IV Per spiegarci la ragione del contrasto tra la riflessione e il sentimento, dobbiamo penetrar nel terreno in cui il ger-me cade, voglio dire nello spirito dello scrittore umorista. Che se la disposizione umoristica per sé sola non basta, perché ci vuole il germe della creazione, questo germe poi si nutre dell'umore che trova. Lo stesso Lipps che vede tre modi d'essere dell'umore, cioě: a) Tumore, come disposizione, o modo di considerar le cose; b) l'umore, come rappresentazione; c) Tumore obiettivo; conclude poi che in veritä Tumore ě soltanto in chi lo ha: soggettivismo e oggettivismo non sono altro che un diver-so atteggiamento dello spirito nelTatto della rappresentazione. La rappresentazione cioě dell'umore, che ě sempře in chi lo ha, puö essere atteggiata in due modi: subiettiva-mente od obiettivamente. Quei tre modi d'essere si presentano al Lipps perché egli limita e determina eticamente la ragione dell'umori-smo, il quäle ě per lui, come abbiamo giä veduto, supera-mento del comico attraverso il comico stesso. Sappiamo che cosa egli intenda per superamento. Io, secondo lui, ho umore, quando: «ich selbst bin der Erhabene, der sich Behauptende, der Träger des Vernünftigen oder Sittlichen. Als dieser Erhabene, oder im Lichte dieses Erhabenen betrachte ich die Welt. Ich jinde in ihr Komisches und gehe betrachtend in die Komik ein. Ich gewinne aber schliesslich mich 188 selbst, oder das Erhabene in mir, erhöht, befestigt, gesteigert wieder».1 Ora questa per noi h una considerazione assolutamente estranea, prima di tutto, e poi anche unilaterale. Toglien-do alla formula il valore etico, Tumorismo poi con essa ri-man considerato, se mai, nel suo effetto, non nella causa. Per noi tanto il comico quanto il suo contrario sono nella disposizione d'animo stessa ed insiti nel processo che ne risulta. Nella sua anormalitä, non puö esser che amaramente comica la condizione d'un uomo che si trova ad esser sempre quasi fuori di chiave, ad essere a un tem-po violino e contrabbasso; d'un uomo a cui un pensiero non puö nascere, che subito non gliene nasca un altro op-posto, contrario; a cui per una ragione ch'egli abbia di dir si, subito un'altra e due e tre non ne sorgano che lo co-stringono a dir no; e tra il sl e il no lo tengan sospeso, per-plesso, per tutta la vita; d'un uomo che non puö abbando-narsi a un sentimento, senza awertir subito qualcosa den-tro che gli fa una smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo in-dispettisce.2 1 «ich... wieder»: T. Lipps, op. cit., p. 242. «Io stesso sono il sublime, colui che si afferma, il portatore della ragione e della moralita. In quanto essere sublime, o alia luce del sublime osservo il mondo. Vi trovo qualcosa di comico e vi aderisco osservandolo. Alla fine pero ottengo me stesso, ovvero il sublime che ě in me, in maniera piú alta, piú forte e in maggior misura» (trad. it. di M. Cometa, op. cit., p. 316 n.). 2 la condizione... indispettisce»: il brano era giä in Un critico fantastico (cap. n). Fuori di chiave Pirandello intitolo, nel 1912, la sua ultima rac-colta poetica. L'uomo "fuori di chiave" ě nella condizione amletica di «perplessitä angosciose» e «vertigini e capogiri», che Anselmo Paleari illustra nel cap. xm del Fu Mattia Pascal, nel noto passo sullo «strappo nel cielo di carta del teatrino» che trasforma Oreste in Amleto e in cui consiste tutta la differenza «fra la tragédia antica e la moderna». «Amleto come personaggio, il Tristram Shandy come plot, divengono archeti-pi e sinonimi della visione pirandelliana del moderno*, scrive Giancarlo Mazzacurati commentando Non conclude, uno scritto del 1909 - di grande importanza in rapporto aH'Umorismo e alia genesi di Uno, nessu-no e centomila - in cui Pirandello indica quali sue opere preferite il ro-manzo di Sterne e il dramma di Shakespeare (cfr. Effetto Steme. La nar-razione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, Pisa, Nistri-Lischi, 1990, p. 435). 