1 COMUNITÀ UMANA E SENSO RELIGIOSO NE I PROMESSI SPOSI di EZIO RAIMONDI ARTE COME GIUSTIZIA In un grande testo manzoniano successivo a I Promessi Sposi, il dialogo Dell'Invenzione (opera importante, dove è già cominciato quel grande colloquio con Rosmini che attende ancora un adeguato commento e dove si danno una serie di enunciazioni che a posteriori dovrebbero essere usate anche per la lettura del romanzo), arrivato quasi al finale, uno dei due interlocutori, Primo, dice: "Dal disputare sull'invenzione artistica, siamo riusciti a parlare della giustizia. E, certo, non paiono, né sono argomenti de’ più vicini tra di loro: eppure, in ultimo, è sempre la stessa questione". Mi sia consentito di generalizzare la battuta ed è possibile, poiché si tratta di un principio profondo: fra il problema dell'arte e quello della giustizia c'è un nesso così profondo che forse sono la stessa cosa. Che questo valesse per un romanzo come I Promessi Sposi lo si deduce immediatamente se cominciamo la lettura del romanzo. - Un romanzo storico senza la Storia Per entrare in questo piccolo viaggio conviene però prima di tutto fare un'osservazione tecnica: che tipo di romanzo è I Promessi Sposi? Dove lo dobbiamo collocare nel sistema romanzesco fra Sette e Ottocento? Non c'è dubbio che in apparenza dobbiamo definirlo, lo si definisce così, un romanzo storico, nella scia in qualche modo di Walter Scott; ma è anche evidente che si tratta di una formula riduttiva. È una formula 'apparente' anche se è ufficiale poiché, e questo lo si ricava dalle stesse dichiarazioni del Manzoni, I Promessi Sposi sono già una critica profonda al metodo di Walter Scott, e quindi sono già altrove. 2 Intanto in questo romanzo c'è una figura molto importante, un narratore, che ha tutto un dialogo nel romanzo non solo coi personaggi ma con noi lettori; e in secondo luogo questo narratore ha due voci. E' un doppio narratore perché è un narratore a ridosso della storia, quasi un testimone, anonimo, partecipe e amico di alcuni dei protagonisti della vicenda. E poi abbiamo il secondo narratore tutto moderno che riscrive, o finge di riscrivere, ciò che finge di avere trovato detto nel vecchio autografo manoscritto “dilavato” dello Scrittore del Seicento. È quindi un narratore con una doppia voce; se vogliamo tradurla in termini letterari approssimativi, una voce barocca e una romantica. Tutte e due straordinariamente moderne: moderna quella barocca, moderna quella romantica. E quindi potenziate a vicenda. Il narratore parla ai personaggi con movimenti molto vari, molto più complessi di quello che si riconosce quando si parla del suo atteggiamento paternalistico: al massimo una notevole scrittrice americana, buona lettrice anche de I Promessi Sposi, parla di “tenero” paternalismo. Ma è questa stessa scrittrice, Mary Mc Carthy, che di recente, parlando del romanzo e delle idee, ha riconosciuto che I Promessi Sposi, come alcuni dei grandi romanzi dell'Ottocento fino a Tolstoi, è un "romanzo di idee", che vuol dire una cosa più complessa di un romanzo storico. Queste idee sono per così dire 'giocate' tra i personaggi, circolano tra i personaggi per un verso e dall'altra parte nel narratore, cui però bisogna subito dare un carattere. Quando noi parliamo di solito del narratore che interviene sulla scena (e si badi bene non è il Manzoni, è un narratore inventato dal Manzoni: non stabiliamo questa equazione!) noi pensiamo a un narratore onnisciente, che sa tutto dei personaggi e di ciò di cui essi fanno parte. Il narratore manzoniano sa invece che non può avere un punto di vista totale. Ha un punto di vista ampio, ma parziale. Non rinuncia al suo destino di finitezza, non ambisce, non può ambire, a delle verità assolute che non siano calate nel suo tempo, che non tolgono nulla a ciò che egli pensa come assoluto, ma che hanno la mediazione della 3 sua finitezza storica. Il narratore sa che non finisce la Storia con lui e che ci sono altre verità che verranno dopo di lui, almeno a un certo livello. L'ironia del narratore ha a che vedere con la consapevolezza della sua finitudine. Sa molte più cose dei suoi personaggi, perché viene due secoli dopo ed ha una cultura molto più ricca per interpretare ciò che i personaggi vivono in presa diretta e secondo logiche che non sono quelle dell'Ottocento. Ma sa che la sua è una logica, almeno su certe cose, parziale: c'è un tempo che viene dopo, che giudicherà anche il suo presente. Più volte il narratore gioca sul termine della posterità ed è evidente che anche lui alla fine, anche se non lo dice esplicitamente, accetta questo destino. Del resto Manzoni, nelle Osservazioni sulla morale cattolica e altrove, ha sempre detto che l'uomo vede solo una parte delle cose, non tutto. Riconosce quello che Leibniz avrebbe detto la “visione prospettica dell'uomo”. Non una visione totale, ma una visione sempre da una parte, giacché ha a che vedere con la finitudine. LA MORALITA' NEL ROMANZO - Il romanzo dei personaggi Italo Calvino, che è stato un buon lettore de I Promessi Sposi, non come Gadda ma come lo era già stato Pirandello, ne parla come il romanzo dei "rapporti di forza" e dice, a un certo punto, che forse è "un po' il romanzo", fatto di vari romanzi. Ma cosa vuol dire un romanzo fatto di vari romanzi? Semplicemente, che ci sono pezzi all'interno che si possono attribuire a diversi generi romanzeschi o vuol dire anche qualcos'altro? Io amo pensare che Calvino alludesse anche a qualcos'altro. Era un narratore troppo moderno perché gli sfuggisse una cosa singolare, cioè che noi potremmo pensare questo romanzo prendendo il punto di vista dei vari