoro di ristrutturazione20 delle frasi spezzettate.
(3) Ma lunedì sera aveva dimenticato completamente il suo mestiere. Dimenticato. Completamente.
(B. Placido, «la Repubblica»,
7-8 febbraio 1988, p. 27)
(4) Di quell’articolo mi era piaciuto tutto. Ma una cosa mi aveva disturbato. Anzi, una parola. La parola «bottegaio». Usata talvolta come sostantivo, talvolta come aggettivo. Sempre comunque per qualificare in senso negativo quello spirito «bottegaio conservatore» che si contrappone alla altezza aristocratica del pensiero di Tocqueville.
(B. Placido, «la Repubblica»,
16 aprile 1995, p. 25)
In (3) la frammentazione gioca su due espedienti retorici congiunti: la ripetizione parallelistica e l’ellissi. Senza l’ellissi non avremmo che l’enfasi di una ripetizione (Lo aveva dimenticato completamente) tutto sommato ingombrante. Senza la spezzatura dei due elementi funzionalmente congiunti (dimenticato completamente) avremmo un’informazione dimezzata rispetto a quella della doppia focalizzazione ottenuta col raddoppiamento dell’effetto ellittico. E poiché l’implicito è un coesivo testuale molto forte, il risultato della triturazione enunciativa è, in questo caso, un incremento di compattezza.
Il brano (4) dà buone prove della cosiddetta invadenza del punto in posizioni che potrebbero essere occupate da altri segni in costruzioni non marcate, o meno marcate, rispetto alla punteggiatura, e di cui la riscrittura offerta in (4a) costituisce un discutibile saggio:
(4a) Di quell’articolo mi era piaciuto tutto. Ma una cosa mi aveva disturbato; anzi, una parola: la parola «bottegaio», usata talvolta come sostantivo, talvolta come aggettivo; sempre, comunque, per qualificare in senso negativo quello spirito «bottegaio conservatore» che ecc.
Una punteggiatura come questa di (4a) è attenta a rispettare i rapporti stabiliti tra i segni secondo la scala tradizionale «dal più debole al più forte» (virgola, punto e virgola, punto fermo) e a regolare le scelte tenendo conto dell’ampiezza dei segmenti e della presenza di altri segni concorrenti nello stesso enunciato. Si giustificherebbe così la preferenza data al primo punto e virgola sulla possibile virgola [I, 4.1.5; II, 2.2]. In quanto al secondo punto e virgola, per sostituirlo col segno più debole bisognerebbe eliminare le due virgole che «aprono e chiudono» [II, 2.3] il segmento costituito da comunque, per evitare una serialità impropria. La riscrittura non ha certo lasciato indenne l’organizzazione testuale. Ne ha fatto le spese, irrimediabilmente, il rilievo che nell’originale acquistano le singole informazioni, dovuto sul piano stilistico al procedere a tappe, con l’evidenza che la pausa forte dà alla correctio (Anzi, una parola) e l’isolamento sintattico dà alla ripetizione (La parola...).
La segmentazione, se atomistica e insistita fino all’eccesso, si risolve in una decostruzione delle frasi. Il troppo mettere a fuoco finisce per annullare l’effetto dell’evidenza; il procedere a singhiozzo ha il risultato di ostacolare la lettura e talvolta perfino di oscurare il senso degli enunciati. Francesco Sabatini ha analizzato una serie di articoli (a firma prestigiosa) apparsi sul «Sole 24 Ore» tra il 2000 e il 2001 (Sabatini, in stampa) per mostrare come lo smembramento delle frasi e la giustapposizione delle unità separate dal punto fermo mascheri i rapporti di subordinazione intra- e interfrasali. Una punteggiatura meno ardita faciliterebbe il riconoscimento dei legami logico-sintattici tra i membri del discorso e renderebbe più agevole la comprensione dell’insieme. Scelgo due soli stralci, facendo seguire il primo (esempio [5]) dalla riscrittura «con ipotassi messa in chiaro» proposta da Sabatini (esempio [5a]):
(5) Il centrodestra delinea [...] un modello efficace, che non attinge alla partecipazione politica (peraltro cronicamente in declino). Se non attraverso specifiche mobilitazioni «spettacolari». Ma punta sul rapporto diretto fra leader e società. Saltando le mediazioni degli apparati. E sul contributo dei volontari. Usa, invece, i media, i sondaggi. Affidandosi agli specialisti della comunicazione.
(I. Diamanti, Fondazioni, idea debole della politica,
«Il Sole 24 Ore», 30 luglio 2000)
(5a) Il centrodestra delinea [...] un modello efficace, che non attinge alla partecipazione politica (peraltro cronicamente in declino) se non attraverso specifiche mobilitazioni «spettacolari», ma punta sul rapporto diretto fra leader e società, saltando le mediazioni degli apparati, e sul contributo dei volontari; usa, invece, i media, i sondaggi, affidandosi agli specialisti della comunicazione.
(6) Venezia dopo Genova. Città di mare. Con una storia lunga. E importante. Di autonomia. Potere. Oggi divise. Non solo perché alla testa di due diversi mari. Ma perché diverso è il loro destino.
(I. Diamanti, Conflitto e democrazia debole,
«Il Sole 24 Ore», 12 agosto 2001)21
Gli esempi qui riportati – da (1) a (6) – confermano l’ipotesi di Ferrari (1997-1998, pp. 54-55): il «valore intrinseco» del punto «consiste nel richiedere di totalizzare i risultati dell’operazione interpretativa eseguita sino a quel momento». Il punto che frantuma gli enunciati riducendoli in frammenti troppo minuti costringe chi legge a «concludere e ricominciare il conto interpretativo dopo ogni minima informazione». Non è detto che questo sia sempre un lavoro vantaggioso; e che i costi siano compensati dai profitti.
Al successivo saggio di Ferrari (in stampa, Parte seconda, capitolo I) conviene ora rifarsi per la trattazione del punto fermo entro una cornice teorica originale. La studiosa mostra che quando il punto è collocato «all’interno di un’unità sintattico-semanticamente coesa, [...] crea un confine di Unità Comunicativa che non è direttamente proiettato dal contenuto semantico del testo. Tramite il punto, si produce così una tensione tra sintassi e testualità che attiva a sua volta particolari effetti di senso, non rinvenibili quando il punto conferma una frattura testuale già imposta dalla sintassi».
2.2. Punto e virgola
Sulla sfortuna del punto e virgola nell’uso corrente non occorre insistere qui. Marginale o trascurato non solo nella comunicazione pratica informale, ma anche in scritti che richiedono una certa elaborazione e compostezza compositiva (mi riferisco a tesi e a tesine, a relazioni di lavoro, ad ampie zone delle scritture aziendali, burocratiche, giuridiche), questo segno è ignorato o evitato quasi del tutto nella scrittura online. Nella rubrica Il mestiere di scrivere22 la curatrice Luisa Carrada ne tratta in questi termini: «Mai, mai amato, neanche quando scrivevo i temi a scuola e introdurre un po’ di varietà era d’obbligo. Ora non lo uso quasi più, neanche quando scrivo testi lunghi, destinati ad essere stampati. Preferisco sempre il punto. Ma forse la colpa è mia: non sono mai riuscita a darmi una regola decente per usare il punto e virgola». Il punto è di gran lunga il preferito, almeno da chi si pone problemi di punteggiatura; altrimenti si tende a usare la virgola anche quando ci sarebbero buone ragioni per ricorrere al punto e virgola [I, 4.1.6].
A volte entra in gioco una sorta di estremismo interpuntorio: si vede nel punto e virgola sempre e soltanto una «pausa intermedia» tra i segni che, graficamente, lo compongono e si pensa, eliminandolo, di azzerare le mezze misure. Più spesso si tratta di incuria dovuta alla sottovalutazione o addirittura all’ignoranza del suo valore demarcativo. È sulla base di tale valore e non sulla (presunta) durata di una pausa che si definisce la natura di questa interpunzione.
Il ruolo demarcativo del punto e virgola si determina in base al confronto con i due segni concorrenti. Ci si domanda: quando il punto e virgola è intercambiabile con il punto? e quando lo è con la virgola? Per rispondere basterà qualche elementare esercizio di sostituzione:
(7) Un canto sacro autenticamente popolare forse è appartenuto soltanto alla chiesa primitiva; in seguito, almeno dopo la raccolta dei canti nell’Antiphonarium voluto da Gregorio Magno, il canto del culto fu sottratto al popolo e affidato ai soli chierici.
(Beccaria, S, p. 42)
Si può certamente sostituire con un punto il punto e virgola che divide le due frasi (la principale, che qui occupa la prima posizione, e la sua coordinata). Non si può mettere il punto e virgola al posto né dell’una né dell’altra virgola presenti nella proposizione coordinata. Le due virgole delimitano un segmento di testo che ha i caratteri di un’incidentale (torneremo sull’argomento trattando della «virgola che apre e chiude» [II, 2.3], già vista in [I, 4.1.1], a proposito degli esempi [7] e [9], e nel penultimo capoverso di [I, 4.1.4], ove si richiama l’esempio [19] dello stesso capitolo I). Dunque, tra le funzioni demarcative del punto e virgola non c’è quella – che la virgola ha in comune con le parentesi tonde e le lineette – di racchiudere segmenti di testo con valore appositivo o incidentale. Questa funzione manca anche al punto.
Ma ancora ai primi del Novecento non era così:
L’impiego di una coppia di punti e virgole in luogo d’una coppia di parentesi o di linee è raro, ma non isolato. L’adopera qualche volta il Pascoli, l’adopera il Novati: «a Dante […] pervenne un giorno; correvano gli anni estremi della sua vita; un poetico carme» (Freschi e minii del Dugento, Milano 1908, p. 3).
(Migliorini 19785, p. 701)
Il punto e virgola può avere, come la virgola, carattere seriale:
(8) Inteso come convinzione, da parte di un gruppo, della propria superiorità su un altro gruppo, il razzismo non può che produrre mali: l’equivoco della razza pura; la volontà di dominio; il genocidio.
(Cavalli Sforza, Piazza, RP, p. 5)
Qui la serie è formata da unità brevi; i punti e virgola che le delimitano danno loro un risalto più netto di quello che si otterrebbe con altrettante virgole.
Si ritiene, generalmente, che il punto e virgola sia preferibile quando i membri delle serie hanno una certa lunghezza e complessità, come è esemplificato in (9):
(9) Nina e Luciana si conoscevano da sempre, e insieme, dall’inizio, conoscevano l’odore della terra, la voce dei fossi e il fresco dei magazzini degli attrezzi; la bruschetta fragrante, cotta sulle braci del focolare e strofinata con aglio e olio; i sentieri nascosti per raggiungere le vecchie case abbandonate; l’intero e mutevole universo di minuscoli animali e piante e fiori di campo che dialogavano con la luce, la pioggia e l’aria.
(Ballestra, N, pp. 120-121)
Ma questa non è una condizione tassativa (e la lunghezza resta indeterminata), tanto che in molte occasioni il punto e virgola sembra intercambiabile con la virgola. Allora, la scelta dell’uno o dell’altro segno dipende non tanto dall’ampiezza dei segmenti quanto dalla dinamica dell’elenco: dal «movimento» (esemplificato con la maggiore eleganza dal passo di Contini, citato come esempio [2] nel capitolo I) che si intende imprimere alla successione dei segmenti nel discorso. Ma in primo luogo, si badi, dipende dall’architettura testuale e quindi dai legami sintattico-semantici fra gli enunciati. Gli esempi più probanti ci vengono, al solito, dai testi migliori. Il passo seguente (ove Mengaldo parla di Maupassant) mostra come il punto e virgola seriale tra unità segmentate al loro interno da una o più virgole diventi insostituibile per ragioni di sintassi testuale:
(10) Varietà di temi e ambienti; durata per lo più breve o brevissima; dialogo svelto, senza more; presenza quasi fissa di una pointe finale, un po’ al modo di una formula d’invio al lettore, volentieri meta-narrativa, precisa e confortante come il risvolto liscio d’un lenzuolo; scrittura misurata – senza ammiccamenti – su chi legge ma anche devota alla cosa.
(Mengaldo, AP, p. 154)
La gerarchia di forza dei confini tracciati dai due segni si impone nei testi di formalità irrigidita, «vincolati» dunque nella forma e «vincolanti» per quanto riguarda la loro interpretazione. Lo abbiamo visto esemplificato in un articolo della Costituzione italiana del 1947-1948 [I, 4.1.5, esempio (32)].
Richiamo l’attenzione sugli usi del punto e virgola, oltre che negli esempi offerti a vario titolo nel presente capitolo, in quelli che si trovano nel capitolo I, e precisamente: (21); (32), (33), (34) a proposito dell’opportunità di sostituire una virgola con un punto e virgola [I, 4.1.6]; (44) e (45), ove con quest’ultimo segno si marcano una precisazione («quelli del mondo; tutti i giorni, insomma») e un’opposizione («prima li controllavo [...]; ora...»).
Il punto e virgola non seriale è atto a separare «unità coordinate complesse» e membri di periodo (cfr. Serianni 2001, pp. 253-255), e a evidenziare con l’ordinamento strutturale le gerarchie concettuali:
(11) Si tratta della prima cultura della steppa [la cultura Yamnaya, 5.500-5.300 anni fa] potenzialmente in grado di sviluppare un’efficace economia pastorale della steppa a) addomesticando animali da pascolo, b) andando a cavallo, c) usando veicoli a ruote; per tutte queste ragioni di potenziale superiorità culturale, quell’area e quella cultura sono state considerate candidate ideali per annettervi l’insediamento di un popolo che parlasse una lingua proto-indo-europea.
(Piazza, I-E, p. 326)
Il valore di «marcatore di serie» assegnato al punto e virgola spicca nel seguente passo letterario:
(12) La piena, totale giustizia non è ancora alla nostra portata [...]. Sarebbe (sarà) la nostra maggiore sconfitta lasciarla campeggiare all’orizzonte del mito; costringerci a vagheggiare un’era messianica che è, ma non ce ne accorgiamo, nelle nostre mani.
(Segre, PC, p. 259)
L’effetto di questa scelta interpuntiva si valuta dal confronto con le conseguenze che avrebbe avuto la scelta alternativa dei due punti: questi avrebbero conferito il carattere di amplificatio esplicativa all’enunciato «costringerci a vagheggiare un’era messianica...» rispetto al precedente «lasciarla campeggiare all’orizzonte del mito», attenuando il senso, tanto più pregnante, di dipendenza dalla reggente che le due coordinate hanno in comune (Sarebbe [...] la nostra maggiore sconfitta).
Osservando che l’uso del punto e virgola «nella narrativa contemporanea è tutt’altro che moribondo», Serianni (2001, pp. 253-254) passa in rassegna la varietà tipologica dei suoi impieghi: oltre a quelli di cui anche qui abbiamo dato esempi, la segnalazione del cambiamento di soggetto o di tema in una frase giustapposta o coordinata (caratteristica presente pure nell’esempio [11] appena riportato, e negli esempi [33] e [34] del capitolo I); la posizione «davanti a un connettivo “forte” per rango argomentativo e sintattico», come nel seguente esempio (che Serianni cita da D. Starnone, Via Gemito, Feltrinelli, Milano 2000, p. 16):
(13) Chiacchierone com’era, e preso dalla sua smania di brillare, in genere la sua ultima preoccupazione era l’ispezione; a meno che non s’imbattesse, mi spiegava, in qualche ferroviere che dava a intendere con una frase sbagliata di fottersene di lui, delle sue opinioni, delle sue attività artistiche.
