Giuseppe Ungaretti L’allegria 1914-1919 [ed. Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Mondadori, Milano 1969, pp. 1-97.] Ultime Milano 1914-1915 ETERNO Tra un fiore colto e l’altro donato l’inesprimibile nulla NOIA Anche questa notte passerà Questa solitudine in giro titubante ombra dei fili tranviari sull’umido asfalto Guardo le teste dei brumisti nel mezzo sonno tentennare LEVANTE La linea vaporosa muore al lontano cerchio del cielo Picchi di tacchi picchi di mani e il clarino ghirigori striduli e il mare è cenerino trema dolce inquieto come un piccione A poppa emigranti soriani ballano A prua un giovane è solo Di sabato sera a quest’ora Ebrei laggiù portano via i loro morti nell’imbuto di chiocciola tentennamenti di vicoli di lumi Confusa acqua come il chiasso di poppa che odo dentro l’ombra del sonno TAPPETO Ogni colore si espande e si adagia negli altri colori Per essere più solo se lo guardi NASCE FORSE C’è la nebbia che ci cancella Nasce forse un fiume quassù Ascolto il canto delle sirene del lago dov’era la città AGONIA Morire come le allodole assetate sul miraggio O come la quaglia passato il mare nei primi cespugli perché di volare non ha più voglia Ma non vivere di lamento come un cardellino accecato RICORDO D’AFFRICA Il sole rapisce la città Non si vede più Neanche le tombe resistono molto CASA MIA Sorpresa dopo tanto d’un amore Credevo di averlo sparpagliato per il mondo NOTTE DI MAGGIO Il cielo pone in capo ai minareti ghirlande di lumini IN GALLERIA Un occhio di stelle ci spia da quello stagno e filtra la sua benedizione ghiacciata su quest’acquario di sonnambula noia CHIAROSCURO Anche le tombe sono scomparse Spazio nero infinito calato da questo balcone al cimitero Mi è venuto a ritrovare il mio compagno arabo che s’è ucciso l’altra sera Rifà giorno Tornano le tombe appiattate nel verde tetro delle ultime oscurità nel verde torbido del primo chiaro POPOLO Fuggì il branco solo delle palme e la luna infinita su aride notti La notte più chiusa lugubre tartaruga annaspa Un colore non dura La perla ebbra del dubbio già sommuove l’aurora e ai suoi piedi momentanei la brace Brulicano già gridi d’un vento nuovo Alveari nascono nei monti di sperdute fanfare Tornate antichi specchi voi lembi celati d’acqua E mentre ormai taglienti i virgulti dell’alta neve orlano la vista consueta ai miei vecchi nel chiaro calmo s’allineano le vele O Patria ogni tua età s’è desta nel mio sangue Sicura avanzi e canti sopra un mare famelico Il Porto Sepolto IN MEMORIA Locvizza il 30 settembre 1916 Si chiamava Moammed Sceab Discendente di emiri di nomadi suicida perché non aveva più Patria Amò la Francia e mutò nome Fu Marcel ma non era Francese e non sapeva più vivere nella tenda dei suoi dove si ascolta la cantilena del Corano gustando un caffè E non sapeva sciogliere il canto del suo abbandono L’ho accompagnato insieme alla padrona dell’albergo dove abitavamo a Parigi dal numero 5 della rue des Carmes appassito vicolo in discesa Riposa nel camposanto d’Ivry sobborgo che pare sempre in una giornata di una decomposta fiera E forse io solo so ancora che visse IL PORTO SEPOLTO Mariano il 29 giugno 1916 Vi arriva il poeta e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde Di questa poesia mi resta quel nulla d’inesauribile segreto LINDORO DI DESERTO Cima Quattro il 22 dicembre 1915 Dondolo di ali in fumo mozza il silenzio degli occhi Col vento si spippola il corallo di una sete di baci Allibisco all’alba Mi si travasa la vita in un ghirigoro di nostalgie Ora specchio