Ladri di Biblioteche Letteratura assoluta: Poscritto. La veglia perfetta Poscritto La veglia perfetta Voi che amate gli enigmi! Sciogliete dunque l’enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione del più solitario fra gli uomini! Friedrich Nietzsche 1. Un dialogo ininterrotto La Tavoletta dei Destini riapre una finestra su un dialogo eterno al quale i lettori dell’Opera avevano già avuto modo di assistere, per un rapidissimo scorcio, nel Cacciatore Celeste.1 Lì, per la prima volta, avevano ascoltato una delle verità ultime che Utnapishtim, leggendario re di Shuruppak e analogo mesopotamico di Noè, rivela al suo interlocutore, il marinaio Sindbad, protagonista di molte avventure raccontate nelle Mille e una notte: “La colpa divina è l’esistenza,” disse Utnapishtim quando Sindbad andò a visitarlo nell’isola Dilmun, di là dalle acque della morte. “Quando il Progenitore produceva quei suoi figli nati-dalla-mente, la colpa non c’era e tutto appariva larvale, insipido. Ma quando volle provare la creazione sessuale, sgorgò il desiderio e venne scoccata la freccia. Nello stesso istante si ebbero il desiderio e la ferita. Che non si sarebbe più rimarginata, anche se si doveva tentare di medicarla. A questo servono i riti. E chi li celebra sa che sono insufficienti”. (CC, pp. 153-154) La Tavoletta dei Destini ricostruisce più dettagliatamente quella conversazione, avvenuta in un luogo misterioso e remoto, l’isola di Dilmun, a cui Sindbad giunge come naufrago. A Dilmun Utnapishtim vive da tempo immemore, da quando, cioè, dietro il suggerimento del dio Ea, ha salvato l’umanità dal Diluvio inviato da Enlil e, dopo aver celebrato un sacrificio, è stato ricompensato con la vita eterna. Utnapishtim narrerà a Sindbad le storie del mondo prima del Diluvio, ormai dimenticate quasi da tutti, ma ancora conservate in tavolette d’argilla che lui stesso è andato a nascondere in una fossa a Shuruppak prima di costruire il suo battello: “Questa è una parte della storia che pochi conoscono. E sono quelli che hanno il compito di trasmettere le scritture. Tu, Sindbad, sei solo l’ultimo fra loro” (TD, p. 24). Prima di entrare nel vivo della Tavoletta dei Destini, dobbiamo innanzitutto osservare la particolarità della forma nella quale è stata concepita. L’undicesimo libro costituisce un caso unico all’interno dell’Opera per l’assoluta predominanza della forma narrativa, e la sua stessa struttura dialogica è una novità rispetto ai pannelli precedenti. Mancano del tutto, come è stato notato dai primi recensori,2 quei fenomeni testuali e paratestuali – citazioni esplicite, titoli di capitoli, repertori di fonti – che, pur nell’originalità delle scelte calassiane, potevano far riscontrare negli altri volumi una componente saggistica. Calasso mette qui in azione un procedimento fondamentale in tutte le narrazioni tradizionali a cui ha sempre attinto – dai poemi omerici al Mah ābhārata –, quello dell’analessi. I due protagonisti siedono vicini e si raccontano cose successe in precedenza – in un passato infinitamente lontano, per quanto riguarda i fatti riportati da Utnapishtim, molto più vicino per ciò che è accaduto a Sindbad. Tutte le storie che compaiono nella Tavoletta dei Destini andranno ascoltate e seguite nella loro immediatezza, vincendo le resistenze di un pensiero che ci inviterà a separarle e distinguere fra loro. Irrilevante, dunque, cercare di discernere, nell’arazzo della mitologia mesopotamica che si srotola di fronte ai nostri occhi, la provenienza dei diversi fili che vi si intrecciano. Descrivendo le vicende che racconterà, lo stesso Utnapishtim invita Sindbad, e noi con lui, a lasciarsi guidare dal “nastro luccicante” su cui si dispongono le storie, splendida metafora per il movimento incessante del pensiero analogico: Le storie che racconto in parte sono accadute mentre ero già qui a Dilmun, in parte le ho sentite raccontare prima ancora che Ea mi salvasse sul battello quadrato, insieme agli animali. E a volte sono storie a cui io stesso ho partecipato. Ero un figurante. Ma con il passare del tempo queste distinzioni si attenuano, tendono a dissolversi. Le storie si concatenano fra loro come se già sapessero in quali punti disporsi. E io passo dall’una all’altra come su un unico, luccicante nastro. Alla fine, sono semplicemente storie. E alle storie non si chiedono i documenti. (TD, p. 40) Il primo a dover vincere qualche resistenza sarà lo stesso Sindbad che, come vedremo, sembra disporre di una sensibilità più vicina a quella dei lettori moderni. Valga fra tutti un esempio: quando Utnapishtim gli spiega come Marduk, per plasmare l’umanità, abbia ucciso Kingu, il custode della Tavoletta che dà il titolo al romanzo, è lo stesso Sindbad a interpretare la perplessità del lettore, che ha in precedenza appreso che gli uomini sono nati dal sangue di un altro dio, Geshtue, ucciso per alleviare gli dèi dalle loro fatiche: Sindbad guardò Utnapishtim, perplesso: – Ma la storia non era diversa? – disse. – Con gli Anunnaki certi fatti possono accadere più di una volta – disse Utnapishtim. (TD, p. 98) Se, come suggeriva La rovina di Kasch, il fine ultimo del pensiero era quello di nascondersi (cfr. RK, p. 408), nella Tavoletta dei Destini è stato pienamente raggiunto. Nondimeno, le riflessioni che emergono dall’intreccio delle storie di Utnapishtim si rivelano strettamente interrelate a quelle dei volumi precedenti. 2. Caso, Destino e Necessità Ho taciuto così a lungo, non so da dove cominciare. Anche da qualsiasi punto, si potrebbe. Ma un antico uso vuole che tutto cominci dagli dèi. (TD, p. 14) La battuta con cui Utnapishtim dà l’avvio al suo racconto potrebbe compendiare l’Opera nella sua interezza: un lungo nastro di Möbius che si può percorrere in qualsiasi senso, ma che sempre parte e ritorna al divino. Il Remoto – questo è il nome con cui è indicato Utnapishtim da quando vive solitario sull’isola di Dilmun – comincia dunque col raccontare come gli dèi Igigi, stanchi delle fatiche e delle sofferenze a cui un tempo erano costretti, abbiano chiesto di poter essere sostituiti da altre creature che penassero al posto loro. Avevano ucciso un dio, Geshtue, e avevano ottenuto che la levatrice Mami impastasse il suo sangue con l’argilla per dar vita agli uomini. Anche il mito mesopotamico pone dunque alle origini dell’esistenza umana una colpa divina – legata all’uccisione di Geshtue – e un compito eterno affidato agli uomini – il dovere di portare il peso che prima spettava agli dèi. Nelle parole di Utnapishtim: Ea disse le parole decisive: “Che gli uomini portino il peso degli dèi!”. Parole semplici, di cui tuttora viviamo. Di cui tu, Sindbad, vivi. Dicono l’essenziale: il peso, gli dèi. Tutto il resto è un’aggiunta. (TD, p. 16) L’esistenza intera è però colpevole in maniera ancor più radicata, perché ancor prima che gli uomini fossero creati il mondo è nato da una duplice uccisione: l’abisso di acque dolci, Apsu, è stato assassinato da suo figlio Ea, e la madre delle acque salate, Tiamat, è stata eliminata da Marduk, il figlio di Ea. I due esseri divini, un tempo congiunti, avvolgono ora il mondo: Dei loro corpi smisurati continuò a essere fatto il mondo, dalle acque dolci sotterranee fino alla volta celeste, che è il dorso di Tiamat, accortamente spianato da Ea e crivellato di astri. (TD, p. 96) È facile capire, per il lettore dell’Opera, in quali obblighi possa tradursi questa colpa originaria: sebbene La Tavoletta dei Destini non ne faccia esplicita menzione, è chiaro che, come tutte le mancanze legate all’esistenza, essa vada ripagata con il sacrificio. Non a caso, il libro insiste molto sull’inscindibile legame fra sostituzione e morte che, come è ormai noto, è alla base dell’attitudine sacrificale. Non soltanto infatti Geshtue deve morire per consentire la vita degli uomini; la cruenta legge della sostituzione si applica anche alla storia della dea Ishtar, chiamata Inanna nella versione sumera del mito. Scesa agli Inferi perché decisa a conquistare anche quel territorio, proprietà della sorella Ereshkigal, Inanna ne rimane prigioniera; soltanto lo scambio con un giovane sostituto, il suo amante Dumuzi, potrà liberarla dalla reclusione infernale. La sostituzione è un processo fondamentale al mantenimento di un ordine cosmico, un’impresa a cui dèi e uomini mesopotamici sembrano impegnati incessantemente: Senza la sostituzione la vita non riusciva a espandersi fino ai suoi estremi limiti, ma la sostituzione implicava la morte. Anzi, era la morte stessa a operare la sostituzione. O come uccisione o come scomparsa. (TD, p. 52) Il tempo prima del Diluvio nel quale Utnapishtim è vissuto era totalmente pervaso dalla mentalità dell’Homo religiosus. Il Remoto spiega a Sindbad come dèi e uomini fossero ossessionati dall’Ordine, da quello che, prendendo a prestito una parola da un’altra tradizione, potremmo definire ṛta. L’Ordine si era mantenuto fino a che – come sempre abbiamo visto accadere nei volumi precedenti dell’Opera – qualcosa non aveva interrotto il rapporto di reciproco scambio fra uomini e dèi. Il tempo dei riti, in cui qualsiasi segno nel tessuto dell’apparenza veniva interpretato come un’indicazione dell’invisibile, aveva lasciato il posto al tempo senza nome in cui i segni si moltiplicano senza comunicazioni, in cui il Caso è l’unica potenza riconosciuta ma imperscrutabile: Ai tempi in cui ero re nulla era così irrilevante da non avere significato. E gravava su di noi. Era una larga parte di quel peso con cui gli Anunnaki avevano voluto caricarci. Spesso ci capitava di pensare che ne avremmo fatto volentieri a meno. Ma non ci riuscivamo. Il caso non esisteva. Il destino veniva inciso anche sulla cute degli animali offerti in sacrificio. Poi gli Anunnaki si sono allontanati. Se riappaiono, possono anche non essere notati. E per alcuni diventano un oggetto di curiosità. Il caso, all’opposto, è diventato dominante e venerato. E non è meno inflessibile. Non concede favori. Nulla di più mi è stato dato di vedere. (TD, p. 108) Nell’“innominabile attuale”, tempo dell’Homo saecularis, gli dèi si sono definitivamente ritirati, ma, come sappiamo, non tutte le potenze sono sopite. Ce n’è una alla quale è impossibile sfuggire, che il nostro tempo “privo di presagi” pone al di sopra di qualunque significato3: è una potenza senza volto che viene chiamata Caso. Molto tempo prima del Diluvio, anche gli dèi Anunnaki, che avevano tenuto per sé la vita e lasciato agli uomini la morte, si preoccupavano di quella forza incontrollabile. Sapevano infatti di essere preceduti e dominati da qualcosa di più grande di loro, un Ordine perfetto. A questo qualcosa attribuivano la massima importanza, e cercavano di intrattenere con esso un dialogo costante. Di tutto ciò che esisteva, spiega Utnapishtim, non si chiedevano mai se fosse giusto o ingiusto, ma solo se appartenesse o meno all’Ordine (cfr. TD, p. 120). Pensavano che l’Ordine fosse composto da una serie di elementi, i me, che insieme andavano a comporre ogni possibile manifestazione dell’esistente. I me erano “il tessuto perenne dell’apparenza” (TD, p. 36) e venivano distribuiti dal dio sovrano Ea. Perché i me fossero “compiuti” era necessario uno sforzo cerimoniale continuo da parte di uomini e dèi; niente spaventava di più della possibilità di interrompere il contatto con l’Ordine: E nessuno più di noi venerava i talismani, gli incantamenti, i presagi. Vivevamo nel terrore di ciò che è casuale. (TD, p. 122) Sapevano infatti che il Caso, la potenza dominante del- l’“innominabile attuale”, si genera quando viene meno il vincolo fra la terra e il cielo. La Tavoletta dei Destini era precisamente un’esplicitazione, una manifestazione fisica, di quel legame: Che cosa era scritto sulla Tavoletta dei Destini? L’ordine. Finché la Tavoletta era custodita dagli Anunnaki, si sapeva come celebrare i riti e attuare la legge. (TD, p. 119) Anche l’undicesimo volume dell’Opera, dunque, mette in scena una frattura nell’ordine cosmico, un momento di crisi che ha come conseguenza l’abbandono delle cerimonie che preservano il legame fra visibile e invisibile.4 Secondo la mitologia sumera, le circostanze di tale rottura erano legate al furto della Tavoletta dei Destini, sottratta al dio Enlil dal guardiano Anzu, un’aquila dalla testa di leone. La storia era raccontata già dal Libro di tutti i libri: Mentre Enlil era nudo e immerso nell’acqua, Anzu si impadronì della Tavoletta, “spiccò il volo e si nascose”. Immediatamente “i riti vennero abbandonati... Lo splendore si offuscò, regnava il silenzio”. Senza splendore non c’è ordine, perché l’ordine da solo non si sostiene. Gli dèi erano interdetti, paralizzati. (LTL, p. 396) L’immenso potere della Tavoletta risiedeva proprio nella capacità di rendere manifesto l’Ordine, qualcosa che sfuggiva non soltanto agli uomini, ma prima di tutto agli dèi Anunnaki. Il mondo da cui Utnapishtim proviene confidava ciecamente nell’Ordine e venerava la Necessità, la potenza dai molti nomi che fa esistere tutto ciò che è. Già nel Cacciatore Celeste, Calasso rifletteva sulle conseguenze del furto della Tavoletta: La sottomissione a qualcosa che non ha volto e poteva chiamarsi Ananke o Destino non era una peculiarità di zeus. Gli dèi accadici si sentivano inermi e smarriti se veniva loro sottratta la Tavoletta dei Destini, come una volta riuscì ad Anzu, l’aquila dalla testa di leone. Quella tavoletta di argilla bastava per gettare nel panico gli dèi? Nella loro primordiale aulicità, irrigiditi per il timore di dissipare il loro potere, saldi sui loro grossi polpacci, sapevano di essere innanzitutto i primi fra i sudditi. Pensarono che ormai non sarebbero più riusciti a nasconderlo. (CC, pp. 380-381) Anche ciò che l’“innominabile attuale” chiama Caso non è che uno dei volti di Necessità, una forza cieca che precede gli dèi e che si sprigiona in tutti i volumi dell’Opera, raccontata di volta in volta in modi diversi, anche attraverso l’utilizzo di immagini come il nodo, la collana, il giogo. Chiamare la Necessità “Destino”, come facevano gli uomini del Vicino Oriente antico, era un modo di riconoscerle il suo essere – secondo la definizione della Rovina di Kasch – “una rete di significati che ci precedono, ci accompagnano, ci giocano” (RK, p. 245). La Necessità è ineludibile, sempre e comunque. Tutto ciò che esiste risponde al suo imperativo, ma in che maniera? Fin dai tempi che precedono il Diluvio, questo mistero è stato sondato con trepidazione perfino dagli dèi. Verso la fine del Libro di tutti i libri, si insinua il dubbio che lo stesso Iahvè ne tema l’azione. Calasso si interroga infatti su un punto piuttosto oscuro della Genesi, il passo in cui Terach, il padre di Abramo, raccoglie tutta la sua famiglia e lascia Ur dei Caldei per andare nel paese di Canaan.5 I motivi di questa partenza non sono esplicitati, ma Calasso ipotizza che un’urgenza spinga Terach, che è ancora un devoto degli dèi mesopotamici, ad allontanarsi dalla Tavoletta dei Destini. Così, con Abramo, avrà modo di mettersi in atto la costante tensione monoteistica di Iahvè, impegnato, come abbiamo visto, a eliminare finanche il sospetto che esistano forze minacciose per la sua signoria: Allontanarsi da Ur significava sfuggire alla Tavoletta dei Destini, che gli dèi mesopotamici tenevano appesa sul petto come suprema garanzia di potenza. Era appunto questo che Iahvè non poteva in alcun modo tollerare. Non potevano esserci una necessità, un calcolo, una misura, che escludessero i suoi interventi fulminei e devastanti – o altrimenti salvifici – sulla terra. Non potevano esserci storie, ma una storia: la storia. Per questo Terach, senza saperlo, doveva lasciare Ur. Per questo a suo figlio Abramo venne ordinato da Iahvè di andare via, quando il padre si fermò a Harran. (LTL, p. 398) Nei tempi che precedevano il Diluvio, quelli raccontati da Utnapishtim, la convinzione diffusa era che nulla potesse afferrare l’ordine nella sua interezza – perché l’ordine è sempre più ampio della materia ordinata, della quale gli dèi stessi facevano parte –, ma che ci fosse un modo di conformarvisi, rispettandolo e celebrandolo. A tale scopo, gli dèi avevano costruito, su indicazione del dio Marduk, un meraviglioso tempio, l’Esagil. Gli uomini, che sapevano di essere stati creati dopo gli dèi e soltanto per sostituirli nelle fatiche e nella morte, con zelo non minore del loro celebravano e veneravano la Necessità. Utnapishtim spiega che le “Teste Nere” – così venivano indicati gli abitanti della Mesopotamia meridionale nelle scritture cuneiformi – erano ossessionate dall’ordine e utilizzavano la sostituzione per preservarlo in ogni aspetto della loro vita. Il lettore che ha familiarizzato con i tópoi dell’Opera sa che questo può significare una cosa soltanto: celebravano sacrifici. La parola è pressoché assente in questo undicesimo pannello. Tuttavia, nell’illustrare le complesse procedure che gli uomini mettevano in atto per adeguarsi all’Ordine dopo aver scrutato la volta celeste in cerca di presagi, Utnapishtim fa riferimento a una cerimonia che sorprendentemente ricorda la leggenda