189 I. UMOHISMl) Oiit\su> sLc-sso coiitrasio, che Č- nella disposizione dell'a-nimo, si scorge nelle cose c passa nella rapprcsentazione. E una speciále fisionomia psichica,1 a cui ě assoluta-mente arbitrario attribuire una causa determinante; puó esser frutto ďuna esperienza amara2 della vita e degli uo-mini, d'una esperienza che se, da un canto, non permette piú al sentimento ingenuo di metter le ali e di levarsi come un'allodola perché lanci un trillo nel sole, senza ch'es-sa la trattenga per la coda nell'atto di spiccare il volo,3 dall'altro induce a riflettere che la tristizia degli uomini si deve spesso alia tristezza della vita, ai mali di cui essa ě piena e che non tutti sanno o possono sopportare; induce a riflettere che la vita, non avendo fatalmente per la ra-gione umana un fine chiaro e determinato, bisogna che, per non brancolar nel vuoto, ne abbia uno particolare, fit-tizio, illusorio, per ciascun uomo, o basso o alto; poco im-porta, giacehé non ě, né puó essere il fine vero, che tutti cercano affannosamente e nessuno trova, forse perché non esiste. Quel che importa ě che si dia importanza a qualche cosa, e sia pur vana: varrá quanto un'altra stimata seria, perché in fondo né l'una né Paltra daranno soddi-sfazione: tanto ě vero che durerá sempre ardentissima la sete di sapere, non si estinguerá mai la facoltá di desidera- 1 speciale fisionomia psichica: viene ribadita la natura psicologica dell'u-morismo («speciale fisionomia dell'organismo psichico» nella ricordata «Nota sulTumorismo» del Taccuino segreto). 2 esperienza amara: da qui alia fine del capoverso il testo coincide con il penultimo capoverso del cap. n di Un critico fantastico. Da notare che la condizione "fuori di chiave" veniva 11 esplicitamente definita uno «sdoppiamento» e che Pirandello ne attribuiva la causa all'« esperienza amara o [al]la disposizione necessariamente pessimistica dello spirito» 3 non permette... volo: «la lodola, com'usa, / trillando a piena gola, / si leva in alto», scriveva Pirandello nella Urica xxu e conclusiya diPasqua di Gea (1891). E Mattia Gangi, personaggio dai capelli ntinti di rosso carota, «insegnava nel ginnasio inferiore alauda est laeta, e Üeta un corno!" soggiungeva ai ragazzi con tanto d occhi sbarrati: ma che lieta! non ci credete» (I vecchi e i giovani, Parte I, cap. vm). Cfr. anche la no-vella, del 1905, Va bene (n). 190 PARTE seconda • iv re, e non ě detto pur troppo che nel progresso consista la felicitä degli uomini.1 Tutte le finzioni delPanima,2 tutte le creazioni del sentimento vedremo esser materia delTumorismo, vedremo cioě la riflessione diventar come un demonietto che smon-ta il congegno d'ogni immagine, ďogni fantasma messo sü dal sentimento; smontarlo per veder com'e fatto; scaricar-ne la molla, e tutto il congegno striderne, convulso.3 Puó darsi che questo faccia talvolta con quella simpatica indul-genza di cui parlan coloro che vedono soltanto un umori-smo bonario. Ma non e'e da fidarsene, perché se la disposizione umoristica ha talvolta questo di particolare, cioě questa indulgenza, questo compatimento o anche questa pietä, bisogna pensare che esse son frutto della riflessione che si ě esercitata sul sentimento opposto; sono un sentimento del contrario nato dalla riflessione su quei casi, su quei sentimenti, su quegli uomini, che provocano nello stesso tempo lo sdegno, il dispetto, l'irrisione dell'umori-sta, il quale ě tanto sincero in questo dispetto, in questa irrisione, in questo sdegno, quanto in quell'indulgenza, in quel compatimento, in quella pietä. Se cosi non fosse, si 1 Quel... uomini: «Ne l'ideale si raggiunge, né il bisogno s'uecide. [...] II possesso non risponderä giammai al desiderio, [...] c'h sempre qualco-sa, che ci sta dinanzi e che non possiamo ghermire. É l'eterna Tantali-de! Liberta? Retorica! Siamo alia discrezione della vita. [...] Stolto in-tanto, chi in base a simili concetti intendesse dimostrare la vanitä delle umane azioni» (Arte e coscienza d'oggi, cap. m). E Don Cosmo Lauren-tano, uno dei personaggi che hanno "capito il giuoco": «Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, ě segno che non deve concludere, e che ě vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioě illudersi» {I vecchi e i giovani, Parte H, cap. vm). 