i punti di mondo che avevo compagni e fiuto l’orientamento Sino alla morte in balia del viaggio Abbiamo le soste di sonno Il sole spegne il pianto Mi copro di un tepido manto di lind’oro Da questa terrazza di desolazione in braccio mi sporgo al buon tempo VEGLIA Cima Quattro il 23 dicembre 1915 Un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d’amore Non sono mai stato tanto attaccato alla vita A RIPOSO Versa il 27 aprile 1916 Chi mi accompagnerà pei campi Il sole si semina in diamanti di gocciole d’acqua sull’erba flessuosa Resto docile all’inclinazione dell’universo sereno Si dilatano le montagne in sorsi d’ombra lilla e vogano col cielo Su alla volta lieve l’incanto s’è troncato E piombo in me E m’oscuro in un mio nido FASE D’ORIENTE Versa il 27 aprile 1916 Nel molle giro di un sorriso ci sentiamo legare da un turbine di germogli di desiderio Ci vendemmia il sole Chiudiamo gli occhi per vedere nuotare in un lago infinite promesse Ci rinveniamo a marcare la terra con questo corpo che ora troppo ci pesa TRAMONTO Versa il 20 maggio 1916 Il carnato del cielo sveglia oasi al nomade d’amore ANNIENTAMENTO Versa il 21 maggio 1916 Il cuore ha prodigato le lucciole s’è acceso e spento di verde in verde ho compitato Colle mie mani plasmo il suolo diffuso di grilli mi modulo di sommesso uguale cuore M’ama non m’ama mi sono smaltato di margherite mi sono radicato nella terra marcita sono cresciuto come un crespo sullo stelo torto mi sono colto nel tuffo di spinalba Oggi come l’Isonzo di asfalto azzurro mi fisso nella cenere del greto scoperto dal sole e mi trasmuto in volo di nubi Appieno infine sfrenato il solito essere sgomento non batte più il tempo col cuore non ha tempo né luogo è felice Ho sulle labbra il bacio di marmo STASERA Versa il 22 maggio 1916 Balaustrata di brezza per appoggiare stasera la mia malinconia FASE Mariano il 25 giugno 1916 Cammina cammina ho ritrovato il pozzo d’amore Nell’occhio di mill’una notte ho riposato Agli abbandonati giardini ella approdava come una colomba Fra l’aria del meriggio ch’era uno svenimento le ho colto arance e gelsumini SILENZIO Mariano il 27 giugno 1916 Conosco una città che ogni giorno s’empie di sole e tutto è rapito in quel momento Me ne sono andato una sera Nel cuore durava il limio delle cicale Dal bastimento verniciato di bianco ho visto la mia città sparire lasciando un poco un abbraccio di lumi nell’aria torbida sospesi PESO Mariano il 29 giugno 1916 Quel contadino si affida alla medaglia di Sant’Antonio e va leggero Ma ben sola e ben nuda senza miraggio porto la mia anima DANNAZIONE Mariano il 29 giugno 1916 Chiuso fra cose mortali (Anche il cielo stellato finirà) Perché bramo Dio? RISVEGLI Mariano il 29 giugno 1916 Ogni mio momento io l’ho vissuto un’altra volta in un’epoca fonda fuori di me Sono lontano colla mia memoria dietro a quelle vite perse Mi desto in un bagno di care cose consuete sorpreso e raddolcito Rincorro le nuvole che si sciolgono dolcemente cogli occhi attenti e mi rammento di qualche amico morto Ma Dio cos’è? E la creatura atterrita sbarra gli occhi e accoglie gocciole di stelle e la pianura muta E si sente riavere MALINCONIA Quota Centoquarantuno il 10 luglio 1916 Calante malinconia lungo il corpo avvinto al suo destino Calante notturno abbandono di corpi a pien’anima presi nel silenzio vasto che gli occhi non guardano ma un’apprensione Abbandono dolce di corpi pesanti d’amaro labbra rapprese in tornitura di labbra lontane voluttà crudele di corpi estinti in voglie inappagabili Mondo Attonimento