africana che dava il titolo alla Rovina di Kasch: Se si manifestavano presagi funesti per il re, e quelli più temibili erano sempre eventi astrali, occorreva scegliere un suo sostituto, che prendesse il suo posto in tutte le funzioni regali, tenesse in mano lo scettro, sedesse sul trono, dormisse nel suo letto, accanto a una regina, anch’essa un sostituto. Nel frattempo il vero re spariva, in un luogo noto a pochi, protetto. Questo stato delle cose durava un certo tempo, non troppo lungo, fino a che una profetessa o un ministro della corte annunciavano al sostituto che doveva andare al suo destino. Nel suo caso, questo significava che doveva essere ucciso. E con lui la sua provvisoria regina. (TD, p. 53) Dall’osservazione degli astri alle procedure di tutela della regalità sacra, tutto in questo passaggio ci riporta all’ordine sacrificale illustrato attraverso la leggenda di Naphta. E proprio come nel regno di Kasch, accade che tali pratiche cadano in disuso, e che con il passare del tempo gli uomini dimentichino di averle mai utilizzate: E gli uomini avevano bisogno degli dèi per accedere ai destini. Eppure soltanto attraverso gli dèi si accedeva ai destini. A questo servivano le cerimonie dell’Esagil. Se occorrevano agli dèi, tanto più dovevano servire agli uomini. I quali però ritennero a un certo punto di farne a meno. Non parlavano più di dèi, ma non cessarono mai di parlare di destino, come hai visto anche tu. (TD, p. 125) Anche La Tavoletta dei Destini mette dunque in scena il momento in cui si spezza, per l’abbandono delle cerimonie, il legame con il sacro. Ciò che è accaduto “dopo il Diluvio” è per Calasso la caratteristica del mondo in cui ancora viviamo. Non è possibile, tuttavia, che gli uomini interrompano il rapporto con la Necessità, i cui lacci avviluppano strettamente ogni cosa. Quando la sua potenza non viene più celebrata, si perde ogni speranza di rimanere in contatto con lei; si continuerà a utilizzare la parola “destino”, ma come vuoto sinonimo di “caso”. Per domare i destini si mettevano in atto sacre procedure sostitutive, ed erano sempre atti legati alla morte. Il mondo moderno ha provato, con le sue pratiche sostitutive rivolte al bene della società, a cancellare anche la morte; tuttavia, presupponendo che l’invisibile non avesse alcuna importanza, ha cancellato il senso del Destino e si è dato in pasto al Caso. Le storie di Utnapishtim suggeriscono insomma che il mondo dopo il Diluvio abbia scelto il Caso come Destino. Le opzioni che eternamente sembrano presentarsi all’uomo sono l’accettazione della Necessità e la sua celebrazione per il tramite dei riti, o la negazione, che sfocia nella costante paura di un suo agire nascosto. La Tavoletta dei Destini era un tentativo di dialogare con l’invisibile e imperscrutabile Necessità, riconoscendole di essere perennemente all’opera. Questa è una delle rivelazioni che Utnapishtim racconta di aver ricevuto da uno degli Apkallu, i sette sapienti emersi dall’Apsu, l’abisso primordiale: La necessità non significa. Il destino significa. I destini sono un ordine che significa e si sovrappone alla necessità, punto per punto, passo per passo. (TD, p. 128) Come sappiamo dai volumi precedenti dell’Opera, la possibilità di aderire punto per punto all’ordine cosmico è definitivamente perduta per gli uomini dell’“innominabile attuale”. Tuttavia, nessuno sembra preoccuparsi troppo delle conseguenze di tale perdita. È questa la profonda e inestinguibile differenza che separa il tempo di Utnapishtim da quello di Sindbad, nel quale ancora viviamo: Il destino morde come un cane e imprigiona come un vestito stretto. Era un proverbio noto a tutti. Gli Anunnaki si curavano di fissare i destini, anche con lunghe cerimonie. E i sovrani della terra, che imitavano gli Anunnaki, sapevano che la loro vita dipendeva da quelle cerimonie. Nessuno ignorava che il destino morde. Ma volevano che il destino esistesse e che fosse fissato, volta per volta, per ogni luogo, per ogni re, per ogni anno, per chiunque. Meglio vivere imprigionati dal destino che abbandonati alle turbolenze del caso. Che era il vero male non nominato, il terrore ultimo, per gli uomini come per gli dèi. (TD, p. 128) 3. Risvegli Una sola immagine appare nella Tavoletta dei Destini: una vasta distesa di dune sabbiose, nessun essere vivente in vista fino al limite dell’orizzonte, un’ombra che si staglia sul margine destro della fotografia (cfr. TD, p. 43). La sua collocazione all’interno del volume non lascia dubbi in merito a che cosa rappresenti quel paesaggio: si tratta di Dilmun, il luogo “magnifico, ma lontano da ogni altra vita” (TD, p. 25) a cui giunge Utnapishtim dopo il Diluvio. Appare come un’estensione sabbiosa, ma poggia in realtà sulle acque originarie, dove si trovava il dio primordiale Apsu, ucciso da Ea che ne aveva poi occupato la superficie. È in questa terra all’incrocio dei fiumi, che non è segnata su alcun portolano, che Sindbad si risveglia senza sapere come vi è arrivato. Come accennato, nella Tavoletta dei Destini è il personaggio di Utnapishtim a condurre la narrazione per la maggior parte del tempo, ripescando dal passato antidiluviano una serie infinita di storie divine. Tuttavia è un breve monologo di Sindbad, incastonato proprio nel centro del volume, a dare una svolta decisiva al romanzo e a offrirci una preziosa chiave di lettura dello stesso. Il Marinaio racconta al suo interlocutore di avere un tempo incontrato un vecchio all’apparenza molto fragile che lo aveva pregato di portarlo sulle spalle; aveva vagato a lungo dopo averlo caricato su di sé, ed era stato schiacciato dal peso di questa creatura, improvvisamente trasformatasi in una mostruosa forza costrittrice che gli attanagliava il collo. Sindbad era riuscito a liberarsi dalla morsa soltanto preparando un intruglio con frutta fermentata che aveva assunto e fatto assaggiare anche al suo tirannico parassita. Come avrebbe scoperto soltanto dopo essersene liberato, quel mostro era “il Vecchio del Mare” (cfr. TD, pp. 86-87) e l’ebbrezza, la straordinaria sensazione che aveva provato bevendo quel succo, era precisamente un modo per sfuggire alla sua oppressione: A volte mi hanno chiesto: a che serve l’ebbrezza? Ora lo so: a liberarsi dalla stretta del Vecchio del Mare. Ma prima bisogna incontrarlo. (TD, p. 87) Questo episodio colpisce per la vicinanza con un passaggio cruciale del Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Nel capitolo “La visione e l’enigma”,6 il profeta porta sulle spalle un nano che lo schiaccia sotto il proprio peso, colandogli addosso “pensieri-gocce-di-piombo”7 similmente a come il Vecchio del Mare si libera delle proprie deiezioni su Sindbad. Se il Vecchio non può camminare, il nano di zarathustra è parimenti “sciancato”.8 Nell’opera di Nietzsche il nano rappresenta, come è noto, lo spirito di gravità che opprime zarathustra, legato alle “pesanti parole e valori: ‘bene’ e ‘male’” che agli uomini vengono impartiti fin dalla nascita.9 L’incontro con il nano e il momentaneo assoggettamento al suo peso sono un passaggio obbligato per la scoperta della porta carraia che conduce all’intuizione dell’eterno ritorno e, subito dopo, alla visione enigmatica del pastore che stacca a morsi la testa del serpente.10 Suggerisco di provare a seguire questa analogia e di vedere nel Vecchio del Mare che “bisogna” incontrare per sperimentare l’ebbrezza il preludio a una rivelazione che si offrirà a Sindbad e, di riflesso, al lettore della Tavoletta dei Destini. Soltanto dopo aver abbattuto, grazie all’ebbrezza, il Vecchio del Mare, Sindbad potrà risvegliarsi a Dilmun e ascoltare da un altro vecchio, Utnapishtim, la storia delle primordiali acque congiunte, Apsu e Tiamat, i cui corpi dispersi ancora avvolgono il mondo. Va sottolineato che l’ebbrezza – la quale, come sappiamo, è sempre per Calasso una porta che conduce a una conoscenza profonda – nella Tavoletta dei Destini è anche un elemento che accomuna Sindbad e Utnapishtim. Quest’ultimo l’ha infatti ricevuta da Ea dopo il Diluvio quale “dono segreto” che gli ha concesso di approdare a Dilmun: “Soltanto grazie a quel dono sono riuscito a rimanere qui, solitario fra le palme” (TD, p. 34). Sembra insomma che l’ebbrezza sia una chiave d’accesso fondamentale per arrivare a quest’isola misteriosa consacrata a Ea, che sempre meno ci appare come un luogo geografico nel Vicino Oriente antico e sempre più siamo portati a immaginare come un luogo psichico estraneo allo spazio e al tempo. Raccontando il suo arrivo lì, Sindbad dichiara infatti: Non era il deserto, ma non sembrava neppure un luogo visitato dagli uomini. C’era un ordine, ma quale ordine? Era come vedere il succedersi dei numeri, diventati visibili. Avevo la sensazione di vedere il tempo. Non mi era mai accaduto niente di simile. Prima ho sentito terrore, poi una lieve, insensata euforia. E di nuovo terrore. (TD, p. 42) La misteriosa sensazione che Sindbad descrive risuona familiare: le emozioni di terrore ed euforia che il giovane Marinaio dichiara di aver provato, ma soprattutto l’accenno alla successione dei numeri e alla visione del tempo, ci riportano a un passo della Rovina di Kasch in cui si fa riferimento ad “accensioni momentanee” che spalancano una finestra sulla “doppia vita del discreto e del continuo” (cfr. RK, p. 219). Dilmun appare davvero come il luogo in cui queste realtà dialogano: la sabbia è infatti l’immagine perfetta del discreto, una vastità incredibile scomposta in minuscole particelle, e l’Apsu non può che rappresentare il continuo, distesa d’acqua priva di confini nella quale sono state immerse tanto la Tavoletta dei Destini quanto i me, le potenze. Dilmun è dunque il luogo della coincidenza degli opposti, un posto sacro per eccellenza, ma anche uno spazio psichico che si può raggiungere soltanto a determinate condizioni e in cui si può permanere solo rimanendo in un determinato modo: il vuoto di cui Dilmun è fatta “non dava nessuna sicurezza di ritrovarlo, se si fossero chiusi gli occhi” (TD, p. 107). Non sembra una casualità, allora, che nell’incipit del libro entrambi i personaggi si risveglino: Dilmun è quel vasto territorio inesplorato che si schiude nel momento del risveglio della coscienza, quando la mente prende consapevolezza di sé e scopre di essere abitata. Vanno interpretate in quest’ottica le sensazioni provate da Sindbad dopo aver aperto gli occhi sotto la tenda di Utnapishtim: Sindbad sentiva, più che angoscia, una strana, ebbra incoscienza, quasi un senso di sollievo. Non solo aveva perso la rotta, ma i punti cardinali erano scomparsi. Fu la sua ultima osservazione precisa. Non poteva dire nulla di ciò che era avvenuto subito dopo, sino al momento in cui aveva aperto gli occhi sotto una tenda. Una brezza la scuoteva leggermente. Aveva dormito, ma quanto? Giorni? Anni? Nell’oscurità riconobbe una figura. Immobile, distesa. Un altro dormiente. Sindbad tacque a lungo. Poi l’altro si risvegliò, lo guardò e disse: “Ti trovi da Utnapishtim, a Dilmun”. Il libro di tutti i libri spiegava del resto come Utnapishtim trascorresse la sua vita interminabile “in un luogo inaccessibile, là dove si mescolano le acque dolci e salate: un luogo che aveva preceduto il mondo e su cui il mondo continuava a fluttuare, senza saperlo” (LTL, p. 372). Quale descrizione più accurata per descrivere la grande mente primordiale a cui ciascuno può arrivare riscoprendone una scheggia dentro di sé? Non a caso, Utnapishtim è chiamato “il Remoto”, identificato cioè con lo stesso aggettivo che serviva nell’Ardore per descrivere i ṛṣi, gli autori degli inni vedici che vegliano sul mondo assicurando il perdurare dei Veda. Dalla sua postazione privilegiata, Utnapishtim sembra poter accedere a una conoscenza che, proprio come quella dei sacri veggenti, ha a che fare con la capacità di visione, di attiva contemplazione mentale: La testa era un trono vuoto dove si affollavano voci, figure, oscillazioni. Soltanto quando Ea mi insediò qui, a Dilmun, scoprii la meraviglia di ciò che soltanto si lascia vedere ed è muto. Non c’era altro che facesse compagnia. (TD, p. 23) Dilmun è dunque il luogo in cui si accendono le visioni. Utnapishtim e Sindbad sono due attori solitari nel grande teatro della mente, figure che sotto altre spoglie abbiamo più volte incontrato nella nostra traversata dell’Opera. Utnapishtim assume allora le fattezze del Sé, di quella parte della mente individuale che è in perpetuo contatto con l’assoluto dell’universo, con le forze primigenie e con l’eternità; ha vissuto il mondo di prima – le storie degli dèi –, ed eternamente vive, attendendo soltanto di poterle raccontare. Per questo motivo, quando vede Sindbad immediatamente lo riconosce, e lo avverte: “So chi sei. Non devi dirmi nulla. Se vorrai ascoltarmi, sono qui” (TD, p. 14). Sindbad l’avventuriero sarà invece una figura dell’Io, di quella parte della mente che è costretta a raccogliere tutti gli stimoli del mondo, a confrontarsi direttamente con le sue insidie, ma che può, oltrepassando la soglia della coscienza “media”, ricongiungersi con l’Altro; dopo le misteriose parole di Utnapishtim, Sindbad attraversa nuovamente un attimo di smarrimento: Poi tutto tornò a essere confuso, per Sindbad. Quando si svegliò di nuovo, ebbe l’impressione di una piena chiarezza. (TD, p. 14) La “piena chiarezza” a cui Sindbad arriva è il segno di una trasformazione profonda, quasi un processo alchemico interiore che lo ha portato all’Albedo, la piena luce della consapevolezza. Sembrerebbe, insomma, che dopo dieci volumi passati a ragionare sulla misteriosa doppiezza dell’essere umano – “ciascuno è due, non uno” è ripetuto fin dalla Rovina di Kasch (RK, p. 177) – Calasso sia arrivato a mettere in scena quell’incontro che altrove veniva descritto con la simbologia upaniṣadica dei due uccelli aggrappati al medesimo ramo.11 L’enigma spalancatosi di fronte allo sguardo di Sindbad è lo stesso che un altro eroico avventuriero aveva un tempo soltanto sfiorato, sempre per una questione connessa alla veglia. Anche Gilgamesh era infatti giunto a Dilmun, disperato dopo la morte del compagno di avventure Enkidu – e, non a caso, vi era arrivato dopo l’incontro con una taverniera celeste, Siduri. Il giovane re babilonese voleva carpire il mistero della vita eterna, ma aveva disatteso la richiesta di Utnapishtim, suo antenato, di stare sveglio per sei giorni e sette notti. Proprio perché incapace di vegliare, Gilgamesh non aveva potuto comprendere; come già ricordato dal Libro di tutti i libri: Dormì per sette giorni. Al risveglio, pretese di aver dormito solo un momento. Ma era impossibile ingannare Utnapishtim. La partita era persa. Allora Gilgamesh disse: “La morte mi aspetta nella mia camera da letto. / E ovunque metta piede, lì è la morte”. (LTL, p. 373) Gilgamesh assomiglia ad altri importanti personaggi dell’Opera, come Teseo ed Edipo: uccisori di mostri che non hanno saputo caricare su di sé la mostruosità, e ne sono stati schiacciati.12 Non a caso, la prima grande impresa di Gilgamesh è l’abbattimento di un albero, Humbaba, che è al contempo un mostro e una foresta: l’eroe lo ucciderà e gli mozzerà la testa, proprio come Perseo, altro assassino di mostri, farà con Medusa. Humbaba non sarà il solo: Gilgamesh ucciderà anche il Serpente Sapiente, l’Uccello del Tuono e il Demone fanciulla – tutte figure in vario modo riconducibili a quell’universo selvaggio con il quale si identifica anche la psiche. In lui, proprio come negli eroi greci che abbiamo incontrato nei pannelli precedenti dell’Opera, è forte l’idea che il mistero dell’esistenza sia un problema da risolvere con la stessa facilità con cui si eliminano i nemici: “Non aveva rinunciato a pensare che la morte fosse qualcosa di sradicabile, come Humbaba e i suoi cedri” (TD, p. 79). L’esperienza di Sindbad, simile invece a quella del giovane pastore descritto da zarathustra, ricorda che si tratta di un enigma che va accolto – proprio come le storie di Utnapishtim – senza pretendere soluzioni: Mi figuravo anche il caso di qualcuno che avrebbe ascoltato le mie storie con diligenza e diffidenza. E poi mi avrebbe guardato come un vecchio folle e pericoloso. Non parlavano le leggende di un micidiale Vecchio del Mare? E invece sei arrivato tu, Sindbad, curioso, infantile, snebbiato, impudente: una perfetta cavità dove riversare le storie che mi erano state affidate. (TD, pp. 137-138) 4. Scrivere dopo il Diluvio Liberatosi dalla morsa dello spirito di gravità, Sindbad è giunto a Dilmun, spazio mentale in cui tutti i tempi sono compresenti. Nella sua natura di “perfetta cavità” il giovane rappresenta anche l’approdo dello scrittore alla parte più nascosta e inesplorata della propria psiche, che necessita di un totale trascendimento dell’io individuale. Tornano alla mente le parole di Mallarmé che nella Letteratura e gli dèi Calasso riportava come indicazioni per la poesia assoluta: era necessaria “una stanza con nessuno dentro”, dove potesse manifestarsi “una disposizione che ha l’Universo Spirituale a vedersi e svilupparsi, attraverso ciò che fui io” (cfr. LD, p. 