Altre possibilità sono identificate da Serianni nell’uso del punto e virgola in costruzioni che la retorica classica ha classificato come anadiplosi: riprese (mediante una ripetizione o un sinonimo) di un’espressione contenuta in un enunciato precedente e contiguo. In casi come questo le scelte variano dal punto e virgola alla virgola, al punto, ai due punti. Come attestano i quattro seguenti campioni di scrittura letteraria (evidenzio con il corsivo gli antecedenti e le riprese precedute da una delle interpunzioni che ho appena elencato):
(14) In questo la sorreggeva il senso dell’esodo, appreso da quello concretamente vissuto e patito lasciando Fiume in circostanze drammatiche e divenuto per lei un volto della vita; un volto ambivalente, perché esodo, come insegna la Bibbia, vuol dire perdita e salvezza, abbandonare e ripiantare le proprie radici e le proprie insegne; addio e ritrovamento, morte e rinascita.
(Magris, PLC, p. 67)
(15) Elena ne sentiva il profumo acre, un profumo di illuse dolcezze e impalpabili malinconie.
(Madieri, LC, p. 27)
(16) Ma le Presenze invisibili sono attratte dal Fondo da una terza idea di tempo, che è soltanto loro e dà segni di sé soltanto qui, fra i manoscritti. Un’idea di tempo che diventa cosa, oggetto fatto di parole scritte.
(Corti, OF, pp. 7-8)
(17) Questo libro ricostruisce un quadro sociale della memoria. Si inoltra in una selva di parole appartenenti a un non lontano passato, ma che hanno attraversato i molti secoli dell’era cristiana: parole che hanno, alcune, definitivamente attecchito in lingua o nei dialetti [...].
(Beccaria, S, p. 7)
È il tipo di testo – e il grado di rigidità o, viceversa, di libertà che la sua costituzione interna comporta – a dettare legge nell’indirizzare le preferenze per l’uno o per l’altro dei tre segni di punteggiatura qui nominati. Preferenze stilistiche, in ogni caso: all’estremo della rigidezza «congelata», imposte dalle convenzioni che caratterizzano gli stili formali; all’estremo opposto, generate da ciò che si intende, con una certa lassitudine, per tonalità, gradazione degli effetti, accordatura di quello strumento – musicale in senso lato e anche, nei casi migliori, strumento di precisione – che è la scrittura.
Vorrei ancora puntare lo sguardo sulle ultime due righe dell’esempio (14). Tra insegne e addio c’è un punto e virgola che separa (e collega a distanza) i due segmenti scanditi, al loro interno, da virgole. Si osservi come questo gradui l’intensità delle demarcazioni (più forte nel punto e virgola; attenuata nella virgola) e come riveli la differenza dei ruoli qui assegnati ai due segni: la funzione seriale del primo e il compito che il secondo ha di separare ciascuna delle coppie di apposizioni (che ora evidenzio con il corsivo) dalle rispettive coppie di espressioni a cui sono riferite. Si osservi anche il parallelismo tra perdita e abbandonare, tra salvezza e ripiantare...; tra addio e morte, tra ritrovamento e rinascita:
(14a) ...perché esodo, come insegna la Bibbia, vuol dire perdita e salvezza, abbandonare e ripiantare le proprie radici e le proprie insegne; addio e ritrovamento, morte e rinascita.
Davvero l’esattezza del punteggiare si addice alla scrittura come strumento di elegante precisione, e con effetti di senso moltiplicati quando esprit de géométrie e esprit de finesse si compongono in mirabile unità.
2.3. Virgola
Nelle «istruzioni per l’uso» della punteggiatura, la virgola ha avuto la casistica più ricca [I, 4.1] per quanto riguardava le possibili incertezze, le richieste di informazioni sulla sua polivalenza, i dubbi sulla legittimità di abitudini invalse ma non da tutti condivise. Situazione antica, se nel 1670, quando il sistema interpuntivo dell’italiano stava prendendo una certa stabilità, un grande scrittore, Daniello Bartoli, nel suo trattato Dell’ortografia italiana poteva registrare disparità di criteri e di giudizi:
Quanto a me, par certo non doversi tritare così minuta una scrittura, che se ne disgiunga poco men che al continuo parola da parola, fraponendo una virgola, stetti per dire, come i cuochi le foglie dell’alloro fra’ minuzzami che infilzano con lo schidione. [...] Domine, che fan qui [...] tanti bruscoli di virgole altro che volarvi molestamente ne gli occhi a far sì che peniate leggendo – con esser troppe – più che se non ve ne fosse veruna?
È il segno di interpunzione più carico di valori e di funzioni, questa «piccola verga» – tale è infatti il suo significato etimologico, dal latino virgula(m) – che in progresso di tempo ha mutato aspetto, da orizzontale a verticale o obliquo, a leggermente ricurvo e posto al piede della parola che lo precede quale è diventato dall’affermarsi della stampa in poi: modello, nella versione ricurva, a cui si riferisce idealmente il parlare di virgola come forma:
Pirandello: «una virgola di luce» (C, Mentre il cuore soffriva, p. 545) / «cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola» (US, Il treno ha fischiato, p. 665).
La funzione della virgola come «marca di confine sintagmatico» (Simone 1991, pp. 223-225) è già apparsa più d’una volta nei vari confronti che abbiamo fatto con gli altri due segni di punteggiatura di cui abbiamo parlato. È una funzione forte, nonostante la brevità che tradizionalmente si attribuisce alla «pausa» (sospensione o interruzione) rappresentata dalla virgola: una funzione forte, perché può cambiare radicalmente il senso degli enunciati, in primo luogo quando isola un vocativo e blocca la lettura di questo come soggetto. La differenza non ha bisogno di commenti:
(18) Mario, è venuto Paolo / Mario è venuto, Paolo.
Qualche commento richiedono invece le seguenti coppie di esempi:
(19) Non ha giocato come tutti si aspettavano / Non ha giocato, come tutti si aspettavano.
(20) Non seguo i programmi televisivi che mi sembrano scadenti / Non seguo i programmi televisivi, che mi sembrano scadenti.
Nell’esempio (19) la virgola influisce sull’ambito della negazione e sul significato di come. Come, se non è preceduto dalla virgola, vuol dire «nel modo in cui», e l’intero enunciato significa: «Ha giocato, ma non nel modo in cui tutti si aspettavano». In presenza della virgola, è un’altra la possibile parafrasi: «Non ha giocato – e tutti si aspettavano che non giocasse».
Le frasi riportate in (20) sono esempi tipici di proposizioni relative il cui statuto è determinato dalla presenza o dall’assenza di una virgola quando mancano altri elementi contestuali atti a precisare il senso dell’intero enunciato. Se non è preceduta da una virgola la relativa è restrittiva (è detta anche determinativa o specificativa); l’enunciato significa, in questo caso: «Non seguo [fra i programmi televisivi] solo quelli che...» (non: «tutti i programmi televisivi»). Anteponendole una virgola, la relativa acquista valore non restrittivo (o appositivo) e fa intendere che tutti i programmi televisivi appaiono scadenti.
In periodi diversamente strutturati la presenza/assenza di un segno di interpunzione potrebbe non essere decisiva nella misura qui osservata. Ad esempio, se l’enunciato contiene un quantificatore la responsabilità interpuntoria diminuisce, in certi casi fino a sparire. Sparisce se, oltre al quantificatore (molti, nell’esempio seguente) c’è anche un altro specificatore (questi, nello stesso esempio); se scrivo: «Molti di questi ragazzi che hanno poco interesse per le materie scolastiche riusciranno benissimo nella vita» non comunico qualcosa di diverso da quello che scriverei mettendo una virgola prima della relativa, e una dopo.
Più convincenti degli esempi costruiti ad hoc sono sempre i passi ritagliati da testi autentici, e meglio se di alta qualità stilistica. In (21) metto in corsivo i due che: il primo, preceduto da virgola, introduce una relativa appositiva; il secondo, non preceduto da virgola, introduce una relativa specificativa (restrittiva), il cui valore è reso esplicito anche dal fatto che il suo antecedente (quelle pure menti) ha come specificatore un dimostrativo (quelle):
(21) La responsabilità scende nel tempo, che prima della riforma e del Concilio di Trento «scorreva nell’eternità», e lo fa conoscenza e agone: e il suo volgersi cosmico risale, vertigine senza forma, nel Mondo creato del Tasso sino a quelle «pure menti» [...] che dovrebbero contemplare la «stabil pace» di un ordine senza mutamento.
(Ossola, AB, p. 3)
Campioni di relative specificative si trovano nel precedente capitolo I, negli esempi: (18), (21) e (22) (a cui già si è accennato in [I, 4.1.5]); (32) «nei servizi che dipendono dallo Stato»; (36) «quel che vuoi dirmi»; (45) «dinanzi alle sciocchezze che stai ascoltando»; (47) «la pietra che sostiene il ponte» / «dell’arco che esse formano»; (48) «la città cui si arriva e in cui ognuno ritrova le persone che ha conosciuto»; (49) «i paesi che mi descrivi [...] dove regna la stessa calma»; (50) «la gente che s’incontra».
Una virgola può impedire ambiguità di riferimenti e di collegamenti tra parti di enunciati. Questa funzione prevale anche di fronte al carattere restrittivo di una relativa.
Si vada all’esempio (42) di [I, 4.3] (stralcio di un dialogo fra Maria Corti ed Eugenio Montale, che accenna alla sua opera Ossi di seppia): «Una delle donne degli Ossi, che i critici cercano come i cani da tartufi». Se il relativo (che) seguisse immediatamente il suo antecedente sintattico (donne), non dovrebbe essere preceduto da virgola. Ma la parola Ossi collocata immediatamente prima di che sposterebbe su di sé il riferimento ripreso dal pronome relativo (in base a un principio di «naturalezza» sintattico-testuale si tende a riferire una ripresa anaforica23 all’antecedente più vicino). La virgola diventa un «paletto» necessario per bloccare la lettura di che come ripresa di Ossi.
La delimitazione di confini fra sintagmi serve dunque a stabilire collegamenti a distanza. Tra le situazioni qui descritte a vario titolo ne richiamo solo una. Nella prima riga di (8): «Inteso come convinzione, da parte di un gruppo, della propria superiorità...», le virgole che rinserrano il costrutto da parte di un gruppo aiutano a connettere i due membri a cui questo si intercala (convinzione [...] della propria superiorità).
Le espressioni chiuse tra due virgole, una in apertura e una in chiusura, possono avere dimensioni, struttura e ruoli sintattici svariati. Sono appositivi i segmenti che evidenzio con il corsivo: in [I, 4.1.6], (32) «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali» e (33) «altre, che sembrano [...] confermare la validità dell’intervento, ritornano...»; nel presente capitolo, nel passo citato in (21), la relativa poco fa segnalata e la suggestiva espressione vertigine senza forma.
La posizione di tali «membri aggiuntivi» è parentetica [II, 4.2]. Tale posizione distingue pure l’inserto delimitato da virgole nell’esempio (7): «almeno dopo la raccolta dei canti nell’Antiphonarium voluto da Gregorio Magno», e quelli, vari per dimensioni e struttura, che evidenzio con il corsivo in (22) e (23):
(22) Perché il fatto che, secondo una formula divenuta stereotipata, l’agnello possa giacere accanto al lupo [...], è un modo di sintetizzare quella situazione di pace che l’uomo ha solo qualche volta, e provvisoriamente, assaggiato.
(Segre, PC, p. 209)
(23) Personalmente, preferisco l’elogio della giustizia a quello dell’amore. L’amore per i nostri simili è sempre frutto di scelta, spesso di simpatia o di capriccio. La giustizia vale, o dovrebbe valere, per tutti. [...] Sarebbe (sarà) la nostra maggiore sconfitta lasciarla campeggiare all’orizzonte del mito; costringerci a vagheggiare un’era messianica che è, ma non ce ne accorgiamo, nelle nostre mani.
(Segre, PC, pp. 258-259)
Sono parentetiche le glosse intercalate alle battute di discorso diretto (esempi in [I, 4.3]). Lo stesso carattere hanno gli incisi (brevi) usati come «segnali discorsivi»24 (24) o comunque come intercalari allusivi e come connettivi testuali:
(24) [...] mi... mi pare troppo, ecco, che per questo lei debba pigliarsela con la sua signora.
(Pirandello, UBV, Atto III, scena 3)
(25) Citazioni, reminiscenze bibliche, evangeliche, liturgiche [...] hanno accompagnato per secoli i discorsi dei nostri padri [...]. Sono diventate, dicevo, spesso parole scherzose, ma mai irriverenti, ferocemente beffarde. [...] / E il discorso ironico, si sa, gioca per definizione sulla riconoscibilità [...].
(Beccaria, S, pp. 224-226)
Le apposizioni e i gruppi attributivi collocati, le une e gli altri, o all’inizio o alla fine di un enunciato, brevi o ampi o strutturalmente complessi, si separano con una virgola dall’elemento a cui sono riferiti:
(26) Corpo tellurico, la gloria delle stimmate – per il San Francesco di Francesco Antonio Cappone – si eleva come da bocche sanguinanti di vulcano [...].
(Ossola, AB, p. 113)
(27) Vetro soffiato, venature di trasparenza e cerulei occhi di pavone, la macchia lunare ‘nigricans’ come la scia ‘albicans’ della galassia si posano sulla «carta bianca» dello scrittore di scienza come sul tavolo di una barocca ‘natura morta’ [...]. / Visione infine ‘riparata’, ma che all’origine, [...] riconduce piuttosto all’istante in cui lo specchio s’incrina, la forma si frammenta in doloroso iato, acuminata ferita.
(Ossola, PC, pp. 428-432)
2.3.1. Nella casistica – asistematica – che ho messo insieme finora, qualche volta prendendo l’avvio da usi attestati, più spesso adoperando gli esempi per illustrare principi e criteri d’uso preventivamente formulati, si sono delineati i due fondamentali tipi di virgole distinti da Simone dal punto di vista strutturale (1991, pp. 221-225): la «virgola che apre e chiude» e la «virgola seriale».
Un caso particolare di quest’ultima – fra i più preziosi sotto il profilo stilistico e per il carico informativo di cui è responsabile – è la sua assenza nelle posizioni in cui virtualmente si troverebbe. Si osservi come tale assenza spicchi nel seguente passo, dove la punteggiatura è calibrata sapientemente; dove il ritmo del periodare è scandito da altre virgole seriali, e da virgole che «aprono e chiudono». Due di queste rinserrano la successione serrata delle unità – che segnalo con il corsivo – nella serie continua, priva di virgole:
(28) Marisa, sino all’ultimo, non ha lasciato perdere niente, affetti passioni interessi doveri curiosità giochi amicizie piaceri doni di sé agli altri, e ha anche continuato a scrivere le storie che aveva in mente: con amore e con calma, come sempre, senza smania di gareggiare in velocità col male, senza sopravvalutare lo scrivere nella condizione in cui si trovava ma amandolo fortemente e trasfondendovi l’incanto, il disincanto e la pietas che aveva per la vita e per le cose.
(Magris, PLC, p. 62)
Quando una stessa posizione potrebbe essere occupata da due virgole differenti per funzione, queste si riducono a una, per il principio formulato in [I, 4.7], valevole per tutti i segni di interpunzione. Ad esempio, in un enunciato come «Mi hanno restituito tutti i documenti, che non speravo di recuperare, l’agenda, le chiavi di casa...» la virgola che si trova dopo la parola documenti assolve contemporaneamente la funzione di aprire il segmento che non speravo di recuperare e la funzione seriale rispetto alle altre unità dell’elenco.
Riprendo ancora da Simone le osservazioni sulla gerarchia di forza che esiste tra le interpunzioni: «il punto è più forte del punto-e-virgola; il punto-e-virgola è più forte della virgola». I segni più forti sostituiscono, e perciò neutralizzano, i più deboli che occuperebbero la stessa posizione. Questo principio vale, ad esempio, per la chiusura di una relativa appositiva. Questa può essere chiusa anche da un altro segno di punteggiatura che sia richiesto dalla struttura di frase, in quanto il valore dei due segni si congloba, rappresentato graficamente dall’interpunzione più forte.