2 le finzioni dell'anima: ě la definizione che da il titolo al volume di Giovanni Marchesini che Pirandello cita di sfugsita in nota, ma utilizza ampiamente, riportandone ampi passi non virgolettati, nel capitolo suc-cessivo. L'individuazione di questi passi - e di altri ripresi da Binet c Negri - ě opera di Franz Rauhut (Wissenschaftliche quellen von gedanken Luigi Pirandellos, in «Romanische Forschungen», liii, 1939, pp. 185- 205). , ... 3 la riflessione... convulso: la medesima immagine ě in Un critico fantastico, cap. n. 191 l'umorismo avrebbe non piü l'umorismo vero e proprio, ma l'ironia, che deriva - come abbiamo veduto - da una contradizio-ne soltanto verbale, da un infingimento retorico, affatto contrario alla natura dello schietto umorismo. Ogni sentimento, ogni pensiero, ogni moto che sorga nelT umorista si sdoppia subito nel suo contrario: ogni sl in un no, che viene in fine ad assumere lo stesso valore del sl. Magari puö fingere talvolta l'umorista di tenere soltanto da una parte: dentro intanto gli park l'altro sentimento che pare non abbia il coraggio di rivelarsi in prima; gli park e comincia a muovere ora una timida scusa, ora un'attenuante, che smorzano il calore del primo sentimento, ora un'arguta riflessione che ne smonta k serietä e in-duce a ridere. Cosl avviene che noi dovremmo tutti provar disprezzo e indignazione per don Abbondio, per esempio, e stimar ridicolissimo e spesso un matto da legare Don Quijote; ep-pure siamo indotti al compatimento, finanche alla simpa-tia per quello, e ad ammirare con infinita tenerezza le ri-dicolaggini di questo, nobilitate da un ideale cosl alto e puro. Dove sta il sentimento del poeta? Nel disprezzo o nel compatimento per don Abbondio? II Manzoni ha un ideale astratto, nobilissimo della missione del sacerdote su la terra, e incarna questo ideale in Federigo Borromeo. Ma ecco la riflessione, frutto della disposizione umoristica, suggerire al poeta che questo ideale astratto soltanto per una rarissima eccezione puö incarnarsi e che le debolezze umane sono pur tante. Se il Manzoni avesse ascoltato so-lamente la voce di queil'ideale astratto, avrebbe rappre-sentato don Abbondio in modo che tutti avrebbero dovu-to provar per lui odio e disprezzo, ma egli ascolta entro di se anche la voce delle debolezze umane. Per la naturale disposizione dello spirito, per l'esperienza della vita, che gliel'ha determinata, il Manzoni non puö non sdoppiare in germe la concezione di quell'idealitä religiosa, sacerdo-tale: e tra le due fiamme accese di Fra Cristoforo e del Cardinal Federigo vede, terra terra, guardinga e mogia, allungarsi l'ombra di don Abbondio. E si compiace a un parte seconda ■ iv certo punto di porre a fronte, in contrasto, il sentimento attivo, positivo, e la riflessione negativa; la fiaccola accesa del sentimento e ľacqua diaccia della riflessione; la predi-cazione alata, astratta, delľaltruismo, per veder come si smorzi nelle ragioni pedestri e concrete deľľegoismo. Federigo Borromeo domanda a don Abbondio: - «E quando vi siete presentato alia Chiesa per addossarvi co-desto ministero, v'ha essa fatto sicurtä della vita? V'ha detto ehe i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v'ha detto for-se che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dove-re? O non v'ha espressamente detto il contrario? Non v'ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi che c'eran de' violenti, a cui potrebbe dispiacere cio che a voi sarebbe comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l'esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitarne ľufizio, mise forse per condizione d'a-ver salva la vita? E per salvarla, per conservark, dico, quaľche giorno di piu sulk terra, a spese della caritä e del dôvere, c'era bisogno dell'unzione santa, della imposizion delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtu, a insegnar questa dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa anch'esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo anch'esso, un vangelo di superbia e d'odio; e non vuol che si dica che l'amore della vita sia una ragione per trasgredirne i comandamenti. Non lo vuole ed é ubbidito! E noi! noi figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine? ».1 Don Abbondio ascolta questa lunga e animosa predica a capo basso. Il Manzoni dice che lo spirito di lui «si trova-va tra quegli argomenti, come un pulcino negli artigli del 1 «E quando... dottrine?»: verso la fine del cap. xxv dei Promessi sposi. 