104). Dopo aver solcato tanti mari ed essere giunto finalmente alle acque di Dilmun, Sindbad può attingere alla conoscenza di Utnapishtim. Il suo destino è di serbare memoria delle storie di prima del Diluvio. Un ulteriore indizio sulla natura del loro rapporto è una caratteristica che li accomuna: entrambi, nelle parole di Utnapishtim, “venerano ciò che è liquido” (cfr. TD, p. 59). Sono infatti componenti di quella vastità equorea che è la mente. La loro complementarietà si riflette su un altro aspetto cruciale nella grande rete dell’Opera: i due personaggi possono essere associati anche a due diversi tipi di narrazione. Se Utnapishtim, che conosce ogni storia divina, rappresenta l’inesauribile vitalità del mito, Sindbad, che appartiene a un tempo in cui i rapporti con gli dèi si sono interrotti, può simboleggiare la letteratura, costretta nelle gabbie della linearità temporale: Tutte le storie sono accadute prima del Diluvio. Dopo non c’è altro che storie di naufragi. I naufragi sono sempre un certo numero. Sette. O trecento. E finiscono sempre allo stesso modo. Mentre le storie di prima del Diluvio sono concatenate. Ancora non ne ho visto la fine. (TD, p. 81) Queste parole di Utnapishtim ricordano da vicino le riflessioni sulle differenze fra mitografo e scrittore messe in luce dalle Nozze di Cadmo e Armonia13: l’unidirezionalità delle trame romanzesche, che tendono sempre verso il loro finale, è estranea alla spirale vertiginosa delle varianti mitiche. Tuttavia, in un’epoca in cui il divino può essere avvertito soltanto come finzione, certa letteratura può raccogliere l’eredità del mito e celarla in sé come proprio nucleo segreto. Si parlerà allora di letteratura assoluta. Attraverso il serrato dialogo fra il Remoto e il Marinaio, La Tavoletta dei Destini sembra proprio voler suggerire che la relazione fra mito e letteratura debba mantenersi vitale, anche se nel tempo di Sindbad le storie divine sono state sostituite da vicende umane: Nei porti dove mi sono trovato a passare non si raccontavano storie di dèi. Non ne sentivano il bisogno. Si raccontavano storie di mercanti e guerrieri, di prostitute e principesse, di contadini e funzionari, di letterati e sapienti, oltre che di re e regine. Ma ogni tanto capitavano storie che non somigliavano a nessuna di queste. E si fissavano nella mente, tornavano nella notte. (TD, p. 61) Il compito della letteratura è quello di trovare la via di accesso alla molteplicità di saperi del mito pur muovendosi su un terreno irto di ostacoli, primo fra tutti l’abitare un mondo che ha perduto la capacità di concepire significati non prodotti dal consesso umano. Il solo modo di riuscire in una simile impresa sembra quello di sottoporre gli scrittori stessi a un processo trasformativo, che li renda capaci di abbracciare ogni contraddizione. È quello che è successo a Sindbad dopo tanti naufragi, quando ha scoperto l’ebbrezza e si è liberato dal Vecchio del Mare. Non grazie a una ferrea volontà o a una strenua determinazione, ma al contrario attraverso un’esperienza di uscita dalle strettoie dell’Io il Marinaio è potuto arrivare all’abbacinante visione del proprio Sé. Il quale non è – come Utnapishtim stesso tiene a precisare – un saggio, ma “qualcuno che vive non troppo lontano dall’origine della sapienza, sgorgante da Ea” (TD, p. 126) e che sa, in virtù di questo, accettare che il mondo non sia fatto per dare risposte (cfr. TD, p. 139). La letteratura deve insomma mantenere la sua vocazione enigmatica: soltanto così potrà rendere omaggio alle proprie origini, come sembra suggerirci la storia del duello fra Enmerkar e il re di Aratta, che ricorda da vicino quello tra Gārgī e Yājañavalkya raccontato in Ka, nella Letteratura e gli dèi e nell’Ardore. Se già nel caso della tessitrice e del veggente della B ṛhadāraṇyaka Upaniṣad l’argomento – il carattere imperituro della sillaba – aveva una stringente affinità con il processo di scrittura, qui il parallelismo è ancora più esplicito, perché i due sfidanti si scambiano enigmi per mezzo di tavolette di argilla incise, che prendono a modello le costellazioni celesti: Quando [Enmerkar] venne sfidato dal re di Aratta con una successione di enigmi, Ea gli suggerì, senza mai apparire, le risposte. Potevano essere segni incisi sull’argilla. Quelle minuscole sbarre, simili a chiodi, non sarebbero servite solo a chiudere la disputa con il re di Aratta, barricato dietro sette montagne, ma a complicare ed esaltare la vita di tutte le Teste Nere. (TD, p. 134) Molti secoli dopo, il legame fra divino e scrittura è completamente celato. Nessuno consulta più il cielo per conoscere il momento propizio per celebrare le cerimonie, nessuno ritiene di poter individuare un segno dell’ordine invisibile nella rete delle coincidenze che costellano il manto del Caso. Così, l’unico precetto da seguire per lo scrittore è il perdurare nell’ebbrezza, tentando di tornare a Dilmun con ogni mezzo e in qualunque momento – costruendo, libro dopo libro, un’Opera che non può avere fine: Ora la scrittura del cielo non ci dice più il momento giusto, prima del quale l’azione sarebbe sacrilega. Il momento giusto, ora, è sempre giusto e sempre sbagliato. L’unica via d’uscita è un atto perpetuo: “Orate sine intermissione”. (RK, p. 219) Letteratura assoluta: Ringraziamenti Ringraziamenti Questo libro è il risultato di uno studio durato sette anni e di uno sforzo in parte condiviso. Desidero ringraziare le persone che mi hanno alleggerito in vario modo le fatiche della ricerca. Sono dunque riconoscente a Federica Ragni, che mi ha fornito materiali preziosi dall’archivio di Adelphi, e a Donatella Berasi e Camilla Cottafavi che mi hanno aiutata a portare il testo alla luce. Durante la traversata dell’Opera ho avuto la fortuna di incontrare il mio stesso soggetto di studio: la mia riconoscenza va per questo a Roberto Calasso, che mi ha fatto dono del proprio tempo e si è offerto al confronto. Ringrazio Rolando Damiani e Pietro Gibellini per avermi accompagnata nel mio percorso di studi all’Università Ca’ Foscari Venezia. Durante la mia esperienza al suo interno sono stata in più occasioni sostenuta e consigliata affettuosamente da persone speciali come Alessandro Cinquegrani, Antonio Montefusco, Ricciarda Ricorda e Silvana Tamiozzo Goldmann. Una gratitudine infinita devo alle mie amiche geniali Camilla Granzotto, Veronica Tabaglio e Gaia Tomazzoli sulle cui letture attente ho sempre potuto contare. Le lunghe discussioni con Beniamino Mirisola sono il motivo per cui questa ricerca ha inizialmente preso forma e mi hanno aiutata a superare molti momenti di crisi. Non posso non ringraziare chi, con il proprio affetto e la propria presenza, ha reso le mie gambe più forti lungo tutto il percorso. Con smisurata riconoscenza ricordo la mia famiglia, e in particolar modo i miei genitori Daniela e Achille; il gruppo BAUM; la mia MC; le sorelle del mio cuore Barbara, Caterina, Francesca e Maya; e Luigi Chiais, che è stato il lettore ideale di qualunque pagina io abbia scritto. Infine, ringrazio Lorenzo, la mia luce sulla porta di casa. Letteratura assoluta: 1. Gli dèi, ospiti fuggevoli della letteratura 1. Gli dèi, ospiti fuggevoli della letteratura Per me l’incontro con Dio è forse nell’atto di scrivere. Una solitudine che ne incontra un’altra. Emil Cioran 1.1 Un accesso laterale all’Opera: “La letteratura e gli dèi” Guardando indietro, mi sono reso conto che da più di trent’anni sto scrivendo una anomala saga familiare (o “romanzo familiare” nel senso di Freud) dove i protagonisti sono non soltanto certi personaggi, ma certe parole, idee, immagini, gesti. Famiglia dispersa, nel tempo e nello spazio, in cui però certi legami sono rimasti molto stretti e uniscono l’India dei Veda alla Parigi del Palais-Royal. In questa saga fino a oggi si sono susseguiti sette libri, ma la storia non è ancora conclusa.1 Con queste parole Roberto Calasso raccontava, in occasione della consegna del premio Chateaubriand del 2012, un trentennio di lavoro a un mosaico di testi a più riprese indicati come parti di un’unica Opera. Si tratta, cioè, di un’opera vasta e articolata, che intreccia fra loro gli argomenti più disparati e attraversa in maniera originale diversi campi del sapere, affastellando una gamma di suggestioni non riconducibili a un unico centro. Nelle pagine che seguono vorrei offrire alcuni spunti interpretativi partendo dalla messa a fuoco di un concetto indissolubilmente legato allo scheletro del progetto calassiano, quello di letteratura assoluta. Esso ha un valore fondamentale nella poetica di Calasso e costituisce uno dei fili conduttori dell’intera Opera. Non sarebbe infatti possibile accostarsi al variegato affresco del mondo moderno che Calasso propone con il suo work in progress senza tener presente il ruolo che in esso gioca “una certa idea di letteratura”, per parafrasare il celebre saggio di George Steiner sull’identità europea.2 Si può affermare, usando le sue stesse parole, che con Calasso “tutto finisce in storia della letteratura” (LD, p. 15). Il sintagma “letteratura assoluta” fa la sua prima comparsa nel cuore della Rovina di Kasch, secondo libro di Calasso e primo tassello dell’Opera, a conferma dell’importanza basilare del concetto. La rovina di Kasch, che porta a maturazione alcuni spunti già presenti nel primo libro, L’impuro folle, è il nucleo generatore del pensiero che regge l’intera impalcatura. La rovina contiene in nuce tutti i volumi dell’Opera, o meglio: tutti i volumi che seguiranno La rovina si possono considerare naturali sviluppi delle sue parti, proliferazioni spontanee dei centri concettuali che da essa hanno tratto origine, secondo un meccanismo che lo stesso autore illustrava per la genesi della Folie Baudelaire: Non so nemmeno io esattamente quando ho cominciato a pensarci. Posso però dire che Il rosa Tiepolo era una parte di questo libro che a un certo punto si è distaccata ed è diventata un libro autonomo. Il ramo è uscito prima del tronco, insomma. Comunque su Baudelaire ci sono già alcune pagine nella Rovina di Kasch, che è del 1983.3 È al centro del volume del 1983, in un capitolo che ammicca all’Essai sur le gouˆt di Montesquieu,4 che si accenna per la prima volta a “una certa comprensione della letteratura” come a “una sottile e tardiva essenza occidentale, distillata dalla storia, un’essenza che ancora non era stata ufficialmente analizzata, e lo sarebbe stata solo molto più tardi, fra Baudelaire e Mallarmé” (RK, p. 121). Un’approfondita analisi di questa “essenza” è contenuta nella Letteratura e gli dèi, raccolta di saggi scritti in occasione dell’invito del Centro europeo per la ricerca umanistica di Oxford a presenziare come visiting professor alle Weidenfeld Lectures di letterature comparate. Il tema scelto da Calasso per parlare agli studenti è quello del ritorno degli dèi nella letteratura del periodo che, con “l’utile superstizione delle date” (LD, p. 143), potremmo circoscrivere fra il 1798, anno della fondazione della rivista “Athenaeum” da parte dei fratelli Schlegel, e il 1898, anno della morte di Stéphane Mallarmé. Questo esile volume, pubblicato nel 2001, si rivela una preziosa via d’accesso all’Opera, compendiandone in maniera efficace molte questioni essenziali. Non a caso, tutte le parti dell’Opera pubblicate fino a quel momento sono in qualche modo presenti: l’epoca a cui ci si riferisce è la stessa che fa da sfondo alla Rovina di Kasch, e l’argomento divino non può che richiamare i protagonisti delle Nozze di Cadmo e Armonia; non mancano del resto espliciti riferimenti ai miti indiani contenuti in Ka, e nemmeno allusioni all’opera di Franz Kafka, il protagonista della quarta parte, K., che Calasso avrebbe dato alle stampe l’anno successivo. 1.2 Il ritorno degli dèi nella poesia moderna Nel primo dei suoi interventi, La scuola pagana, Calasso prende le mosse da una constatazione: la letteratura europea dell’Ottocento, e in particolar modo la poesia, a partire dai primi Romantici, pullula di dèi. Senza dubbio queste figure divine appartengono al repertorio delle immagini letterarie, simboli di una lunga tradizione a cui si avverte l’esigenza di riallacciarsi. Tuttavia, prosegue Calasso, c’è stato un tempo in cui gli dèi non erano una semplice “consuetudine letteraria”, ma “un evento, un’apparizione subitanea” (LD, p. 16). Nell’antichità greca e romana, in un’epoca in cui gli uomini si premuravano di tenere vivo il contatto con loro attraverso precise liturgie, gli dèi ci venivano descritti, da Omero a Virgilio, come “un’evidenza” (dal greco enargés, che si trova in Omero, cfr. LD, p. 17). Nelle sue lezioni Calasso ragionerà sulla metamorfosi di queste “evidenze”, che facevano dire al poeta Arato che “noi siamo una stirpe di zeus”, e sul motivo per cui si siano trasformate in mere costruzioni retoriche: Arato scriveva nel terzo secolo prima di Cristo, ma che cos’è accaduto, nella storia successiva, di questa esperienza che per lui era così ovvia, così pervasiva? Che cosa ne ha fatto il tempo? L’ha dissolta, lacerata, sfigurata, vanificata? O si tratta di qualcosa che ancora ci viene incontro, indenne? E dove? (LD, p. 18) La ricomparsa degli dèi sulle scene letterarie avviene in modo eclatante in due luoghi precisi: il primo in ordine cronologico è la Germania della Romantik, dei fratelli Schlegel, di Novalis e, soprattutto, di Hölderlin; il secondo è la Francia di Baudelaire, di Mallarmé e degli altri poeti della décadence. In queste due dimensioni, che vedono nella figura di Heinrich Heine il loro ideale trait d’union, le divinità pagane si palesano con inaspettata potenza, seguendo strade specularmente opposte e complementari. Hölderlin è per Calasso l’emblema dello scrittore che appartiene a un tempo diverso dal proprio, molto più vicino al sentimento greco dell’evidenza divina: nei suoi scritti – Calasso cita l’esempio di una lettera a Böhlendorff del 1802 – si delinea l’esperienza devastante di un rapporto quasi fisico con il divino, vissuta come progressiva lacerazione interiore. In Baudelaire, l’autore che per Calasso ha saputo più di chiunque altro distillare l’essenza del proprio tempo, il ritorno degli dèi assume i toni della parodia. Il titolo di questo primo intervento di Calasso ricalca quello di un testo del 1852, L’École païenne, nel quale il poeta francese sembra prendersi gioco del paganesimo tanto in voga nella prima metà del secolo e degli scrittori che hanno “tutto l’Olimpo alle calcagna”.5 Sul finale dello scritto, Baudelaire veste i panni di un severissimo e bigotto critico, scagliando pesanti frecciate contro un certo tipo di letteratura che non rende capaci “di vedere, amare e sentire che il bello, null’altro che il bello”.6 Ammonisce contro i rischi dell’abbandono della ragione e di un “gusto smoderato della forma”, auspicando per la letteratura a venire un ritorno alle “gioie pure dell’attività onesta”.7 È evidente come, dietro le accuse di questo “Grande Inquisitore” (LD, p. 26), si nascondano i tratti essenziali di quella che per Baudelaire sarà l’unica letteratura degna di questo nome. In prima istanza, ciò significa una letteratura in cui la categoria del Bello è svincolata dall’obbedienza a precetti morali, secondo i dettami di quell’“emancipazione dell’estetico” (LD, p. 27) che vedrà in Nietzsche il suo più alto teorizzatore. Dopo aver riportato il testo baudelairiano, Calasso ne individua i tre aspetti più importanti: Tre elementi […] inestricabilmente connessi: il risveglio degli dèi, la parodia e la letteratura assoluta (se con ciò si intende la letteratura nella sua forma più acuminata e intollerante di qualsiasi bardatura sociale). (LD, p. 28) In primo luogo, dunque, Calasso sottolinea come il trionfo letterario degli dèi sia un fatto acclarato. Certo nessuno, nella Francia del 1852, rende loro omaggio; l’attitudine cerimoniale delle epoche precedenti è venuta meno. Ciononostante, “il potere delle loro storie continua ad agire” (LD, p. 28). Cacciati dall’immaginario collettivo di una società che sente di non avere più bisogno del divino, gli dèi sono sopravvissuti nello spazio libero della letteratura: “Tutte le potenze del culto sono migrate in un solo atto, immobile e solitario: quello del leggere” (LD, p. 29). La lettura ha così ereditato la straordinaria potenza del gesto liturgico: essa mette in contatto l’uomo e il divino, che si manifesta in tutta la sua potenza sotto la primigenia forma di contenuto mentale. In secondo luogo, Calasso pone in rilievo l’importanza, nel testo di Baudelaire, della parodia, del gioco di ruoli invertiti con cui l’autore camuffa i propri pensieri. È come se nell’epoca in cui Baudelaire scrive non fosse possibile parlare seriamente, in maniera diretta, di nulla; come se la sola strada sicura per far passare la propria visione del mondo fosse quella dell’inversione. Infine, Calasso evidenzia come la prosa di Baudelaire nasconda, dietro al paravento del sarcasmo, la rivendicazione di una totale autonomia della letteratura dalla morale comune. Le paure espresse dall’ignoto Inquisitore-Baudelaire si sono avverate: la