essandro Manzoni toria della Colonna Infame Sellerio editore Palermo IV, Napoli, Niccoló Naso, 1723. — Parrino, t. III, pag. 553 e 567. 88 Fu poi citato spesso appiě dt pagina in qualche edizione fatta dopo la mořte del Giannone; ma il lettore che non ne sa altro, deve immaginarsi che sia citato come testimonio de' fatti, non come autore del těsto. 89 Sarpi, Discotso dell'origine, etc. dell'Ufrizio dell'inquisizio-ne;'Opere varie. Helmstat (Venezia) t. 1, pag. 340. — Giannone, 1st. Civ. lib. XV, cap. ultimo. 90 PROCUL. HINC. PROCUL. ERGO. BONI. CIVES. NE. VOS INFERS. INFAME. SOLUM. COMMACULET. Nota di Leonardo Sciascia 168 In un frammento dclGazzettino del Bei Mondo, Foscojo dice: « Addison vide in Milano la colonna infame eretta nel 1630, a ignominia di un barbiere e di un commissario di sanita condannati al taglio della mano, ad essere squarciati a brani con ta-naglie roventi, rotti sulla ruota e sgozzati dopo sei ore di agonia. La peste desolava allora la cittä; e quei due miseri furono accusati di avere sparso veleni e malie per le strade ad accrescere la pub-blica sventura. E a che pro? I posteri, vergognan-do della ferocia stolida dei loro maggiori, rasero la colonna infame innanzi la rivoluzione. Addison la vide nel 1700, e ricopiando l'iscrizione, che gli par-ve di elegante latinita, narra bonariamente il fatto, come s'ei l'avesse creduto. Eppure era uorao inve-stigatore! Or non avrebbe egli illuminato i suoi concit-tadini e i posteri, se si fosse interessato d'altro che della bella latinita? Che, se avesse interrogato gli uomini illuminati d'allora, e indagato la veritä, avrebbe potuto trovare le Stesse ragioni che Bayle notö di quell'infelice avvenimento ». 171 Ma a che prendersela con I'Addison, in quel ca-so víaggiatore svagato e soltanto attento al bel latino, se nemmeno il bell'italiano di Manzoni, illu-minando quel fatto, ě riuscito a portarlo alia coscien-za deí suoi concittadini, contemporanei e posteri? Se ancora questo piccolo grande libro resta tra i měno conosciuti della letteratura italiana? Ma andiamo per ordine. La credenza che peste e colera venissero artata-mente sparsi tra le popolazioni ě antica. La registra Livio, per come ricorda Pietro Verri nelle sue Os-servazioni sulla tortura, che appunto muovono dai funesti casi cui la credenza dette luogo nel 1630: « Veggiamo i saggi Romani istessi, al tempo in cui erano rozzi, cioě 1'anno di Roma 428 sotto Claudio Marcello e Cajo Valerio, attribuire la pestilenza che gli afflisse a' veleni apprestati da una troppo inverisi-mile congiura di matrone romane ». Al tempo in cui erano rozzi: perché pare che, meno rozzi, tra loro piú non sia insorta quella credenza. E c'e da credere si fosse del tutto spenta nei secoli successive e fino al XIII e XIV. Non ne troviamo traccia, infatti, nei cronisti, che pure abbondano di notizie sulle epidemie pestifere, del due e del trecento. Nelle loro pa-gine, le tremende epidemie non trovano altra causa che il volere di Dio o l'influsso degli astri; e la pro-pagazione del morbo ad altro non ě attribuita che agli scambi e ai viaggi. Per tutti, Giovanni Boccaccio: « Dico adunque che giá erano gli anni della frutti- fera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nel-ľegregia cittä di Firenze, oltre ad ogní altra italica nobilissíma, pervenne la mortifera pestilenza, la qua-le o per operazion de' corpi superioři o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra corre-zione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle ďinnume-rabile quantitä di viventi avendo priváte, senza ri-stare ďun luogo in un'altro continuandosi, inverso Occidente miserabilmente s'era ampliata ». La giusta ira di Dio o il movimento dei corpi