in una gita folle di pupille amorose In una gita che se ne va in fumo col sonno e se incontra la morte è il dormire più vero DESTINO Mariano il 14 luglio 1916 Volti al travaglio come una qualsiasi fibra creata perché ci lamentiamo noi? FRATELLI Mariano il 15 luglio 1916 Di che reggimento siete fratelli? Parola tremante nella notte Foglia appena nata Nell’aria spasimante involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità Fratelli C’ERA UNA VOLTA Quota Centoquarantuno l’1 agosto 1916 Bosco Cappuccio ha un declivio di velluto verde come una dolce poltrona Appisolarmi là solo in un caffè remoto con una luce fievole come questa di questa luna SONO UNA CREATURA Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916 Come questa pietra del S. Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata Come questa pietra è il mio pianto che non si vede La morte si sconta vivendo IN DORMIVEGLIA Valloncello di Cima Quattro il 6 agosto 1916 Assisto la notte violentata L’aria è crivellata come una trina dalle schioppettate degli uomini ritratti nelle trincee come le lumache nel loro guscio Mi pare che un affannato nugolo di scalpellini batta il lastricato di pietra di lava delle mie strade ed io l’ascolti non vedendo in dormiveglia I FIUMI Cotici il 16 agosto 1916 Mi tengo a quest’albero mutilato abbandonato in questa dolina che ha il languore di un circo prima o dopo lo spettacolo e guardo il passaggio quieto delle nuvole sulla luna Stamani mi sono disteso in un’urna d’acqua e come una reliquia ho riposato L’Isonzo scorrendo mi levigava come un suo sasso Ho tirato su le mie quattr’ossa e me ne sono andato come un acrobata sull’acqua Mi sono accoccolato vicino ai miei panni sudici di guerra e come un beduino mi sono chinato a ricevere il sole Questo è l’Isonzo e qui meglio mi sono riconosciuto una docile fibra dell’universo Il mio supplizio è quando non mi credo in armonia Ma quelle occulte mani che m’intridono mi regalano la rara felicità Ho ripassato le epoche della mia vita Questi sono i miei fiumi Questo è il Serchio al quale hanno attinto duemil’anni forse di gente mia campagnola e mio padre e mia madre Questo è il Nilo che mi ha visto nascere e crescere e ardere d’inconsapevolezza nelle estese pianure Questa è la Senna e in quel suo torbido mi sono rimescolato e mi sono conosciuto Questi sono i miei fiumi contati nell’Isonzo Questa è la mia nostalgia che in ognuno mi traspare ora ch’è notte che la mia vita mi pare una corolla di tenebre PELLEGRINAGGIO Valloncello dell’Albero Isolato il 16 agosto 1916 In agguato in queste budella di macerie ore e ore ho strascicato la mia carcassa usata dal fango come una suola o come un seme di spinalba Ungaretti uomo di pena ti basta un’illusione per farti coraggio Un riflettore di là mette un mare nella nebbia MONOTONIA Valloncello dell’Albero Isolato il 22 agosto 1916 Fermato a due sassi languisco sotto questa volta appannata di cielo Il groviglio dei sentieri possiede la mia cecità Nulla è più squallido di questa monotonia Una volta non sapevo ch’è una cosa qualunque perfino la consunzione serale del cielo E sulla mia terra affricana calmata a un arpeggio perso nell’aria mi rinnovavo LA NOTTE BELLA Devetachi il 24 agosto 1916 Quale canto s’è levato stanotte che intesse di cristallina eco del cuore le stelle Quale festa sorgiva di cuore a nozze Sono stato uno stagno di buio Ora mordo come un bambino la mammella lo spazio Ora sono ubriaco d’universo UNIVERSO Devetachi il 24 agosto 1916 Col mare mi sono fatto una bara di