letteratura, sciolta dai suoi legami con l’Utile, il Vero e il Buono, è diventata un’essenza misteriosa e soverchiante, che trascende l’uomo. 1.3 Gli dèi sono colori emotivi Le divinità della Grecia classica fanno parte – spiega Calasso nel secondo dei suoi interventi, Acque mentali – di quella che Aby Warburg definisce “onda mnemica”, un’espressione che descrive il modo con cui le immagini attraversano il tempo cariche dei significati che ogni generazione passata vi ha attribuito. L’andamento di quest’onda regola la storia dell’umanità e del suo rapporto con il sacro, che registra il suo massimo negativo in un certo momento del Settecento francese, quando con la stessa disinvolta e ilare sicumera venivano derise le puerili favole greche, il barbaro Shakespeare e le sordide storie bibliche, che si ritenevano escogitate da occhiuti sacerdoti per soffocare i Lumi nascenti. (LD, p. 34) Nel periodo che Calasso ha deciso di indagare, dunque, la società occidentale ha virato in maniera decisa verso un abbandono di tutte le forme liturgiche. Gli dèi pagani a cui per secoli erano stati dedicati spazi di culto collettivi sono stati da tempo relegati nel dimenticatoio, in ossequio alle altisonanti maiuscole della Ragione, del Progresso e della Scienza; soltanto la letteratura sembra non poter fare a meno di loro. Se gli dèi sono riapparsi con questa insistenza in poesia soltanto nel XIX secolo, dopo un periodo di semilatenza, essi non hanno mai smesso di trionfare nelle arti figurative, le sole, secondo Calasso, adatte a preservarne la natura di “simulacri”. È l’immagine dipinta la forma di espressione più idonea a raccontarli, a conservarne intatta attraverso il tempo la natura di “evidenze”. Del resto, come rilevava Italo Calvino, i miti sono, in primo luogo, un pensiero fatto di immagini.8 Il divino stesso è in primis un contenuto mentale, ciò che Ezra Pound descriverà come un insieme di “colori emotivi” che nessuna metafora riesce a spiegare.9 Tra le figure del mito di maggior successo iconografico, sono le Ninfe a rappresentare al meglio, per Calasso, il rapporto ambiguo e travagliato che l’uomo può instaurare con le immagini che la sua mente produce in continuazione. Fanciulle divine dal fascino magnetico, le Ninfe erano per i Greci le custodi di un sapere antico, ma anche esseri pericolosi, che potevano prendere possesso delle menti e stravolgerle, in un’esperienza che poteva rivelarsi esaltante o funesta. Con loro gli uomini possono intrattenere rapporti passionali di straordinaria intensità, e al tempo stesso smarrire le coordinate della propria esistenza. Per Calasso le Ninfe sono “la materia stessa della letteratura” (LD, p. 37), perché gli scrittori che predilige sono persone che hanno vissuto un’esperienza emotiva sconvolgente e in qualche modo oltreumana che la scrittura ha saputo tradurre in parole. Letteratura assoluta sarà dunque quella che dimostra una sensibilità particolare ai fenomeni più sconcertanti dell’esistenza psichica, capace altresì di raccontare ciò che nella mente dell’uomo accade quando è preda di quella che i Greci avrebbero definito una manía. Calasso sembra individuare il perfetto esempio moderno di una simile esperienza nella figura di Hölderlin stravolto dalla schizofrenia: per lui, scrive, davvero “sussiste il sospetto che abbia visto gli dèi enargeîs, pienamente ‘evidenti’” (LD, p. 41). Non soltanto perché ha sperimentato, al prezzo della propria salute, l’immediatezza travolgente di una commistione con il divino, la consapevolezza irruenta del “caos” della sacralità – “il caos,” come scriverà Heidegger nel suo saggio su Hölderlin, “è il sacro stesso”.10 Quanto, piuttosto, per la lucidità con la quale ha saputo raccontare tale esperienza, mettendo in luce l’enorme distanza di significato tra le manifestazioni del divino presso gli antichi e presso i moderni. Per aver dedicato “le sue speculazioni più ardue, dalle lettere a Böhlendorff ai frammenti sull’Antigone” (LD, p. 44), all’indagine sui rapporti con il sacro in un tempo in cui le comunità hanno smesso di omaggiarlo collettivamente, e le storie degli dèi sono diventate un mero serbatoio letterario. 1.4 Il mito dei moderni: il progresso Nella loro rinuncia alla liturgia, i moderni hanno sostituito al divino la società, sacralizzando il corpo sociale. È questo, come vedremo, uno dei cardini concettuali dell’Opera. Su tale tema è incentrato Incipit parodia, il terzo saggio della Letteratura e gli dèi. L’intervento si apre con alcune considerazioni sul mito della “comunità buona”, quella in cui “forti sono i legami e la solidarietà fra i singoli” (LD, p. 53), che altro non è, per Calasso, se non una prova del culto che la società ha per se stessa. Tratteggia così una delle caratteristiche per lui essenziali dell’età moderna, ovvero la pretesa delle comunità umane di costituirsi come un insieme armonico e onnicomprensivo che può utilizzare il mondo a proprio piacimento per soddisfare i bisogni dei suoi membri. Se la coesione sociale diventa il fine ultimo della società, una sorta di dio a cui rivolgere ogni devozione, scompare, per contro, l’attitudine cerimoniale che caratterizzava le comunità del passato e il loro rapporto con la natura. Il periodo di sviluppo della letteratura assoluta coincide del resto con la seconda rivoluzione industriale; in quello stesso arco temporale prende corpo il vero nuovo mito del secolo, quello del Progresso. Per quanto astratto e nebuloso, questo ideale è pervasivo, e a esso sembrano volgersi tutte le attività. Tale mito comporta, come è noto, un mutamento radicale della concezione del sapere. La ricerca scientifica sarà finalizzata all’utilità pratica e orientata all’avanzamento tecnologico, necessario al benessere delle società. Questo slittamento di significati dal divino al sociale ha un enorme impatto culturale, e va di pari passo con la ricomparsa degli dèi nella letteratura e nella trattazione erudita della Germania ottocentesca, non senza ambiguità. Si registrano allora diversi tentativi di servirsi della mitologia per un fine sociale: Friedrich Schlegel intuisce con acume che “mitologia e poesia sono una cosa sola, indissociabili” (LD, p. 57), ma è al contempo l’ideatore dell’assurda proposta di “produrre” una mitologia per l’Europa. Friedrich Nietzsche viene traviato dall’idea che lo spirito dionisiaco possa risvegliarsi per il popolo tedesco, come si evince dalla Nascita della tragedia.11 Questo abbaglio dimostra, secondo Calasso, la complessità del tempo in cui il filosofo si trova a vivere. Egli è d’altra parte il primo a scagliarsi, nell’Avvenire delle nostre scuole, contro una concezione della cultura come strumento di pubblica utilità. Soprattutto, Nietzsche arriverà a descrivere, nella sezione Come il “mondo vero” finì per diventare favola del Crepuscolo degli idoli, le diverse fasi dei nostri rapporti con il divino: dimostrerà cioè che il mondo moderno, che crede di aver reciso ogni legame con il sacro ed è volto a “magnifiche sorti e progressive”, è in realtà un mondo fantasmatico, mosso da forze invisibili che non domina e non riconosce. Con l’avvento di zarathustra, Nietzsche si rivolgerà al mondo moderno con la cifra che più gli appartiene, quella dell’irrisione. Tutto ciò che Hölderlin raccontava con tragica serietà – la pienezza divina, l’impossibilità di fronteggiarla con il “debole vaso”12 della nostra psiche, l’allontanamento progressivo dalla verità – diventerà per Nietzsche materiale per parodia: la grottesca esaltazione di un mondo di apparenze che si è liberato dal peso del passato, il ghigno di fronte al vuoto. Due tendenze si registrano nel reagire alla sostituzione di un orizzonte di riferimento umano rispetto a uno sacro: da un lato una profonda sofferenza basata sulla consapevolezza di una perdita irreparabile, dall’altro un entusiasmo cieco basato sull’illusione di una libertà sconfinata. La parodia mette in luce queste due possibilità svelandone l’inquietante compresenza. In questa tragicomica equivalenza di opposti, nella disperazione avida di meraviglia, troviamo condensato l’approccio di Calasso alla modernità, e al ruolo dell’arte in essa. 1.5 La parodia infinita di Lautréamont La parodia è anche un elemento essenziale nella miscela della letteratura assoluta, e raggiunge un suo vertice con l’opera di Lautréamont, cui è dedicato il quarto saggio, Elucubrazioni di un serial-killer. Con i Canti di Maldoror, Isidore Lucien Ducasse – questo il suo vero nome – crea un testo che racchiude in sé tutte le caratteristiche della letteratura del proprio tempo. Raccontando la storia del feroce assassino Maldoror ne mette in scena tutti i tópoi, dalla sperimentazione formale alle atmosfere gotiche, esacerbandoli. Tutto, in quest’opera, è portato all’estremo con ironia sferzante, e senza precedenti è la mescolanza fra i registri e i modelli: nei Canti trovano spazio suggestioni baudelairiane e ammiccamenti alla letteratura di basso consumo. Un’ondata di sarcasmo travolge ogni cosa, i contenuti gotici e decadenti vengono irrisi sistematicamente. Né le scene più truculente né i dettagli da romanzo realistico possono essere presi sul serio. L’ardore parodico di Lautréamont, spiega Calasso, aggredisce ogni cosa, travolge le fondamenta stesse della letteratura della décadence, mescolandola a quella di consumo e coprendola di ridicolo. Lautréamont porta l’orrore al limite estremo, rendendolo vuoto e grottesco. Così facendo, dimostra che la letteratura è una fiera vorace, che ingurgita senza distinzioni tutto ciò che trova sul suo cammino. Proprio grazie alla sua ingordigia, ha la possibilità di esprimere qualsiasi visione del mondo, sottraendosi agli inviti alla pubblica utilità. La letteratura accoglie in sé le uniche forme possibili di verità, e le racchiude in una forma ingannevole: una forma menzognera, come ebbe a definirla Giorgio Manganelli, che scrive, nella Letteratura come menzogna: Non v’è letteratura senza diserzione, disubbidienza, indifferenza, rifiuto dell’anima. Diserzione da che? Da ogni ubbidienza solidale, ogni assenso alla propria o all’altrui buona coscienza, ogni socievole comandamento. Lo scrittore sceglie in primo luogo di essere inutile.13 Con Maldoror, Lautréamont mostra il prodotto, o meglio lo scarto, di una società che ha disconosciuto gli dèi e si è popolata di fantasmi. Un’epoca in cui l’umanità cerca di ordinarsi da sola, scoprendo presto di non essere in grado di mantenere alcun ordine: Dèi e fantasmi si alternano sulla scena, con pari diritti. Non vi è più una potenza teologica in grado di reggerli e ordinarli. Chi si azzarderà allora ad avere commercio con loro, a combinarli? Una ulteriore potenza, sino allora mantenuta in una perenne minorità, e usata al servizio del corpo sociale, ma che ormai minaccia di disancorarsi da tutto […]: la letteratura. Che in questa sua mutazione potrà anche essere definita: letteratura assoluta. (LD, p. 81) Un anno dopo la pubblicazione integrale dei Canti, in un improvviso e simulato rimorso religioso, Lautréamont utilizza il suo vero nome Ducasse per dedicarsi a un’opera “buona”, in cui celebra quei valori positivi che con la sua prima pubblicazione aveva voluto, spiega, mettere in luce per contrasto. Così, nelle due parti di Poésies “volge al bene” i suoi scritti e quelli di altri autori, classici o contemporanei, correggendo “nel senso della speranza” tutte le occorrenze di tedio, malinconia e bruttura del mondo. L’effetto paradossale sarà ancora più estremo che nei Canti, e Lautréamont finisce per negare ogni possibilità di valutazione seria sulla sua opera e sulla sua misteriosa esistenza, conclusasi senza spiegazioni a soli ventiquattro anni. Le sue due creazioni antitetiche e parimenti assurde dimostrano però che “la letteratura è un continuum di parole su cui si può intervenire a piacimento, magari trasformando ogni segno nel suo contrario” (LD, p. 78). Così Lautréamont ci svela l’eterna beffa del linguaggio, che è una componente ineludibile della scrittura. 1.6 Tastiere mentali Calasso apre il quinto saggio della Letteratura e gli dèi con un aneddoto che riguarda la traduzione mallarmeana del Manual of Mythology del reverendo George William Cox. In modo particolare, sottolinea come Mallarmé traduca sistematicamente il termine “God” con un più generico “la divinité”. In questa scelta, secondo lui, si palesano una concezione “neutra” del divino, scevra da connotazioni confessionali, e una ricerca del quid invisibile che abita il fondo di ciascuno di noi. In questa sua quête, Mallarmé rivela un’attitudine cerimoniale propria, secondo Calasso, dei grandi scrittori: è come se il poeta passasse la vita nel tentativo di rendere omaggio a un divino che avverte dentro di sé. Come se, aggiunge Calasso, Mallarmé, pur senza conoscere i testi vedici, obbedisse a un bisogno inconscio di ricongiungersi al progenitore Prajāpati, la divinità che il Ṛg Veda descrive come preesistente a tutte le altre (cfr. LD, p. 198). Questa acuta percezione del divino, che ha precise ricadute letterarie, trae origine da una scrupolosa indagine sui propri stati mentali. Gottfried Benn riteneva che lo scrittore possedesse prima di tutto “un oscuro germe creativo, una materia psichica”.14 Similmente, Calasso individua nei suoi scrittori prediletti un’attitudine non comune all’osservazione dei propri moti interiori. Mallarmé insiste spesso sul fatto che il materiale della poesia debba agire con le sue suggestioni come su una “tastiera mentale” (LD, p. 100). Per Calasso, la peculiarità della scrittura di Mallarmé consiste soprattutto nella capacità di tradurre in parole le immagini che agitano la psiche nel momento in cui prende consapevolezza di sé. A questo proposito, Calasso enuncia un concetto di importanza basilare per entrare nella sua opera, su cui tornerò con insistenza nella Seconda parte di questo libro: pensiero e linguaggio non si equivalgono. O meglio, la mente non è assimilabile al linguaggio che la attraversa, perché noi non pensiamo solo in parole: Noi pensiamo talvolta in parole. Le parole sono arcipelaghi fluttuanti e sporadici. La mente è il mare. Riconoscere nella mente questo mare sembra essere qualcosa di proibito, che le ortodossie vigenti, nelle loro varie versioni, scientiste o soltanto commonsensical, evitano quasi per istinto. Ma è appunto questa la biforcazione essenziale. Qui si decide in quale direzione si muoverà la coscienza. (LD, pp. 100-101) Uno sgomento invade l’uomo, lo scrittore particolarmente percettivo, quando registra la mancanza di forme adatte a manifestare la connessione tra le figure che solcano questo “mare” mentale e la realtà circostante. La letteratura assoluta è dunque abitata da fantasmi, e legata a doppio filo con il tema del simulacro. 1.7 La forma come valore In Mallarmé a Oxford Calasso utilizza come spunto una famosa conferenza tenuta dal poeta alla Taylorian Institution15 per delineare un’altra caratteristica fondamentale della letteratura assoluta, ovvero la sua completa dedizione alla Forma. A partire dal Romanticismo, come già notava Walter Benjamin, l’arte cercherà di costituirsi come un unico tessuto in cui tutte le forme di esposizione “trapassano e si trasformano l’una nell’altra, congiungendosi nella forma d’arte assoluta, che coincide con l’idea dell’arte”.16 Si viene così a costituire un ideale “continuum delle forme”17 che comporta anche la caduta delle distinzioni fra prosa e poesia. Fra le due, spiega Mallarmé, non c’è reale differenza, perché “ogni volta che c’è sforzo di stile c’è versificazione” (LD, p. 110).18 La separazione non ha motivo di esistere perché le parole in letteratura obbediscono all’unico imperativo del ritmo; non è quindi il metro a elaborarsi in funzione del linguaggio, “ma l’inverso: il linguaggio si elabora in funzione del metro” (LD, p. 116). Il metro garantisce lo stile, e lo stile diventa l’unica cifra della letteratura. Tutta la letteratura può essere considerata poesia quando obbedisce ai dettami formali che quest’arte ha sempre rispettato. La poesia sarà libera di esprimere qualunque tipo di contenuto, a patto di utilizzare una forma ragionata, esatta, inevitabile. Svincolata da ogni sistema, eppure schiava del metro per ossequio alla sua natura, al di là del vers libre; sciolta da qualsivoglia obbligo di natura morale; Mallarmé arriva a dirne: “Sì, la Letteratura esiste e, se si vuole, sola, a eccezione di tutto”.19 È probabilmente la più alta definizione di letteratura assoluta possibile: un’icastica affermazione di Mallarmé agli studenti di Oxford, riportata a studenti diversi nello stesso contesto e perpetuata come “mito personale”20 da Calasso nel corso della sua intera opera letteraria. 