celesti. Ma nel secolo XVII ecco ridivampare e diífondersi quella lontana credenza: ben piú ricca, articolata, dettaglia-ta e, perfino, codificata. Una ricaduta nella rozzezza, nelľoscuritä, non bašta a spiegarne il violento ritorno. G sarebbe da formuláre una ipotesi suggestiva: che la credenza sia insorta come una specie di contrappasso diretto alla « ragion di stato »; cioě nel momento in cui veniva ad essere constatata, e conseguentemente dottrinata, la separazione delia politica dalla morale. Ma ci vor-rebbe, ad affermare una simile ipotesi, piú medita-zione e ricerca. Quel che sappiamo quasi con cer-tezza, qui ed ora, é che nel secolo XIV nessuno avanza il sospetto di una peste manufatta e diffusa, da persone convenientemente immunizzate, per de-cisione del potere (visibile o invisibile) o di una as-sociazione cospirativa contro il potere o di un grup-po delínquenziale che si propone, nella calamitä, 172 173 piú facile depredazione; mentre nel secolo XVII un tale sospetto non solo viene formulato ma arriva alla certezza medica e giuridica, tramandandosi -non piú, per fortuna, sul piano della scienza medica e leguleia - fino a un tempo cui arrivano i nostri ricordi. Del colera del 1885-86 e della « spagnola », ultima mortale epidémia che si ě avuta in Italia subito dopo la guerra del 15-18, abbiamo infatti sen-tito favoleggiare come di provvedimenti, per cosl dire, malthusiani; e della « spagnola », venuta dopo il grande macello della guerra, si diceva fosse effetto di un conto da cui ancora risultava eccedenza di po-polazione, essendo la guerra, per errato calcolo, finita un po' prima di quanto doveva: e dunque la correzione, da parte dei governi, per quel tanto, né piú né meno, che ci voleva a far tornare il conto. La convinzione ehe la mortalita fosse voluta e pro-grammata dal governo era talmente radicata ehe ad opporvi il fatto ehe anche alti funzionari governativi ne morivano, la risposta era che avevano sbagliato bottiglia: ehe avevano cioě attinto al veleno invece ehe al controveleno (piú brevemente detto « contro » o « contra »). Questa opinione, ehe nel colera del-l'85-86 diede sanguinosi esiti in Sicília, trova una euriosa registrazione nelle Memorie del vecehio ma-resciallo di Mario La Cava (1958). Dopo aver ricor-dato che « il primo ehe mori a Catania fu il pre-fetto, e dissero: sbagliö bottiglia », alla domanda: « Ma si pensava dawero ehe ci fossero di quelli ehe spargevano il veleno nella popolazione? », ľex maresciallo dei carabinieri risponde: « Tutti lo ere-devano e, a dire la veritä, anch'io penso ehe qual-cosa ci fosse... ». Ma la peste che spopoló Miláno nel 1630 non fu soltanto attribuita ai calcoli avant la lettre malthusiani del governo. Poiché i cattivi governi, quando si trovano di fronte a situazioni ehe non sanno o non possono risolvere, e nemmeno si provano ad affrontare, hanno sempre avuto la risorsa del nemi-co esterno cui far carico di ogni disagio e di ogni calamitä, ľopinione dei milanesi fu mossa contro la Francia, allora nemica alla Spagna dei cui domini lo Stato di Miláno era parte. Ma la presenza, segna-lata e mai individuata, degli agenti francesi, non spegneva del tutto il sospetto ehe lo stesso re Fi-lippo IV, e coloro ehe a Miláno lo rappresentavano, avessero dato mano allo spopolamento: e da ciö ľac-canimento dei governanti e dei giudici, quando si trovarono davanti a coloro ehe la voce pubblica in-dicava come propagátori del morbo. Tuttavia, la squallida personalitä di costoro fece sí ehe ľopinione dei piú ripiegasse sulla cospirazione non politica (interna o esterna) ma delinquenziale: e ehe il grup-po degli untori ad altro non mirasse, seminando la morte, che al disordine, alle ruberie, ai