freschezza SONNOLENZA Da Devetachi al San Michele il 25 agosto 1916 Questi dossi di monti si sono coricati nel buio delle valli Non c’è più niente che un gorgoglio di grilli che mi raggiunge E s’accompagna alla mia inquietudine SAN MARTINO DEL CARSO Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916 Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto Ma nel cuore nessuna croce manca È il mio cuore il paese più straziato ATTRITO Locvizza il 23 settembre 1916 Con la mia fame di lupo ammaino il mio corpo di pecorella Sono come la misera barca e come l’oceano libidinoso DISTACCO Locvizza il 24 settembre 1916 Eccovi un uomo uniforme Eccovi un’anima deserta uno specchio impassibile M’avviene di svegliarmi e di congiungermi e di possedere Il raro bene che mi nasce così piano mi nasce E quando ha durato così insensibilmente s’è spento NOSTALGIA Locvizza il 28 settembre 1916 Quando la notte è a svanire poco prima di primavera e di rado qualcuno passa Su Parigi s’addensa un oscuro colore di pianto In un canto di ponte contemplo l’illimitato silenzio di una ragazza tenue Le nostre malattie si fondono E come portati via si rimane PERCHÉ? Carsia Giulia 1916 Ha bisogno di qualche ristoro il mio buio cuore disperso Negli incastri fangosi dei sassi come un’erba di questa contrada vuole tremare piano alla luce Ma io non sono nella fionda del tempo che la scaglia dei sassi tarlati dell’improvvisata strada di guerra Da quando ha guardato nel viso immortale del mondo questo pazzo ha voluto sapere cadendo nel labirinto del suo cuore crucciato Si è appiattito come una rotaia il mio cuore in ascoltazione ma si scopriva a seguire come una scia una scomparsa navigazione Guardo l’orizzonte che si vaiola di crateri Il mio cuore vuole illuminarsi come questa notte almeno di zampilli di razzi Reggo il mio cuore che s’incaverna e schianta e rintrona come un proiettile nella pianura ma non mi lascia neanche un segno di volo Il mio povero cuore sbigottito di non sapere ITALIA Locvizza l’1 ottobre 1916 Sono un poeta un grido unanime sono un grumo di sogni Sono un frutto d’innumerevoli contrasti d’innesti maturato in una serra Ma il tuo popolo è portato dalla stessa terra che mi porta Italia E in questa uniforme di tuo soldato mi riposo come fosse la culla di mio padre COMMIATO Locvizza il 2 ottobre 1916 Gentile Ettore Serra poesia è il mondo l’umanità la propria vita fioriti dalla parola la limpida meraviglia di un delirante fermento Quando trovo in questo mio silenzio una parola scavata è nella mia vita come un abisso Naufragi ALLEGRIA DI NAUFRAGI Versa il 14 febraio 1917 E subito riprende il viaggio come dopo il naufragio un superstite lupo di mare NATALE Napoli il 26 dicembre 1916 Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade Ho tanta stanchezza sulle spalle Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata Qui non si sente altro che il caldo buono Sto con le quattro capriole di fumo del focolare DOLINA NOTTURNA Napoli il 26 dicembre 1916 Il volto di stanotte è secco come una pergamena Questo nomade adunco morbido di neve si lascia come una foglia accartocciata L’interminabile tempo mi adopera come un fruscio SOLITUDINE Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917 Ma le mie urla feriscono come fulmini la campana fioca del cielo Sprofondano impaurite MATTINA Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917 M’illumino d’immenso DORMIRE Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917 Vorrei imitare questo paese adagiato nel suo camice di neve INIZIO DI