personaggi. Ci sono tanti romanzi quanti sono i personaggi: quello di padre Cristoforo, che vuol dire certe cose; di don Abbondio; di Lucia e Renzo, che è unito e nello 4 stesso tempo separato; poi dei personaggi minori, compreso l'Innominato, che sono punti di vista diversi che comportano anche generi letterari diversi. Per approssimazione Calvino diceva: "Il romanzo di don Abbondio è una commedia di carattere, il romanzo di Gertrude è un dramma". In realtà le cose sono più complesse, perché don Abbondio, per qualche verso, è un personaggio ancora più cupo di quanto non lo sia Gertrude, proprio perché non lo sembra, perché tremendamente vero, perché è il punto in cui la carne è più forte degli ideali. Dunque in questo romanzo vi sono tanti punti di vista: ce n’è uno ampio, che è quello del narratore, ce ne sono altri diversi, variati, minori, dei vari personaggi e delle coppie che costituiscono come dei romanzi comuni. Basti ciò a segnalare la complessità della costruzione. Manzoni non ci arrivò di colpo, del resto, ci mise del tempo, dal Fermo a I Promessi Sposi. Un altro grande lettore dei Promessi Sposi e del Manzoni, come l'austriaco Hofmannsthal, in pagine bellissime su I Promessi Sposi, (questo austriaco che aveva origine lombarda diceva tra l'altro che questo è il romanzo vero dell'italianità, cioè di un certo carattere italiano e non in senso negativo), osservava che in questo romanzo ci sono come quattro grandi coppie che complicano il punto di vista: la coppia don Rodrigo-Renzo, la coppia Gertrude-Lucia, la coppia padre Cristoforo-Don Abbondio, la coppia Cardinale Federigo- Innominato. In alcuni casi non si può intendere un personaggio se non lo si mette in rapporto con l'altro, e dunque si vede subito bene che il punto di vista dei personaggi si integra con punti di vista specifici, all'interno di coppie che poi sono più numerose di quelle di Hofmannsthal. Dentro queste digressioni si creano poi anche altre coppie (Lucia e l'Innominato, per fare un esempio, oppure padre Cristoforo-Don Rodrigo). Insieme con dei punti di vista fissi, legati al sistema, alla costellazione di un personaggio, vi sono poi possibilità integrative che sono altri elementi della storia. E' una macchina composita, evidentemente, che mentre racconta vuole anche dibattere 5 dei problemi. Manzoni non li vuole però discutere solo dalla parte del narratore. Anzi, rispetto al Fermo e Lucia, i Promessi Sposi riducono tutto questo, perché Manzoni vuole che il dibattito nasca dal racconto stesso, non solo là dove i personaggi discutono, ma dove i personaggi agiscono. - Don Abbondio Lévinas, discutendo del problema del rapporto tra etica e religiosità, dice che "L'etica è l'elemento dove il senso religioso trova la sua formulazione originaria". L'etica, cioè i rapporti, i comportamenti, gli incontri, i dialoghi in quanto incontri tra personaggi. Non c'è dubbio che il romanzo cominci in questo modo singolare. Siamo in quella giornata autunnale, in luoghi tutti lombardi, quando un buon parroco che torna alla sua Pieve, ha un cattivo incontro. Però nel momento in cui si imbatte con alcuni rappresentanti ufficiali della violenza legalizzata, i bravi, il narratore deve avvertire chi fossero. Subito dopo spiega che era diventato parroco per professione, non per fede o per carità. Aveva scelto una strada, quella del sacerdozio, come tutela di sé, non come offerta di sé. Lo dice il narratore, che avverte, perché tutti capiscano la naturalezza della sua reazione, anzi la verità della sua reazione. A don Abbondio viene intimato qualche cosa: "un'ambasciata a un galantuomo". L'ambasciata, lo sanno tutti, consiste nell'intimargli di non procedere a un matrimonio. E il potere si esercita in una parola: basta dire il nome di don Rodrigo perché sia chiaro tutto. Un potere che è violento dà il suo annuncio. Don Abbondio è a una sorta di bivio, non ci sono dubbi. Mi viene in mente Gilbert Keith Chesterton che una volta scrisse che il cristianesimo si concentra in un uomo al bivio, al crocevia. E qui Don Abbondio è a un crocevia, soprattutto profondo, interno. Dirà "sì" o dirà "no" alla violenza che gli viene intimata? Ha tutte le ragioni per accondiscendere, anche se è stato descritto come un uomo bonario. Non è un malvagio. Ha però un problema principale, che è la tutela di sé. Non è il suo interesse, è la sua quiete. Se veramente coltivasse fino 6 in fondo il suo utile sarebbe già un esempio di quello che il Manzoni (ed è una delle sue grandi polemiche, che corrono poi attraverso tutti i suoi libri fino alla Morale Cattolica nella sua ultima versione e al dialogo Dell'Invenzione) chiamerebbe l'etica 'dell'utilitarismo', l'etica della giustizia 'come calcolo', non della giustizia come luogo della coscienza. Don Abbondio dice 'sì', non dice 'no'. Usa la propria coscienza sopraffatta dalle ragioni del proprio corpo e della propria sopravvivenza per dire 'sì' trovando degli espedienti. Si mette dalla parte, la parola è manzoniana, dei ‘soverchiatori’, non dalla parte degli oppressi, dei deboli. Il narratore non lo sottolinea più di tanto, però dà tutti gli elementi perché il lettore cominci a riflettere. È già un atto etico, di scelta, in un momento difficile. Le scelte vere sono quelle in cui è in gioco qualche cosa. Sappiamo già perché dice 'sì': la sua stessa storia porta in questa direzione. Però Manzoni rappresenta qualcosa cui don Abbondio doveva dire no, che non poteva accettare: la logica dell'ingiustizia, che andava contro qualcuno, cancellando in questo caso il legittimo desiderio di quei giovani. È la negazione dell'amore, perché al suo posto si