saceheggi. La figúra delľuntore, ehe giä si era materializ-zata nella peste del 1576, quando colto sul fatto (dice il Nicolíni: ma quale fatto?) un ignoto f u im-piccato (e restö memoria, indubbiamente apocrifa, a discarico della coscienza collettiva, avesse rivela- 174 175 to sul punto di essere afforcato la ricetta di un anti-doto: e non sussisteva dubbio conoscesse dunque quella del veleno); la figura dell'untore ebbe in quel-la del 1630 una prú tragica, moltiplicata e prolunga-ta apoteosi. E non solo a Milano. Ma su quella di Milano, sulle memorie cittadine ehe ne restavano, sulle carte ehe la descrivevano, si abbatteva nel se-colo successivo lo sdegno di Pietro Verri, illumini-sta; e ancora un secolo dopo, nel XIX, la non měno sdegnata ma piú dolorosa e inquieta e acuta me-ditazione di Alessandro Manzoni, cattolico. Piu vicini che all'illuminista ci sentiamo oggi al cattolico. Pietro Verri guarda all'oscurita dei tempi e alle tremende istituzioni, Manzoni alle responsable individuali. La giustezza della visione manzo-niana possiamo verificarla stabilendo una analógia tra Í campi di sterminio nazisti e i processi contro gli untori, i supplizi, la morte. Quando il Nicolini (ehe piu volte avremo occasione di richiamare per il suolibro saPeste e untori, 1937) dice ehe « ľistrut-toria venne delegáta a un Monti e a un Visconti, ch'e quanto dire a uomini di cui tutta Milano ve-nerava ľintegritä, ľillibatezza, ľingegno, ľamore pel bene pubblico, lo spirito di sacrificio e il grande co-raggio civile », coraggio civile a parte, e cioě in meno, viene da pensare a quel libro di Charles Rohmen LW/ro, che ě quanto di piú terribile ci sia ri-masto nella memoria e nella coscienza di tutta la letteratura sugli orrori nazisti pubblicata dal 1945 in poi: « una dimostrazione per assurdo, in cui ě pro- prio la parte di umanitá rimasta nei burocrati del Male, la loro capacita di sentire ed agire come tutti noi, a dare Pesatta misura della loro negativita » (parole, quasi certamente, di Vittorini: nella pre-sentazione editoriale della traduzione italiana). Non si accorge, il Nicolini, che quel di cui c'ě da tremare ě appunto questo: che quei giudici erano onesti e intelligenti quanto gli aguzzini di Rohmer erano buo-ni padri di famiglia, sentimentali, amanti della muška, rispettosi degli animali. Quei giudici furono « burocrati del Male »: e sapendo di farlo. Che si potesse, come oggi in un laboratorio batte-riologico, manufare la peste e diřfonderla, intanto era questione controversa. II Tadino, medico, ci credeva: ma allora non c'era differenza tra uno che si diceva o dicevano medico e una qualsiasi persona colta. Le co-noscenze del Tadino, in fatto di medicina, non erano né diverse né superioři a quelle di un don Ferrante: il quale risulta personaggio comico, caricatura, nelle pagíne dei Promesst sposi, col senno di poi; ma ě, in effetti, il ritratto del Tadino, tal quale. Anzi: il Tadino vedeva la peste scendere dalle stelle e an-dare a finire nelle ampolle degli untori; don Ferrante invece si fermava alle stelle, e moří prendendo-sela con le stelle e non coglí untori. Ma contro il Tadino che ci credeva, altri non ci credevano. L'opi-nione del cardinale Federic^^c^nie^ non era del tutto netta: « Egli incomincia a paragonare la stra-ge di Milano con quella di Gerusalemme al tempo de' Maccabei, quando il re Antioco, ministro dell'ira 176 177 divina, la desolö; e le attribuisce entrambe ai giusti e clementi giudizi d'Iddio, affermando che quei ca-stighi furono prove della benignitä e misericordia di lui, perche il popolo Ebreo ed i Milanesi dive-nissero migliori... Quanto a inganni ed artifici di principi e re stranieri per diffonderlo, ed a congiure per devastare