SERA Versa il 15 febbraio 1917 La vita si vuota in diafana ascesa di nuvole colme trapunte di sole LONTANO Versa il 15 febbraio 1917 Lontano lontano come un cieco m’hanno portato per mano TRASFIGURAZIONE Versa il 16 febbraio 1917 Sto addossato a un tumulo di fieno bronzato Un acre spasimo scoppia e brulica dai solchi grassi Ben nato mi sento di gente di terra Mi sento negli occhi attenti alle fasi del cielo dell’uomo rugato come la scorza dei gelsi che pota Mi sento nei visi infantili come un frutto rosato rovente fra gli alberi spogli Come una nuvola mi filtro nel sole Mi sento diffuso in un bacio che mi consuma e mi calma GODIMENTO Versa il 18 febbraio 1917 Mi sento la febbre di questa piena di luce Accolgo questa giornata come il frutto che si addolcisce Avrò stanotte un rimorso come un latrato perso nel deserto SEMPRE NOTTE Vallone il 18 aprile 1917 La mia squallida vita si estende più spaventata di sé In un infinito che mi calca e mi preme col suo fievole tatto UN’ALTRA NOTTE Vallone il 20 aprile 1917 In quest’oscuro colle mani gelate distinguo il mio viso Mi vedo abbandonato nell’infinito GIUGNO Campolongo il 5 luglio 1917 Quando mi morirà questa notte e come un altro potrò guardarla e mi addormenterò al fruscio delle onde che finiscono di avvoltolarsi alla cinta di gaggie della mia casa Quando mi risveglierò nel tuo corpo che si modula come la voce dell’usignolo Si estenua come il colore rilucente del grano maturo Nella trasparenza dell’acqua l’oro velino della tua pelle si brinerà di moro Librata dalle lastre squillanti dell’aria sarai come una pantera Ai tagli mobili dell’ombra ti sfoglierai Ruggendo muta in quella polvere mi soffocherai Poi socchiuderai le palpebre Vedremo il nostro amore reclinarsi come sera Poi vedrò rasserenato nell’orizzonte di bitume delle tue iridi morirmi le pupille Ora il sereno è chiuso come a quest’ora nel mio paese d’Affrica i gelsumini Ho perso il sonno Oscillo al canto d’una strada come una lucciola Mi morirà questa notte? SOGNO Vallone il 17 agosto 1917 Ho sognato stanotte una piana striata d’una freschezza In veli varianti d’azzurr’oro alga ROSE IN FIAMME Vallone il 17 agosto 1917 Su un oceano di scampanellii repentina galleggia un’altra mattina VANITÀ Vallone il 19 agosto 1917 D’improvviso è alto sulle macerie il limpido stupore dell’immensità E l’uomo curvato sull’acqua sorpresa dal sole si rinviene un’ombra Cullata e piano franta DAL VIALE DI VALLE Pieve Santo Stefano il 31 agosto 1917 Nettezza di montagne risalita nel globo del tempo ammansito Girovago PRATO Villa di Garda aprile 1918 La terra s’è velata di tenera leggerezza Come una sposa novella offre allibita alla sua creatura il pudore sorridente di madre SI PORTA Roma fine marzo 1918 Si porta l’infinita stanchezza dello sforzo occulto di questo principio che ogni anno scatena la terra GIROVAGO Campo di Mailly maggio 1918 In nessuna parte di terra mi posso accasare A ogni nuovo clima che incontro mi trovo languente che una volta già gli ero stato assuefatto E me ne stacco sempre straniero Nascendo tornato da epoche troppo vissute Godere un solo minuto di vita iniziale Cerco un paese innocente SERENO Bosco di Courton luglio 1918 Dopo tanta nebbia a una a una si svelano le stelle Respiro il fresco che mi lascia il colore del cielo Mi riconosco immagine passeggera Presa in un giro immortale SOLDATI Bosco di Courton luglio 1918 Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie Prime Parigi - Milano 1919 RITORNO Trinano le cose un’estesa monotonia di assenze Ora è un