192 193 l'umorismo falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un'aria che non ha mai respirata». II paragone ě bello, quantunque a qualcuno l'idea di rapacitá e di fierezza che ě nel falco sia sembrata poco conveniente al Cardinal Fe-derigo. L'errore, secondo me, non ě tanto nella maggiore o minor convenienza del paragone, quanto nel paragone stesso, per amore del quale il Manzoni, volendo rifar la favoletta d'Esiodo,1 s'e forse lasciato andare a dir quello che non doveva. Si trovava don Abbondio veramente sollevato in una regione sconosciuta tra quegli argomenti del Cardinal Borromeo? Ma il paragone dell'agnello tra i lupi si legge nel Vangelo di Luca,2 dove Cristo dice appunto agli apostoli: «Ecco, io mando voi come agnelli tra i lupi». E chi sa quante volte dunque don Abbondio lo aveva let-to; come in altri libri chi sa quante volte aveva letto quegli ammonimenti austeri; quelle considerazioni elevate. E diciamo di piú: forse lo stesso don Abbondio, in astratto, parlando, predicando della missione del sacerdote, avreb-be detto su per giu le stesse cose. Tanto vero che, in astratto, egli le intende benissimo: - Monsignore illustrissimo, avró torto, - risponde in-fatti; ma s'affretta a soggiungere: - Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire. E allorché il Cardinale insiste: - E non sapete voi che il soffrire per la giustizia ě il no-stro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual ě la buona nuova? che annunzia-te ai poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sará domandato, un giorno, se ab-biate saputo fare stare a dovere i potenti; ché a questo non vi fu dato né missione, né modo. Ma vi sará ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch'erano in vostra ma- 1 volendo... Esiodo: Esiodo (vni-vn sec. a.C), il piú antico poeta greco di cui ci siano giunte notizie storicamente attendibili. La «favoletta» ě quella dello sparviero e dell'usignolo (Le opere e i giomi, 202-12). 2 nel Vangelo di Luca: x, 3. 3 buona nuova: il Vangelo, cosl definito seguendo il senso della sua eti-mologia greca (in quanto lieto annunzio della redenzione). parte seconda • iv no per far ció che v'era prescritto, anche quando avessero la temeritá di proibirvelo. - Anche questi santi son curiosi, - pensa don Abbondio: - in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno piu a cuore gli amori di due giovani, che la vita ďun povero sacerdote. E poiché il cardinale ě rimasto in atto di chi aspetti una risposta, risponde: - Torno a dire, monsignore, che avró torto io... Il co-raggio, uno non se lo puó dare. II che significa appunto: - Sissignore, ragionando a-strattamente, la ragione ě dalla parte di Vossignoria Illu-strissima; il torto sará mio. Pero Vossignoria Illustrissima parla bene, ma quelle facce le ho viste io, le ho sentite io quelle parole. - E perché dunque, - gli domanda in fine il Cardinale, - vi siete voi impegnato in un ministero che v'impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Oh, il perché noi lo sappiamo bene: il Manzoni stesso ce l'ha detto fin da principio; ce 1'ha voluto dire e poteva anche farne a meno: don Abbondio, non nobile, non ric-co, coraggioso ancor meno, s'era accorto, prima quasi di toccare gli anni della discrezione, d'essere, in quella societa, come un vaso di terra cotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la veritá, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciar-si di che vivere con qualche agio e mettersi in una classe privilegiata e forte, gli eran sembrate due ragioni piu che sufficienti per una tale scelta. In lotta dunque con le passioni del secolo? Ma se egli s'e fatto prete per guardarsi appunto dagli urti di quelle passioni e col suo sistema particolare1 di scansar tutti i con-trasti! 