Ripropongo qui l’esempio (16), dove il punto fermo chiude la prima relativa preceduta da una virgola: «Ma le Presenze invisibili sono attratte dal Fondo da una terza idea di tempo, che è soltanto loro e dà segni di sé soltanto qui, fra i manoscritti. Un’idea di tempo che diventa cosa, oggetto fatto di parole scritte». Si noti che la frase segnalata contiene un’altra virgola, a delimitare un confine interno non strettamente necessario, ma voluto per ragioni di scansione ritmica, per dare respiro al periodare e rilievo a qui. Anche la virgola che separa cosa da oggetto, nell’ultima frase, è segnale di apertura di un’apposizione, chiusa a sua volta dal punto finale.
2.3.2. Quando il confine segnato da una virgola cade tra soggetto e verbo, o meglio, tra il verbo e uno dei suoi argomenti, le spiegazioni possibili sono più d’una. In [I, 4.1.4] si è prospettata una rassegna delle situazioni che non giustificano tale posizione della virgola in base ai criteri di regolarità che dovrebbero essere osservati in determinati tipi di testo. Ma a un’osservazione attenta non sfuggono certe (apparenti) deroghe a una norma che sembrerebbe valida per ogni scrittura sorvegliata e per contenuti improntati a oggettività, alieni per definizione da coloriture «ad effetto». Si tratta allora di vagliare le ragioni che giustificano l’irregolarità, se di questa si può parlare.
Escludiamo per principio la disattenzione da parte degli autori, e perciò escludiamo dal mazzo degli esempi quelli che si potrebbero trovare (e non pochi) in testi che nel complesso rivelano incoerenze o sbadataggini interpuntive. E diciamo subito che i principali motivi di quelle che i retori antichi avrebbero potuto classificare come «licenze» (se fosse stato possibile farlo in un’epoca in cui non si usava interpungere gli scritti, o si usava fare qualcosa di simile in modo del tutto diverso da quello che oggi pratichiamo) sono almeno tre. Li elenco distintamente, avvertendo che l’uno interseca l’altro, e che talvolta si ritrovano tutti insieme all’origine di impieghi qui documentati da esempi differenti.
A) Il più antico è la volontà di rimediare alla distanza del soggetto dal predicato (o di quest’ultimo dal suo oggetto, diretto o indiretto) frapponendo una pausa che, secondo le spiegazioni vulgate, avrebbe l’effetto pratico di «dare respiro» al periodo e a chi lo legge. Più corrette le interpretazioni strutturali della deroga ai criteri che regolano per convenzione il modo di interpungere detto «logico». Così Malagoli (1912, p. 169):
Non si mette mai la virgola dopo il soggetto, se questo è seguito immediatamente dal predicato. La cosa è diversa [...] quando il soggetto sia complesso, cioè abbia de’ complementi che stiano fra esso e il predicato in modo che possa esser dubbio se appartengano a questo o a quello: la virgola potrà giovare, allora, a togliere ambiguità, indicando nell’un caso la trasposizione, e nell’altro l’unione dei complementi al proprio sostantivo.
In termini analoghi si pronunciano i migliori autori degli studi successivi sulla punteggiatura. Con un lungo balzo indietro, ci imbattiamo in un trattatista della seconda metà del Settecento, Joseph Robertson (1785), che aveva definito improprio l’uso della virgola tra soggetto e predicato «a meno che la lunghezza della frase richieda una pausa» (regola 39). E aveva precisato (nella regola 40) che «una frase semplice, quando è lunga e il soggetto è accompagnato da espansioni inseparabili [with inseparable adjuncts] può ammettere una pausa immediatamente prima del verbo»: il che avviene dunque se il gruppo del soggetto è costituzionalmente “pesante”25.
Un esempio da un testo scientifico:
(29) La necessità di evitare che queste azioni meccaniche (nel tempo che intercorre fra lo stabilirsi del corto circuito e l’apertura dell’interruttore) possano deformare gli avvolgimenti danneggiandone l’isolamento, impone particolari cure nella progettazione della struttura.
(Civalleri, LE, p. 349)
E uno da un testo saggistico di un grande scrittore:
(30) Ora io credo che nell’uno come nell’altro caso, la somma di due linguaggi che non sono interamente veri, non riesce a costituire un linguaggio vero [...].
(Calvino, UPS, p. 308)
B) Un secondo motivo del dilagare di questo tipo di demarcazione, più vitale di quanto non si pensi – o non si vorrebbe, è (oltre alla trascuratezza, che non è mai argomento sufficiente per una giustificazione) la sovraestensione dei valori intonativi attribuiti ai segni e in particolare alle virgole. Se le intendiamo come istruzioni per la lettura a viva voce dobbiamo convenire che sono istruzioni assai deboli, perché non ci dicono nulla né riguardo alla curva intonativa da seguire, né riguardo alla durata variabile dei probabili arresti nel flusso della lettura. D’altra parte, sappiamo che a certe pause – parlo di pause significative, non di interruzioni casuali – che facciamo leggendo non corrisponde nessuna virgola nello scritto. Questo confermerebbe che le pause del parlato e le demarcazioni dello scritto non vanno confuse o omologate, perché costituiscono due sistemi distinti. Sono distinti ma interferiscono l’uno sull’altro: ma quando, e come? La risposta sembra ovvia: all’interno del progetto testuale. Prima di opporre le differenze del “mezzo” (parlato/scritto) dobbiamo opporre rappresentazione mentale ed esecuzione scritta del discorso: quella che in francese si dice la mise en texte. Quando mettiamo sulla carta le nostre idee in forma di discorso organizzato, ne facciamo contemporaneamente una lettura (di solito silenziosa) con le sue coloriture: pause, cambi di intonazione, che trasferiamo nello scritto affidandoli ai pochi segni di punteggiatura a nostra disposizione.
In base a considerazioni di questo genere possiamo capire (che è altra cosa dal giustificare e dal valutare) la relativa frequenza delle deprecate virgole tra il verbo e uno dei suoi argomenti quando non si frappongano altre parole o frasi. E possiamo anche far corrispondere alle tradizionali qualifiche oppositive «logica» / «ritmico-prosodica» la discrepanza fra la punteggiatura regolare e l’uso irriflesso di chi pure non ignora le normali convenzioni (altro è il caso delle infrazioni volute, anche se rispondono per la maggior parte a criteri ritmico-prosodici).
Accade spesso e volentieri che, scrivendo, si ometta di segnare una delle due virgole che dovrebbero, per ragioni sintattiche, racchiudere un dato segmento di testo, generalmente in enunciati di una certa ampiezza. Non sempre questo fatto si può spiegare come una dimenticanza: vuol dire piuttosto che alla virgola mancante non corrispondeva una pausa effettiva di lettura, silenziosa e progettuale, prima che effettiva. Si torni al primo segmento di (30): «Ora io credo che nell’uno come nell’altro caso, la somma di due linguaggi...», dove la «punteggiatura logica» richiederebbe una virgola dopo che, simmetrica a quella che chiude il segmento nell’uno come nell’altro caso. Analoga situazione per l’unica virgola di (31), che «chiude» – senza un corrispettivo «che apra» – l’enunciato «a differenza ecc.»:
(31) Il paragone della città con la macchina è nello stesso tempo pertinente e fuorviante. […] Fuorviante perché a differenza delle macchine che sono create in vista d’una determinata funzione, le città sono tutte o quasi il risultato d’adattamenti successivi a funzioni diverse [...]
(Calvino, UPS, p. 282)
C) Il terzo motivo della presenza di una virgola (né seriale né correlativa a un’altra di apertura o chiusura di un qualsiasi segmento linguistico interposto) tra un predicato e uno dei suoi argomenti, riguarda la struttura tematica degli enunciati [II, 1.2]. La virgola ha dunque la funzione di isolare il tema e di metterlo in evidenza; in termini differenti: serve ad assegnare al soggetto il ruolo di tema-dato, qualunque sia la posizione del soggetto nella frase.
Incominciamo dal caso più semplice. Più semplice in quanto mostra una virgola al di sopra di ogni sospetto di irregolarità; anzi, nella condizione di essere necessaria e perciò sostituibile, eventualmente, solo con un altro segno (penso alla lineetta) di valore pressappoco corrispondente. Mi riferisco agli enunciati con il tema-soggetto dislocato in fine di frase, o comunque dopo il verbo e in posizione e con intonazione parentetica, come mostra lo stilema pirandelliano esemplificato in (32)26:
(32) Si sente così stanca e triste, la signora Leuca / Non vuol confidare neanche a se stessa, la signora Leuca... / Rimaneva stupito, Martino Lori, del concetto che sua moglie s’andava man mano formando...
Per la dislocazione di altri argomenti (oggetto diretto e indiretto), o di circostanziali (di luogo, tempo, ecc.) «a destra» del verbo anticipati da una forma pronominale all’inizio di frase, la virgola che marca la «notorietà» degli elementi dislocati è facoltativa. Gioca a favore della presenza di una virgola la contiguità del pronome anaforico (-le, nel secondo enunciato di [33]) con l’elemento a cui questo rinvia (quelle ombre, nello stesso esempio):
(33) Li apprezzi abbastanza i beni che possiedi? / Riesco a malapena a vederle, quelle ombre vaganti nella nebbia.
In ogni caso, è decisiva la scelta di focalizzare l’uno o l’altro costituente di frase.
Più delicata la posizione della virgola davanti a un verbo preceduto, a distanza, dal soggetto, in condizioni spiegabili in parte con la giustificazione accampata in A) e in parte maggiore con il rilievo dato agli elementi che occupano la posizione canonica del tema, cioè all’inizio dell’enunciato. Il meccanismo si può spiegare con le parafrasi in quanto a..., per quanto riguarda..., a proposito di..., e simili, fino all’enfasi del costrutto noto come frase scissa: è... che… (applicabile forse, con qualche forzatura, alla frase di Calvino che sarà citata in [37]: «È un tema [...] come la sofferenza [...] che viene dissolto...»). Del resto è stato proprio un classico della nostra lingua, Alessandro Manzoni, revisore scrupoloso dei suoi testi (penso all’edizione 1840 dei Promessi sposi), a dare i primi grandi esempi di un uso interpuntivo ancora oggi considerato anomalo (non ammesso in scritture sorvegliate quando il contesto non lo giustifichi; e assai sospetto nelle mani dei distratti e degli inesperti). Ecco dunque un esempio di virgola che delimita un’unità equivalente al costrutto «siete voi che...»:
(34) «Voi, mi fate del bene, a venir qui... da me... in questa casa».
(Manzoni, PS, XXX, 17)
e altri che presentano sottolineature del tema (interpretate dagli esegeti manzoniani prevalentemente in chiave di segmentazione prosodica o di mise en relief stilistica):
(35) Però, di tante belle parole Renzo, non ne credette una: né che il notaio volesse più bene a lui che a’ birri, né che prendesse tanto a cuore la sua riputazione [...].
(Manzoni, PS, XV, 54)
(36) Chi aveva danari e discrezione, andava a desinare giù nella valle [...]
(Manzoni, PS, XXX, 28)
Propongo qui di seguito tre frammenti prelevati da opere di Calvino, scrittore molto attento alle minime gradazioni espressive, come attestano i suoi manoscritti:
(37) Un tema niente affatto leggero come la sofferenza d’amore, viene dissolto da Cavalcanti in entità impalpabili.
(Calvino, LA, p. 14)
(38) Ogni linea presuppone una penna che la traccia, e ogni penna presuppone una mano che la impugna. Che cosa ci sia dietro la mano, è questione controversa.
(Calvino, UPS, p. 295)
(39) Avevo parlato dello sciamano e dell’eroe delle fiabe […]. Avevo parlato delle streghe […]. Ma l’eroe di questo racconto di Kafka, non sembra dotato di poteri sciamanici né stregoneschi.
(Calvino, LA, p. 30)
In (38) la virgola segna uno stacco che può essere considerato come l’equivalente, nella subordinata, del punto interrogativo che troveremmo nella forma diretta indipendente: «Che cosa c’è dietro la mano?». È una virgola che evidenzia il tema; così come sono marcatori del tema sia la virgola in (37) sia quella in (39), dove la parte tematica (Ma l’eroe di questo racconto di Kafka) si può parafrasare con «ma se ci riferiamo all’eroe… / Ma per quanto riguarda l’eroe…».
In nessuno dei casi illustrati dai lacerti calviniani potremmo inserire nel testo una «virgola che apre» (simmetrica a quella che precede il predicato e che dovrebbe essere segno di chiusura dell’unità interposta a questo e al suo soggetto): né in (37), per il legame testuale fra un tema... e come, che non tollera un confine sintattico tra l’unità generica (un tema) e la sua specificazione (come la sofferenza d’amore); e neppure in (30) («Ora io credo che nell’uno come nell’altro caso, la somma di due linguaggi che non sono interamente veri, non riesce a costituire un linguaggio vero [...]»), dove la relativa restrittiva (che non sono interamente veri) esclude la virgola davanti al che.
E la prima virgola, sempre in (30)? È una virgola indotta dalla possibilità di isolare i circostanziali dal nucleo della frase, specialmente se si tratta di determinazioni di tempo o di luogo poste in apertura di enunciato (sono le cosiddette «informazioni di setting» a cui si attribuisce carattere tematico). Qui il ruolo tematico dell’espressione nell’uno come nell’altro caso ha prevalso nel progetto testuale dello scrittore. La posizione di costituente sintattico di una subordinata è stata oscurata; o meglio, è stata la reggente ora io credo ad essere messa in secondo piano rispetto alla subordinata che contiene le informazioni principali.
Gli esempi d’autore qui proposti mostrano (efficacemente) come elementi e fattori di natura pragmatica possano prevalere sulle regolarità sintattiche: possano avere un peso determinante nella costruzione del discorso [II, 1.2]. A questa concorre in misura che travalica le scelte stilistiche il carattere «testuale» degli usi apparentemente anomali della virgola. Ma sulla virgola testuale – analizzata all’interno di un quadro teorico di salda tenuta – il miglior partito, attualmente, è quello del rinvio al già citato saggio di Ferrari (in stampa)27.
Mi limito a far notare un uso della virgola che sembrerebbe ricadere – ma di fatto non ricade – sotto le condizioni già viste per la separazione del predicato da uno dei suoi argomenti. Eccone un esempio (un caso analogo è analizzato, su presupposti teorici differenti, da Popin 1998, p. 91):
(40) Leggeva, probabilmente un libro così interessante da impedirgli di sentire ciò che dicevamo.
La virgola in (40) non divide due costituenti di una stessa proposizione: divide due proposizioni, la seconda delle quali è ellittica del predicato (che non viene ripetuto perché sarebbe identico a quello della prima proposizione): «probabilmente leggeva un libro così interessante...». La presenza di probabilmente (avverbio frasale = è probabile che...) determina e rivela l’autonomia del segmento separato mediante una virgola da quello che lo precede. La stessa posizione potrebbe essere occupata dai due punti, dal punto e virgola o dal punto fermo (cfr. rispettivamente, in questo capitolo, 4.1, 2.2, 2.1). Possiamo ben definire «testuale» quest’uso dell’interpunzione.
3. Marche dell’intonazione
La punteggiatura dello scritto dà istruzioni anche riguardo all’intonazione. Sono, come abbiamo già osservato [II, 2.3.2, B)], informazioni schematiche, alle quali è preclusa la possibilità di rendere le sfumature delle singole – difficilmente riducibili entro un numero chiuso – esecuzioni orali. Tipiche, ma non esclusive, marche dell’intonazione sono considerati i punti interrogativo ed esclamativo. Sono quelli che sembrano presentare meno discrepanze di usi e che danno meno difficoltà nell’adoperarli (gli unici dubbi paiono quelli sull’iniziale – maiuscola o minuscola? – della prima parola nell’enunciato che segue immediatamente un punto interrogativo). La prerogativa di indicare i toni del discorso è ugualmente condivisa dal punto, dalla virgola, dai puntini di sospensione, dai segnali di parentetiche; la presenza di queste ultime comporta una differenza di profilo intonazionale rispetto agli enunciati in cui sono inserite.