colloca il capriccio, il capriccio del diseguale, che è più in alto, rispetto all'amore degli eguali, che erano sullo stesso piano. Quindi il romanzo comincia, se noi lo pensiamo in questi termini, con un preciso atto che mette in gioco una coscienza e insieme, un sistema. Ma il sistema di don Abbondio è solo suo. Lo afferma il narratore. E il sistema cristiano, di cui è parte, quale ruolo gioca? Quanto è libero don Abbondio nella sua scelta? Don Abbondio non accetta la strada che cristianamente sarebbe quella del 'no' e del sacrificio, non ci sono dubbi. Questo accade tra il primo e il secondo capitolo. - Padre Cristoforo Poi, non è a caso che il quarto capitolo si apra con un paesaggio che questa volta non è più abbastanza tranquillo, apparentemente idillico come il primo: è quello già della carestia e della peste che sta per venire, di una natura già 7 turbata, delle persone sofferenti. Il dolore è già entrato nel paesaggio. Compare padre Cristoforo che è l'anti don Abbondio, lo è perché intanto è un coraggioso. È un omicida che si è fatto frate non per paura, ma perché sopraffatto dall'idea caotica della distruzione di un altro uomo. Ha cancellato un altro uomo. Ha sperimentato su di sé quello che il Manzoni, fuori dal romanzo, dice, cioè che affliggere un uomo è peccato, che il male è un'ingiustizia e che non ci si può arrogare di disporre di un altro uomo. Sono princìpi molto aspri e direi totali, princìpi dell'etica manzoniana, così come essa viene espressa anche fuori da I Promessi Sposi e che non hanno niente a che vedere col riso bonario con cui tradiamo molto spesso - anche se è una voce della sapienza della saggezza umana - quelli che sono i moventi più radicali di questa coscienza "ardita e inquieta"(uso due aggettivi manzoniani). Padre Cristoforo ha il senso del sacrificio ed oltre tutto è il personaggio che si porta addosso, ed è così evidente, lo diceva anche Giovanni Pozzi, il termine di "Cristo", che non viene più usato ne I Promessi Sposi. Ma Cristoforo indica anche l'idea di Cristo - che è l'amico che è stato ucciso - e quindi il ricordo permanente di un'anima negata, di un dolore senza compenso, di un omicidio terribile. Il cambiamento del suo nome, da Ludovico a padre Cristoforo, ricorda questa doppia realtà: da una parte colui che è stato ucciso, quel volto che vide di colpo e che gli diede una rivelazione terribile, uno sgomento che non trovava senso; e dall'altra, però, una sorta di espiazione, di riflessione portata avanti per tutta la vita su ciò che era accaduto. Il sangue sparso di un uomo, Manzoni stesso lo dice, pesa su tutti; ma su padre Cristoforo pesa in modo irrimediabile. Il perdono di cui egli va alla ricerca è un'altra faccia, come dicono oggi gli studiosi di etica, del suo senso della giustizia: non si dà perdono senza l'idea della giustizia. Altrimenti sarebbe un perdono mascherato e ridotto. È la risposta-contraria quella di padre Cristoforo, una rispostasconfitta, che entra nel sistema delle forze e ne viene, almeno per le prime avventure sopraffatta, messa fuori 8 gioco. La sua andata diretta al palazzotto di don Rodrigo è una sconfitta, dove, oltre tutto, la sua vocazione cristiana viene vista dall'altro punto di vista, quello del prepotente, quale atto mascherato di violenza incapace. E don Rodrigo, che durante quel colloquio ricorda cosa aveva fatto in gioventù e dice: "Ma lei è un uomo di mondo!", lo invita a essere ancora quello di un tempo e a stare dalla sua parte. Apparentemente il potere di don Rodrigo, colui che ha una parte di potere perché fa parte della cosiddetta classe dominante, sconfigge il cristiano che non vuole stare alle stesse regole e ha un'altra idea della giustizia. Le due funzioni, don Abbondio e padre Cristoforo, sono evidentemente l'una l'inversa dell'altra ma l'una ha bisogno dell'altra, perché questo è la possibilità delle risposte. Se non si pensa subito a Renzo e Lucia si vede bene come la macchina è molto più complessa. - Le storie parallele Avevo accennato prima che non c'è soltanto il romanzo di Renzo e Lucia, che poi viene separato nel tempo con due funzioni diverse, ma c'è il romanzo di don Abbondio e quello di padre Cristoforo. Si faccia attenzione: il romanzo di don Abbondio ha un lieto fine su tutto: tutto è andato alla fine come egli desiderava. Ha avuto molte burrasche, molte avventure, ma ce l'ha fatta. Il romanzo di padre Cristoforo non ha un lieto fine: a quel palazzotto non ci tornerà più per veder quei poveretti finalmente messi insieme. In un altro modo, c’è il lieto fine di padre Cristoforo e di ben altra natura: si trova nel dialogo costante con Renzo, con cui è legato da strani elementi, sia per ciò che Renzo farà quando arriverà a Milano, sia poi anche sul piano verbale. Basterebbe pensare questo: quando Ludovico ha ucciso e scappa nel convento, la gente gli dice: "Scappi, scappi!" e quando Renzo fugge da Milano gli viene detto: "Scappa, scappa galantuomo!". Ci sono alcune simmetrie indubitabili, ma cosa li lega? È il problema della giustizia. Quando Renzo parla con padre Cristoforo e gli dice di volersi fare giustizia 9 da solo, cioè di voler rispondere con la forza alla forza, l'altro insorge. Non solo perché fa una lezione di cristianesimo, ma perché ossessionato dall'omicidio che si porta addosso sempre col suo nome. Riuscire a persuadere Renzo che è un'altra la strada che deve percorrere, vuol dire purificare in qualche modo, attraverso un'altra persona, qualcosa del suo passato. E' un legame tutto interiore. Come si risolve poi questo dialogo? Quando si arriverà nel Lazzaretto e ci sarà anche l'incontro, l’unico, con