Milano, egH nega ve ne siano stati. Circa l'unto venefico per spargere la peste, le mi-sture avvelenate, i venefici, egli lascia in dubbio se realmente ve ne furono, ovvero se Ii abbia sognati la vanitä ed il timore degli uomini. Pur nondimeno mostrasi proclive a dar fede a quanto fu detto e creduto, che alcuni facinorosi e insani immaginassero la scelleraggine degli unti nella speranza di rubare; e paragona la loro follia alla stoltezza di certe arti. Che mai non fantasticano gli astrologi e gli alchi-misti? cosi del pari gli untori avevano forse vagheg-giato un immenso bottino e cambiamento di for-tuna qualora si estinguessero le famiglie e si distrug-gessero le case; ad ogni modo b cosa incerta ed an-cora nascosta nel mistero, ciö solo e sicuro ed evidente, che la peste afflisse Milano per voler Celeste, affinche i cittadini si emendassero »: cosi il Ripa-monti, « istoriografo » ufficiale della peste, riassume I'opinione di Federico Borromeo; e citando, piü avanti, direttamente dal manoscritto De Pestilentia in cui Federico lasciö breve resoconto di quei fatti: « Agevolmente e volentieri si mischia la veritä colla menzogna, le cose veridiche colle false; quindi in-torno la peste manufatta molto fu detto che puo essere creduto, e confutato con pari facilitä. E noi abbiamo ammesse alcune cose, mentre siam d'avviso che a certe altre si possa negare credenza. Non esi-tiamo di affermare per sicuro che furonvi molti i quali per iscusarsi della loro riprovevole negligen-za, divulgavano che venne loro attaccata la peste cogli unguenti, mentre la contrassero coll'alito od il contatto ». Non c e dubbio che il cardinale abbia, sulla diffusione della peste, idee piü chiare di quelle del protomedico; ma - senza volere essere ir-riverenti verso un uomo che non fu sordo alla pie-tä come alla ragione - si ha l'impressione che, non fosse questione di bottega, crederebbe anche alle unzioni, cosi come crede agli untori. Ma tra la bottega degli untori e la propria, tra la peste creata e amministrata dagli uomini e la peste inviata come dono-punizione da Dio, il cardinale non puö che scegliere la propria, e alimentarle credito. Ammette dunque gli untori: che cioe ci sia stata della gente intenzionata, per dirla manzonianamente, a « spian-tare Milano »; ma per squallida e folle operazione di magia, senza averne effettivamente i mezzi. E si poteva l'intenzione, fondata sull'ignoranza e la follia, per quanto malvagia fosse, punire tanto atrocemen-te? II cardinale non si pronuncia. Ne si pronuncia il Jlipamonti, che pure lascia intravedere una piü de-cisa opinione contro la credenza. Ma aveva giä pas-sato i suoi guai, col Sant'Uffizio: e da quella espe-rienza era venuto fuori prudente, circospetto. Perciö: « Or mi si fa innanzi un argomento. incerto e diffi- 178 179 eile a svolgere... Ov'io volessi dire che non vi furono untori, e che indarno si attribuiscono alle frodi e alle arti degli uomini i decreti della Provvidenza ed i celesti castighi, molti griderebbero tosto empia la mia storia, e me irreligiöse» e sprezzatore delle leggi. L'opposta opinione e ora invalsa negli animi: la ple-be credula, com'e suo stile, ed i superbi nobili essi pure, seguendo la corrente, sono tenaci in dar fede a questo vago rumore, come se avessero a difendere la religione e la patria. Ingrata ed inutile fatica sarebbe per me il combattere siffatta credenza... ». Siamo alle solite: la religione e la patria. Abbiamo comunque, nero su bianco, Topinione di due per-sone - il presule della chiesa lombarda, l'uomo di lettere ufficialmente incaricato di far la storia di quegli eventi - che non credettero alle unzioni. Quan-te altre ce ne saranno state dello stesso avviso? Cer-to, erano