Non tenterò neppure di delineare una rappresentazione degli usi interpuntivi proiettati sullo sfondo della struttura fonologica. Mi limito a fare presente quanto afferma Simone (1991, pp. 227-228):
Gli enunciati scritti [...] sono punteggiati in accordo alla loro struttura intonazionale e di pause (la quale riflette, ma solo in parte, la struttura sintagmatica e tematica dell’enunciato stesso); dall’altro lato, nell’esecuzione fonica dell’enunciato che si ha nella lettura, la punteggiatura è adoperata dal lettore come una pista essenziale per l’assegnazione ad esso di un profilo intonazionale appropriato. Si tocca qui la complicata tematica dell’interfaccia fonologico-strutturale, resa ancora più intricata dal fatto che essa non si presenta più, per quanto ci riguarda qui, sul piano fonologico, ma sul piano grafico.
Da ricordare poi che, quando si qualifica un segno di punteggiatura come «marca di un’intonazione», ci si riferisce a schemi ideali, non alle realizzazioni effettive di fatti prosodici. Basti pensare ai molti modi in cui una domanda può essere realmente pronunciata per rendersi conto che il tono discendente-ascendente postulato come modello per l’interrogazione è una pura astrazione, un modello a cui posso assegnare non una ma molteplici realizzazioni. Meglio dire dunque che i segni di cui si tratta sono «indicatori di atti linguistici», e che sottolineano la forma in cui tali atti si manifestano. Come si vede nei seguenti enunciati:
(a) Tu rimani qui. / (b) Tu rimani qui? / (c) Tu rimani qui! / (d) Tu rimani qui?!
Il punto fermo in (a), l’interrogativo in (b), l’esclamativo in (c), l’accostamento dei due ultimi segni in (d) sono gli unici indicatori dei rispettivi atti di parola: constatazione, domanda, ordine, domanda incredula o espressione di sorpresa. Non sono comunque indicatori univoci, dal momento che una domanda può valere come un invito, un consiglio, un comando, ecc., se formulata come uno dei tanti atti linguistici «indiretti» di cui ci serviamo normalmente per attenuare – o all’opposto per sottolineare in maniera antifrastica – richieste, ordini, asserzioni, eccetera: «Può indicarmi la strada?», per chiedere: «Mi indichi, per favore, la strada» / «Vuoi stare zitto?», per imporre: «Taci!» / «E questo sarebbe il migliore dei mondi?» per sentenziare: «Questo è certamente il peggiore».
La trattazione che seguirà pecca gravemente per difetto: si rinuncia a dare informazioni tecniche, ad apprestare grafici che descrivano, ad esempio, le curve di intensità nelle pronunce di una stessa espressione in situazioni emotive differenti, gli andamenti dell’intonazione, necessari per descrivere dai punti di vista fonologico e prosodico i fenomeni mascherati sotto l’inadeguatezza interpuntoria28. Mi atterrò ancora una volta agli aspetti pratici, confidando nell’evidenza dell’esemplificazione.
3.1. Punto interrogativo
È il cosiddetto punto di domanda. Dopo quanto abbiamo osservato, per domanda si deve intendere la forma grammaticale, o meglio il tipo sintattico, dell’atto linguistico relativo, non la forza illocutiva che manifesta l’intenzione con cui la domanda viene fatta. Di questa si trovano descrizioni in testi letterari: nel capitolo 23 del Daniele Cortis di Fogazzaro, ad esempio, dove la protagonista, Elena, rilegge su un libro «le parole e le cifre scritteci da lei»:
L’ultima era questa «29 giugno 1881?». Si ricordava di aver voluto dire con quel punto interrogativo: tornerò mai più?
E in Verga leggiamo:
con un punto interrogativo negli occhi, un punto interrogativo fra il curioso e l’indispettito.
(Verga, CD, p. 52)
Come s’è detto, l’uso di questo segno d’interpunzione non dà altra difficoltà se non, occasionalmente, un dubbio ortografico: nell’enunciato che segue un punto interrogativo la lettera iniziale della prima parola sarà maiuscola o minuscola? La decisione dipende dal tipo di confine che l’interpunzione stabilisce rispetto a una frase. Se l’espressione interrogativa è o può essere integrata nella frase, sarà seguita da una parola con l’iniziale minuscola. Se invece l’interrogazione chiude una frase o un periodo, al punto interrogativo si attribuiscono gli stessi diritti del più forte tra i segni di pausa, il punto fermo, che impone all’enunciato successivo di incominciare con l’iniziale maiuscola della prima parola.
I due seguenti esempi non hanno bisogno di commenti. Basteranno due postille sintattico-testuali: nel primo si noti la forza del sottinteso che lega il segmento – isolato interpuntivamente – di una vita al contenuto e al senso dell’interrogazione; in entrambi, il limite segnato dal punto interrogativo produce un brusco cambio dei toni, dal discendente-ascendente (proprio della domanda) al discendente (proprio dell’asserzione), con un effetto di rallentamento ritmico, e di abbassamento timbrico, come di «sottovoce»:
(41) Vagava, sola, nella casa. Ed erano quei muri, quel rame, tutto ciò che le era rimasto? di una vita.
(Gadda, CD, p. 255)
(42) Ma che cos’era il sole? Quale giorno portava? sopra i latrati del buio.
(Gadda, CD, p. 258)
Inserito in parentesi come commento metatestuale, il punto interrogativo segnala che si mette in dubbio (si prendono le distanze da, si ironizza su, ecc.) ciò che precede l’interpunzione:
(43) [...] è indubbio che l’Italia dei poveracci dell’immediato dopoguerra, per quanto viziata (?) da un sistema politico anomalo [...] aveva cambiato immagine, oltre che condizione, negli anni Settanta e Ottanta.
(Diamanti, QI, p. 14)
Nella varietà delle funzioni attribuibili al punto interrogativo spiccano le cosiddette domande retoriche, e poi l’insinuazione dubbiosa, l’avanzare un sospetto, il suggerire – magari in parentesi – una correctio:
(44) Ma è possibile lasciar lì a metà un concerto di Mitropoulos?
[...] liberarsi del più grave handicap delle patrie lettere, da secoli, quella divergenza ansiosa tra una lingua parlata di leggerezza quasi inafferrabile, e una lingua scritta falsa per definizione, intrattenuta in finzioni insensate da una greve tradizione di retori con l’orecchio di piombo. Sarà mica stata noiosissima anche la famosa «sprezzatura» del Rinascimento? Il lavoro più giusto e difficile che si possa fare oggi con la nostra lingua è proprio quello di reinventare sulla pagina [...] il miglior ‘sound’ dell’italiano parlato [...] conservandogli quel certo «agio naturale» (o diciamo grazia?) che lo riconnette al milieu e al momento dov’è stato prodotto [...].
(Arbasino, AL, pp. 77, 91)
3.2. Punto esclamativo
Il punto esclamativo o «ammirativo» ha meritato biasimi e riserve nel corso del Novecento. Nella prima metà del secolo qualcuno era arrivato a proporne addirittura l’abolizione. Oggi la scrittura del web ne fa scialo, adoperandolo come un’icona di sensazioni, emozioni, atteggiamenti e commenti (approvazione entusiastica, sorpresa, ammirazione e i suoi opposti – dalla riprovazione all’ironia – e molto altro ancora). Si condensa nell’interpunzione ciò che scrittori del passato hanno rappresentato narrativamente. Qualche testimonianza, da una veloce consultazione della LIZ:
Da Carlo Dossi, L’altrieri: «pareva che la posata voce del direttore intavolasse questioni e che la trèmola, da piffero, di Ghioldi pacatamente opponesse – ma, a un tratto, ecco le lingue andar fuori di squadra, incalzarsi i punti interrogativi, crèscere gli esclamativi e... una bestemmia».
Da Remigio Zena, Confessione postuma: «I dubbi già espressi in forma sibillina [...] che la duchessa [...] non fosse fuggita mai da Palermo, e i punti interrogativi ed esclamativi circa il luogo dov’ella si celava [...]».
Da Pirandello: «Non metto alcun punto esclamativo perché, ora che son savio, nessuna cosa deve più farmi meraviglia» (Quand’ero matto) / «sgranava gli occhi, come se vi ponesse punti esclamativi sempre più sperticati» (I vecchi e i giovani) / «frasi polite, sì, non però fluenti e limpide e continue, ma quasi a sbruffi, esitanti spesso e con curiosi ingorghi esclamativi» (I vecchi e i giovani).
Il giudizio che si legge in Lepschy, Lepschy (1993, p. 93) tiene conto della varietà tipologica dei testi e dei modi di comporli: il punto esclamativo sarebbe «quanto più possibile evitato nelle scritture di qualche pacatezza ed equanimità, e sempre più considerato indice di esagitazione». C’è tuttavia almeno un uso di questo segno che (al pari di quello, per certi versi analogo, del punto interrogativo) attraversa un buon numero di generi testuali, esclusi i testi legislativi, le parti formulari dei testi scientifici, le descrizioni e prescrizioni tecniche. Lo chiamerei punto esclamativo di commento (o «commentativo»). Lo possiamo trovare, tra parentesi tonde o quadre, dopo una qualsiasi espressione di cui si voglia sottolineare, ad esempio, l’errore, l’assurdità, l’ingenuità. È, insomma uno dei modi di «metacomunicare» [II, 4] allusivamente nella forma più schematica:
(45) Ha promesso di mantenere tutte (!) le promesse.
La scrittura letteraria sfrutta per intero le potenzialità del punto esclamativo, come di ogni altra interpunzione. L’esempio seguente ne esibisce uno in chiusura di un inciso aperto da una virgola; la funzione intonativa di superficie è annullata, come assorbita dal cumulo delle risonanze che si percepiscono interne:
(46) Il figlio che le aveva sorriso, brevi primavere! che così dolcemente, passionatamente, l’aveva carezzata, baciata.
(Gadda, CD, p. 256)
Nei punti interrogativo ed esclamativo affiancati, di solito tra parentesi (?!), si cumulano le connotazioni a cui abbiamo accennato a proposito di ciascuno dei due.
Altro effetto speciale si ottiene mettendo, ad esempio, l’esclamativo dove un qualche elemento grammaticale farebbe attendere l’interrogativo; è il caso di quali nella battuta di risposta citata in [I, 4.2] e qui messa in corsivo:
– Gli accenti circonflessi? – mi domanda Francesco.
– Ma no, ma quali accenti! Le virgolette, queste qui...
(Voltolini, P, p. 173)
4. Segnali di connessioni, di stratificazioni enunciative e del non detto
I tre argomenti qui sopra indicati nel titolo chiamano in causa relazioni semantiche e condizioni pragmatiche della produzione verbale. Travalicano la sintassi, anche se inglobano, naturalmente, fenomeni come i legami di subordinazione e di coordinazione tra le frasi, i rapporti strutturali fra enunciati che appartengono a piani enunciativi diversi, la forma e la distribuzione delle interruzioni che aprono il dominio dell’implicito e del silenzio. I segnali interpuntivi di cui ci occuperemo nelle sezioni seguenti manifestano dunque relazioni e caratteri sintattici e testuali.
4.1. I due punti
Si tratta di un segno la cui plurifunzionalità è, se mi si passa l’espressione, multiplanare: agisce sui piani della sintassi e della testualità. Può sostituire congiunzioni causali, dichiarative, consecutive; non dà solo indicazioni sulla struttura di frase, ma è elemento costitutivo di tale struttura.
La funzione primaria dei due punti è quella presentativa, qui esemplificata in (47) e, cumulata con la prerogativa di introdurre un elenco, in (48):
(47) In India [...] commercianti, missionari e, dal Settecento, i colonizzatori britannici si imbatterono nell’antica lingua della cultura e della religiosità indiana: il sanscrito.
(De Mauro, LE, p. 25)
(48) Altri volgari sono germanici: il tedesco, l’inglese, il nederlandese, il danese, lo svedese, il norvegese, l’islandese.
(De Mauro, LE, p. 21)
I due punti hanno fondamentalmente un ruolo metatestuale (e metacomunicativo): si lasciano interpretare come annunci riguardanti il discorso in atto. È come se dicessero: «“Attenti che adesso segue qualcosa”, preparano cioè l’attenzione per quel che segue. E quel che segue può essere un elenco […]. Oppure una spiegazione»29. O tutte e due le cose insieme, come in (50):
(49) I problemi interpretativi più importanti che la giurisprudenza ha dovuto affrontare riguardano: 1) il significato da attribuire al concetto di funzione sociale [...] e 2) la distinzione tra i casi di esproprio previsti dalla legge [...] e le limitazioni alla proprietà privata [...].
Il primo problema: che cosa vuol dire che la proprietà deve realizzare una funzione sociale?
(Visintini, DC, p. 2)
(50) Dell’Umanità in effetti egli [Comte] aveva fatto il cardine della sua religione: la sintesi del nuovo dogma, l’oggetto del culto, la fonte dell’ispirazione etica come l’obiettivo dell’impegno pratico.
(Larizza, BV, p. 361)
A proposito di elenchi. È la struttura della frase a rifiutare o a richiedere che un’interpunzione separi il predicato di cui i membri di un elenco sono oggetto o soggetto. Un esempio del rifiuto nel primo segmento di (51), mentre nel secondo una virgola separa dalla serie enumerativa il membro che rappresenta la nozione inclusiva delle altre, ed è quest’ultima a costituire il soggetto grammaticale del verbo:
(51) Ci permettono [le parole] di elaborare emozioni, idee, paure, fantasie, sogni, ragionamenti, speranze [...]. Passato prossimo e remoto, presente, futuro più immediato e più lontano, l’intera vita di un essere umano è coinvolta nelle e dalle parole.
(De Mauro, PLL, pp. 12-13)
E un esempio della «richiesta» di un’interpunzione (necessaria), nell’enunciato che, nel medesimo testo, segue immediatamente il primo segmento di (51); nei due punti presenti in (52) si concentra l’enunciazione di un contenuto che proprio dall’implicito guadagna evidenza:
(52) Lo abbiamo appena evocato: paure, speranze, progetti. Le parole non ci legano solo al passato, non ci sono preziose solo nel presente.
(De Mauro, PLL, p. 13)
Il valore esplicativo spicca in questo passo di saggistica letteraria:
(53) La scomparsa di Don Giovanni configura l’irrevocabilità di una scelta individuale: lo fissa per sempre a quel rifiuto, atto d’orgoglio, di coraggio e di coerenza.
(Gronda, IDG, p. ix)
e in un mirabile indugio ripetitivo (la commoratio dei retori):
(54) Le era parso che somigliasse stranamente a chi aveva occupato il fulgore breve del tempo: del consumato tempo.
(Gadda, CD, p. 257)
Come connettivi i due punti permettono di fare a meno di congiunzioni subordinanti e quindi di costruzioni ipotattiche («Dato che / poiché...»). La costruzione coordinativa ottenuta sfruttando il valore sintattico dell’interpunzione è più semplice e più efficace, specialmente in architetture complesse:
(55) Se e quando questa versione del finale [del Don Giovanni] sia stata rappresentata non possiamo sapere con certezza: nell’autografo mozartiano l’appunto è cassato dalla mano del compositore.