don Rodrigo che è un quasi cadavere. Così quando Renzo continuerà a dire di voler farsi giustizia, perché finalmente tutto è possibile, le cose sono alla pari, l'altro gli risponde con una sorta di dolore profondo e per l'unica volta nel romanzo accenna: "Tu sai perché io porto quest'abito ". E dice all'altro, che lo può capire fino ad un certo punto: " Credi tu che, se ci fosse una buona ragione, io non l'avrei trovata in trent'anni?". Non ce l'ha la ragione per spiegare perché accadde quell'omicidio, perché fu, quella, la negazione dell'umano. Ma per fra Cristoforo trovare in Renzo, a questo punto, una dichiarazione vera di perdono, come segno della giustizia, è come compiere la propria storia, il proprio romanzo. Poi ci sarà la remissione, l’assaggio del pane, ma è il pane del perdono, una sorta di strano rito, non voglio dire sacro, ma certo in un'aurea sacra, toccato profondamente dalla storia dolorosa e terribile di padre Cristoforo. Ecco come vanno avanti le storie. Don Abbondio invece è un personaggio trionfante. Alla fine del romanzo infatti è lui che dice: "Ah queste cose dovrebbero avvenire ogni tanto: metterebbero a posto tutto!". È lui che afferma che la peste è stata una “scopa”; già una scopa poi, scritta in corsivo, che indica un termine milanese che inequivocabilmente vuol dire ‘rimedio straordinario’, non soltanto scopa. Quando noi leggiamo I Promessi Sposi in una certa chiave assumiamo il punto di vista di don Abbondio, cioè una sorta di grande tentazione che privilegia l'azione eroica, non conosce il dolore e la sofferenza, non si pone mai il problema del male, della parte imperfetta dell'uomo. 10 - Coscienza e rivoluzione Ho accennato a questi elementi perché si capisca che chi scriveva questo romanzo, il problema delle idee l'aveva, eccome. Era un uomo della generazione post rivoluzionaria, che veniva da una logica illuministica radicale quasi giacobina e che poi dal terrore, da tutto ciò che era accaduto dopo, era stato costretto, come tutta la sua generazione soprattutto francese, a riporsi il problema della politica, della storia e della morale. Il problema del dire di sì e del dire di no, il problema in altre parole della coscienza e del suo luogo. Gli anni parigini del Manzoni vogliono dire il dialogo con la grande generazione degli storici liberali, venuti dopo i cosiddetti idéologues, soprattutto Thierry e Guizot, che oggi anche la storiografia francese ristudia come una delle radici di ciò che si chiama, con una forma molto più complessa, il ‘liberalismo continentale’. Poi vi fu per il Manzoni il problema della libertà, della politica e della storia, in altre parole il problema della giustizia e del potere. Manzoni è costretto a riflettere in questo modo, è europeo perché partecipa a quella che è una avanguardia europea, quella che intorno agli Anni Venti a Parigi, tra liberali spiritualistici o meno e cosiddetti reazionari, elabora i nuovi strumenti di interpretazione del sociale: diventa società. Il luogo dove si deve esaminare questo terribile problema del rapporto tra il potere e il diritto, non più genericamente la storia, ma la società nella storia: il sociale. È importante osservare che Manzoni scopre Scott non attraverso i letterati, ma attraverso i suoi amici storici, che avevano visto in Scott un nuovo modo di fare storia, facendo parlare anche le dimensioni pubbliche e le masse, riuscendo finalmente ad animare la storia non soltanto con i grandi personaggi ma con gli uomini medi o addirittura infimi. In un secondo tempo il romanzo storico diventerà una formula letteraria anche per Manzoni: ma in primo luogo fu una maniera, come gli indicavano i suoi amici storici, per parlare anche delle epoche, delle atmosfere e degli stati d'animo delle 11 epoche, di quello che viene detto e di quello che bisogna intuire. - L'influsso pascaliano Manzoni partecipava a tutto questo come un cristiano di ritorno, da convertito, radicato nell'ambiente stesso come convertito e leggendo, si dice, la grande tradizione francese tra Sei e Settecento (anche questo lo rende anomalo), aggiungendo anche qualche italiano, ma non a quel livello. Certo davanti a sé aveva come una delle figure viventi Pascal, che nel Seicento aveva affrontato in modi radicali e spietati il problema del rapporto tra ricchezza e potere, tra giusto e ingiusto, tra uomo e Dio. Manzoni, non c'è dubbio, ha una componente pascaliana che si può chiamare anche agostiniana, perché quella è l'origine. È il problema del Giansenismo che è molto complesso. Su una cosa però credo che possiamo intenderci: il modo di pensare manzoniano viene da una tradizione in qualche maniera agostiniana. Una specie di piccola conferma la si potrebbe avere, almeno a me pare che vada interpretata in questo modo, da una postilla che Ermes Visconti, l'amico più caro di Manzoni, mentre questi scriveva il Fermo e Lucia, scrisse nelle pagine in cui si raccontava del dialogo-scontro tra il Cardinale Federigo e don Abbondio. Una serie di postille di Ermes Visconti, in calce al Fermo e Lucia, dicono come nacque il romanzo, attraverso certe discussioni letterarie ma non solo, straordinario perché non aveva antecedenti nella nostra produzione letteraria. Quando si arriva appunto all'incontro tra il Cardinale e Don Abbondio, Visconti, che amava quest’ultimo in modo particolare e lo sentiva in qualche modo un religioso fuori dalla religione, dice: "Io credo che il tuo manoscritto anonimo non sia di un Secentista ma sia di Pascal che fece redigere questo passo da Shakespeare". Non era una postilla di poco conto, perché indicava chiaramente un ideale che non è di natura