persone la cui opinione doveva avere una qualche influenza. Ma in ogni caso, bastano il Borromeo e il Ripamonti a dirci che i tempi non erano poi cosi oscuri e che un uomo intelligente ed one-sto poteva e doveva, specialmente esercitando ufHcio di giudice, arrivare se non alia convinzione del se-condo almeno a quella del primo. E secondo il Ni-colini quei due gentiluomini che condannarono i pre-sunti untori, il Monti e il Visconti, avevano inge-gno, erano onesti. Due qualitä che, nel caso, non potevano coesistere: perche e possibile fossero onesti ma imbecilli: o che fossero disonesti essendo intelligenti. Ma non c'ě causa, per quanto irrimediabilmente persa, che non trovi un suo difensore: anche dopo tre secoli. Contro Verri e contro Manzoni, in difesa dei giudici che avevano torturato e condannato ad atroce mořte degli innocenti imputati di un delitto che anche allora, da aleune menti razionanti, era considerate impossibile, ecco levarsi ai giorni nostri Fau-sto Nicolini. « Fondato sul presupposto che le sole prove effettive di reitá raccolte contro grimputati furono le loro confessioni e denunzie recipročně, strappate con la tortura o con la paura di questa, il Verri aveva attribuito 1'errore giudiziario, che li trasse a mořte tanto orrorosa, alTinconcludente bar-barie cosi di quel mezzo probatorio come dei tempi nei quali era parso naturale e indispensabile, contro i quali tempi, da buon illuminista, egli imprecava. Che, a prescindere da qualche inesattezza nel presupposto, ě un esempio cóspicuo ďuna conclusione totalmente illogica appiccicata a un ragionamento piú o meno logico ». E qui ci par di capire che la tesi del Verri vien liquidata in nome del piú pedante storicismo; per il fatto che e'erano, 1'oscuritá nelle menti e la tortura nelle istituzioni, non potevano non esserci - e prendersela con quegli uomini, con quelle istituzioni, ě come prendersela con un fatto di nátura, un terremoto, un nubifragio. Non tiene per nulla in conto, il Nicolini, che il Verri fa-ceva una battaglia; una battaglia che ancora oggi va combattuta: contro uomini come quelli, contro istituzioni come quelle. Poiché il passato, il suo erro- 180 181 ré, il suo male, non ě maí passato: e dobbiamo con-tinuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vo-gliamo essere davvero storicisti. II passato che non c'ě piú - 1'istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione - s'appar-tiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidita. La tortura c'ě ancora. E il fascismo c'ě sempře. Liquidato, di passata, il Verri, Nicolini s'impegna di punto a liquidare la Storia della Colonna Infame. II suo principále argomento, tutto sommato, non ě pero che questo: gli imputati avevano, come si suol dire in linguaggio poliziesco-giudiziario, dei precedents Non tutti; né, si capisce, in fatto di unzioni. II Migliavacca padre aveva precedenti come lenone, manipolatore di medicamenti contro il malfrancese, fratricida (e come mai, per un simile reato, non era stato giustiziato?); e aveva persino subito proces-so dal SanťUffizio, poiché una volta, travestito da frate, si era infilato in un confessionale della chie-sa di SanťAmbrogio a godere dei peccati che le pe-nitenti gli sciorinavano all'orecchio: il che, come ognuno vede, era sufEciente a dargli patente di un-tore anche dubitando delle unzioni o non creden-doci addirittura. Anche il Baruello e il Bertone pra-ticavano il lenocinio e, in piú la facevano da bravi. In quanto al Piazza i suoi vicini di casa lo dico-no « giotto », cioě dedito al malfare: e si sa quanto probante sia la testimonianza di un vicino di casa, quando uno sventurato ě fermamente tenuto dagli artigli della giustizia. Tutti infine, anche il