1.8 Il metro è il “giogo” della parola I metri sono il bestiame degli dèi non è soltanto il titolo della settima conferenza. È anche un’enigmatica affermazione dello Śatapatha Brāhmaṇa, uno dei più complessi e completi trattati sul sacrificio della tradizione vedica, al quale Calasso dedicherà L’ardore. Il riferimento è a un mito, contenuto già in Ka, secondo cui le divinità, nate mortali, si vestirono dei metri per potersi avvicinare al progenitore Prajāpati, che aveva preso la forma di un terribile fuoco tagliente e mortifero. Usando i metri come mantelli protettivi, gli dèi poterono salvarsi e vincere definitivamente la morte. Calasso riporta questa storia in apertura del suo intervento perché gli sembra manifestare in modo inequivocabile la connessione fra letteratura e immortalità. Non è una questione semplicemente legata alla possibilità di trasmissione alle generazioni future: se gli dèi stessi, sottolinea Calasso, arrivarono al cielo in virtù di una forma, noi, grazie a essa, possiamo arrivare agli dèi. Questo è ciò che rende immortale la letteratura: l’unico elemento per lei irrinunciabile è la sua forma, qui rappresentata dal metro, cioè da un’esatta scansione delle parole. Nel saggio del 2001 Calasso ritorna anche sulla fondamentale dicotomia tra mente e linguaggio: tutto ciò che esiste è compenetrato da due potenze simili ma diverse, “mente” e “parola”. Secondo lo Śatapatha Brāhmaṇa esse sono due entità distinte, perché una è illimitata e l’altra no, ma obbligate a coesistere. L’unione di una realtà infinita e continua con una circoscritta e discontinua è anche il principale scopo dell’azione rituale. La mente pre-esiste a ogni linguaggio, ma è impotente senza l’ausilio della parola, della quale deve servirsi. I metri rappresentano gli strumenti con cui queste due entità entrano in comunicazione fra loro: sono il “giogo” che aiuta a domare la parola per metterla al servizio della mente. Dopo una trattazione sulla natura eterna, inscalfibile e irriducibile, e quindi divina, della sillaba, che è il metro ridotto all’osso, Calasso racconta la storia dei fratelli Ṛbhu, tratta dalle Upani ṣad: fabbri eccelsi, i tre furono i primi mortali ad assurgere allo stato di divinità, grazie al valore della loro opera. Sono perciò i predecessori mitici di qualunque artista: “Alla fine, con la forza delle loro opere, conquistarono il cielo. Non perché erano devoti alla forma, ma perché praticavano quella devozione che è la forma”. (LD, p. 136) 1.9 La letteratura come sapere A dimostrazione del fatto che il concetto di letteratura assoluta sia un’ottima lente attraverso cui guardare l’intero corpus delle opere di Calasso, l’omonimo saggio della Letteratura e gli dèi ci consente di ripercorrere per sommi capi alcuni dei temi che nel work in progress ricorrono con maggiore frequenza. In apertura Calasso ribadisce che il luogo privilegiato delle epifanie divine è la mente. Non a caso, ricorda, Jung definiva gli dèi “malattie”, connotando in senso patologico un fenomeno che registrava nella psiche di alcuni suoi pazienti, una problematica ripresa poi da James Hillman.21 Il contatto degli scrittori “assoluti” con la componente numinosa della propria psiche appare più intenso di quello delle persone comuni. Quanto è avvenuto dagli inizi dell’Ottocento però non è che un “ritorno all’origine”: gli dèi sono sempre stati, innanzitutto, un contenuto mentale, ma in epoche lontane nel tempo le società, attraverso i riti e un robusto apparato di simulacri, ne percepivano e celebravano l’esistenza in forme collettive. Ora, queste visioni rimangono celate nella mente, o si manifestano nello spazio individuale della scrittura. Calasso assegna al risultato di questo moderno esodo divino il nome di letteratura assoluta: Letteratura, perché si tratta di un sapere che si dichiara e si pretende inaccessibile per altra via che non sia la composizione letteraria; assoluta, perché è un sapere che si assimila alla ricerca di un assoluto – e perciò non può coinvolgere nulla meno del tutto; e al tempo stesso è qualcosa di ab-solutum, sciolto da qualsiasi vincolo di obbedienza o appartenenza, da qualsiasi funzionalità rispetto al corpo sociale. (LD, p. 142) La sua prima caratteristica è allora quella di essere “un sapere”, una forma di conoscenza, accessibile soltanto tramite la pratica, quasi misterica, della letteratura stessa. Sulla vastità del portato conoscitivo della letteratura Calasso insiste molto, partendo dall’idea nietzscheana di verità come “mobile esercito di metafore”.22 Nietzsche ha infatti portato alla luce il fatto che il fondamento della conoscenza risiede in un processo di simulazione: i concetti a cui le diverse scienze si aggrappano per illustrare la propria verità non sono altro che riduzioni parziali della verità stessa, che però vengono usate come se fossero indiscutibili. La letteratura, che non ha la pretesa di affermare concetti ma sa utilizzare il linguaggio indiretto, metaforico, sarà allora la via della conoscenza più affidabile: Se “l’istinto fondamentale dell’uomo” è proprio “l’istinto a formare metafore”, e se i concetti non sono altro che metafore irrigidite e sbiadite, monete consumate dall’uso, […] allora quell’istinto, che non si acquieta nel “grande colombario dei concetti”, cercherà “un altro alveo per la sua corrente”. Dove? “Nel mito e in generale nell’arte”. Con un colpo di mano, Nietzsche finiva per attribuire all’arte una suprema qualità gnoseologica. (LD, p. 153) 1.10 Un sapere liquido e misterioso Il sapere di cui la letteratura assoluta si fa portatrice si manifesta per intuizioni e rivelazioni subitanee. Per questo motivo Calasso avverte fin da giovanissimo una forte avversione per la lettura crociana di Baudelaire.23 Nel suo saggio su Baudelaire contenuto in Poesia e non poesia, infatti, Benedetto Croce criticava esattamente gli aspetti dell’opera del poeta francese che Calasso più ammira: innanzitutto, il suo mancare di “purezza della forma”, infilando nella trama poetica l’“intellettualità o la riflessione”; poi il fatto che “la composizione talora ha del confuso, tal’altra è troppo simmetrica, tal’altra reca appiccicate o intercalate glosse, tal’altra lascia scorgere, sotto il serrato della forma, lacune e salti”.24 Siamo qui nel cuore di una delle caratteristiche per Calasso più importanti della letteratura assoluta: nelle sue opere si ammira sempre in azione un meccanismo fondamentale del pensiero, l’analogia. Essa è al contempo uno strumento retorico – per Baudelaire diverrà una musa – e una facoltà della mente umana. È la capacità di cogliere affinità e connessioni fra gli aspetti più disparati del reale, uno dei tratti essenziali della psiche che la letteratura sa mettere in luce. Grazie a questa sua caratteristica, che traduce sulla pagina un movimento quasi involontario del pensiero, alla letteratura è concesso di sgusciare sinuosamente fra le diverse discipline e fare propria ogni forma di conoscenza, semplicemente lasciandola celata in sé, senza la pretesa di farne una teoria. Nella Letteratura e gli dèi Calasso lo chiarisce con ardore gnostico in un’immagine che trovo fra i momenti più alti dell’intera raccolta: La letteratura cresce come l’erba fra le grigie, possenti lastre del pensiero. (LD, p. 151) Penso che in quest’idea di letteratura come cosa viva, relegata a uno spazio interstiziale che non riesce però a reprimerne la straordinaria potenza, ci sia il Calasso migliore. Come ha giustamente notato Pietro Citati, Calasso vede la letteratura come definitiva mitologia in cui confluiscono tutte le storie e i saperi del pianeta25; un tipo di conoscenza, dunque, ambiguo e onnicomprensivo, che mira ad abbracciare qualsiasi disciplina, ma senza un fine. In un mondo ossessionato dall’utilità, che obbedisce all’imperativo di sfruttare qualsiasi risorsa, anche del pensiero, la letteratura si impregna di ogni sapere e lo sottrae al corpo sociale, con cui si pone in posizione di antagonismo manifesto. È successo nell’Ottocento, ma rimane come “caratteristica fisiologica” della scrittura fino ai giorni nostri. Gli scrittori della letteratura assoluta sembrano perciò uniti da una “radicale apostasia dalla storia e dalla società” (LD, p. 143), motivata dalla strenua percezione del divino che li pone in contrasto con la collettività, costituitasi come dio a se stessa. A questa sorta di “teologia sociale” (LD, p. 149) che nega il religioso, gli scrittori della letteratura assoluta si oppongono, più o meno consciamente. Nel Cacciatore Celeste si ribadisce che quello della letteratura è, per forza di cose, lo spazio dell’individuo isolato, libero dalle affiliazioni comunitarie, inutile: Chi riconosce ma non si riconosce in nessun corpo sociale è invece un estraneo. È lo straniero irriducibile. Soltanto nell’ambito della letteratura potrà dichiararsi, perché la letteratura è il luogo stesso di ciò che non è vincolante. Per il resto, dovrà attenersi alle regole vigenti. E sarà tollerato, purché non interferisca in alcuna attività pratica. In quel caso, si sospetta che farebbe valere criteri non accettati dalla comunità. (CC, p. 384) Questa è anche la ragione per cui, secondo Calasso, non si deve chiedere alla letteratura di veicolare “buone cause”. Nella sua trattazione sulla letteratura assoluta, Calasso riecheggia la poetica di Gottfried Benn che nel 1930, nello scritto Intorno alla natura della poesia, spiegava perché non si potesse chiedere a un artista di mettersi al servizio del proprio tempo: La grandezza artistica può mai essere storicamente efficace, può inserirsi nel processo del divenire? Ci si è inserito Nietzsche? Con il piccolo gruppo di letterati che va in cerca di citazioni nelle sue opere? O Goethe? O Michelangelo? Qualunque condottiero, qualunque intrigante di corte sarebbe loro superiore quanto a possibilità e riuscita.26 Ovviamente simili considerazioni sullo statuto dell’artista e sul suo rapporto con la società a partire dal periodo interessato dalla nascita della letteratura assoluta non sono isolate. È infatti noto che l’Ottocento trasformò, come scrive lo studioso americano Larry Shiner, “le stesse belle arti in un’‘Arte’ reificata, in un indipendente e privilegiato regno dello spirito, della verità e della creatività”.27 Al contempo, il concetto di artista fu santificato come una delle più elevate e spirituali vocazioni umane. L’estetica dunque “divenne, per una parte dell’élite culturale, una forma di esperienza superiore sia alla scienza sia alla morale”.28 Shiner ricorda a proposito che, nella Scuola romantica (1833), Heine descrive l’arte come un mondo autonomo, collocato più in alto della morale e della religione.29 In primo luogo, nel periodo preso in esame, tanti pensatori, da Schelling a Schopenhauer, attribuiscono all’arte, diventata una sfera autonoma dell’esistenza, il potere di elevare la condizione umana. In secondo luogo, tanto più l’opera d’arte diventa oggetto di mercato, in balìa dei gusti del pubblico e delle sue richieste, tanto più gli artisti sentono il bisogno di rivendicare la propria autonomia da quel contesto. Anche Calasso, nella Folie Baudelaire, ricorda che il periodo di incubazione della letteratura assoluta vede pure la nascita dell’industria culturale e della pubblicità, che crea forme di prostituzione dell’intelligenza,30 da cui alcuni artisti si sentono minacciati. 1.11 Brivido nuovo Se la letteratura diventa un mondo a sé stante, “inaccessibile per altra via che non sia la composizione letteraria”, per Calasso gli unici veramente in grado di capirla, i migliori critici, saranno gli scrittori stessi; la letteratura è giocoforza autoreferenziale, è pura Forma: solo attraverso una forma perfetta è possibile parlarne. Nella stagione dell’arte per l’arte, del resto, non può che rivelarsi, come massima aspirazione della letteratura, quella di parlare solo per se stessa; nelle parole di Benn: L’“Artistik” è il tentativo dell’arte, in mezzo alla generale decadenza dei contenuti, di vivere se stessa come contenuto e di formare su questa esperienza un nuovo stile; è il tentativo di contrapporre al generale nichilismo dei valori una nuova trascendenza: la trascendenza del piacere creativo.31 Come riconoscere allora, in uno scritto di un qualsiasi momento degli ultimi due secoli di storia, un testimone della nebulosa di cui ci parla Calasso? Parlo di “scritto” e non di “autore”, perché, sebbene esista una sorta di pantheon di autori a cui Calasso fa costante riferimento, sono per lui le opere a contare più che gli scrittori: accade spesso, infatti, che sia un’unica opera fra tante a distinguersi come innegabilmente carica di quel potere iniziatico che fa di un testo un pezzo di letteratura assoluta.32 Ecco la risposta dell’ottava lezione: sarà facile riconoscere uno scritto di tal natura se esso provoca un “brivido nuovo” in chi legge, citando le parole con cui Victor Hugo si riferì alla poesia di Baudelaire.33 D’altra parte, se, come accennato poc’anzi, una forza inaudita si concentra ora nell’atto del leggere, è però vero che questa si sprigiona soltanto in presenza di un lettore estremamente percettivo, che sia in grado di cogliere quel “brivido”. La letteratura assoluta, un po’ come lo Zarathustra nietzscheano, è affare “per tutti e per nessuno”; questo sembra in qualche modo legittimare le accuse di vaghezza che sono state mosse da più fronti all’ideale di letteratura di Calasso.34 Egli non dà mai contorni troppo netti al suo discorso, e Adelphi è in un certo senso la manifestazione più concreta del suo ideale letterario (anche se non l’unica: ci sono autori per lui fondamentali che ancora non sono rientrati nei tipi Adelphi, o vi sono rientrati soltanto in parte). Poco azzeccate, e tuttavia utili a fugare alcuni dubbi, appaiono per esempio le critiche di Alfonso Berardinelli quando scrive: [Calasso] riduce tutte le opere a una sola caratteristica: assolutezza formale, epifania del divino e molti brividi. […] Se fossi Calasso, non mi accanirei in questa noiosa reductio ad unum delle innumerevoli cose che accadono in letteratura. Gli scrittori non dicono una cosa sola, per quanto divina e assoluta. Ne dicono molte. Per questo continuiamo a leggerli anche dopo aver imparato la lezione “che cos’è la letteratura”.35 In primo luogo, non è sostenibile che Calasso costruisca il suo canone letterario su una sola caratteristica: di fatto, nell’esclusività attribuita alla componente formale delle opere, elegge un criterio che accomuna una rosa potenzialmente infinita di autori. Lo stesso “divino”, per come lo vedremo prender forma nella sua opera, può manifestarsi in tantissimi modi diversi. Fra l’altro, nell’ideale di letteratura che viene a costruire, Calasso include esempi, dalla storiografia alle opere filosofiche, che non sono generalmente considerati letterari. Anche l’accusa di snobismo risulta tutto sommato poco pregnante una volta penetrato il sistema concettuale che regge l’Opera. Sarebbe più corretto parlare di idiosincrasie e affinità elettive: non è infatti l’appartenenza a una determinata élite culturale o politica a distinguerne il lettore ideale, ma la fede smisurata nella letteratura – intesa, però, come “una sorta di realtà seconda, che si spalanca dietro alle fessure di quell’altra dove tutti hanno concordato le convenzioni che fanno procedere la macchina del mondo” (LD, p. 147). Non utilizzo a caso la parola “fede”: con l’idea di letteratura assoluta Roberto Calasso delinea una sorta di religione delle lettere. 