(Gronda, IDG, p. vii)
A tale prerogativa, semplificante e chiarificante, si deve presumibilmente la frequenza di questo segno nella scrittura di scienziati particolarmente attenti alla chiarezza espositiva. Ne do un solo campione:
(56) […] nel mondo biologico la diversità costituisce la regola, l’uniformità l’evento eccezionale. Di conseguenza il pregiudizio che ci porta a distinguere «razze» diverse non ha alcun fondamento biologico, ma è di natura esclusivamente culturale. Il «diverso» è classificato come tale in base a parametri che della biologia manifestano l’ignoranza più che la conoscenza: la persona di pelle scura, da un punto di vista genetico, è sì diversa dalla persona di pelle chiara, ma i geni che controllano il colore della pelle costituiscono una proporzione irrisoria della totalità dei geni che sono differenti in due persone con lo stesso colore di pelle.
(Piazza, PT, pp. 73-74)
In (56) i due punti sostituiscono non un singolo costituente di frase ma un intero enunciato: ad esempio, «chi conosce la biologia sa che…» e simili.
Un importante rapporto di connessione stabilito interpuntivamente tra due enunciati è la causalità. Si torni all’esempio (55), dove i due punti introducono la dichiarazione della causa di cui l’enunciato precedente rappresenta l’effetto. Rispetto ai connettivi verbalizzati da congiunzioni, avverbi, locuzioni e frasi (perché, poiché, dato che, giacché, siccome, perciò, per questo motivo, è per questo che..., ecc.), parte dei quali subisce restrizioni di posizione, i due punti hanno il vantaggio di prestarsi ugualmente a evocare l’una o l’altra direzione della causalità: dalla causa all’effetto (modo progressivo: «Sono stanca: interrompo il lavoro», dove il segno paragrafematico significa «perciò/quindi» e simili), o dall’effetto alla causa (modo regressivo: «Interrompo il lavoro: sono stanca», dove i due punti equivalgono a «perché / siccome / dal momento che» e simili)30. Tale privilegio arriva fino alla possibilità di istituire fra una coppia di enunciati una relazione a doppio percorso, in modo da permettere di interpretare l’uno come conseguenza dell’altro e viceversa:
(57) Il tempo è sovrano: nulla dura e nulla permane [...].
(Ossola, SBU, p. ix)
È generalmente sconsigliata la replica dei due punti tra frasi precedute o seguite dallo stesso segno. Ma quest’uso, fiorente nella prosa letteraria, non è affatto sconosciuto in tipi di testo di tutt’altro genere: ad esempio, nella saggistica scientifica. Né si vede come censurarlo quando si tratti di un susseguirsi di enunciati consequenziali:
(58) Va allora riconsiderata la premessa posta da Austin: il contesto di discorso in cui si parla di verità [...] è particolare: si tratta di fatti soffici o autoreferenziali, e in cui c’è una differenza tra falsità e negazione.
(D’Agostini, DV, p. 220)
I due punti che introducono il discorso diretto quando questo è preceduto dall’enunciato introduttore sono già stati (brevemente) esaminati nel capitolo I [4.3], con gli esempi (44) e (45).
Il valore di pausa (breve), l’unico che i due punti avessero negli stadi primitivi del sistema interpuntorio [III, 3], li rende intercambiabili con altri segni demarcativi: ad esempio, con una virgola che apra un elenco messo in posizione incidentale («Voleva confidarle tutto, [:] preoccupazioni, speranze, disillusioni, ma non riusciva a parlare»); in certi casi con il punto e virgola oltre che con il punto fermo. Proviamo a mettere l’uno o l’altro di questi due segni, indifferentemente, al posto dei due punti nel passo di Beccaria citato in (17): «una selva di parole appartenenti a un non lontano passato [...]: parole che hanno, alcune, definitivamente attecchito in lingua o nei dialetti». Che cosa si perderebbe in una simile sostituzione? Si perderebbe, se non altro, il senso del preannuncio, che solo i due punti sono in grado di trasmettere, mantenendo intatto il valore pausativo, ben percettibile proprio in virtù della funzione connettiva. Questa infatti impone un arresto alla lettura: come un vuoto da riempire, virtualmente, con i significati impliciti nel rapporto fra i segmenti che i due punti delimitano e simultaneamente uniscono.
4.2. Marche dell’enunciazione: parentesi, lineette, virgole
Nella linearità del discorso scritto, in corrispondenza di «salti» intonativi nell’orale, le inserzioni parentetiche, indicate da segni grafici come le parentesi [I, 4.5], le lineette [I, 4.3], le virgole correlative [II, 2.3: esempi (22), (23), (24), (25)] provocano discontinuità nell’enunciazione. Ne spostano o cambiano radicalmente le coordinate (di persona – spazio – tempo), creando stratificazioni discorsive. Producono effetti polifonici: intrecci di voci o di toni. Attuano passaggi dal «mondo narrato» al commento da parte del narratore, che si intromette facendo percepire la sua voce, con diversioni, allocuzioni, note metatestuali, valutazioni (con una gamma inesauribile di atteggiamenti). Campione indiscusso, e classico, del far capolino nel racconto è Manzoni: da solo, il suo romanzo potrebbe offrire un’esemplificazione soddisfacente di come la posizione parentetica permetta al narratore di intervenire nel mondo narrato pur restandone al di fuori. Di come la giustapposizione dei membri provochi stratificazioni enunciative. Basti a provarlo un passaggio famoso (I promessi sposi, I, 40):
(59) Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone.
Si pensi al deprezzamento stilistico che si avrebbe eliminando l’eterogeneità nell’enunciazione con l’inglobare in una frase complessa ciò che qui è in parentesi: «Il lettore si sarà già avveduto che don Abbondio ecc.».
È stato riconosciuto come tipico della «posizione» parentetica il carattere espletivo (cfr. Cignetti 2001) sul livello delle strutture di frase (cioè la possibilità, per gli elementi inseriti in tale posizione, di essere espunti senza intaccarle). La condizione non vale per il livello della testualità [II, 1.1], né per quanto riguarda il gioco delle connotazioni dal punto di vista semantico o, sul piano pragmatico, il funzionamento della «modulazione» (che modifica nel senso del rafforzamento o nel senso dell’attenuazione la forza illocutoria degli atti linguistici31). Valga il seguente esempio:
(60) Ma, a ben vedere, anche per molte di queste parentesi esplicative, apparentemente informative e oggettive, è assai difficile – e infruttuoso – distinguere l’intervento e la voce del narratore da quella del personaggio in scena.
(Soletti, TS, p. 978)
I segmenti in posizione parentetica, evidenziati in (60) con il corsivo e racchiusi i primi due da virgole correlative e il terzo da lineette, rappresentano altrettante modulazioni nell’enunciazione di un discorso che – sul piano della sintassi – apparirebbe compiuto anche senza le precisazioni introdotte espletivamente rispetto alla struttura di frase. Intrusioni dal punto di vista sintattico, sono completamenti necessari a «rifinire» il senso, che in certi casi riescono a modificare radicalmente.
La scelta tra parentesi tonde, lineette e virgole dipende non tanto da preferenze personali di chi scrive quanto dalla compresenza di questi con altri segni. In un periodo affollato di virgole la posizione parentetica dovrà essere manifestata da parentesi o da lineette. La scelta tra gli ultimi due accorgimenti, a sua volta, potrà essere dovuta a ragioni di coerenza tipografica (per esempio, se si adottano le lineette come indicatori grafici del discorso diretto, per le eventuali inserzioni parentetiche si ricorrerà a una delle altre due coppie di segni). In generale, si ritiene che le parentesi tonde marchino in modo più deciso l’estraneità strutturale. Non sarà un caso se la stessa denominazione indica il fenomeno discorsivo, l’enunciato in posizione incidentale, e il segno grafico che lo delimita.
A scanso di equivoci, Cignetti (2001, pp. 74-75) adotta per il simbolo interpuntivo il termine latino lunula (al plurale lunulae) proposto da Erasmo da Rotterdam (nel 1530).
Popin (1998), a cui rinvio per le numerose osservazioni sugli usi francesi delle parentesi, osservazioni valide – quasi tutte – anche per l’italiano, nota: «Segno scritto, obbligatorio per segnalare la duplicità dell’enunciazione, le parentesi possono migrare nel discorso orale, dove sono verbalizzate»; ed ecco l’esempio (che traduco, come ho fatto per la frase precedente): «L’ingresso costa venti franchi. Tra parentesi, me ne devi cinquanta».
4.2.1. Come marca iniziale di una parentetica inserita alla fine di una frase si può trovare una lineetta priva della lineetta terminale correlativa. Tradizionalmente, per un inserto che si trovi in tale posizione, si preferiscono alle lineette le parentesi (una in apertura e una in chiusura seguita dal punto finale), oppure la virgola iniziale («virgola che apre», nella terminologia di Simone 1991); la «virgola che chiude» è neutralizzata dal punto fermo, per il criterio di cui si è parlato in questo stesso capitolo [2.3.1]. Le alternative possibili si presenterebbero dunque così: «Non ci sono studi sull’argomento – per quanto ne so.» / «Non ci sono studi sull’argomento (per quanto ne so).» / «Non ci sono studi sull’argomento, per quanto ne so.». Come si vede, la lineetta come segnale di parentetica ha lo stesso trattamento della virgola. Questo in scritture prevalentemente denotative.
Quando intervengono coloriture stilistiche, la lineetta si carica di una varietà di valori difficilmente schematizzabili. Per limitarmi a osservazioni impressionistiche, dirò che si tratta di un modo di sfumare i rapporti (sintattico-semantici) tra i segmenti separati dalla lineetta, lasciando buon gioco all’implicito nel far intuire le connessioni. Come si vede nei seguenti due esempi, di estrazione diversissima l’uno dall’altro:
(61) La vidi per un momento stagliarsi contro il cielo di un azzurro innocente – esile, bruna, mia.
(Madieri, LC, p. 18)
(62) In un contesto metateorico può essere opportuno adottare la seconda prospettiva, mentre la prima mostrerebbe le maggiori opportunità in contesti teorici – una troppo ampia visione della realtà [...] può essere frenante quando ci si adoperi nella soluzione dei singoli problemi, o anche nella scelta degli oggetti di indagine.
(D’Agostini, BS, p. 223; corsivi nel testo originale)
4.2.2. Sono dette endolessematiche le parentesi inserite all’interno di una parola. Le loro sedi originarie sono i dizionari (dove si isolano, tra parentesi quadre, lettere o sillabe che si possono tralasciare) e le edizioni filologiche di testi (dove, a seconda delle convenzioni adottate, si mettono in parentesi quadre o uncinate le integrazioni dell’editore al testo, oppure le parti da espungere). Questa pratica scritturale è sfruttata retoricamente nella letteratura, nella saggistica, nella scrittura giornalistica, ecc. Basta scorrere i titoli citati nella nostra bibliografia per trovarne esempi:
Scripta mane(n)t (Coluccia 2002)
(Situ)azione delle parentesi (Marello 1977)
La [pro]posizione parentetica (Cignetti 2001)
Già individuato da Leo Spitzer (cfr. Marello 1977), il fenomeno si presenta con risvolti testuali interessanti dovuti alla doppia lettura a cui induce. La componente semantico-retorica è data dal carattere allusivo del raddoppiamento di senso. Ne proviene un lavoro di reinterpretazione che mette alla prova, e soddisfa, la capacità collaborativa del lettore. Si veda, nel primo titolo, l’effetto retroattivo prodotto sulla parola scripta dalla parentesi che rende singolare la persona del verbo e perciò singolare anche il suo soggetto. Il gioco linguistico è possibile dato che in latino la desinenza -a contrassegna sia un soggetto neutro plurale sia un soggetto femminile singolare.
Nell’accurata tipologia di Cignetti (2001), alle parentesi quadre è assegnata una specifica funzione «sottrattiva»; perciò sarà il vocabolo che rimane fuori parentesi «ad essere investito della priorità di scelta rispetto a quello parentesizzato». Il titolo del suo lavoro dovrà dunque essere interpretato così: «La proposizione (o meglio posizione) parentetica», mettendo in atto una «correctio comparativa parentetica». La correctio in direzione opposta è rappresentata da un titolo come il seguente:
(De)formazione del lessico tecnico nell’italiano di studenti universitari (M. Berretta)32
4.3. Marche dell’enunciazione: le virgolette citazionali
Come si è visto nel capitolo precedente [I, 4.3], gli indicatori grafici dei discorsi citati variano secondo che si tratti di parole pronunciate o pensate, in soliloqui o dialoghi mentali. Le interpunzioni diventano il mezzo visivo per rendere riconoscibili nello scritto gli effetti polifonici degli «intrecci di voci»33.
In testi argomentativi possono mancare gli indicatori grafici delle mosse dialogiche. Un esemplare interessante è il seguente, dove la distinzione è affidata al punto interrogativo per le domande e al punto fermo per le risposte, non di interlocutori individuati come persone, ma nella dialettica fra obiezioni e relative contromosse assertive (si potrebbe anche sostenere che è il soggetto che argomenta a dialogare con sé stesso; questa è l’impostazione caratteristica di molti ragionamenti di Wittgenstein). Punto interrogativo e punto fermo diventano, in questo caso, i segnali esterni della polifonia:
(63) Dove devo rivolgermi per controllare la definizione di un certo termine matematico che si trova in quello che è considerato il miglior dizionario dell’italiano? Be’, rivolgiti a un matematico. E se non è d’accordo col dizionario? Devo ritenermi soddisfatto della sua definizione alternativa? Be’, non necessariamente. E allora chi: un matematico più bravo di lui? Che significa precisamente?
(Marconi, CL, p. 154)
Le virgolette citazionali sono indici di polifonia. Per mezzo loro (come anche mediante il corsivo quando è impiegato con identica funzione) segmenti più o meno lunghi di enunciati, e successioni più o meno ampie di questi ultimi, all’interno del contesto di cui sono parte integrante vengono marcati come appartenenti a contesti «altri». Le virgolette sono segnali espliciti del confine tra parole attribuibili a «enunciatori» diversi: a voci differenti, dunque. Omologate al discorso in cui sono inserite, le citazioni sono riconoscibili come tali solo in virtù delle segnalazioni grafiche, se il testo citato non è già noto, o almeno non è noto a chi legge o ascolta; tanto è vero che, nell’orale, si è costretti a ricorrere a espressioni supplementari, del tipo: «cito (testualmente)» e «fine della citazione», quando non basta un cambiamento ben percettibile del tono di voce. Si dice anche «aperte le virgolette» e «chiuse le virgolette»: indicando il segno grafico se ne sottolinea il valore enunciativo. L’espressione tra virgolette sta a manifestare il distanziamento di chi parla da ciò che dice.
Nello scritto le virgolette come indicazione di «detto con riserva» equivalgono ai distanziatori verbali espliciti cosiddetto / sedicente / preteso / si fa per dire, o anche a espressioni commentative come addirittura/figuriamoci! e simili, quando si tratta di distanziamento ironico, sarcastico e via dicendo. I distanziatori, verbalizzati o tradotti in interpunzioni, hanno sull’enunciazione un effetto che potremmo definire, metaforicamente ma con qualche ragione, come frantumazione della voce enunciante. Nell’orale questo fenomeno si può manifestare, per citare un affascinante passo di Proust, attraverso «un’intonazione speciale, meccanica e ironica»: quella con cui il personaggio Swann soleva isolare certe espressioni «come se le avesse messe tra virgolette, facendo mostra di non volersene assumere la responsabilità». Nello scritto è il gioco delle virgolette a rendere, meglio che con gli stereotipi distanzianti, l’effetto di frantumazione enunciativa. Ricorro a un esempio che ho già avuto occasione di citare in altra sede, traendolo da uno studio di Kerbrat-Orecchioni34. In quegli anni il P.C.F. (sigla del Partito comunista francese) era diventato, in certe pubblicazioni dell’estrema sinistra, “le P.«C».F”, e nelle pubblicazioni dell’estrema destra, “le P.C.«F».”: le virgolette alludevano – polemicamente o ironicamente – a valutazioni contrastanti con quelle implicate dalla denominazione.