solo stilistica: Pascal che fece scrivere a Shakespeare implica un modo di pensare. Quale? Se noi andiamo a leggere attentamente le Osservazioni sulla 12 morale cattolica, sia quelle del 1819 che quelle della nuova edizione, sia le pagine della Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia e anche tutte quelle pagine che vanno sotto il nome di Materiali estetici, scopriamo abbastanza facilmente che l'etica manzoniana è evangelicobiblica, fondata sull'idea dell'intangibilità e la sacralità del prossimo; quindi fondata sul rifiuto della forza e della violenza, senza però che questo significhi farsi complici della forza e della violenza. Chi scrive 'affliggere un uomo è un peccato', chi scrive 'l'ingiustizia è un male' dà un'etica radicale che non concede possibilità intermedie e che pone dei problemi gravissimi se si deve entrare nel vivo della storia, nella lettura di Machiavelli e di tutte le logiche del potere. Il Seicento, non dimentichiamolo, è il secolo dello stato assoluto e delle nuove logiche del politico dopo Machiavelli, del contrasto tra le logiche del potere e il senso della coscienza. Manzoni tocca tutto questo; il suo è un romanzo fortemente attuale, mentre sembra proiettato nel passato. Egli dibatte questioni non del Seicento ma del proprio tempo, o del Seicento perché cominciavano allora. Anche qui viene fuori il problema delle 'idee' come diceva Mary Mc Carthy, ed anche questo lo rende aspramente complesso e pieno di trabocchetti perché è facile, e di solito avviene così, ridurre quelle voci ad alcuni elementi senza questa che è una dialettica estremamente complicata e che, però, ha alcuni punti inimitabili. - Il sistema di forze Purtroppo non posso dilungarmi sullo scrittore, sulle sue straordinarie qualità inventive, sulla sua capacità di fare dei pastiches in senso modernissimo. Basti vedere come vengono manipolati e ricostruiti i documenti del Seicento: le pagine sulle “grida” sono un'operazione geniale, attraverso la quale il passato fa la caricatura di se stesso. Non c'è differenza con uno scrittore del nostro tempo. Gadda imparò da quelle pagine. Questa straordinaria abilità sembra ridurre la tensione dei problemi che invece emergono; e non solo là 13 dove i personaggi parlano, ma anche dove agiscono fra di loro. È lì che appare il "sistema di forze". Anche Calvino, ma è un'operazione abbastanza facile da compiere, osserva che i personaggi manzoniani sono sempre rappresentativi di sistemi sociali: non esistono mai come meri individui, sono lì come simbolo del sociale, della loro gerarchia. E oltre tutto parlano con una straordinaria consapevolezza della loro gerarchia: se parlano agli eguali usano certi termini; a livelli diversi, ne usano altri. La lingua sembra la stessa, ma le ragioni interne sono profondamente diverse: c'è un'articolazione mobile di una straordinaria intensità e diciamo pure, in senso qui positivo, una 'astuzia inventiva'. Tutto questo sembra attenuare quella che invece ho definito prima quale tensione dei problemi. Ma se tutti i personaggi rappresentano figure del sociale, nella loro piccola vicenda privata si riproduce sempre il sistema dinamico delle forze del sistema. Se non si ha presente tutto questo si altera il senso del libro. STORIA E INTERIORITÀ Manzoni prima de I Promessi Sposi, dopo gli Inni Sacri, era giunto a un'idea sempre più drammatica dell'esistenza: ecco perciò la scoperta del dramma con il Conte di Carmagnola e l'Adelchi. Come spiegava nella Lettre à monsieur Chauvet sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie, che è scritta a metà tra il dramma e il romanzo, aveva pensato che una strada per la scrittura moderna consistesse nel cercare di dare una voce interna alla storia del passato. Se volessi usare una formula di Henri De Lubac: "... aveva pensato che insieme alla storicità ci fosse l'interiorità e che stava allo scrittore di dare voce a questa interiorità...". Questa operazione, che nei drammi era limitata dal punto di vista tecnico e che aveva come luoghi privilegiati i cori, che però erano delle entità drammaticamente inefficaci, si sposta e si sviluppa una volta che si entra nel romanzo, dove 14 c'è un narratore, anzi un doppio narratore che può di continuo testimoniare ciò che accade nei personaggi e tentare di interpretare ciò che essi non sono in grado di dire da soli. Manzoni, non a caso per questo "romanzo di idee", non ha scelto degli intellettuali, come avrebbero fatto tanti scrittori di tradizione o settecentesca o romantica, ma sceglie degli “umili”. È un'opzione che ha tutta una serie di ragioni polemiche: essi non sono in grado di riflettere su certi fatti e allora il narratore illumina ciò che in loro è confuso, salvo poi dare a loro la funzione di essere dei reagenti che, anche quando non parlano, spiegano situazioni che altrimenti non si sarebbero rivelate. Renzo si incontra con la giustizia e attraverso di lui si scopre che la giustizia istituzionale è un falso, perché piena di ingiustizie, schiaccia un innocente e lo fa diventare un capro espiatorio. Renzo così mette in luce, quando incontra il dottor Azzeccagarbugli, il mondo della legge come complice del potere. Si badi bene, Azzeccagarbugli ci fa ridere. Ma quando dice "...con quello che posso fare io nessuno è reo e nessuno innocente...", pensiamo per un momento a quanto sia terribile questa frase. Renzo, anche se non sa esprimersi, mette in luce tutta una serie di fatti, di incongruenze, di contraddizioni. Manzoni aveva scelto il Seicento anche se poteva essere visto come il luogo del caos; ma il Seicento aveva una società, una storia straordinaria, con