Mora, sono definiti dagli avvocati del Padilla « di nátura perversa, soliti a commettere gravissimi de-litti, male affetti a Sua Maestá, e alia giustizia »: e il Nicolini si meraviglia che il Manzoni non abbia tenuto con to di un tal giudizio, staňte che agli avvocati del Padilla mostra di prestar fede. Non si meraviglia, anzi, ma lo accusa: « ai quali il Manzoni presta intera fede quando la loro tesi coincida con la sua ». Ma la tesi dei difensori del Padilla era che il loro cliente, innocente, era stato tirato dentro il processo, come complice, come mandante, da gen-te che appunto non aveva scrupoli a coínvolgere un innocente: e quindi di nátura perversa, per ció stesso, a parte i precedenti che i piú di loro si ri-trovavano. II Manzoni non difende il solo Padilla: difende tutti poiché - cosa che il Nicolini nella sua acribia-acrisia sembra dimenticare, anche se del tutto ovvia - tutti sono innocenti. E perché, di fronte alla čerta innocenza di tutti, avrebbe dovuto met-tersi a far conto dei precedenti? Se mai, poteva farně con to a carico dei giudici: ché sempře i precedenti, quando un giudice non li respinge per mettersi di fronte al solo e nudo caso che deve giudicare, han-no offuscato e traviato il giudizio. Altro argomento del Nicolini, in discarico ai giudici e a carico degli imputati, ě che non tutte le confessioni avvennero sotto tortura: ma o prima o dopo o nelle pause. Singolare argomento, e da uo-mo che non riesce a vedere al di lá delle carte gli 182 183 uomini, gli individui, i personaggí: la loro estra-zione, il loro divetso carattere, la maggiore o minore forza ďanimo, la maggiore o minore sensibilita al dolore fisico, la paura in ciascuno piú o meno forte, il diverso grado di credulitá o di fiducia. E additare l'esempio del giovane fíglío del Migliavac-ca, « che né lusinghe né forza di tormenti indussero mai ad accusare bugiardamente sé e altri » (ma fu afforcato come gli altri), e che gli altri imputati avrebbero potuto seguirlo, ě a dir poco ingenuo. Ma tra tanta, diciamo, ingenuita; tra tanta, di-rebbe il Manzoni, scarsa conoscenza del cuore uma-no, cřě nel saggio del Nicolini un breve passo che sommamente ci interessa: « poiché il Manzoni non solo s'ostinö in quel tentativo disgraziato, ma, dopo un'incubazione di circa vent'anni, die anche alle stampe, rifatta, ampliata e molto accentuata, quella dissertazione infelice^ ě mai possibile non conclude-re che in lui il moralismo fosse mille e mille volte piú prepotente non solo della logica (violata, come ognun vede, nel modo piú palmare), ma persino delle sue credenze religiose? ». Quel tentativo disgraziato, quella dissertazione infelice: sono, a dirla francamente, sciocchezze da ricercatore d'archivio in-triso di estetica crociana che non riesce a vedere né i fatti nella loro totalita e nel loro significato né 1'opera nella sua interna e intera logica e poesia. Ma la domanda finale ha (ě il caso di dire: final-mente) un senso; puö aprire, a rispondere afferma-tivamente, un discorso. II moralismo — termine oggi in disgrazia, che come una goccia d'acqua si vapo-rizza se cade sulle roventi ingiustizie dei nostri an-ni, e quel breve vapore si dice qualunquismo - il moralismo appunto ě in Manzoni molto piú prepotente delle sue credenze religiose. E dalla Colonna Infame, piú che dal romanzo (al romanzo bisogna tornare dopo aver letta l'appendice), questa veritä appare in tutta evidenza. In uno scritto del 1927 sui Promessi sposi Hofmannsthal ad un certo punto dice: « Questa altissi-ma vitalita, che ě anche un culmine di discrezione, viene attuata da una rappresentazione estremamente modesta, penetrante e precisa, che nel tono somiglia a una relazione che un amministratore (sia