1.12 Il divino e la letteratura Il concetto di “possessione”36 assume nel pensiero di Calasso un’importanza primaria; come già accennato, gli scrittori che predilige sono in qualche modo attraversati da un’esperienza sconvolgente, simile a ciò che le fonti antiche riferiscono sull’entusiasmo divino. È quello di cui pare rendersi conto Novalis in un passo del suo Monologo, che Calasso cita come una delle riflessioni più belle che mai siano state fatte sulla letteratura: E se invece mi sentissi costretto a parlare? e se questo impulso linguistico a parlare fosse il contrassegno dell’ispirazione del linguaggio, dell’operare del linguaggio in me? e se anche la mia volontà volesse soltanto ciò a cui fossi obbligato, non potrebbe forse questo, alla fine, senza che lo sapessi o credessi, essere poesia e rendere comprensibile un mistero del linguaggio? e sarei io allora uno scrittore per vocazione, poiché uno scrittore è soltanto colui che dal linguaggio è stato entusiasmato? (LD, p. 149) Tutto ciò sembra la perfetta rappresentazione di quella che Gottfried Benn definì “arte monologica”, cioè quella “che si staglia sul vuoto addirittura ontologico che impera su tutte le conversazioni e suggerisce la domanda se mai la lingua abbia ancora un carattere dialogico in senso metafisico”.37 È una definizione che si attaglia a tutte quelle opere che rivelano la natura umana nella sua complessità e danno spazio a ciò che, all’interno dell’uomo, non è umano; del resto, come sottolinea Calasso nel Cacciatore Celeste, è il divino stesso che, attraverso la letteratura, può apparire come un’evidenza e trovare uno spazio altrove negatogli: Così Ovidio giunse al punto di insinuare che, se gli scrittori hanno bisogno degli dèi, i quali sono la loro prima materia, anche gli dèi hanno bisogno degli scrittori: “Dei quoque carminibus, si fas est dicere, fiunt”, “Anche gli dèi, se è lecito dirlo, vengono a essere attraverso i canti”. Parole che nominano un rischio nuovo ed estremo – la letteratura assoluta – e Ovidio ne è ben consapevole, con un certo tremore. Perciò intercala quel “si fas est dicere”. (CC, p. 202) In definitiva, ciò che viene a costruire con la sua Opera è un ideale mistico della forma letteraria, al quale sembra credere per primo ciecamente. Se la modernità ha segnato la fine o lo svuotamento semantico dei riti attraverso cui l’umanità viveva il divino in forme collettive, ma, al contempo, il divino continua a esistere nella psiche degli individui, dove è sempre stato, la letteratura sarà uno spazio di incontro e compartecipazione con esso. Sul finale dell’ultima lezione per gli studenti di Oxford, la letteratura assoluta viene descritta in maniera incisiva come una terra incognita in cui si ammassano simulacri, divinità, forze abissali che dal passato premono per essere ri-raccontate. Se la nostra società ha dimenticato di celebrare i riti che permettevano l’accesso a questa terra di nessuno, scrive Calasso, allora queste stesse forze sono costrette a manifestarsi attraversando l’opera di qualche scrittore, a volte in maniera “devastante” (LD, p. 252). Una conoscenza che non si esprime in concetti, ma per rivelazioni e soltanto agli iniziati di una sorta di religione dello stile, distanti nello spazio e nel tempo ma uniti da un filo rosso che, in un risvolto sull’opera di Manganelli, Calasso srotolava così, proprio definendo la letteratura assoluta: Che cosa si dovrà intendere con questa espressione? Tante cose diverse quanti siano gli autori che, esplicitamente o no, la praticano. Ma il presupposto è per tutti comune: si è dato, a un certo punto della nostra storia, un singolare fenomeno per cui tutto ciò che era scrupolosa ricerca e acquisizione di un vero – teologico, metafisico, scientifico – apparve innanzitutto interessante per nutrire un falso, una finzione perfetta e onniavvolgente quale è, nella sua ultima essenza, la letteratura. (CLS, p. 168) Visitati nel loro intimo da divinità del passato, gli autori che praticano – non sarà casuale, allora, l’utilizzo di una terminologia della ritualità – questo tipo di letteratura sono legati fra loro come gli astri di una costellazione, e la loro affinità dissolve le distanze spazio-temporali. Letteratura assoluta: 2. L’Opera 2. L’Opera Comunque io non smetto mai di fare una sola e unica cosa, di leggere un solo e unico libro, libro infinito, perpetuo, del mondo e della vita, che nessuno legge sino in fondo, che i più saggi decifrano in numerose pagine. Charles-Augustin de Sainte-Beuve 2.1 Il libro unico Analizzato e circoscritto il concetto di letteratura assoluta, vorrei usarlo come bussola per un attraversamento della “narrativa” calassiana. L’uso di questo termine potrà destare qualche perplessità, ed è quindi opportuno spiegare in che senso mi accingo a utilizzarlo. È lo stesso autore a riferirsi ai suoi libri come a forme narrative, in un’intervista che chiarisce molti aspetti dell’Opera: Non userei mai la parola romanzo, tranne che per L’impuro folle, ma userei la parola narrazione. Sono narrazioni. Ciò che è determinante è il passo di un racconto, il passo – il passo e il fatto che a dominare sia il racconto, non la teoria sul racconto. Il racconto è l’elemento più importante e implica tutte le teorie.38 È innegabile, infatti, che l’istanza narrativa sia presente in tutte le opere di Calasso, a partire dalla Rovina di Kasch, che prende l’avvio con uno scenario narrativo per antonomasia, un mito eziologico: In origine le montagne avevano grandi ali. Volavano per il cielo e si fermavano sulla terra, seguendo il loro piacere. Allora la terra tremava e vacillava. Indra recise le ali alle montagne. Fissò le montagne alla terra per renderla stabile. Le ali diventarono nubi. Da allora le nubi si raccolgono intorno alle cime. (RK, p. 11) Similmente, in tutte le opere di Calasso si potrà osservare che il filo rosso della narrazione tiene insieme testi di natura composita, in cui una miscellanea di citazioni letterarie e non, brani di invenzione romanzesca, riscritture di miti, stralci di critica letteraria e di saggistica si susseguono in maniera imprevedibile. Concentrerò dunque l’attenzione sull’organicità dell’opera di Calasso, partendo dal presupposto che, come accennato, egli la concepisce quale continuum, sviluppato nel tempo e composto da un numero ormai considerevole di volumi. Per definire questo insieme ricorro all’espressione, volutamente ambigua, di “libro unico” che riprende quella usata da Calasso per indicare i volumi scelti da Adelphi per la pubblicazione. Tale ambivalenza – “libro unico” come “opera singola divisa in più volumi” e “libro unico” come “libro che si inserisce nel grande serpente39 Adelphi per consonanza di forme o contenuti” – mi sembra riassumere in modo appropriato la doppia natura, di scrittore e editore, di Roberto Calasso. Senza dubbio, Calasso crea con la sua opera una sorta di “riscrittura enciclopedica” di un’intera civiltà,40 i cui confini spazio-temporali sono quanto di più labile esista, considerato che la materia trattata spazia dall’India vedica alla Parigi degli Impressionisti, con puntate nel cinema di Alfred Hitchcock o di Max Ophüls e nella filosofia di Walter Benjamin. Lo scrittore spiega il senso di una simile operazione con l’esigenza – tuttora insoddisfatta – di raccontare quello che è per lui “l’innominabile attuale”; alla domanda di un intervistatore sul significato da attribuire a tale espressione, rispondeva: Da circa trent’anni mi propongo di esplicitarla in un libro. Ma non ci sono ancora arrivato. Ci sono epoche che sfuggono tenacemente alla parola. Stendhal o Balzac sapevano parlare con mirabile efficacia e precisione del mondo che li circondava. Oggi non mi sembra che qualcuno riesca a fare qualcosa di simile.41 Il valore del suo enciclopedismo erratico risulta rafforzato dall’ideale di letteratura come onnivora potenza, che può parlare di tutto, in ossequio al solo diktat della Forma. Passerò dunque in rassegna i principali fili tematici che si dipanano in quest’intelaiatura, cercando di mettere in luce a ogni tappa il loro rapporto con la letteratura assoluta. 2.2 “La rovina di Kasch” (1983) Il primo volume dell’Opera affronta il problema dell’inizio della modernità. Attraverso la figura di Charles Maurice de Talleyrand, “Hermes psicopompo”42 di tutta l’impresa, si indaga il mistero dell’epoca in cui la letteratura assoluta ha le sue radici. Per il tramite di aneddoti, aforismi e riflessioni, vengono presentati personaggi-cardine del periodo compreso tra la fine del XVIII secolo e gli anni ottanta del XX: un’epoca in cui, come notava un recensore d’eccezione come Italo Calvino, al mondo ciclico, ritualizzato, delle società basate sulle pratiche sacrificali si è sostituito in modo definitivo il mondo “della ragion di Stato, degli esperimenti sulla società, dei processi politici e delle carneficine di massa”.43 A tal proposito Calvino scrisse, con lucidità estrema, che La rovina di Kasch tratta due argomenti: “Il primo è Talleyrand, il secondo è tutto il resto”.44 Data la sua natura polimorfa – il libro non ha un centro né cronologico né spaziale, non ha un protagonista, non ha un unico filo argomentativo –, è giusto che a reggere le fila della narrazione, “come una sorta di maestro di cerimonie”,45 sia Maurice de Talleyrand, uomo metamorfico per antonomasia. Talleyrand è infatti anche e soprattutto il rappresentante di un particolare modus vivendi, di un’attitudine: il voltagabbana che fu vescovo sotto Luigi XVI, deputato della Costituente durante la Rivoluzione, braccio destro di Napoleone e poi di Luigi XVIII, nonché di Luigi Filippo dopo la Rivoluzione di luglio, “tradì tutto meno che lo stile”, configurandosi dunque come “un personaggio estetico”.46La rovina di Kasch è un coro di voci, da Theodor Adorno a Simone Weil, che si inseguono l’un l’altra; sono le voci di alcune delle figure più importanti della storia moderna e contemporanea, che continueranno a risuonare attraverso tutte le opere che seguiranno. Al centro del libro c’è la leggenda africana a cui si deve il titolo, raccontata negli studi etnografici di Leo Frobenius47: narra lo splendore e la scomparsa di un regno, quello di Naphta, fondato su un rigido ordine sacrificale. Il racconto mette in stretta relazione la fine dei riti sacrificali e il potere della narrazione: a rompere gli equilibri sacri sono infatti i racconti di un misterioso cantastorie venuto da Oriente. 2.3 “Le nozze di Cadmo e Armonia” (1988) Il tema del sacrificio, centrale nella riflessione di Calasso sulla modernità, collega La rovina di Kasch alle Nozze. Il secondo volume dell’Opera porta il lettore a riscoprire alcuni rami dell’immenso albero della mitologia greca. Le divinità dell’antica Grecia tornano a vivere: le loro storie vengono risvegliate per noi. Nel farlo, come puntualizzato dal classicista americano Robert Shorrock,48 Calasso veste i panni di un vero e proprio mitografo. Nel mondo della Grecia arcaica, com’è noto, al poeta era attribuita, in virtù del suo rapporto con le Muse, una conoscenza superiore a quella del pubblico, che gli si raccoglieva intorno per ascoltare le sue storie e carpire qualche delucidazione sul mistero dell’esistenza; il che presupponeva la disponibilità, da parte dell’uditorio, a credere all’attendibilità dell’aedo. Privi dello stesso accesso privilegiato alla fonte della conoscenza, infatti, gli ascoltatori non avevano strumenti per valutare la credibilità dei racconti. In modo simile all’aedo si pone il narratore delle Nozze di Cadmo e Armonia nei confronti dei propri lettori. Anche in questa seconda opera, infatti, come nella precedente e in tutte quelle che seguiranno, senza eccezioni, Calasso utilizza un sistema peculiare di “fonti”: così i libri di mitologia classica a cui attinge per recuperare la materia narrata – Muse del mitografo moderno – sono dichiarati soltanto in appendice, dove si indicano pagina e riga delle citazioni. Nel corpo del testo, invece, queste sono segnalate con le sole virgolette basse; secondo Shorrock, un simile modo di riportare le fonti rende meno immediato per il lettore il rinvenimento della provenienza delle citazioni. Inoltre, vengono dichiarate soltanto le menzioni letterali dei testi classici: ciò non avviene per le allusioni, i richiami non puntuali, le parafrasi e gli altri tipi di fenomeni intertestuali. Il narratore ripropone per esempio, senza esplicitarlo, alcune scene tratte dalle Dionisiache di Nonno di Panopoli. Questa soluzione si dimostra, secondo lo studioso anglosassone, quella più congeniale al testo che, ben lungi dall’essere un manuale di mitologia, si configura come una vera e propria opera mitografica. Perso nella rapsodia delle storie divine, il lettore sarà totalmente in balìa dell’autore, moderno aedo. L’inganno è del resto un tema fondamentale del volume, che si apre proprio sul racconto – ripreso da Nonno di Panopoli – di un mitico raggiro di zeus, dio ingannatore per eccellenza, che rapisce Europa travestito da toro. Laddove zeus si appropria della forma di toro per sedurre Europa e portarsela via attraverso il mare, Calasso si appropria del racconto delle Dionisiache di Nonno per sedurre i suoi lettori e portarli con sé attraverso il testo.49 Il modo in cui le divinità greche sono presentate anticipa le riflessioni della Letteratura e gli dèi: Che cosa volevano, allora? Essere riconosciuti. Ogni riconoscimento è visione di una forma. Perciò si può dire, nel nostro lessico debilitato, che il loro imporsi era innanzitutto estetico. Ma quell’estetico era proprio ciò di cui si è, con il tempo, frantumato il senso: un involucro di potenze raccolte in una figura, un corpo, una voce. (NCA, p. 274) Gli dèi sono dunque, in primo luogo, una visione mentale. La “sovranità della mente” (NCA, p. 416) è il presupposto della loro comparsa, così come Calasso chiarirà nelle sue conferenze del 2001. Il mito, di cui sono protagonisti, non è soltanto una forma di conoscenza che precede e supera qualunque altra: è soprattutto una dimensione archetipica, un universo di azioni già compiute su cui si modellano tutte le nostre azioni. È tutto ciò che siamo, in potenza. Una frase emblematica del neoplatonico Salustio, posta in epigrafe al volume, ce lo ricorda: “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”. Questa idea del mito come verità primigenia da far risvegliare dentro di noi regge l’intero volume: Si entra nel mito quando si entra nel rischio, e il mito è l’incanto che in quel momento riusciamo a far agire in noi. Più che una credenza, è un vincolo magico che ci stringe. (NCA, p. 313) Questo tipo di approccio alla materia mitologica è per certi versi accostabile a quello di Károly Kerényi, che compie con il suo Gli dèi e gli eroi della Grecia un’operazione simile a quella di Calasso, rinarrando le storie dei protagonisti mitici partendo dal presupposto che le loro caratteristiche precipue siano l’essere sopraindividuali e l’“esercitare sugli uomini un potere possessivo che riempie l’anima d’immagini”.50 Diversi sono però la forma adottata – quello di Kerényi è un manuale di mitologia – e il modo in cui viene letto il legame tra l’individuo su cui il mito “agisce” e il “sopraindividuale” potere di quelle immagini. Pur essendo stato un attento lettore di Kerényi, nonché di Jung – coautore dei Prolegomeni per uno studio scientifico della mitologia –, Calasso oppone resistenza a una lettura della mitologia in chiave di “psicologia collettiva”.51 La visione del mito di Calasso è legata piuttosto a una concezione del Sé che, come vedremo, riprende dalla tradizione vedica. Oltre alle storie divine, il libro è naturalmente puntellato di vicende di eroi, da Achille a Teseo. Nel modo in cui vengono rappresentati, gli eroi mostrano significativi punti di contatto con gli scrittori della letteratura assoluta, con cui condividono una consapevolezza: “Sapevano di essere sostenuti e attraversati da qualcosa di remoto e integro, che poi li abbandonava come stracci” (NCA, p. 382). Ciò che conta agli occhi di Calasso è che, come un artista della décadence, l’eroe omerico sia posseduto da una forza superiore, sino alla consunzione, al sacrificio di sé. Allo statuto a-sociale dell’artista – nell’accezione spiegata in precedenza – si possono invece accostare queste riflessioni, significativamente collocate dopo una trattazione sugli Orfici; in quanto membri di una setta iniziatica, essi avevano accesso esclusivo a una conoscenza segreta e si trovavano programmaticamente al di fuori del corpo sociale: Soltanto chi ha fuggito il mondo con furia pagana e cristiana, soltanto chi risiede in uno spicchio dell’anima che proviene da fuori, da laggiù, soltanto chi al mondo non appartiene interamente può usare il mondo e trasformarlo con tanta efficacia e spregiudicatezza. E, con quel finale passaggio all’atto nell’usare il mondo, si giunge all’epoca che non è pagana né cristiana, ma continua ad applicare, senza saperlo, quel doppio movimento del distacco e della fuga, mentre intanto affonda il suo artiglio nella terra e nella polvere lunare. (NCA, p. 308) 2.4 “Ka” (1996) È proprio dell’“epoca che non è pagana né cristiana” che Calasso vuole parlare, mentre si rapporta alle storie che “sono da sempre”. È l’era, questa, dell’“innominabile attuale”, della regressione spirituale: quella che a partire dai testi vedici prende il nome di kaliyuga. Alla sterminata mole di testi del rituale indiano e ai suoi miti fondatori è dedicato Ka, che fa da controcanto alle Nozze di Cadmo e Armonia, e parte da una simile concezione del mondo come “impressione che lascia il racconto di una storia”, secondo la splendida frase dello Yogav āsiṣṭha posta in epigrafe al libro. Nel corso della mia traversata dell’Opera, non potrò che tornare con una certa frequenza al retroterra vedico di certe idee calassiane. Calasso si rifà infatti ai più antichi monumenti letterari della civiltà indiana, scritti in un arco cronologico che abbraccia i secoli XV-V a.C. e messi per iscritto non prima del II secolo a.C. Nello sguardo di Calasso sulla religiosità vedica c’è un filtro molto potente: Calasso è fatalmente attratto dallo sterminato corpus dei loro testi sacri perché li ritiene la più alta forma di trattazione sui temi, a lui carissimi, della “coscienza” e della “mente”.52 Non è un interesse etnografico a muovere Calasso alla scoperta dell’India vedica. Con le sue storie essa diviene piuttosto un potentissimo strumento analogico per spiegare dei concetti che da sempre ha a cuore, come quello di ṛta, “ordine del mondo”. Si tratta inoltre di opere dall’incredibile valore letterario che racchiudono in sé una Sapienza (è il significato di Veda, che ha la stessa radice del greco oída), il che ha un’importanza non secondaria nell’ottica della letteratura assoluta. A tal proposito, non sarà forse superfluo mettere in luce l’affinità che Calasso stesso suggerisce quando, nello spiegare Ka ai lettori dell’“Espresso”, ricorda la storia di Abraham-Hyacinthe Anquetil-Duperron, lo studioso francese che per primo tradusse le Upani ṣad: l’orientalista rifiutò di giurare fedeltà a Napoleone, dichiarando