un potere arbitrario in bilico tra un'anarchia feudale e un'anarchia popolare, con classi contrapposte con massime opposte, un mondo di disordine che metteva alla luce poi dei grandi problemi. Ed è ovvio che quel disordine era anche quello a cui Manzoni pensava, dopo la rivoluzione. - Il luogo della coscienza L'interiorità, a mano a mano che si entra nel romanzo, diventa sempre più il luogo della coscienza e il romanzo a questo punto, è una serie di eventi in cui sono in gioco grandi temi, grandi forze: una rivolta, una situazione di disordine, un'economia sbagliata. Sono interventi di un 15 potere che finge di avere un potere che non ha; poi, in un'osteria, il riflesso dei disordini nella città di Milano, dove la gente però, parla liberamente e dopo che Renzo ha fatto per un momento, a modo suo, il capopopolo. È curioso che abbia fatto il capopopolo dicendo che "bisogna agire da cristiani", che non bisogna commettere omicidi; poi sarà lui stesso a dirlo: "mi hanno considerato un prepotente quando io avevo cercato di parlare di Ferrer come di un fratello". Più avanti c'è il momento più terribile, quello della peste e di tutto ciò che vi corrisponde, in una città sconvolta dalla morte, sovvertita in tutte le sue forme, anche di vita. C'è il Lazzaretto che è un esempio di ospedale quasi moderno, con tutti i problemi della sanità e delle corruttele che vi corrispondono; poi, via via, sino alla ‘soluzione’ per così dire, del romanzo. Tutto questo si scontra con delle coscienze, quando queste sono in grado di reagire. Così da una parte si hanno le coscienze e dall’altra il sociale, con le sue diverse formazioni, con la razionalità e l'irrazionalità, con questo terribile dilemma: il potere e il diritto. Cosa vuol mai dire "forza legale", come dice Manzoni proprio parlando ancora di don Abbondio nel primo capitolo? - Il potere Esiste per Manzoni una politica cristiana? Questo è uno dei grandi sogni del Seicento. Esiste per Manzoni una coscienza cristiana, che deve rapportarsi anche alla politica. Come altri della generazione francese che ho citato, egli ha il senso della problematicità delle istituzioni e del rapporto complesso tra la libertà e ciò che è l'insieme di un'organizzazione sociale. La coscienza per Manzoni, non può che essere coscienza cristiana, legata all'etica, legata ad una Rivelazione che però si misura negli atti e nelle cose, che deve diventare impegno, anche se votato all'insuccesso: è il caso di padre Cristoforo. E' una coscienza cristiana problematica nei confronti delle soluzioni e dei compromessi che regolano la giustizia delle istituzioni, spesso ingiusta. 16 Una coscienza che voglia rinunziare alla necessità delle sue scelte, che stanno tra il bene e il male è negazione della politica. Vi sono spesso due verità diverse, la storia, vista da dentro la coscienza e l'interiorità, che è un’altra cosa. I personaggi non se ne accorgono subito. Un poco lo dice il narratore e qualche cosa forse deve fare il lettore, se prende sul serio un romanzo di idee costruito in questo modo, con il paradosso di voler essere un romanzo cattolico, che è la cosa più complicata, vincolata a certe ragioni e nello stesso tempo però pronto a straordinari esiti. Erano tutte sfide, si badi bene, che il Manzoni doveva affrontare. Noi qualche volta non pensiamo alle scelte straordinarie che dovette fare questo scrittore, allo spazio nuovo dove doveva muoversi lui che invidiava il francese, una lingua di conversazione, e pensava che l'italiano non lo fosse. Però doveva far parlare le persone in uno stile medio, non facendo più del "teatro" tradizionale neanche alla Goldoni, perché c'erano queste grandi forze in gioco. Come si fa a dire che quella di don Abbondio è una commedia, se ci sono in gioco problemi di questa natura? Dicevo quindi, da una parte il sociale, dall'altra la coscienza, dove però è fondamentale il rapporto con l'altro: la società è l'altro che è decisivo per la mia coscienza che impedisce di ricorrere a certi modi. D'altronde Manzoni ha detto una volta nelle Osservazioni sulla morale cattolica che " il male non è ciò che si subisce, ma ciò che si fa ". Come si procede nel "miglioramento sociale", è un’espressione manzoniana, accettando questa terribile implicazione? - La giustizia Come si fa, cito di nuovo Manzoni quando parlava di storia, "a mettere un po’ di giustizia nelle cose del mondo e a diminuire i dolori", perché l'altro è colui che può soffrire? Che cosa vuol dire far soffrire un altro? Ci sono domande di questo tipo che riecheggiano qua e là nel romanzo, anche se non sono immediatamente in luce. L'ingiustizia produce altra ingiustizia e la coscienza si trova di fronte ad un disordine in 17 cui deve portare un ordine, se c'è il prossimo di mezzo. Don Abbondio non ha il senso del prossimo, vuol stare quieto. La persona che si occupa degli altri, come fa padre Cristoforo, pare agli occhi di don Rodrigo e dei suoi una specie di sovvertitore, confermato poi dal fatto che il suo protetto, Renzo, è diventato sembra, il capo popolo dell'insurrezione a Milano. La risposta, dicevo, non è nel romanzo, è altrove evidentemente, e ci investe. Il romanzo sembra dare delle risposte, ma nello stesso tempo è profondamente problematico. Intanto noi dovremmo leggere insieme I Promessi Sposi e la Storia della Colonna infame, non dobbiamo più optare o per l'uno o per l'altro. Li concepì all'inizio così il Manzoni, anche se poi non pubblicò subito la Colonna infame. Nella redazione definitiva, però, questa segue il romanzo, sono come le due facce di una stessa realtà. Solo che da una parte c'è un inferno orribile, gli