4.4. I puntini di sospensione e di reticenza
La qualifica «di reticenza» richiama la figura retorica dello stesso nome. Figura del silenzio, la reticenza si esprime o a parole, dichiarando l’interruzione del parlare, oppure con l’atto stesso del tacere, di cui sono traccia sulla pagina i puntini: tre, secondo le convenzioni stabilite e raccomandate; più di tre, ad arbitrio degli scrittori. Gadda ne usa sempre quattro, e sono, nella maggior parte dei casi, segnali di un prolungamento allusivo del discorso nella sfera del non-detto:
(64) E a chi rivolgersi, nel tempo mutato, quando tanto odio, dopo gli anni, le era oggi rivolto? Se le creature stesse, negli anni, erano state un dolore vano, fiore dei cimiteri: perdute!.... nella vanità della terra....
(Gadda, CD, p. 268)
Dei puntini sospensivi trattano, da scrittori, e dunque vedendoli dall’interno dello scrivere, Emilio Tadini e Dario Voltolini (in Baricco et al., a cura di, 2001, vol. I, pp. 109-124). Ognuno a modo suo, si capisce; e in maniera molto diversa l’uno dall’altro, e tutti e due da tutti gli altri.
Frequenti nei dialoghi teatrali e nella narrativa che simula il parlato sono i puntini che direi «di esitazione». Si può inoltre ricorrere ai puntini per preparare il lettore a un motto di spirito, a un doppio senso, a un gioco di parole («se non è di bufala è... una bufala», detto di una mozzarella); per far capire che un elenco può continuare indefinitamente (il loro valore è quello di eccetera e di espressioni consimili); per segnalare che si sono omesse parole, o frasi di un testo che si sta citando. In quest’ultimo caso l’esattezza della scrittura richiederebbe che i «puntini di omissione» – come sarebbe appropriato denominarli – fossero racchiusi tra parentesi.
4.5. Gli spazi bianchi, l’a capo e la disposizione in paragrafi e capoversi
I mezzi per distanziare l’una dall’altra le parole hanno attraversato vicende alterne, nella cultura occidentale:
da un sistema antico, greco-latino, di separazione delle parole con punti sul rigo, si è passati, già nel I secolo d.C., a un sistema di scrittura continua, privo di spazi separativi; da esso, gradatamente, fra VII e XII secolo, per impulso soprattutto di scribi irlandesi e anglosassoni, si è giunti prima all’introduzione di spazi fra gruppi di parole e quindi all’uso moderno della regolare separazione delle singole parole fra loro, passando così da un sistema che separava le parole con segni e le unità di senso con spazi bianchi a un sistema opposto, che separa le parole con spazi bianchi e le unità di senso con segni35.
Da espediente utile alla comprensione dei testi e adatto alla lettura veloce e silenziosa – un espediente applicato in orizzontale – lo spazio bianco si è imposto anche in verticale, nella disposizione dello scritto sulla pagina. Pensiamo alla poesia: il bianco che segna la fine del verso, che si frappone a parti di uno stesso verso (ad esempio, nelle composizioni di Zanzotto, per citare solo uno fra i poeti migliori), che distanzia unità, in serie o costanti o occasionali, dal margine sinistro, che divide le strofe, eccetera, è un potente segnale ritmico e metrico.
La funzione assegnata alle diverse misure delle interlinee fa parte degli accorgimenti che regolano l’impaginazione. Fra questi ha valore interpuntivo, e pertinente non solo alla disciplina esteriore ma alla costituzione interna del testo, l’organizzazione dei capoversi e dei paragrafi.
Il capoverso è la porzione di testo che si inizia andando a capo e rientrando di qualche battuta al principio della prima riga. L’a capo è un dispositivo testuale importante per l’articolazione del testo: serve a separare blocchi di informazione, ad avvisare che si cambia argomento, o che si aggiunge qualcosa di nuovo a quello che si sta trattando: si preannuncia una svolta o una variazione nel dinamismo comunicativo. In poesia, oltre a rivestire le funzioni che gli si riconoscono per la scrittura in generale, l’a capo si carica di valori – sintattici, semantici, metrici, emozionali infine – individuabili di volta in volta nell’universo poetico dei singoli autori. «Il rallentamento dell’a capo è respiro irrinunciabile», scrive Raffaella Scarpa36 a proposito dell’enjambement (o inarcatura) nei versi di Amelia Rosselli, «spinta ritmica per il nuovo abbrivio ed enfatizzazione delle parti allontanate, ma sempre taglio della trama stretta della lingua e del pensiero».
La terminologia invalsa dalla seconda metà del Novecento in poi non è univoca:
Il termine paragrafo si sovrappone talvolta, nell’uso corrente, al termine capoverso. È una confusione dovuta all’influenza della lingua inglese, dove la parola paragraph indica sia il paragrafo, inteso come porzione di un testo dotata di una sua autonomia, sia il capoverso, inteso come la parte di testo compresa fra due «a capo». Quest’ultimo, quindi, è in realtà un’unità minore del paragrafo e in alcuni casi un paragrafo potrà contenere più capoversi.
(Corno 2002, p. 98)
«Unità di comunicazione [...] all’interno di un testo», il paragrafo è «un tutto equilibrato di informazioni che contribuiscono alla progressione di contenuto del testo» (Corno 2002, p. 98). Quando si scrive, accade di modificare più volte il frazionamento in capoversi e paragrafi: vuol dire che ciò che ci è sembrato dapprima di dover unire ci è parso poi da separare, e viceversa. Si tratta, in ogni caso, di stabilire o di rivedere gerarchie di pensieri e di contenuti.
Nell’uso giuridico permangono le partizioni, mutuate dall’ordinata architettura del codice napoleonico, in libri, titoli, capi (o capitoli), sezioni, paragrafi, articoli. Un articolo può constare di uno o più commi. Il comma è un membro delimitato graficamente dall’a capo, dalla rientranza iniziale e dal punto fermo finale. Si può andare a capo all’interno di un comma, dopo un punto e virgola, per esempio, negli elenchi; ma in questo modo non si istituisce un nuovo comma. Paragrafo denomina dunque una (sotto)partizione del capitolo. In tale accezione il termine è usato normalmente in ogni genere di scrittura ed è rappresentato dal simbolo grafico §.
Nella terminologia computeristica si chiamano paragrafi tutte le porzioni di testo comprese tra due «invii»: anche i singoli termini di un elenco, se dopo ciascuno di questi si va a capo.
Per una chiara distinzione – finalizzata a un’utile trattazione pedagogica – delle partizioni del testo, che comprendono anche il «blocco inglese» (considerato come un terzo tipo di paragrafo), rimando senz’altro al già citato lavoro di Corno (2002), a cui aggiungo ora l’articolo di Serianni (2003, pp. 56-58).
14 Interessanti resoconti si leggono nel volume miscellaneo curato da M. Orsolini e C. Pontecorvo, La costruzione del testo scritto nei bambini, La Nuova Italia, Firenze 1991, e in Bessonnat (a cura di), 1991.
15 Cfr. M. Cortelazzo, Avviamento critico allo studio della dialettologia italiana, vol. III, Lineamenti di italiano popolare, Pacini, Pisa 1972.
16 J. Firbas, Il funzionamento del dinamismo comunicativo nella prospettiva funzionale della frase, trad it. in R. Sornicola, A. Svoboda (a cura di), Il campo di tensione. La sintassi della Scuola di Praga, Liguori, Napoli 1991, p. 198.
17 Per integrare le scarne elementari notizie che ho dato qui, è indispensabile la lettura del saggio di M. Berretta, Ordini marcati dei costituenti maggiori di frase: una rassegna, «Linguistica e Filologia», 1 (nuova serie), 1995, pp. 125-170; ora in Ead., Temi e percorsi della linguistica. Scritti scelti, a cura di S. Dal Negro e B. Mortara Garavelli, Mercurio, Vercelli 2003, pp. 149-199.
18 Esistono varie tradizioni del testo di questa anfibologia, collegate a narrazioni diverse dell’episodio (o degli episodi) in questione. In una, ad esempio, si asserisce che fu l’arcivescovo Giovanni (consultato dai congiurati prima di uccidere, per vendetta, Gertrude, moglie del re ungherese Andrea II partito per una crociata – secolo XIII), a dare un responso privo di segnali interpuntivi, in modo da permettere, astutamente, una doppia lettura: una conforme alle attese degli aristocratici, nemici del re: «Reginam occidere (nolite timere) bonum est si omnes consentiunt / ego non contradico»; l’altra per salvarsi di fronte al re: «Reginam occidere nolite / timere bonum est / si omnes consentiunt ego non / contradico».
19 Girolamo Leopardi, Capitoli e canzoni piacevoli, Sermartelli, Firenze 1616.
20 La nozione di «ristrutturazione enunciativa» è stata proposta da Ferrari 1995. L’invadenza del punto manifesta il modo di mettere «in valore ogni singola informazione», facendo «della maggior parte dei fatti, proprietà e entità evocati l’oggetto di un singolo assunto» (Ferrari 1995, p. 372). Il commento ai passi citati in (3) e (4) è ricavato da un mio articolo (Mortara Garavelli 1996). Sugli stessi esempi ritorna Ferrari (in stampa).
21 A lavoro ultimato vengo a conoscenza dell’analisi compiuta da Serianni (2003, p. 51) su un passo di Ilvo Diamanti, presentato come esempio dell’uso giornalistico «di scandire piccole porzioni di frase ricorrendo al punto». Dello stesso passo Serianni dà una riscrittura «ricorrendo a periodi di più ampia gittata, spezzati al loro interno da virgole, punti e virgola, due punti».
22 http://www.mestierediscrivere.com/testi/punteggiatura.htm, pagina aggiornata il 2 ottobre 2001.
23 Anafora come forma di riferimento testuale è il rinvio a qualcosa che è già stato menzionato, o che sarà menzionato (in tal caso si parla di catafora), nel testo. La ripresa anaforica (mediante un pronome, un nome o, per meglio dire, un qualsiasi sintagma, o gruppo, nominale) si fa dunque rispetto a un antecedente (qualsiasi espressione capace di istituire un riferimento, ma anche un intero enunciato: il suo contenuto proposizionale o l’atto linguistico che l’enunciato stesso manifesta).
24 Trattati sistematicamente da Carla Bazzanella, I segnali discorsivi, in L. Renzi, G. Salvi, A. Cardinaletti, Grande grammatica italiana di consultazione, vol. III, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 225-257.
25 Devo questa indicazione a Dario Corno, che qui ringrazio.
26 Per il quale disponiamo dell’ancora suggestivo articolo di Benvenuto Terracini, “Si sente così stanca e triste, la signora Leuca...”, pubblicato in «Lingua Nostra», XXII, 1961, ora in Id., I segni la storia, a cura di G.L. Beccaria, Guida, Napoli 1976, pp. 351-357.
27 L’articolo di Ornella Castellani Pollidori (2002), che segnalo anche per alcune convergenze su argomenti trattati nel presente paragrafo, è uscito quando il mio lavoro era già stato consegnato all’editore.
28 Rimando, per questi argomenti, al saggio di Pier Marco Bertinetto e Emanuela Magno Caldognetto, Ritmo e intonazione, in A.A. Sobrero, Introduzione all’italiano contemporaneo, vol. I, Le strutture, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 141-192.
29 M. Corti, E. Manzotti, F. Ravazzoli, Una lingua di tutti, Le Monnier, Firenze 1979, p. 315.
30 La causalità «testuale» o «discorsiva» e le relazioni causali «esterna» e «interna» sono state indagate da Angela Ferrari, Tra rappresentazione ed esecuzione: indicare la «causalità testuale» con i nomi e con i verbi, «Studi di grammatica italiana», XVIII, 1999, pp. 113-144.
31 Cfr. C. Caffi, La mitigazione, LIT, Münster-Hamburg-London 2001.
32 Articolo di M. Berretta, in C. Lavinio, A. Sobrero (a cura di), La lingua degli studenti universitari, La Nuova Italia, Firenze 1991, pp. 101-121.
33 Trasparente titolo di una raccolta di saggi di Cesare Segre, Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Einaudi, Torino 1991, che tratta temi di grande rilevanza anche in relazione agli argomenti del presente lavoro.
34 C. Kerbrat-Orecchioni, L’énunciation de la subjectivité dans le langage, Colin, Paris 1980, p. 255.
35 A. Petrucci, Prima lezione di paleografia, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 12. Lo stesso argomento è ripreso più avanti, nello stesso libro, alle pp. 60-61.
36 R. Scarpa, «and I crumb who ’d not coagulate». Avvicinamenti alle prose di Amelia Rosselli, «Istmi», 11-12, 202, pp. 105-117 (citazione a p. 106).
Mortara_epub-4.html
III. Breve excursus sugli sviluppi della punteggiatura
Le informazioni che compongono questa sintesi ricognitiva, i cui intenti sono stati dichiarati nell’Introduzione al volume, sono episodiche e frammentarie. Sono niente di più che un assaggio di alcune delle conclusioni (le più semplici da riferire, tralasciandone gli aspetti problematici) alle quali sono giunti gli studi sugli argomenti qui appena sfiorati. Il mosaico delle citazioni risponde sì a criteri di onestà (unicuique suum) verso le fonti delle notizie, ma più ancora all’intento di conferire alle indicazioni riassuntive una precisione garantita. I rimandi bibliografici essenziali mirano a dare al lettore punti di riferimento accessibili; necessari per avviarsi a un augurabile approfondimento delle nozioni che qui si presentano come in una locandina: provvisoria, ma – si spera – invitante.
1. Nell’antichità classica e nella tarda latinità
Alle origini troviamo «segni critici», alcuni dei quali diventano poi interpunzioni. Un utile elenco si trova nel glossario di termini tecnici e di simboli interpuntivi apprestato da Parkes (1992, pp. 301-307) con la riproduzione dei vari segni corrispondenti alle rispettive denominazioni (nella grande maggioranza, più segni per una sola denominazione), e con riferimenti anche alle tavole illustrate che arricchiscono il volume.
In alcune iscrizioni greche anteriori al V secolo a.C. un tratto verticale e tre punti separavano brevi unità del discorso. In testi letterari vergati su papiri del IV secolo a.C., in capo alla riga in cui ha inizio un nuovo argomento si trova una linea orizzontale detta parágraphos (o paragraphḗ [grammḗ] «lineetta fatta a lato»). A segni critici usati come interpunzioni (non più di due) accennava Aristotele a proposito delle ambiguità di costruzione che rendevano oscuri gli scritti di Eraclito:
In generale, ciò che si scrive deve essere facile da leggere e da pronunciare. Questo precetto è la causa per cui la maggior parte di chi scrive non usa troppe congiunzioni, né frasi difficili da interpungere, come fa invece Eraclito. Le frasi di Eraclito sono infatti difficili da punteggiare, perché non si capisce a quale termine una parola sia collegata, se con uno precedente o con uno successivo. Ad esempio, all’inizio della sua opera egli dice: «Questa ragione che esiste sempre gli uomini sono incapaci di comprenderla». Qui non è chiaro se il ‘sempre’ vada congiunto con la parola che lo precede oppure con quella che lo segue.
(Retorica, III, 1407b)
Sull’interpunzione, del resto, né i filosofi né i retori greci facevano assegnamento: non era su questa – esterna alla struttura dei testi – che si basava la lettura e l’interpretazione, ma sul metro per la poesia e sul ritmo per la prosa. Ancora Aristotele, a proposito della battuta finale di un discorso:
[questa] deve essere marcata non per opera del copista o della punteggiatura, ma per mezzo del ritmo.