egli am-ministratore di beni terreni o di anime) fornirebbe a uno piú alto, per informarlo in maniera veramen-te precisa perché egli ne possa cavare un giudizio ». Non sappiamo se Hofmannsthal lesse mai la Storia della Colonna Infame: si sarebbe accorto che non soltanto nel tono ma fondamentalmente, in es-senza, ě una relazione; e non a « uno piú alto » ma a se stesso e ai suoi simili. I promessi sposi pur es-sendo, come dice ancora Hofmannsthal, « per sua costituzione un libro laico », ě come un fiume che scorre alia foce, in tutto il suo corso segnato sulla mappa della fede: giä segnato e ora percorso. Ma la Storia della Colonna Infame ne ě la deviazione im-prevista, l'ingorgo, il punto malsicuro del fondo e delle rive. La ragione per cui Manzoni espunge dal ro- 184 185 manzo la Storia non é soltanto tecnica - cioé quella ragione di cui lungamente, sulľedizione dei Promessi sposi del 1827, Goethe discorre con Eckermann. La ragione é che sui documenti del processo, sulľanalisi e le postille di Verri, Manzoni entrö, per dirla banal-mente, in crisi. La_forma, che non era soltanto forma, e cioé il romanzo storico, il componimento mi-sto di storia e d'invenzione, gli sarä apparsa inade-guata e precaria; e la materia dissonante al corso del romanzo, non regolabile ad esso, sfuggente, incerta, disperata. E c'é da credere procedessero di pari pas-so, in margine alla sublime decantazione o decantata sublimazione (da nevrosi, si capisce) in cui andava rifacendo il romanzo, ľabbozzo delia Colonna Infame e la stesura del discorso sul romanzo storico. Due grandi incongruenze, a considerare che venivano dal-lo stesso uomo che stava tenacemente attaccato a ri-fare e affilare un componimento misto mentre ne intravedeva e decretava Ia provvisorietä e ne prepa-rava unö/per cosi dire, integrale, da cui ľinvenzione veniva decisamente esclusa. II dissenso del Giordani appare del tutto comprensibile, per allora: « Facil-mente mi accorderei seco {cioé col Manzoni) circa i romanzi storici (come si chiaman ora), né piangerei se il mondo non ne vedesse di piú. Ma non consento di porre in quel genere i Promessi sposi... e ben vor-rei che Manzoni (ch'egli solissimo puö) ne facesse un secondo. Del res to la sua sentenza su tutte le finzioni é nobilissima; é degna delľintelletto giunto al suo equatore; e la ricevo nelľanima; anzi giá 186 ľavevô, e mi giova di vederla confermata da lui ». Aveva ragione il Giordani, ehe í promessi sposi non andava intruppato in quel genere; ma aveva le sue ragioni il Manzoni, ehe invece ce lo vedeva o terne -va ci finisse (e da ciô il suo lavoro per farlo meno romanzo, per farne altra cosa ehe romanzo: qual é). E queste ragioni gli venivano, con tutta probabilitä, dalľaver tra le mani la materia delia Colonna Infame, di cui non poteva assolutamente fare quel secondo romanzo ehe il Giordani auspicava. Davvero ľintelletto del Manzoni era giunto al suo equatore: ma nella Colonna Injame ehe il Giordani an-cora non poteva conoscere, quando seriveva alľami-co Grillenzoni (1832), e ehe certo non pienamen-te apprezzô quando la conobbe. Come tutti, del re-sto: ché nelľenorme bibliografia sulľopera manzo-niana quella ehe dapprima Manzoni chiamô appen-dice stortca sulla Colonna Infame appunto é trat-tata da appendice, con disattenzione e superficialitä. Fanno eccezione, per quel ehe sappiamo, due saggi: uno di Giancarlo Vigorelli, pubblicato nel 1942 come introduzione a una ristarňpa delia Colonna; ľaltro di Renzo Negri, U romanzo-inchiesta del Manzoni, pubblicato nel 1974, anch'esso come introduzione al testo delia Colonna Infame. (E viene da rimpiangere ehe Alberto Moravia non abbia letto I promessi sposi partendo dalla Colonna, in quel suo