untori, un processo che assomiglia a quello che oggi si chiamerebbe l'olocausto, e dall'altra invece, una realtà dove qualcuno si salva, ma dove è comune il problema, il senso di ciò che accade agli uomini. Ed è nella Colonna infame che Manzoni ad un certo punto arriverà ad una battuta terribile quando, parlando dell'inclinazione corrotta dell'uomo, parla del peccato originale, del momento buio dell'uomo, del suo limite. Osservando ciò che è accaduto nella storia dice: "a questo punto si dovrebbe pensare che, o non c'è una logica (la Provvidenza), o che essa vada messa sotto accusa", in altri termini, il ritorno alla negazione settecentesca. Ma successivamente afferma che c'erano uomini che con la loro coscienza potevano distinguere, e lo potevano, sulla base della sofferenza degli altri; e se si stabilisce che essi lo vollero, il problema torna ad essere un problema degli uomini e della loro etica. Non è la storia, è ciò che hanno fatto gli uomini, è ciò in cui essi hanno saputo dire di sì o di no a ciò che risultava per qualche verso il male. 18 C'è una singolare somiglianza tra il Manzoni che ragiona così e il grande cardinale inglese Newman, anche lui un convertito, dall'anglicanesimo al cattolicesimo. Tra i grandi testi di Newman c'è un'apologia, l'Apologia pro vita sua, nella quale, ad un certo punto lui, agostiniano, si pone il problema della storia e si chiede se la storia non cancelli Dio, ne colga la sua assenza, come avevano pensato i libertini, come linea filosofica tra Sei e Settecento. Anche Newman rispondeva che basta interrogare la coscienza perché quella voce ritorni. Non è nelle cose, è nella nostra coscienza che parla qualcuno, e Manzoni non ha fatto altro che raccontare cose di questa natura. È dall'interno dei personaggi che nasce o l'idea che c'è vicino qualcuno o l'idea della loro perdizione. Che cos'è che turba l'Innominato se non la solitudine totale, il trovarsi nel vuoto, senza senso, con la violenza che non si riesce più a giustificare, neanche in nome del potere? È la coscienza che può dire di no. Dunque sia nella Colonna infame sia ne I Promessi sposi, seppure con voci così diverse, ma che qua e là si toccano, c'è un'ipotesi che anziché acquietare il problema lo rende più profondo. La coscienza non è una funzione dei tempi storici, non si lega alla morale temporale della società in un preciso momento, ha qualcosa di più assoluto a cui può appellarsi: è una verità naturale compiuta dalla Rivelazione, e si fonda sull'integrità dell'altro. Su questo non ci sono dubbi. Gli studiosi dell'Olocausto, questa altra grande vicenda del nostro tempo, hanno spiegato che bisogna dire di no a certe cose perché esse non vadano avanti e che l'indifferenza è la complicità verso un'ingiustizia atroce. Don Abbondio ragiona così ed è di una straordinaria verità; non ha torto quando parla con il cardinale, ha ragione anche lui, il suo corpo è così, il suo dramma è quello. Così, se non è coraggioso, come può sacrificarsi? Come può dire di no? Ma il problema della coscienza è di saper dire di no. Agostinianamente è la coscienza che risponde sì o no alla tentazione e al male. È chiaro che, leggendo il Manzoni così, 19 c'è una tensione che viene alla luce ancora di più nelle pagine che seguono. Consideriamo tutto questo da un altro punto di vista: bisognerebbe ricordare l'amore o l'antipatia di Manzoni per certe parole. Un aggettivo che Manzoni detesta è "inerte", perché è il contrario dell'inquietudine, del movimento, della tensione. Una coscienza senza tensione non è una vera coscienza. È lui che ha parlato dell'inquietudine, è lui che ha parlato della lotta perpetua sulla terra. La coscienza è in lotta. Perché deve essere nel mondo e nello stesso tempo ai margini del mondo, deve accettare una logica e averne soprattutto un'altra. La risposta non c'è, la risposta è in noi che riflettiamo su questa terribile problematica; ma spesso, in un modo sfuggente. La storia è anche enigmatica e qua e là qualcosa di enigmatico c’è anche dalla parte del narratore che in alcuni casi anche lui si rifiuta di decidere, lascia al lettore. Non è codardia: coinvolge non sul piano emotivo ma sul piano della responsabilità rispetto all’individuo che sta di fronte. ROMANZO A LIETO FINE? Mettiamo insieme tutte queste storie, mettiamo insieme tutti questi punti di vista, mettiamo insieme queste sofferenze. Perché poi non sono che tante sofferenze, quelle che alla fine vengono chiamate con parola meno aulica "guai". C'è una storia senza il dolore? Uno dei meriti della vita religiosa è di dare un senso al dolore, di farlo diventare un luogo dell'esperienza che ci mette in rapporto con gli altri uomini. Anche Manzoni è di questo avviso e come potrebbe essere di questo avviso, d'altro canto, se accettasse una certa cultura e realtà, affidate a testi nei quali c'è sempre una verità assoluta? Mettiamo insieme tutti questi punti di vista, e andiamo verso la fine del racconto, che si placa a poco a poco come una specie di sinfonia, dove tutto sembra tornare alla normalità. Sono successe tante cose; poi questa gente final- 20 mente si è sposata. Verrebbe da dire: che noia tirarla tanto per le lunghe! Non potevano concludere più rapidamente? Oltre tutto è un romanzo dove si parla d'amore, ma non c'è quasi eros, e oggi è una cosa quasi imperdonabile. Perché poi don Abbondio chiama Lucia una ”madonnina infilzata”? I punti di vista sono importanti. Non guardiamo i personaggi astraendoli da ciò che sono per gli altri. L'eros poi, non c'è? Si dice che il capriccio di don Rodrigo è una cosa da poco, non ne ha mai parlato. Ma don Rodrigo ha ben altra cosa