(Retorica, III, 1409a)
Aristofane di Bisanzio (255 ca.-180 ca. a.C.), il principe dei filologi ellenistici, operante ad Alessandria d’Egitto, introdusse nelle edizioni dei testi, criticamente emendate e commentate, un buon numero di segni critici: oltre all’obelós (linea orizzontale, divenuta poi verticale con un coronamento di tre punti a triangolo) che era stato inventato dal suo maestro Zenodoto per contrassegnare i versi di dubbia autenticità, i segni indicanti rispettivamente la fine di una stanza, l’avvicendarsi di poesie in metri diversi, la partizione del canto in strofe, antistrofe, epodo, la divisione dei cori nella poesia drammatica in unità metriche. Introdusse anche segni prosodici (accenti, spiriti, marche per la quantità delle vocali). Ma, come il suo discepolo – il grande Aristarco di Samotracia (217 ca.-145 ca. a.C.) –, non usò più di due interpunzioni.
Per le abitudini degli scrittori latini a tale riguardo, è particolarmente utile, ai nostri fini, il preciso e conciso resoconto critico di Geymonat (1985), da cui traggo le seguenti osservazioni:
Cicerone, che più degli altri mostrò un interesse specifico per il ritmo dell’orazione, diffidava apertamente delle librariorum notae (De or. 3, 44, 173) e degli interductus librari (Or. 68, 228) [i segni d’interpunzione messi dai copisti], e faceva sue le riserve sul valore della punteggiatura che erano state espresse dai retori e dai filosofi greci […]. Ancora cento anni dopo, del resto, non era certo la distinctio [v. infra] a risolvere i problemi dei giovani che si apprestavano a leggere ad alta voce un testo di poesia: Superest lectio: in qua puer ut sciat, ubi suspendere spiritum debeat, quo loco versum distinguere, ubi claudatur sensus, unde incipiat, quando attollenda vel submittenda sit vox, quo quidque flexu, quid lentius celerius, concitatius lenius dicendum, demonstrari nisi in opere ipso non potest. Unum est igitur, quod in hac parte praecipiam, ut omnia ista facere possit: intellegat (Quintil. 1, 8, 1-2; [...])37. I più frequenti difetti nella dizione erano stigmatizzati da Seneca in una famosa lettera a Lucilio (40, 10-11), dove egli criticava sia chi distaccava troppo le parole, tamquam dictaret, sia chi invece andava troppo di corsa […]. Era questa un’abitudine tipica dei Greci, e il filosofo ne approfitta per mettere in risalto anche la differenza fra la scriptio continua in quella lingua e l’abitudine di separare le parole con dei punti nel latino del tempo.
(Geymonat 1985, p. 998, col. 2)
La trattatistica grammaticale greca e tardolatina attribuiva alla punteggiatura i compiti di segnare le pause per la lettura, di scandire le intonazioni e di indicare le partizioni dei testi. In greco théseis, in latino positurae o distinctiones (dette in progresso di tempo pausationes o punctaturae), le tre «posizioni» rappresentate da un unico segno, un punto situato ad altezze differenti, contrassegnavano le sezioni del discorso. Il comma era la sezione minore a cui corrispondeva la prima positura, detta in greco hypostigmḕ e in latino subdistinctio («dove all’inizio della lettura non c’è ancora una parte di senso compiuto, e tuttavia bisogna fermarsi per respirare», spiegherà Isidoro di Siviglia nei primi decenni del VII secolo), ed era contrassegnata da un punto in basso. La media distinctio (in greco mésē stigmḗ) corrispondeva al colon, la sezione di lunghezza mediana («dove già il discorso ha senso, ma manca ancora qualcosa per renderlo pieno»), marcata da un punto a metà altezza rispetto all’ultima lettera. La teleía stigmé dei Greci, in latino distinctio (che secondo Isidoro valeva disiunctio, perché separava un’unità di discorso [sententia] di senso compiuto), coincideva con la sezione detta períodos (in latino periodus), segnata da un punto in alto. Nella scrittura a caratteri maiuscoli le tre posizioni (che sono state paragonate, grosso modo, alle funzioni pausative attribuite rispettivamente alla virgola, al punto e virgola e al punto) si distinguevano nitidamente; ma la loro applicazione non fu costante, e originariamente esse erano ridotte a due: la subdistinctio e la distinctio38.
2. Nei manoscritti medioevali
Con l’introduzione della scrittura a caratteri minuscoli fa la sua prima apparizione la virgola, nella forma di un apice sovrastante un punto [.’], per raffigurare la subdistinctio, che fu detta distinctio suspensiva. Un punctus planus [.] indicava la media distinctio, che fu detta distinctio constans; un punto affiancato a una sbarretta [.|], oppure un «punto molteplice» [.: :· :-] rappresentava la distinctio diffinitiva. Se le designazioni ebbero una certa stabilità, non altrettanto fu per i segni grafici che le raffiguravano, sottoposti a scambi e varianti dall’uno all’altro manoscritto39.
Sul finire del Duecento si affermano metodi interpuntivi concorrenti, per opera dei maestri bolognesi di ars dictandi. In tale ambiente si formò il grammatico che volgarizzò e commentò l’Ars dictaminis di Giovanni di Bonandrea, e ordinò i punti in «sostanziali» (la virgola [,]; il coma [.´]; il colo [.]; il periodo [;]) e «accidentali» (il punto legittimo o doppio [..], gemipunctus, che sta per un nome proprio quando questo è ignoto a chi scrive, oppure, come nella prassi epistolare e nei documenti, quando la persona che porta quel nome è indicata con un titolo o una qualifica; il semipunto [./] o [=] per indicare che la parola è interrotta e che continua nella riga successiva; l’interrogativo [?] reso dapprima con una linea ondulata o spezzata sovrastante a un punto). A proposito di questo segno Schiaffini (1935, pp. 546-547) aggiunge alle notizie qui appena riportate: «E si noti che nei manoscritti longobardo-cassinesi esso compare non solo in fine di periodo, ma la sua parte superiore è anche collocata, come avviso preliminare, o sulla prima parola o sul primo pronome interrogativo del periodo»: singolare analogia con l’uso spagnolo moderno.
Questo sistema interpuntivo ebbe fortuna in tutto il Trecento. Lo si ritrova, con l’aggiunta del punto ammirativo o esclamativo o enfatico, nell’Ars punctandi attribuita erroneamente a Petrarca. Nonostante l’abbondanza dei segni teorizzati, nella prassi interpuntiva questi erano assai ridotti di numero. Nella redazione definitiva del canzoniere petrarchesco (contenuta nel Codice Vaticano Latino 3195 della Biblioteca Apostolica Vaticana) in parte autografa, e interamente riveduta e corretta dall’Autore, «l’aspetto che maggiormente colpisce il lettore moderno è [...] la scrizione unita di molte parole e un sistema interpuntivo costituito di soli tre elementi (punto, sbarra obliqua e punto esclamativo)» (Maraschio 1993, p. 166). Nell’autografo del Decameron di Boccaccio (manoscritto Hamiltoniano 90 della Staatsbibliothek di Berlino) la punteggiatura comprende: la virgola (l’iniziale della parola che la segue può essere minuscola o maiuscola); il punto (seguito dalla lettera maiuscola); una sbarra obliqua del tipo di quella usata da Petrarca; il punto e virgola e i due punti come segno di pausa lunga; il comma, di forma simile a quella del nostro punto esclamativo, ma con funzione di punto e virgola e posto di solito alla fine dei versi nelle canzoni; il semipunto nella forma descritta nel commentario a Giovanni di Bonandrea; il punto di domanda usato per le interrogative sia dirette sia indirette. Nel Quattrocento, il maestro di scuola (ludimagister) Gasparino Barzizza portò a otto il numero dei segni:
virgula recta [!] virgola; virgula iacens [–] accapo; virgula convexa [)] parentesi; punctus planus [.] punto fermo; semipunctus [..] N.N.; interrogativus [] interrogativo; coma [.] vel [:] punto e virgola; periodus [;] fine dell’argomento. Di poco varierà la segnatura di Enea Silvio Piccolomini.
(Tognelli 1963, p. 19)
Sarà solo con l’avvento della stampa che si porrà la questione dell’uniformità nelle pratiche interpuntive.
3. Dall’invenzione della stampa all’Ottocento
La stampa fu il «motore principale» della «rivoluzione grafica» che investì, a partire dai primi del Cinquecento, l’Italia e l’Europa40.
Le iniziative editoriali del grande stampatore Aldo Manuzio, presso il quale Pietro Bembo pubblicò a Venezia nel 1501 la sua edizione delle Cose volgari di messer Francesco Petrarca, diedero un’impronta decisiva alle convenzioni interpuntive:
Si tratta di un sistema pressoché moderno di segni (virgola di forma attuale, punto e virgola, due punti, punto fermo, accento grave e apostrofo) usato per la prima volta in un testo volgare a stampa, appunto nel Petrarca del 1501, e tale da favorirne grandemente la leggibilità. Chi legge il testo è [...] facilitato, nel riconoscimento dei suoi costituenti lessicali e sintattici, dalla punteggiatura che lo scandisce grammaticalmente e intonativamente. I grammatici cinquecenteschi, del resto, dopo alcune perplessità e resistenze, non tardarono a riconoscere il grande apporto chiarificatore del sistema interpuntivo introdotto da Aldo e dal Bembo.
(Maraschio 1993, p. 178)
L’uso dei singoli segni poteva differire da quello che si impose via via nei secoli successivi fino ad oggi; ad esempio, il punto e virgola fu impiegato da Bembo
per indicare una pausa intermedia tra la virgola e i due punti [...] in molti casi in cui oggi useremmo la semplice virgola, particolarmente davanti a proposizioni relative.
(Migliorini 19785, p. 384)
Quanto al punto, anche nelle edizioni aldine due erano le sue versioni: il «punto minore» o «punto mobile», alla fine di una frase all’interno di un periodo (e in tale posizione era ammessa l’iniziale minuscola della parola successiva), e il «punto fermo» alla chiusura del periodo.
Nota ancora Migliorini (19785, p. 385):
Il punto esclamativo («affettuoso») arriva molto lentamente a distinguersi dall’interrogativo e a imporsi nell’uso. Lo descriveva chiaramente Aldo Manuzio [1516] ma senza adoperarlo nelle proprie edizioni.
Alla metà del Cinquecento prevale in alcuni l’idea che la punteggiatura serva innanzi tutto alla comprensione dei testi, di cui segna le delimitazioni sintattiche, pur seguitando a mettere in conto le funzioni pausative, di aiuto alla lettura. È questa, sia pure con qualche ambiguità (cfr. Chiantera 1992, pp. 198-199) la posizione di Ludovico Dolce (Osservationi nella volgar lingua, 1550), grande revisore di testi, al servizio di grandi stampatori (i revisori e gli editori ebbero un ruolo di prim’ordine nella definizione e nella stabilizzazione dell’ortografia italiana). Simile, l’atteggiamento di Leonardo Salviati (Avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone, 1584-1586), che indica come criterio per stabilire la maggiore o minore lunghezza delle pause il considerare in primo luogo «la legatura delle parole, che da’ Gramatici si chiama costruzione», e in secondo luogo il «concetto» e il «senso», che «i medesimi noman sentenzia»; ma fa poi una concessione al ruolo per così dire respiratorio delle «brevi pose» indicate dal punto coma e dal coma per «ricor l’alito [...] al lettore». Per altri trattatisti era fondamentale, invece, nel «puntar gli scritti» il rispecchiamento del parlato. Così la pensava l’erudito senese Orazio Lombardelli, con forti preoccupazioni pedagogiche. Nel trattato L’arte del puntar gli scritti (Siena 1585), esemplarmente analizzato da Nicoletta Maraschio (1992), è evidente «il rapporto stretto che il Lombardelli avverte fra punteggiatura e oralità». Le interpunzioni sono finalizzate alla lettura a voce dei testi; danno indicazioni sui tempi, i movimenti e le coloriture della dizione, sui toni e sulle modulazioni della voce; rispecchiano le pause,
sia quelle impercettibili, connesse alla fisiologia della respirazione, sia quelle semanticamente rilevanti connesse all’andamento intonativo del periodo. [...] L’aver messo in primo piano la funzione ‘orale’ della punteggiatura non è per il Lombardelli una sorta di scappatoia descrittiva, ma una scelta che rimanda a pratiche di fruizione dei testi diverse da quelle cui noi oggi siamo abituati e che sappiamo allora assai diffuse.
(Maraschio 1992, pp. 217-218)
I segni o «punti» nella sistemazione di Lombardelli sono nove in tutto: cinque «propriamente detti» (Sospensivo, Mezo punto, Punto doppio, Punto mobile, Punto fermo), due «manco propriamente» (Interrogativo e Patetico), due «impropriamente» (Parentesi e Apostrofo). L’utilità pratica del lavoro era legata anche all’ampio elenco delle fonti e all’indicazione scrupolosa delle varianti interpuntive.
Una rassegna terminologica delle varianti (Nomi, et forma di ciascun Segno, che s’osserva nel Puntare le Scritture...) si trova pure in una delle tabelle annesse a un’altra opera divulgativa, il Modo di puntare le scritture vulgari, et latine di Jacopo Vittori da Spello (Perugia 1598, p. 26):
Coma, Virgola, Semicircolo [,] / Puntocoma, Virgola col punto, Sospensivo [;] / Duepunti, Geminopunto, Bipuncta [:] / Puntosimplice, Colon [.] / Puntofermo, Finale, Periodo [.] / Interrogativo [?] / Ammirativo, Esclamativo: o Affettuoso, Patetico [!] / Parentesi, Interposizione, Interclusio, i cui segni si chiamano Verghette; Mezzi cerchi [( )] / Accento, Suono, Tuono Grave [`], Acuto [´] / Apostrofo, Rivolto, Sinalefa, Elisio [’] / Circonflesso, o più volgare Cappelletto, Campanello [^] / Divisioni [- ,]
L’interpunzione si manteneva, tutto sommato, abbastanza caotica nella pratica scrittoria. Una ricognizione sui manoscritti «d’autore» mostra il perdurare di abitudini superate: ad esempio, Michelangelo usa soltanto due segni, le sbarre oblique, semplice e doppia; ignora accenti e apostrofi, e distingue la terza persona del presente di essere facendone precedere e seguire la forma da un punto in basso [.e.]; non separa, a volte, le parole. Caratteri arcaici presenta l’interpunzione adottata da Machiavelli (punto fermo, due punti, virgola rappresentata da una sbarra obliqua, punto interrogativo di forma antiquata, assenza di accenti). Guicciardini «conosce solo la virgola (nella forma /), i due punti (applicati anche per il punto e virgola e per il punto in fine di proposizione), il punto fermo (solo in fine di periodo), il punto interrogativo, ma li adopera molto parcamente» (Migliorini 19785, p. 384). I frammenti autografi dell’Orlando furioso rivelano che
l’Ariosto conosce il punto (che serve anche da virgola e da punto e virgola), la virgola e il punto doppio (che si equivalgono), l’interrogativo, la parentesi, l’accento e l’apostrofo; ma non li adopera quasi mai nello scrivere consueto.
(S. Debenedetti, I frammenti autografi dell’«Orlando furioso»,
Chiantore, Torino 1937, p. xxxvii)
Nel panorama degli usi interpuntivi, accanto alle consuetudini dei letterati e degli estensori di documenti ufficiali hanno rilievo anche gli adattamenti, le approssimazioni, le svariate manifestazioni dello smarrimento grafico e interpuntorio che si osservano in scritti di «semiletterati» (cfr. Bianconi 1992).
Continuano nel Seicento le riflessioni sull’«arte del puntare», che testimoniano le oscillazioni manualistiche e le incertezze dell’uso, come nel Trattato della lingua di Giacomo Pergamini (1613), dove i segni catalogati sono cinque (punto fermo, coma, due punti, puntocoma, punto interrogativo), ma con la constatazione che questi si riducono a tre presso gli «scrittori e segretari» del tempo.