1 sistema particolare: I promessi sposi, cap. i, dopo il noto paragone col vaso di terracotta tra i vasi di ferro. 194 195 l'umorismo Bisogna pure ascoltare, signoři miei, le ragioni del co-niglio! Io immaginai una volta che alla tana della volpe, o di Messer Renardo, com'essa si suol chiaraare nel mon-do delle favole, accorressero a una a una tutte le bestie per la notizia che tra loro s'era sparsa di certe controfa-vole che la volpe avesse in animo di comporre in risposta a tutte quelle che da tempo immemorabile gli uomini compongono, e da cui esse bestie han forse motivo di sentirsi calunniate. E tra le akre alla tana di Messer Renardo veniva il coniglio a protestare contro gli uomini che lo chiamano pauroso, e diceva: «Ma ben vi so dire per conto mio, Messer Renardo, che topi e lucertole e uccelli e grilli e tanťaltre bestiole ho sempre messo in fuga, le quali, se voi domandaste loro che concetto ab-biano di me, chi sa che cosa vi risponderebbero, non cer-to che io sia una bestia paurosa. O che forse pretende-rebbero gli uomini che al loro cospetto io mi rizzassi su due piedi e movessi loro incontro per farmi prendere e uccidere? Io credo veramente, Messer Renardo, che per gli uomini non debba correre alcuna differenza tra eroi-smo e imbecillitä! Ora, io non nego, don Abbondio ě un coniglio. Ma noi sappiamo che Don Rodrigo, se minacciava, non minaccia-va invano, sappiamo che pur di spuntare l'impegno2 egli era veramente capace di tutto; sappiamo che tempi eran quel-li, e possiamo benissimo immaginare che a don Abbondio, se avesse sposato Renzo e Lucia, una schioppettata non gliel'avrebbe di certo levata nessuno, e che forse Lucia, sposa soltanto di nome, sarebbe stata rapita, uscendo dal-la chiesa, e Renzo anch'egli ucciso. A che giovano l'inter-vento, il suggerimento di Fra Cristoforo? Non ě rapita Lucia dal monastero di Monza? C'ě la lega dei birbo- 1 «Ma ben... imbecillitä!»: il brano riproduce, con qualche variante, un passo dalla seconda delle Favole della volpe. Cfr. nota 2, p. 43. 2 spuntare l'impegno: I promessi sposi, inizio del cap. xvm relativo alla partenza del conte Attilio. parte seconda • iv ni,1 come dice Renzo. Per scioglier quella matassa ci vuol la mano di Dio; non per modo di dire, la mano di Dio propriamente. Che poteva fare un povero prete? Pauroso, sissignori, don Abbondio; e il De Sanctis ha dettato alcune pagine meravigliose esaminando il senti-mento della paura nel povero curato;2 ma non ha tenuto conto di questo, perbacco: che il pauroso ě ridicolo, ě co-mico, quando si crea rischi e pericoli immaginarii:3 ma quando un pauroso ha veramente ragione d'aver paura, quando vediamo preso, impigliato in un contrasto terribi-le, uno che per nátura e per sistema vuole scansar tutti i contrasti, anche i piú lievi, e che in quel contrasto terribi-le per suo dôvere sacrosanto dovrebbe starci, questo pauroso non ě piú comico soltanto. Per quella situazione non basta neanche un eroe come Fra Cristoforo, che va ad af-frontare il nemico nel suo stesso palazzotto! Don Abbondio non ha il coraggio del proprio dovere; ma questo dôvere, dalla nequizia4 altrui, ě reso difficilissimo, e pero quel coraggio ě tutt'altro che facile; per compierlo ci vor-rebbe un eroe. Al posto d'un eroe troviamo don Abbondio. Noi non possiamo, se non astrattamente, sdegnarci di lui, cioě se in astratto consideriamo il ministero del sacer-dote. Avremmo certamente ammirato un sacerdote eroe che, al posto di don Abbondio, non avesse tenuto conto 1 lega dei birboni: locuzione desunta da un passo del cap. xrv («il re, e quelli che comandano, vorrebbero che i birboni fossero gastigati; ma non se ne fa nulla, perche c'e una lega»). 2 De Sanctis... curato: nelle lezioni della seconda scuola napoletana sul Manzoni (1872) che furono raccolte da Croce negli Scritti varii inediti o rati, utilizzati da Pirandello anche in merito alla poesia cavalleresca. E in una conferenza fiorentina su don Abbondio del 1873, ma ripubblica-ta nel 1892-93. 