che essa si poteva prestare soltanto a Dio, che in quanto privato cittadino senza alcun incarico non la doveva a nessuno, e che obbedire sarebbe andato contro la sua “filosofia indiana”.53 È intuibile il fascino emblematico di una simile presa di posizione. Nello stesso articolo Calasso sottolinea inoltre come in sanscrito non esista una parola specifica per chiamare il “mito”, giacché nella cultura vedica non sussiste contrapposizione fra mýthos e lógos: il mito fa parte del sistema di pensiero. In queste narrazioni dal fascino innegabile Calasso vede dunque posto al centro il problema della “Mente”, dalla quale, raccontano i Veda, tutto discende. Prajāpati il progenitore, infatti, è anche la grande mente che smembrandosi genera il mondo. Il motore di questa azione primordiale è tapas, l’“ardore”, energia distruttrice e motrice che invade anche i veggenti che bevono il soma, una radice dal potere psicotropo che conduce vicino agli dèi. Calasso connette l’ardore all’“ebbrezza” del mondo greco, mettendo a confronto due universi di significato lontanissimi nello spazio e nel tempo. È importante sottolineare quale sia il principio compositivo che regge un’operazione simile: Calasso si muove in ossequio al “demone dell’analogia” (cfr. FB, p. 27). Si intenda con questa espressione quella tendenza, quasi un istinto del pensiero, che spinge la mente a vagare nella “foresta di simboli” del mondo alla ricerca di una connessione fra significati apparentemente distanti. Questa spinta, che sta alla base della letteratura assoluta e della sua spasmodica, centrifuga, ansia di ricerca in ogni campo del sapere, consente a Calasso un accumulo infinito di suggestioni per il suo universo scrittorio. Cosa trova, allora, nei primordi della religiosità indiana? Non soltanto la consapevolezza della predominanza della mente, ma anche le descrizioni più pregnanti sul fenomeno della coscienza, quella realtà straordinaria in cui le analogie si accendono. Vi trova, soprattutto, il tema del sacrificio. Vi rimanda il titolo stesso di questa terza opera, perché Ka, il nome segreto di Prajāpati, significa “Chi?”, ed è connesso all’interrogativo eterno “Chi è il dio a cui dobbiamo offrire il sacrificio?” (Ka, p. 31). Più di tutto, forse, ad attrarre fatalmente Calasso verso il mondo vedico è il fatto che questa civiltà, che si immagina elevatissima dal punto di vista spirituale, non abbia lasciato testimonianza di sé al di fuori dei propri testi letterari. A dimostrazione che la letteratura possa esistere (e resistere, nel senso di perdurare) davvero “sola, ad eccezione di tutto”. Unici fra gli antichi si lasciarono conoscere soltanto nel linguaggio e nel culto. Parole e dèi. Null’altro di loro è rimasto. E null’altro, forse, volevano che rimanesse. (Ka, p. 197) In Ka ritornano, quindi, alcuni temi fondamentali della riflessione sulla letteratura. In chiusura, Calasso sembra esprimere un precetto fondante della letteratura assoluta quando riporta le ultime parole del Buddha: “Operate senza disattenzione” (Ka, p. 456); quasi un comandamento, per la religione della forma che l’Opera viene a configurare. È infatti interessante notare come, fra le tante agiografie disponibili di Siddhārtha Gautama, Calasso scelga proprio questo passo del D īgha Nikāya: la cura che il discepolo deve rivolgere a ogni gesto ricorda la qualità maggiormente celebrata negli scrittori della letteratura assoluta, cioè l’“attenzione”. 2.5 “K.” (2002) A legare il terzo e il quarto pannello dell’Opera basterebbe un passaggio dell’incipit di K. dedicato all’universo di Kafka, autore, com’è noto, tra i più amati da Calasso54: L’oggetto di cui Kafka scrive è la massa della potenza, ancora non dissociata, sceverata nei suoi elementi. È il corpo informe di Vṛtra, che trattiene le acque, prima che Indra lo trapassi con la folgore. (K, p. 16) Numerosi contatti tematici intervengono a rafforzare ulteriormente la sua organicità al corpus calassiano. È evidente, per esempio, che la società in cui si muove Kafka sia caratterizzata dal vuoto di sacralità tipico del mondo moderno: Il religioso o il sacro o il divino, per un oscuro processo di osmosi, sono stati assorbiti e occultati in qualcosa di alieno, che non ha più bisogno di nominarli perché è autosufficiente e si appaga di essere descritto come società. Tutto il resto è, al massimo, un suo oggetto di studio e materiale da laboratorio – anche l’intera natura. (K, p. 33) La Terra è passata da scenario predisposto per il sacrificio a luogo in cui si reperiscono i materiali per gli esperimenti, motore della società tecnocratica e autoreferenziale. Sono argomenti ampiamente discussi nella Rovina di Kasch. Del resto, il K. protagonista del Castello è paragonato al cerimoniere Talleyrand (K, p. 85). Non mancano inoltre in Kafka le fascinazioni esoteriche – l’ostessa dell’Albergo dei Signori sarebbe allora “la custode di una conoscenza da proteggere come un santuario” (cfr. K, p. 122) – e le allusioni al tema della possessione divina, che Calasso rinviene, per esempio, nei due apologhi che Kafka dedica a Sancho Panza e a Odisseo: Odisseo era stato un precursore di Sancho Panza. Allora apparteneva al sapere comune – e non solo di quei pochi che si ritiravano in solitudine a leggere romanzi d’avventure e a fantasticarci sopra – che la vita fosse innanzitutto l’attesa di essere posseduti da altre voci, che imponevano ogni felicità e ogni lutto. (K, p. 128) Contrariamente a Odisseo, Kafka non vive in un periodo in cui il contatto con il divino ha un valore e un senso nella quotidianità. Per questo, da vero scrittore “assoluto”, soffre la “possessione” delle forze misteriose che lo agitano e lo spingono a scrivere, diviso tra il timore dei loro effetti e la consapevolezza della loro inesorabilità: Per Kafka, come per Sancho Panza, il rapporto con le potenze è talmente radicato nella fisiologia, percepibile già nel respiro, che il primo pensiero, e anche il più avventato, è quello di liberarsene. Ma Kafka sa che una liberazione del genere sarebbe provvisoria. (K, p. 131) Così, quest’uomo che “viveva tutto come simbolo. Non per scelta, semmai per condanna” (K, p. 133) coltiverà sempre la “paura di attirare l’attenzione degli dèi” (K, p. 132). Tutto ciò che riguarda Kafka e la sua produzione, insomma, può agilmente essere ricondotto al panorama dell’Opera, di cui la letteratura assoluta è il nume tutelare. Non manca perciò il tema del sacrificio: Perché gli dèi si commuovano e al tempo stesso si commuova chi li contempla occorre che giunga, annunciato da segni, il castigo. È la sola occasione in cui si può essere sicuri che gli dèi e l’uomo provino lo stesso sentimento. E, poiché il castigo consegue a un assassinio commesso da un uomo, il castigo – in quanto bene accetto sia agli uomini sia agli dèi, anzi, capace di commuoverli in ugual modo – potrebbe essere ciò che in altre epoche era stato chiamato sacri ficio. (K, p. 295) Del resto, Kafka stesso manifesta un anelito religioso quando dichiara di ritenere che la felicità terrena esista e si sostanzi nel credere, senza aspirare a raggiungerlo, all’“indistruttibile”, una sorta di divino all’interno del Sé (cfr. K, p. 335). 2.6 “Il rosa Tiepolo” (2006) Non deve stupire che in questo intarsio si inserisca anche Giambattista Tiepolo: è la sua “naturale reverenza verso l’immagine” (RT, p. 22) a renderlo organico alla struttura del libro unico calassiano. Per Calasso Tiepolo ha la capacità innata di tradurre il pensiero – nella sua forma primigenia, che è appunto per immagini – in un repertorio iconografico ridotto ma al tempo stesso multiforme: poche figure ritornano nelle sue opere in vesti sempre nuove, con un andamento che ricorda le varianti mitiche. L’artista veneziano primeggia inoltre in quella che è per Calasso la “qualità di cui la civiltà italiana potrebbe più andare fiera” (RT, p. 18): la sprezzatura, che ebbe in Baldassarre Castiglione il suo migliore teorico; è una virtù che potremmo definire, con Cristina Campo: Qualità psicologicamente legata al rischio, all’audacia e all’ironia, qualcosa di affine al gioco d’occhi altero e indifferente tra il domatore e il leopardo pronto a saltare: “saggezza temeraria, prudenza ardimentosa”.55 Maestro esoterico, Tiepolo riuscì magistralmente nell’arte di dissimulare significati profondi nelle sue vedute ariose, grazie a uno stile leggero. Basterebbe del resto questa frase a rendere l’artista veneziano un perfetto “scrittore assoluto”: Ho avuto torto se, assistendo alla commedia festevole, alle parate dei miei nobili protettori, ho concluso che fosse meglio secondarli e dipingere il mondo come fosse tutto un teatro? (RT, p. 36) “Dipingere il mondo come se fosse un teatro”: una perifrasi che sembra descrivere con eleganza i procedimenti di inversione analizzati, nella Letteratura e gli dèi, in riferimento agli autori della letteratura assoluta. Questa non è per Calasso che “una via regale del pensiero” (RT, p. 36). Tiepolo diventa così un esempio di “scioltezza taoista nell’arte” (RT, p. 47) e, soprattutto nell’esoterismo dei Capricci e degli Scherzi, Calasso lo vede creatore di teurgie, tipi di magie che permettono un collegamento fra uomini e dèi. Ne ama la visione metastorica e la passione per “gli Orientali”, misteriose figure che popolano la maggior parte delle sue opere, facendo da enigmatico contorno al soggetto principale. Quelli di Tiepolo sono per Calasso diversi da tutti gli orientali della pittura del Settecento. Nel pittore dei Capricci, “l’ingannatore” Calasso riconosce un falsario, quindi un proprio simile: nei suoi affreschi scorge una potentissima ambiguità, che ritiene trascurata dai critici in ragione del suo status di artista su commissione. Tiepolo fu invece, secondo lui, il più capace nel rappresentare quello che Nietzsche definì “l’Olimpo dell’apparenza”.56 2.7 “La Folie Baudelaire” (2008) È semplice individuare prove di organicità all’impianto del “libro unico” nella Folie Baudelaire, sesto pannello dell’Opera. In primo luogo perché si ritorna, con il volume del 2008, alla Parigi ottocentesca della Rovina di Kasch. Secondo Sainte-Beuve, a cui si deve il titolo del libro, in quel periodo si viene infatti a creare, al di là dei confini del Romanticismo conosciuto, un chiosco bizzarro, assai ornato, assai tormentato ma civettuolo e misterioso, dove si leggono libri di Edgar Allan Poe, dove si recitano sonetti squisiti, dove ci si inebria con hashish per ragionarci poi sopra. Dove si prendono oppio e mille droghe abominevoli in tazze di porcellana finissima. Questo singolare chiosco […], che da qualche tempo attira gli sguardi verso la punta estrema della Kamčatka romantica, io lo chiamo la folie Baudelaire. (FB, p. 311) Molti protagonisti del primo volume dell’Opera, da Talleyrand a Joseph de Maistre, riprendono la scena nella Folie Baudelaire. Calasso torna qui a interrogarsi sull’essenza della modernità, in un intreccio che procede per analogie e interseca le vite di autori e artisti che hanno avuto un ruolo centrale nella Parigi di metà Ottocento. La Folie Baudelaire non è infatti un libro su Baudelaire, ma, piuttosto, un libro su quella che viene definita “l’onda Baudelaire che attraversa tutto”: Ha origine prima di lui e si propaga di là da ogni ostacolo. Fra i picchi e i cavi di quell’onda si riconoscono Chateaubriand, Stendhal, Ingres, Delacroix, Sainte-Beuve, Nietzsche, Flaubert, Manet, Degas, Rimbaud, Lautréamont, Mallarmé, Laforgue, Proust e altri, come se da quell’onda fossero investiti e per qualche momento sommersi. O come se fossero loro a urtare l’onda. Spinte che si incrociano, divergono, si diramano. Risucchi, gorghi improvvisi. Poi il corso riprende. L’onda continua a viaggiare, punta sempre verso il “fondo dell’Ignoto” da cui proveniva. (FB, p. 17) Basterebbero la rosa dei nomi proposti e quella maiuscola significativamente apposta all’“Ignoto” a far dire, con una certa sicurezza, che “l’onda Baudelaire” dipinge un universo ormai familiare: quello della letteratura assoluta. Non a caso, a proposito di quella nicchia che è la Folie Baudelaire, Calasso scrive: Poi, a poco a poco, come in successive ondate di nomadi che vi stabilivano i loro accampamenti, venne a disporsi attorno a quel chiosco ciò che di essenziale sarebbe apparso da allora sotto il nome di letteratura. (FB, p. 312) Nella Folie il lettore della Letteratura e gli dèi trova una celebrazione degli aspetti caratteristici di questa “nube”: in primis proprio il pensiero analogico, che per il poeta francese è una scienza e il solo modo di “accedere a quella conoscenza ‘che getta una luce sulla oscurità naturale delle cose’” (FB, p. 25). Sembra quasi che Calasso parli di se stesso quando scrive: “Ci sono forse altre forme della conoscenza? Certamente, non tali però da attrarre Baudelaire” (ibid.). Il prossimo capitolo darà conto della pervasività di questo procedimento logico nell’Opera, mentre la Seconda parte indagherà le implicazioni teoriche del criterio compositivo scelto da Calasso. A rendere più evidente la coesione interna dell’Opera interviene anche l’osservazione per cui “Baudelaire, senza averne nozione, si riconnetteva alla teoria vedica del sacrificio” (FB, p. 34). È evidente del resto che, come tutte le precedenti, anche questa narrazione affonda le sue radici nel terreno preparato dalla Rovina di Kasch. Non soltanto per consonanza di tempi e protagonisti – Baudelaire è qui definito “lo scrittore dei nervi” (FB, p. 38), secondo una concezione già espressa nel volume dell’83 –, ma soprattutto il “bordello-museo” sognato da Baudelaire a cui l’opera gira attorno è, come indicato dallo stesso autore,57 una versione al chiuso, in spazi interni, degli spazi esterni del Palais-Royal, luogo centrale nella Rovina. Nell’immaginario onirico di Baudelaire, questo spazio, che è per Calasso un’ipostasi della modernità, è il risultato di un esperimento sociale finanziato da “Le Siècle”, giornale detestato visceralmente dal poeta per la vocazione a fare cultura per “la felicità del popolo” (FB, p. 176). Poiché Baudelaire non fu solo grande scrittore, ma anche un raffinato critico d’arte, moltissime pagine della Folie Baudelaire sono dedicate alle prose critiche sue e dei grandi scrittori della letteratura assoluta, da Mallarmé a Valéry. Proprio a quest’ultimo, che “si augurava che un giorno potesse esistere una Storia Unica delle Cose dello Spirito che avrebbe sostituito ogni storia della filosofia, dell’arte, della letteratura e delle scienze” (FB, p. 212), si può in qualche modo paragonare l’operazione compiuta da Calasso con La Folie Baudelaire e, più in generale, con la costruzione del suo ideale letterario.58 2.8 “L’ardore” (2010) L’analogia, grande passione di Baudelaire, è il motore cognitivo di quello che Calasso chiama il “pensiero vedico”, cioè “il tentativo più azzardato e consequenziale di ordinare la vita obbedendo esclusivamente alla modalità analogica” (A, p. 421). Se ne occupa con L’ardore, un commento a margine di un’opera sterminata come lo Śatapatha Brāhmaṇa, riannodando il filo del discorso alle storie di Ka. Fra i testi che la civiltà vedica ci ha tramandato non si incontrano resoconti di natura storiografica; soltanto il rituale vi trova spazio, a dimostrazione, secondo Calasso, dell’importanza esclusiva dell’universo liturgico – un universo che sembra non avere paragoni in tutta la storia dell’umanità. Calasso compara per esempio la liturgia vedica a quella romana, sottolineando una differenza abissale: se a Roma il fas, la sfera del sacro, si fece assorbire dallo ius, ciò non avvenne per i ritualisti vedici; il gesto liturgico era per loro “privo di funzioni ulteriori” (A, p. 31), svincolato dalla necessità di servire alla società, a cui pre-esisteva. Questi “esseri remoti” (A, p. 17) idearono cerimonie sacrificali che non hanno termini di confronto, perché in maniera superiore a qualsiasi altra civiltà secondo Calasso ebbero la consapevolezza assoluta che il sacrificio è una morte rituale con cui si conquista il dominio della morte. Innumerevoli sono dunque i punti di contatto dell’Ardore con le opere precedenti. Ci sono innanzitutto alcune concezioni già espresse in Ka: la centralità della mente, la cui “adiacenza all’origine fa sempre dubitare alla mente di esistere” (A, p. 145); l’assoluta attenzione alla sfera della coscienza; la dualità del soggetto, nel difficile equilibrio tra Io e Sé, espresso dall’immagine offerta dal Ṛg Veda di due uccelli aggrappati allo stesso ramo, dei quali uno mangia, mentre l’altro lo guarda mangiare (A, p. 157).59 Ritorna inoltre una sfida, già narrata nella Letteratura e gli dèi, tra Gārgī, teologa tessitrice, e il veggente Yājañavalkya, che viene a postulare il carattere imperituro della sillaba. Di Yājañavalkya si dice anche che precedette Baudelaire nell’ardito paragone fra l’amata e la carogna di un animale (cfr. A, pp. 60-61). Del resto, come i più fulgidi esempi della poesia decadente, i veggenti vedici erano abili nel cogliere il male con suprema acuità. […] Era il male metafisico, insito in tutto ciò che è costretto a distruggere una parte del mondo per sopravvivere, quindi in primo luogo nell’uomo. (A, p. 71) Potrei citare ancora numerosi anelli di congiunzione tra questo volume e i precedenti, ma mi limito ad aggiungere ai menzionati un nodo concettuale particolarmente significativo nella Rovina di Kasch, ma intrinseco alla natura stessa della narrativa calassiana. Si tratta dell’alternanza tra “polo analogico” e “polo digitale”, che contraddistingue i due modi in cui può procedere il pensiero: Connettivo e sostitutivo: i due modi della mente possono essere così definiti riferendosi al loro carattere dominante. Ma, se ci si riferisce alla messa in atto delle loro operazioni, potrebbero anche definirsi analogico e digitale. (A, p. 422) Rimandando alle pagine che seguono una trattazione più approfondita dell’argomento, vorrei però sottolineare qui che proprio la propensione per il primo di questi due poli ha consentito a Calasso di costruire con i suoi libri un’impalcatura speculativa di tale ampiezza. Sulla fede nell’esistenza di un legame, in sanscrito bandhu, tra il manifesto e l’immanifesto ha basato la rete delle sue corrispondenze, nella ferma convinzione che niente meno che questo fosse il compito della letteratura. 