Il salto verso una concezione della punteggiatura «per l’occhio» è compiuto da uno scrittore, Daniello Bartoli (Dell’ortografia italiana, 1670, capo XVI, 1), che mette in parallelo, distinguendole nettamente, la chiarezza del parlare finalizzata all’«essere inteso» e la chiarezza dello scrivere in quanto un «parlare ch’egli è tutto in silenzio, peroché parla a gli occhi»:
L’appuntar dunque [...] viene ordinato al distinguere, e ’l distinguere a render chiaro, il render chiaro a far primieramente che leggendo non si prenda errore: peroché questo è il principale intendimento: l’altro, che non si cada in ragionevole ambiguità e dubbiezza [...]: il terzo, che leggendo non si duri fatica, ciò che di necessità avverrebbe, se tutto insieme si avesse a leggere la scrittura, e divisarne da sé medesimo i sensi: in quanto l’occhio non viene aiutato da niuna visibile distinzione, la quale, unendo fra sé le tali parole che separa e disunisce dalle altre vicine, fa ch’elle abbiano determinatamente un tal dire e non un tal altro.
Dove la funzione sintattico-semantica affidata all’interpungere delinea i tratti che saranno riconosciuti come essenziali alla «punteggiatura logica». Nei paragrafi successivi Bartoli descrive ed esemplifica vivacemente l’uso dei «quattro segni, con che si appunta»: il punto fermo, i due punti, il puntocoma, e il coma o virgola. A quest’ultimo segno specialmente dedica una trattazione minuziosa, non priva di arguzie, per concludere (ragionevolmente, e in linea con le sue concezioni in fatto di lingua) che l’acquisto di una buona padronanza del suo uso dipende «più che da regole e precetti, da studio e osservazione, or sia scrivendo o leggendo», fino ad apprenderne «tanto di buono e franco giudicio, che non vi si pecchi inescusabilmente o nel poco o nel troppo». Sulle parentesi, che secondo lui avrebbero poco a che fare con l’interpungere, non rinuncia a dare istruzioni pertinenti alla proprietà del loro uso; e altrettanto fa a proposito dell’impiego delle iniziali maiuscole e dei capoversi. L’aver assegnato alla punteggiatura una funzione esclusivamente demarcativa (l’«ufficio» di «distinguer cosa da cosa» per quanto attiene alle costruzioni e al senso del discorso) fa sì che Daniello Bartoli non comprenda fra le «distinzioni» il punto interrogativo, che pure egli usa per le interrogative dirette e indirette, come attestano i suoi manoscritti.
Nel panorama settecentesco, sul pullulare di compilazioni ripetitive emergono i lavori di Iacopo Facciolati (Ortografia moderna italiana, 1722); di Girolamo Gigli (Regole per la toscana favella, 1721), che aggiunge al catalogo i punti interrogativo, ammirativo «in senso di meraviglia» e la parentesi «o sia Interposizione di un parlare in un altro parlare»; di Domenico Maria Manni (Lezioni di lingua toscana, 1737), che traccia lineamenti essenziali di storia della punteggiatura (cfr. Tognelli 1963, pp. 27-28); di Salvatore Corticelli (Regole e osservazioni della lingua toscana, 1745), fermo al valore pausativo dell’interpungere e alla limitazione a cinque dei relativi segni. Con la modestia delle teorizzazioni contrasta l’incremento della sicurezza e della relativa stabilità degli usi. L’affermarsi dello stile franto privilegia frasi brevi e un impiego ritmico della punteggiatura.
L’Ottocento vede ormai ampliato il sistema interpuntivo; le proposte di innovazioni rientrano nel quadro delle discussioni ortografiche e fonetiche vive dal Cinquecento in poi (cfr. Maraschio 1993): aspetti essenziali della secolare «questione della lingua», e specifici del travaglio lessicografico che ebbe la prima grandiosa sistemazione nel Vocabolario degli Accademici della Crusca (prima edizione 1612)41.
Giovanni Gherardini (Lessigrafia italiana o sia maniera di scrivere le parole italiane [...] messa a confronto con quella insegnata dalla Crusca, 1883) registra le varianti dei segni interpuntivi dell’intonazione (l’esclamativo triplicato [!!!], l’unione dell’interrogativo e dell’esclamativo [?!]), e propone accorgimenti grafici (segni di abbreviature, ecc.) che non ebbero seguito. Giuseppe Rigutini (La unità ortografica della lingua italiana, 1885) critica gli abusi dei puntini di sospensione «che tanto piacciono a certuni, fino da mettere nelle pagine più puntolini che idee», degli accoppiamenti e dei raddoppi di esclamativi e interrogativi.
Più che i contributi dei trattatisti interessano la storia della punteggiatura le riflessioni e gli usi di grandi scrittori quali furono Leopardi e Manzoni. Leopardi, nello Zibaldone, critica duramente l’abitudine di infarcire di segni le scritture:
Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere e significare con segni [...].
(Zibaldone di pensieri, 975, 2
[ediz. fotografica dell’autografo, a cura di E. Peruzzi,
Scuola Normale Superiore, Pisa 1989-1994])
Il lettore deve essere indotto «alla sospensione, all’attenzione e alla meditazione, alla posatezza nel leggere, agli affetti che occorreranno [...], con le parole, e non coi segnetti, né collo spendere due pagine in quella scrittura che si potrebbe contenere in una sola pagina, togliendo le lineette» (ma di lineette abbondava Ugo Foscolo, nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis). Quello di Leopardi è un modo di interpungere parco e attentissimo, che mira sia alla chiarezza delle articolazioni strutturali sia alle coloriture stilistiche: «spesse volte una virgola ben messa dà luce a tutto il periodo», scriveva il poeta in una lettera a Pietro Giordani (12 maggio 1820).
Alessandro Manzoni, poco sistematico nell’interpungere la prima edizione (1827) dei Promessi sposi, intervenne con accuratezza e coerenza di scelte nella seconda, del 1840. Notevole l’uso della virgola con funzioni di marcatura del tema dislocato (cfr. supra [II, 2.3.2]): «Senza aspettar risposta, fra Cristoforo, andò verso la sacrestia» (I promessi sposi, VIII, 89). L’abbondare delle virgole, l’impiego attento dei due punti in funzione presentativa e del punto e virgola come elemento di divisione graduata rispondono a un’adeguata scansione logica e ritmica del periodare.
4. Discussioni e usi interpuntivi nel Novecento
Solo qualche cenno alle principali tendenze «speculative» sul rispetto o viceversa sul rifiuto delle convenzioni interpuntorie; con l’avvertenza che l’interesse principale verte sempre sui testi, letterari e non letterari. È l’iniziativa dei singoli, di chiunque scriva con scopi di comunicazione pratica, letteraria, scientifica, ufficiale (politica, giuridica, burocratica, aziendale), giornalistica nelle sue svariate manifestazioni, multimediale, eccetera, a mostrare le molteplici facce delle abitudini compositive. L’esemplificazione occorsa nei capitoli precedenti avrebbe dovuto dare almeno un’idea delle varianti accettabili rispetto ai diversi tipi di produzioni scritte. Gli studi sulla lingua di scrittori, scienziati, artisti, giornalisti e via elencando, e su produzioni linguistiche scritte nei vari ambiti specialistici (impossibile qui darne conto, come si è già constatato) forniscono abbondanza di descrizioni pertinenti ai temi trattati nel nostro prontuario. Di questo è dunque necessario che tenga conto il lettore interessato alle vicende – alle vicissitudini – della punteggiatura nel secolo scorso.
Qui ci atteniamo a un rapido notiziario, che prende le mosse dal finire dell’Ottocento. Dalle osservazioni sullo stile interpuntorio dei grandi, Manzoni e Leopardi, in particolare. Del primo si notava la sovrabbondanza, del secondo la parsimonia nel punteggiare. In favore di un uso parcamente moderato si pronunciava Giosuè Carducci, che dai contemporanei fu additato come modello. Di Carducci è stato notato un «vezzo [...] che ebbe assai largo seguito: quello di sopprimere la virgola nelle serie enumerative» (Migliorini 19785, p. 701). Nemico delle (troppe) virgole si proclamava D’Annunzio («Costrutto molto virgolato è costrutto molto bacato. Alle troppe virgole si riconosce che la locuzione è marcescente», Le faville del maglio, in Prose di ricerca, di lotta ecc., Mondadori, Milano 19623, pp. 240-241). Alcuni proponevano drastiche ripuliture (Ugo Ojetti auspicava l’eliminazione del punto esclamativo), mentre altri trovavano insufficiente il numero delle interpunzioni: Carlo Dossi (negli ultimi decenni dell’Ottocento) sentiva la mancanza di un segno che indicasse «un distacco tra l’una e l’altra proposizione, minore di quello della vìrgola accoppiata al punto, maggiore della sèmplice vìrgola» (cit. in Migliorini 19785, p. 701). Troppi, o troppo pochi i segni d’interpunzione? è il titolo di un saggio di Pio Rajna (1924) che fa il punto sulle discussioni del tempo. Da notare che queste andavano di pari passo con le proposte di innovazioni dell’ortografia, nessuna delle quali ebbe seguito.
Le dichiarazioni più clamorose furono quelle dei futuristi: per i testi paroliberi Marinetti proclamava (cito da Stefanelli 1992, p. 295) l’eliminazione «delle normali pause sintattiche fra gruppi di parole, in osservanza al criterio estetico della velocità»; «dell’intonazione legata [...] alle strutture sintattiche della frase e del periodo» per [sono parole di Marinetti] «disumanizzare completamente la voce, togliendole sistematicamente ogni modulazione o sfumatura». Alla melodia del verso si sostituiva, come osserva ancora Stefanelli «una dizione scandita da pause uguali tra le singole parole e da una ritmicità martellante». Il sovvertimento interpuntorio si univa alla rivoluzione grafica e tipografica: alternanza di caratteri, predominio delle parentesi, uso di simboli matematici, impaginazione. Con l’adozione dei simboli matematici, osserviamo a posteriori, sembra di respirare un’aria di famiglia, oggi, se pensiamo alla fortuna di espedienti analoghi nella scrittura veloce e riduttiva dei «messaggini» (Sms: Short message service).
L’assenza o, al contrario, la ridondanza della punteggiatura è un tratto caratterizzante di stagioni e di episodi notevoli della letteratura novecentesca. Ne tratta in riferimento alla contemporaneità (dagli anni Sessanta a oggi) Antonelli (1999). Ne hanno trattato, descrivendo le vicende linguistiche e letterarie del Novecento, gli storici della lingua italiana e gli studiosi dello stile di scuole e di autori singoli, narratori e poeti.
L’analisi degli usi della punteggiatura è diventata pertinente alla considerazione linguistica (retorica e stilistica), critica e semiotica dei testi composti a partire dai periodi in cui il sistema interpuntivo della nostra come delle altre lingue ha acquistato una relativa stabilità (grosso modo dal Settecento in poi). Per quanto riguarda le scritture popolari (dei «semiletterati») la padronanza delle convenzioni interpuntorie è stata, ed è tuttora, specchio del grado di alfabetizzazione. Lo è comunque per la valutazione delle produzioni linguistiche di qualsiasi genere e provenienza, ai giorni nostri.
37 Riporto, con qualche adattamento, la traduzione contenuta nell’edizione dell’Institutio oratoria a cura di A. Pennacini, Einaudi, Torino 2001: «Resta da parlare della lettura: non si può mostrare se non con la pratica come il fanciullo sappia dove trattenere il fiato, in quale punto fare una pausa all’interno del verso, dove si concluda il senso, donde cominci, quando bisogna alzare o abbassare la voce, con quale inflessione bisogna pronunciare ogni passo, cosa bisogna dire più lentamente o con più celerità, con più veemenza o con maggiore pacatezza. Uno solo dunque è il consiglio che darò a tale proposito al discepolo perché possa riuscire in tutto questo: che capisca» [N.d.A.].
38 Per quanto riguarda i testi greci, postilliamo che tra l’ottavo e il nono secolo dell’era volgare fu introdotto il segno dell’interrogazione nella forma di un punto e virgola (cfr. Castellani 1995). Nella sistemazione della punteggiatura greca stabilita dagli stampatori italiani e francesi nel secolo XVI le funzioni del punto e virgola furono affidate a un punto in alto. Tali convenzioni permangono tuttora nelle edizioni dei testi greci.
39 A chi vorrà avere una visuale non frammentaria del formarsi delle convenzioni interpuntive non dovrà mancare una conoscenza precisa dell’organizzazione della scrittura. A ciò provvedono egregiamente le opere di Armando Petrucci, del quale cito soltanto, qui, Il libro manoscritto, in Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, vol. II, Einaudi, Torino 1983, pp. 499-524, e Prima lezione di paleografia, Laterza, Roma-Bari 2002; da queste si possono desumere informazioni bibliografiche pertinenti, ad ampio raggio. Per gli episodi di storia della punteggiatura a cui accenno appena, rinvio alle indispensabili nozioni che si trovano – variamente sviluppate – in: Schiaffini 1935; Tognelli 1963; Migliorini 19785; Parkes 1992; Troncarelli 1992; Tanturli 1992; Maraschio 1993; Castellani 1995.
40 Seguo nelle linee portanti la descrizione di Maraschio (1993, pp. 174-224, da cui ho tratto le citazioni iniziali), tenendo presenti (oltre ai già indicati Schiaffini 1935, Tognelli 1963, Migliorini 19785, Parkes 1992, Castellani 1995) per singoli episodi significativi gli studi di Trovato, Romei, Chiantera, Maraschio, Bianconi, tutti compresi nel volume a cura di Cresti, Maraschio, Toschi (1992).
41 A tale proposito rinvio al saggio di Maurizio Vitale, La I edizione del «Vocabolario della Crusca» e i suoi precedenti teorici e critici (1959), ora in Id., L’oro nella lingua. Contributi per una storia del tradizionalismo e del purismo italiano, Ricciardi, Milano-Napoli 1986, pp. 117-172.
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Sommario
Introduzione
I. La punteggiatura: istruzioni per l’uso
1. Giustificazioni preliminari
2. Vizi d’origine?
3. Regolarità e valori basilari
4. A ragionevoli dubbi qualche ragionata risposta
4.1. Chiarimenti su alcuni usi della virgola
4.2. Virgolette citazionali
4.3. Introduttori grafici del discorso diretto e dei dialoghi
4.4. Usi del trattino
4.5. Tipi di parentesi
4.6. Barre e asterischi
4.7. Il punto nelle abbreviazioni
II. Per filo e per segno
1. La punteggiatura nella costruzione del testo
1.1. Il progetto testuale
1.2. Categorie semantico-pragmatiche basilari
2. Pause e demarcazioni
2.1. Punto
2.2. Punto e virgola
2.3. Virgola
3. Marche dell’intonazione
3.1. Punto interrogativo
3.2. Punto esclamativo
4. Segnali di connessioni, di stratificazioni enunciative e del non detto
4.1. I due punti
4.2. Marche dell’enunciazione: parentesi, lineette, virgole
4.3. Marche dell’enunciazione: le virgolette citazionali
4.4. I puntini di sospensione e di reticenza
4.5. Gli spazi bianchi, l’a capo e la disposizione in paragrafi e capoversi
III. Breve excursus sugli sviluppi della punteggiatura
1. Nell’antichità classica e nella tarda latinità
2. Nei manoscritti medioevali
3. Dall’invenzione della stampa all’Ottocento
4. Discussioni e usi interpuntivi nel Novecento
Riferimenti bibliografici
A) Opere da cui sono stati tratti gli esempi
B) Studi sull’interpunzione
a Giovanni,
alle brevi primavere
della sua prima età
Sì dolce è del mio amaro la radice
Cover
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Prontuario di punteggiatura 0
Universale Laterza
Bice Mortara Garavelli
Prontuario di punteggiatura
© 2003, Gius. Laterza & Figli
Edizione digitale: luglio 2015
www.laterza.it
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 9788858116852
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