con cui deve incontrarsi: si incontra con la morte! Quell'incontro è il grande orgasmo, l'orgasmo della negazione assoluta, il momento della vertigine. È ben altra cosa! Non c'è eros? Si dovrebbe capire che tra eros e potere c'è un rapporto continuo e che Manzoni pensava che ciò che conta alla fine è il potere. È questo il problema di fondo. Nella vicenda di Gertudre, quei cinque esempi di cui si parla nella sua storia, prima ancora che un atto d'amore sono potere. Ella strumentalizza, reifica un'altra persona, ne vanifica l'amore, perché lei stessa è stata tradita fin dalla sua pubertà nel suo desiderio dell'altro: questa è la sua storia. Quindi non c'è qui l'eros? O si manifesta in un altro modo? E che rapporto c'è con un'altra cosa che oggi abbiamo un po' dimenticato e che si chiama pudore? Sì c'è un'autocensura, ma qual è il suo significato? Non voglio dare una risposta. Dico che Manzoni certe cose le sapeva bene. Perché dalla letteratura settecentesca, da Laclos a de Sade, per non citare Diderot, tutta una serie di possibilità erano note. Erano i problemi che poi si sarebbe posto Dostoevskij con I Demoni e con L'Idiota, sono i grandi problemi del secolo. Ci sono delle contestazioni anche in questo che sembra il licenziamento di un libro troppo casto; in realtà è un libro pieno di intermezzi. Una parola tipicamente manzoniana è il “ribollimento”. Sotto c'è qualcosa che fermenta: questo Seicento è un luogo del caos e del disordine. È il momento della tensione, il momento dell'anarchia, che poi però bisogna riportare ad un qualche ordine. Ma vediamo come il romanzo, placandosi, si avvia verso la conclusione. 21 - La tentazione di don Abbondio Sembra quasi una noia alla fine, si dice. Piccoli dialoghi, comincia quello che, usando una frase detta per una grande scrittrice inglese come la Austin, è "la commedia dell'infinitamente piccolo", quelli che sono i piccoli trasferimenti, una serie di discussioni qua e là dopo il matrimonio. Ma le ultime battute vedono con chiarezza che il romanzo è per così dire attraversato dalla tentazione di don Abbondio: è una tentazione umana, quella di dimenticare, di fare conto che non sia accaduto nulla, o soltanto poco e che il dolore sia passato e non vada più interrogato. Solitamente noi citiamo l’affermazione del Manzoni riguardo alla “provvida sventura”, così sintetica, ma che deve invitare a molte riflessioni. Ma nei Materiali estetici, in quelle pagine che non portò se non in parte a conclusione, c'è un pensiero che suona pressappoco così: "La sventura, quel maestro che sarebbe così utile ai deboli e ai potenti se le sue lezioni non fossero dimenticate al momento in cui egli depone la sferza". Una volta passate le vicende, non le interroghiamo più, è come se non ci fosse stato niente. Tutto il male è finito per diventare bene, quasi sempre; è "l'incontro con la Provvidenza" che fa dire così. Ma qui è don Abbondio che lo dice. E Renzo ha capito, o per un momento sembra diventare come don Abbondio? A Renzo, risolta, questa piccola vicenda, resta la domanda. Tutta la sua storia che senso ha avuto? Perché il dolore? Poi alla fine, Renzo e Lucia dialogando, tornano ad un grande principio generale, che sembra così ovvio, ma che non lo è, e che può essere riassunto in queste due frasi: la nostra vita non si spiega da sola (si potrebbe dire: la storia dei singoli non spiega l'enigma della Storia) e l'altra: se non ci fossero certe cose, la storia non avrebbe senso e il dolore non si saprebbe perché esiste. È una conclusione che riapre un grande dibattito, se torniamo a ricordare - e noi dobbiamo ricordare - la peste e poi un'osteria e i grandi eventi 22 attraverso cui sono passati i nostri personaggi che però rischiano, nella loro coscienza, di dimenticare. Ma questa è una conclusione agevole o formale? Mi rendo conto che ho cercato di dare asprezza al Manzoni, ma la tenerezza senza l'asprezza rischia di essere altro, e un'ironia che non si pone il problema della finitudine dell'uomo è falsa. È certo un romanzo che si rivolge ad un lettore cristiano ma non solo, ma il primo lettore è sempre comunque quello cristiano, costretto a porsi dei problemi radicali. Ma questi problemi sono di ieri o sono anche di oggi? La posterità è diventata superiore o ha ancora da interrogarsi? E la coscienza, questa terribile figura, alle prese con qualcosa che ne rende difficile le risposte, può districarsi da quella che chiamiamo, poi, la mondanità? Credo che il lettore non debba cercare di avere ragione, deve invitare altri lettori a pensare sulla base anche delle sue indicazioni che ci sono dei problemi su cui conviene ancora riflettere, in un testo che credevamo di conoscere. Dimentichiamoci della semplicità apparente del testo, riportiamolo alla sua stessa matrice storica. Nasce in un momento eccezionale della storia europea e anche della storia italiana, con una quantità di problemi con cui probabilmente lo scrittore non riesce sempre a fare i conti sino in fondo. Qui però che comincia la vitalità del testo, perché vuol dire che quei problemi, forse in altro modo, esistono in qualche misura anche per noi. In questo libro il lettore, ma accade poi quasi sempre così, ha una parte principale, deve a sua volta rispondere. Per farlo, deve anche un poco pagare di persona. Se ho sbagliato, mi basta però che loro abbiano una materia per riflettere e per stabilire che le mappe qualche volta già segnate con tutti i loro segni di un testo come quello manzoniano, possono anche aprirsi ad altre mappe. Sta al lettore il compitodi leggere e disegnare queste mappe, che saranno, spero, le mappe della sua coscienza.