3 non ha tenuto... immaginarii: De Sanctis considerava infatti don Abbondio (ma un po' meno unilateralmente di quanto Pirandello riferiscc e non solo in riferimento aU'incontro coi bravi) dominato da «una specie di Musa della paura [che] agita la fantasia, la quale si raffigura cose inesistenti; si mescolano cosl pericoli reali con pericoli immaginarii» (Scritti varii, cit., p. 157). 4 nequizia: malvagita. 196 197 099999999 l umorismo deüa minaccia e del pericolo e avesse adempiuto il dovere del suo ministero. Ma non possiamo non compatire don Abbondio, che non ě l'eroe che ci sarebbe voluto al suo posto, che non solo non ha il grandissimo coraggio che ci voleva; ma non ne ha né punto né poco; e il coraggio, uno non se lo pud darel1 Un osservatore superficiale terra conto del riso che na-sce dalla comicita esteriore degli atti, dei gesti, delle frasi reticenti ecc. di don Abbondio, e lo chiamera ridicolo sen-z'altro, o una figura semplicemente comica. Ma chi non si contenta di queste superficialitä e sa veder piú a fondo, sente che il riso qui scaturisce da ben altro, e non ě sol-tanto quello della comicitä. Don Abbondio ě quel che si trova in luogo di quello che ci sarebbe voluto. Ma il poeta non si sdegna di questa realta che trova, perché, pur avendo, come abbiamo det-to, un ideale altissimo della missione del sacerdote su la terra, ha pure in sé la riflessione che gli suggerisce che quest'ideale non si incarna se non per rarissima eccezione, e perö lo obbliga a limitare quell'ideale, come osserva il De Sanctis.2 Ma questa limitazione dell'ideale che cos'e? ě l'effetto appunto della riflessione che, esercitandosi su quesťideale, ha suggerito al poeta il sentimento del contrario. E don Abbondio ě appunto questo sentimento del contrario oggettivato e vivente; e pero non ě comico sol-tanto, ma schiettamente e profondamente umoristico. Bonarieta? Simpatica indulgenza? Andiamo adagio: la-sciamo star codeste considerazioni, che sono in fondo e-stranee e superficiali, e che, a volerle approfondire, c'e il rischio che ci facciano anche qui scoprire il contrario. Vo-gliamo vederlo? SI, ha compatimento il Manzoni per questo pover'uomo di don Abbondio; ma ě un compatimento, signoři miei, che nello stesso tempo ne fa strazio, necessa- 1 il coraggio... dare: sono parole di don Abbondio ncl dialogo col cardinal Federigo giá citato da Pirandello. n 2 lo obbligfl... De Sanctis: cfr. la lezione x, «La Morale cattolica e 1 "Promessi sposi"», Scritti varii, cit., pp. 149-54. 198 parte seconda • iv riamente. In fatti, solo a patto di riderne e di far rider di lui, egli puö compatirlo e farlo compatire, commiserarlo e farlo commiserare. Ma, ridendo di lui e compatendolo nello stesso tempo, il poeta viene anche a ridere amara-mente di questa povera natura umana inferma di tante de-bolezze; e quanto piü le considerazioni pietose si stringo-no a proteggere il povero curato, tanto piü attorno a lui s'allarga il discredito del valore umano. II poeta, in som-ma, ci induce ad aver compatimento del povero curato, facendoci riconoscere che e pur umano, di tutti noi, quel che costui sente e prova, a passarci bene la mano su la co-scienza. E che ne segue? Ne segue che se, per sua stessa virtu, questo particolare divien generale, se questo sentimento misto di riso o di pianto, quanto piü si stringe e determina in don Abbondio, tanto piü si allarga e quasi vapora in una tristezza infinita, ne segue, dicevamo, che a voler considerare da questo lato la rappresentazione del curato manzoniano, noi non sappiamo piü riderne. Quella pietä, in fondo, e spietata: la simpatica indulgenza non e cosi bonaria come sembra a tutta prima. Gran cosa come si vede, avere un ideale - religioso, come il Manzoni; cavalleresco, come il Cervantes - per ve-derselo poi ridurre dalla riflessione in don Abbondio e in Don Quijote! II Manzoni se ne consola, creando accanto al curato di villaggio Fra Cristoforo e il Cardinal Borro-meo; ma e pur vero che, essendo egli sopra tutto umori-sta, la creatura sua piü viva e quell'altra, quella cioe in cui il sentimento del contrario s'e incarnate II Cervantes non puö consolarsi in alcun modo perche, nella carcere della Mancha, con Don Quijote - come egli stesso dice - genera qualcuno che gli somiglia. 199 1499999999992