discorso, per tanti verši interessante, ehe f a da introduzione alľedizione einaudiana del romanzo; il-lustrata, non congenialmente, da Guttuso; nel cui 187 segno meglio sarebbe stato messo a fuoco quel mon-do « perverso e affannoso » che si agita nel pro-cesso agli untori). Quello schermo di cortesia, di modestia, di umil-ta (e sarebbe da parodiare: ne aveva tanta di umilta da mettersi al disotto di tutti, ma non da mettersi in pari con qualcuno) che si dispiega eccessivo nel-l'epistolario manzoniano, ed e nevrotica difesa e se-parazione delTuomo dall'opera che ritroveremo esa-sperata in Pirandello, crediamo che per quanto ri-guarda la Colonna lnfame non si disgiunga da una concreta preoccupazione, che si e poi puntualmente realizzata. Rispondendo a Francesco Saverio Del Car-retto (e fa una certa impressione trovare l'aborrito ministro di polizia del Regno delle Due Sicilie che rende un servizio a Manzoni e par la di libri), che gli aveva scritto di essersi prenotato per pivi copie della Colonna lnfame e che l'aspettava desideroso, Manzoni diceva: « qualche giornale, seguendo non so qual falso rumore, ne ha parlato come di lavoro di lungo studio, e di qualche importanza; ma in fatto b pochissima cosa per ogni verso, e certamente il pubblico, alia lettura, anzi alia semplice vista di esso, fata scontar questo vanto anticipato all'autore, che non ci ha colpa ». Sapeva benissimo che la Storia non era pochissima cosa che per un solo verso: quello della mole; ma non giuocava la solita modestia, nella previsione dell'insuccesso. Conosceva benissimo gli italiani, poiche ne conosceva la storia. Non c'era mai stato niente di simile, in Italia; e quando qualcuno, piü di un secolo dopo, si atten-terä a riprendere il « genere » (poiche Manzoni, come esattamente dice il Negri, prefigura il « genere » delPodierno^racconto-inchiesta di ambierite gludi-ziario), « le silence s'est fait »: come allora. Ma la previsione non attenuö la delusione. E quando finalmente incontra un consenso pieno ed entusiastico, del francese Adolphe de Circout che gli comunica anche quello di Lamartine e di Augustin Thierry, ecco che Manzoni si apre a confidare, ma sempre con estrema discrezione e con sapiente ritro-sia, che l'insuccesso non ha scalfito la sua fiducia nella piccola opera: « Jugez apres cela, Monsieur, quel plaisir a du me faire une voix inattendue et eloquente qui a bien voulu me dire que je ne m'etais pas tout ä fait trompe. Sans vouloir nier, et sans pouvoir meme demeler la part que l'amour propre peut avoir dans un tel plaisir, j'ose croire, qu'il y a aussi quelque chose de plus noble et de moins personnel dans la consolation, que Ton eprouve en s'entendant assurer que ce qui, apres un examen mi-nutieux, comme au premier coup-d'oeil, a semble vrai et important ä la conscience, n'etait pas tout ä fait illusion ». « Quel che b sembrato vero e importante alia coscienza ». Alia sua coscienza, alia nostra. Alia nostra di oggi, alia nostra di fronte alia «cosa» e alle cose di oggi. E per finire nella piü bruciante attualitä - di 188 I 189 fronte alle leggi sul terrorismo e alia semi-impunitá che promettono ai terroristi impropriamente detti pentiti - si rileggano, del terzo capitolo, le consi-derazioni che il Manzoni muove riguardo alia pro-messa di impunitä al Piazza: « Ma la passione ě pur troppo abile e coraggiosa a trovar nuove strade, per iscansar quella del diritto, quand'e lunga e in-certa. Avevan cominciato con la tortura dello spa-simo, ricominciarono con una tortura d'un altro genere... »; ed era quella delľimpunitä promessa, che piú delia tortura poté convincere il Piazza ad accusare falsamente, ad associare altri, come lui innocenti, al suö atroce destino. 190