pallido involucro L’azzurro scuro delle profondità si è franto Ora è un arido manto L’AFFRICANO A PARIGI Chi trasmigrato da contrade battute dal sole dove le donne nascondono polpe ubertose e calmo come reminiscenza arriva ogni urlo, Chi dall’esultanza di mari inabissati in cieli scenda a questa città, trova una terra opaca e una fuligine feroce. Lo spazio è finito. Concesso mai non mi sarà più un allarme spregiudicato né in quel sole che scatenava e accomunava felici cose, incantevoli soste? L’uomo lunatico che ora s’incontra, per innumerevoli strade disperso deve inquietarsi a mutare stupori dall’abbaglio fatuo che lo circonda e tutte le volte gli rinveniranno nell’animo la derisione tutt’al più, e le ferite della sua impazienza. Non saprebbe più mettergli paura, snaturato, la morte, ma senza scampo scelto a preda dall’assiduo terrore del futuro, tornerà sempre a lusingarsi di potersi conciliare l’eterno se a furia di noiosi scrupoli un giorno indovinata nel brevissimo soffio la grazia fortuita d’un istante raro, vagheggi che in mente gliene possa a volte restare un qualche emblema non offensivo. Meno tanto puntiglio, non gli dura più nulla. Anche il corpo alla costante misura d’un tempo avaro, s’è fatto temerario e, troppo tesa corda musicale, dilaniante... ... Dopo tutto tendono al caos. Ah, vivre libre ou mourir! IRONIA Odo la primavera nei rami neri indolenziti. Si può seguire solo a quest’ora, passando tra le case soli con i propri pensieri. È l’ora delle finestre chiuse, ma questa tristezza di ritorni m’ha tolto il sonno. Un velo di verde intenerirà domattina da questi alberi, poco fa quando è sopraggiunta la notte, ancora secchi. Iddio non si dà pace. Solo a quest’ora è dato, a qualche raro sognatore, il martirio di seguirne l’opera. Stanotte, benché sia d’aprile, nevica sulla città. Nessuna violenza supera quella che ha aspetti silenziosi e freddi. UN SOGNO SOLITO Il Nilo ombrato le belle brune vestite d’acqua burlanti il treno Fuggiti LUCCA A casa mia, in Egitto, dopo cena, recitato il rosario, mia madre ci parlava di questi posti. La mia infanzia ne fu tutta meravigliata. La città ha un traffico timorato e fanatico. In queste mura non ci si sta che di passaggio. Qui la meta è partire. Mi sono seduto al fresco sulla porta dell’osteria con della gente che mi parla di California come d’un suo podere. Mi scopro con terrore nei connotati di queste persone. Ora lo sento scorrere caldo nelle mie vene, il sangue dei miei morti. Ho preso anch’io una zappa. Nelle cosce fumanti della terra mi scopro a ridere. Addio desideri, nostalgie. So di passato e d’avvenire quanto un uomo può saperne. Conosco ormai il mio destino, e la mia origine. Non mi rimane più nulla da profanare, nulla da sognare. Ho goduto di tutto, e sofferto. Non mi rimane che rassegnarmi a morire. Alleverò dunque tranquillamente una prole. Quando un appetito maligno mi spingeva negli amori mortali, lodavo la vita. Ora che considero, anch’io, l’amore come una garanzia della specie, ho in vista la morte. SCOPERTA DELLA DONNA Ora la donna mi apparve senza più veli, in un pudore naturale. Da quel tempo i suoi gesti, liberi, sorgenti in una solennità feconda, mi consacrano all’unica dolcezza reale. In tale confidenza passo senza stanchezza. In quest’ora può farsi notte, la chiarezza lunare avrà le ombre più nude. PREGHIERA Quando mi desterò dal barbaglio della promiscuità in una limpida e attonita sfera Quando il mio peso mi sarà leggero Il naufragio concedimi Signore di quel giovane giorno al primo grido