2.9 “Il Cacciatore Celeste” (2016) Il medesimo interesse per il funzionamento del pensiero guida la penna di Calasso nel Cacciatore Celeste. Moltissime pagine sono dedicate alle questioni a cui abbiamo già accennato: la dualità della mente umana, che appartiene al “continuo” e racchiude in sé un frammento del divino; la dicotomia fra pensiero analogico e pensiero digitale; il problema della coscienza, di cui le scienze dure ancora non riescono a rendere conto in maniera soddisfacente. Il tema centrale del libro, la caccia, compariva già nella Rovina di Kasch e veniva approfondito in K. e nell’Ardore. Nell’attività venatoria – e più precisamente nel momento della trasformazione dell’uomo preistorico da preda a predatore – si addensano tanti significati importanti per l’universo concettuale calassiano. Innanzitutto, essa viene vista come il presupposto metafisico del sacrificio, perché rappresenta il momento in cui l’uomo sovverte l’ordine cosmico, uccidendo gli animali dei quali prima subiva la forza. È anche un gesto metamorfico, in cui un essere imita l’altro (le zanne sono il modello per le armi che Homo comincia a fabbricarsi) e vi si sostituisce nella catena alimentare. Per questo motivo, la caccia offre il destro per tornare sulla questione fondamentale della mente umana e delle sue modalità di azione. L’interesse di Calasso investe anche qui la dicotomia psichica fra polo analogico e polo digitale, e soprattutto il problema della soggettività; Calasso esplicita con inedita chiarezza un quesito essenziale: esiste corrispondenza fra le strutture logiche della mente e il mondo esterno? (cfr. CC, pp. 136-137). Come vedremo, per lui la mente e il cosmo sono legati a doppio filo, essendo la prima una parte della grande rete delle corrispondenze cosmiche. Innumerevoli sono i punti di contatto fra questo volume e i precedenti. Se la riflessione sulla coscienza coinvolge di nuovo il mito di Core, già al centro delle Nozze di Cadmo e Armonia, ritornano anche il presidente Schreber, protagonista dell’Impuro folle, e gli Scherzi di Giambattista Tiepolo, indagati nel volume del 2006. Ricompare sulla scena il bordello-museo di Baudelaire, e viene citato perfino Sir Thomas Browne, erudito seicentesco a cui Calasso ha dedicato la propria tesi di laurea. Anche in questo libro, soprattutto, sono ampiamente indagati il sacrificio e la necessità dell’uomo di tenere aperto un canale di comunicazione rituale con il divino: Il mondo è un vaso spezzato. Il sacrificio tenta di ricomporlo, pezzo per pezzo. Ma certe parti sono sbriciolate. E, anche quando il vaso è ricomposto, lo solcano molte ferite. C’è chi dice che lo rendono più bello. (CC, p. 146) Interessante è notare come questo passaggio riproponga quasi integralmente una riflessione di vent’anni prima, proferita da Dadhyañc in Ka: Il mondo è un vaso spezzato. Il sacrificio tenta di ricomporlo, lentamente, pezzo per pezzo. Ma certe parti sono sbriciolate. E, anche quando il vaso è ricomposto, lo solcano molte ferite. C’è chi dice che lo rendano più bello. Conoscere la testa del sacrificio significa anche conoscere il sacrificio che avviene nella testa, che non è visibile, non ha bisogno di gesti, di strumenti, di calendari, di formule, di vittime – e nemmeno di parole. (Ka, p. 253) Anche in questo volume – come già nelle Nozze, in Ka e nell’Ardore – Calasso mette in mostra il suo talento mitografico. Storie indiane e storie greche si intrecciano in un vasto tappeto. La caccia stessa è assimilata al mito per il suo essere una potente e misteriosa fonte di conoscenza,60 ed è presentata al contempo come un’arte, un “esercizio che afferma se stesso” (CC, p. 54). A una certa distanza di tempo dal passaggio alla predazione, infatti, l’uomo dimentica il trauma della sovversione dell’equilibrio cosmico, e la caccia diventa semplicemente un’attività finalizzata all’uccisione. Tuttavia, come la letteratura porta con sé una traccia delle antiche sapienze che erano appartenute ai riti e si erano riversate nei miti, la caccia recherà sempre con sé un ricordo di quella frattura originaria: Una volta compiuto il passaggio alla predazione, Homo non sapeva come trattare quella nuova parte della sua natura. Scelse di circoscriverla nel suo significato letterale e di espanderla indefinitamente come metafora. Inventò la caccia come attività non indispensabile, gratuita. Fu la prima arte per l’arte. (CC, p. 119) Fra i tanti temi cari a Calasso che si rinvengono nel Cacciatore, la letteratura assoluta è uno dei più presenti. Basta leggere queste righe su Ovidio per capire che ci muoviamo nella medesima galassia ideale descritta nella Letteratura e gli dèi: Ovidio è già pienamente lo scrittore moderno, per lui tutto è materiale per letteratura: l’intera mitologia, i gesti del rito, si presentano come una ruota di varianti, un repertorio sempre disponibile di movenze, combinazioni, immagini canoniche. Una vibrazione religiosa si avverte in Ovidio solo all’interno della letteratura. È l’unico numen a cui sempre si inchina. (CC, p. 201) Di nuovo, la letteratura ci viene mostrata come una grande fagocitatrice di materiali eterogenei, popolata da numerosi dèi e immersa in una ridda di immagini. Nel Cacciatore, personaggi del mito, studiosi e scrittori compaiono sulla pagina con pari diritti: ci sono Porfirio e Ovidio, Lewis R. Binford e altri paleoantropologi, Nonno di Panopoli e Dostoevskij. Sulla scorta di Aristotele, Calasso traccia una linea di demarcazione fra i pensatori, distinguendo fra philósophoi e philómythoi sulla base di una radicale differenza di approcci: entrambi sono mossi dallo “stupore”, ma soltanto gli amanti dei miti possono permanervi come una condizione esistenziale. Naturalmente, i grandi scrittori appartengono per Calasso a questa seconda fazione: Omero apparteneva invece agli amanti dei miti. Tribù dispersa e apolide, che non ebbe mai storiografi. Apparivano e scomparivano, come creste di onde, e si riconoscevano per cenni, da Pindaro a Hölderlin. (CC, p. 383) Se da un lato Calasso insegue i percorsi di una forma della conoscenza che procede per lampi e si manifesta in storie apparentemente leggere, dall’altro ricostruisce quelli della scienza moderna, mettendo in luce le difficoltà con cui essa si rapporta all’universo del continuo, del sacro, che cerca in ogni modo di schivare. Per quanto riguarda la questione cruciale del sacrificio, Il Cacciatore indaga in particolar modo la sopravvivenza delle pratiche sacrificali nella contemporaneità. L’attualità dell’impianto speculativo del sacrificio, uno dei capisaldi dell’Ardore, viene qui investigata insieme alla tendenza della società a farsi oggetto di culto. Infine, l’inutile letteratura è presentata come ciò che consente – lo leggevamo nella Letteratura e gli dèi – di spalancare le porte di una realtà altra, inaccessibile per altre vie e inimmaginabile per chi persegue soltanto i fini della società tecnocratica e utilitaristica. Questo potere immenso accomuna lo stregone e lo scrittore, creature misteriose, folli e salvifiche: Alcuni consideravano gli sciamani siberiani come poveri malati di mente […]. Altri pensavano che fossero gli unici capaci di guarire i malati, perché sapevano, perché avevano visto l’altro mondo che si spalanca dietro quello che per gli altri è il solo mondo esistente ed erano gli unici capaci di trattare con gli spiriti e con i morti. Quei dubbi non si applicavano soltanto agli sciamani siberiani. Con le dovute trasposizioni e modulazioni, potevano essere applicati a Empedocle o a San Paolo. O a Nietzsche. (CC, p. 25) 2.10 “L’innominabile attuale” (2017) L’innominabile attuale si riallaccia fin dal titolo al primo volume dell’Opera. La medesima espressione compariva infatti, nella Rovina di Kasch, a indicare la contemporaneità, delimitata da spazi bianchi: “Al posto di quel bianco,” sottolinea il risvolto editoriale, “ora c’è questo libro”. Se con il primo pannello Calasso aveva tentato di porre le basi della propria indagine sulla genesi della modernità e sulle sue propaggini contemporanee, a distanza di più di trent’anni si rivolge come mai prima all’“età dell’inconsistenza” (IA, p. 14) in cui viviamo. Con inedita urgenza, il volume getta uno sguardo panoramico sul presente, riflettendo sulle conseguenze di alcuni processi avviati in quel tempo imprecisato a cui corrisponde l’ini zio della modernità. Il volume è diviso in tre parti. La prima, Turisti e terroristi, quella maggiormente incentrata sull’attualità, si apre con una considerazione che chiarisce subito in quale senso, al di là dei giudizi di valore, il nostro momento storico sia “innominabile”: La sensazione più precisa e più acuta, per chi vive in questo momento, è di non sapere dove ogni giorno sta mettendo i piedi. Il terreno è friabile, le linee si sdoppiano, i tessuti si sfilacciano, le prospettive oscillano. Allora si avverte con maggiore evidenza che ci si trova nell’“innominabile attuale”. (IA, p. 13) È interessante notare come anche La rovina di Kasch si aprisse con una sorta di breve preludio in corsivo, staccato dal seguito. I movimenti prospettici dei due incipit sono però opposti: nel primo, lo sguardo si rivolgeva all’indietro, a un passato senza tempo, per investigare attraverso un mito l’origine delle montagne; nel secondo, si affaccia invece al precipizio contemporaneo, per constatare che ciò che vi si può scorgere è informe e inafferrabile. Il libro si riallaccia alle riflessioni dei precedenti innanzitutto riprendendo il grande tema del sacrificio. Calasso si sofferma, ancora una volta, a indagare il processo di secolarizzazione che caratterizza la nostra epoca, a cui fa corrispondere ironicamente una nuova specie umana, Homo saecularis. Tale processo non ha comportato la scomparsa del divino, ma solo una mancanza di riconoscimento dello stesso: Il divino è ciò che Homo saecularis ha cancellato, con cura, con insistenza. L’ha anche espunto dal lessico di ciò che è. Ma il divino non è come una roccia, che tutti inevitabilmente vedono. Il divino deve essere riconosciuto. E il riconoscimento è l’atto supremo del divino. (IA, p. 56) Direttamente collegato alla nascita di questa specificità antropologica che è Homo saecularis è un secondo fenomeno, tipico e più volte citato, dell’“innominabile attuale”, ovvero il progressivo slittamento teleologico dal religioso al sociale, per cui ogni elemento della società viene invitato a veicolare i propri sforzi verso il solo interesse della società stessa. Un primo nodo che Calasso affronta è quello del terrorismo, già toccato nell’Ardore. Esso è legato al sacrificio in quanto forma di uccisione che si realizza secondo un “rovesciamento preciso delle dottrine vediche” (IA, p. 22). I terroristi mettono cioè in atto una degradata forma sacrificale, in un mondo che ha, in teoria, abbandonato da tempo questo tipo di pratiche. Per Calasso, le liturgie del Veda erano una forma di metafisica, avevano lo scopo di dare senso all’esistenza; e proprio in tale ricerca di significati trovavano la loro giustificazione. Per questo obiettivo venivano selezionate delle vittime perfette, offerte alla divinità per ottenere una gratificazione intangibile e misteriosa, una ricompensa nell’invisibile. Gli atti terroristici ereditano dal sacrificio la speranza che l’uccisione sia la garanzia di un risultato, ma nella scelta delle vittime dimostrano di voler ottenere un premio immediato e tangibile: lo sterminio degli “infedeli”. La vittima del sacrificio, perfetta e cara al divino, è per loro l’attentatore. Il frutto del sacrificio non è nascosto e collocato in una dimensione ulteriore, ma quanto di più materiale ci sia: è la morte delle persone coinvolte nell’attentato, cioè l’espulsione dalla società – unica destinataria di ogni atto – di chiunque non sia gradito al loro ideale. La scelta dei bersagli finisce con il rispondere al solo imperativo del Caso, la potenza che nessuna società è in grado di espungere: Coloro che vengono uccisi nell’attentato sono il frutto benefico del sacrificio dell’attentatore. Il frutto del sacrificio un tempo era invisibile. L’intera macchina rituale era concepita per stabilire un contatto e una circolazione tra il visibile e l’invisibile. Ora, invece, il frutto del sacrificio è diventato visibile, misurabile, fotografabile. Come i missili, l’attentato sacrificale punta verso il cielo, ma ricade sulla terra. (A, p. 14) Assistiamo, secondo Calasso, alle inevitabili conseguenze della progressiva trasformazione delle società in “società sperimentali”. Il terrorismo segue la guerra nel processo di metamorfosi della pratica sacrificale nel mondo moderno. Lo stesso tema era indagato nell’Ardore, in particolar modo nel capitolo Antecedenti e conseguenti, in cui Calasso spiegava le ragioni che lo spingevano a cimentarsi nell’esegesi dello Śatapatha Brāhmaṇa, e ancor prima, nella Rovina di Kasch, in cui la guerra veniva definita “il più ricco degli esperimenti” (RK, p. 234) e messa in rapporto all’evoluzione della forma sacrificale nel presente secolarizzato. La seconda e l’ultima parte del libro saldano invece definitivamente la riflessione sulla contemporaneità a quella sulla letteratura assoluta. Il capitolo La società viennese del gas riporta le testimonianze di molti scrittori europei che hanno vissuto la fase di incubazione dell’“innominabile attuale”, quell’oscuro momento della storia, compreso fra il 1933 e il 1945, in cui il mondo occidentale ha compiuto “un tentativo di autoannientamento, parzialmente riuscito” (IA, p. 13). Calasso mette insieme una polifonia di voci, da Walter Benjamin a Virginia Woolf, che si rivelano estremamente capaci di descrivere i tratti essenziali del loro tempo e i cambiamenti in atto nella società. Ancora una volta, ciò sembra dimostrare un assunto alla base della teorizzazione sulla letteratura assoluta: il pensiero, per cercare di trasmettere qualche forma di verità, deve travestirsi da finzione, contaminarsi con il racconto; vivere, cioè, una vita clandestina, entrando nel cavo senza fondo della letteratura: Al pensiero sarebbe quanto mai utile un periodo di occultamento, di vita clandestina e camuffata, da cui tornare a emergere in una situazione che potrebbe avvicinarsi a quella dei presocratici. Occorre riconoscere le potenze di cui si parla, prima ancora di nominarle e di azzardarsi a teorizzare il mondo. Il “pensiero impuro” di Nietzsche ha compiuto i primi passi in questa direzione. Ma non si può dire che si sia andati molto più lontano. (IA, p. 47) Il sogno di Baudelaire che chiude il libro, un appunto conservato alla Biblioteca Jacques Doucet in cui è descritto il crollo di un’immensa torre, sembra confermare che alla letteratura sia no state conferite potenzialità ulteriori, ai limiti del profetico. 2.11 “Il libro di tutti i libri” (2019) Molte sono le evidenze testuali dell’interconnessione fra Il libro di tutti i libri e i volumi precedenti. Inizierò con il menzionare i riferimenti, presenti nella Rovina di Kasch, alla figura del patriarca Abramo,61 uno dei protagonisti del decimo pannello dell’Opera. A titolo di esempio si potrebbero prendere anche alcune citazioni dalla Sapienza, dall’Esodo e dalla Genesi contenute nel volume dell’83, o i rimandi ivi contenuti a episodi come l’attraversamento del Mar Rosso o l’interrogazione di Giobbe a Iahvè.62 In qualche modo, dunque, il percorso attraverso le Sacre Scritture era tracciato fin dalle prime pagine dell’Opera; tuttavia, soltanto con il libro del 2019 Calasso si immerge davvero nel magma delle storie bibliche. Non si tratta, in ogni caso, di un tentativo di esegesi dell’Antico Testamento. Calasso non propone interpretazioni dei passi scritturali che cuce insieme; opera piuttosto una riscrittura che, dal punto di vista strutturale, ricorda molto da vicino quella compiuta sul tappeto di miti greci con Le nozze, o l’arazzo di mitologie indiane messo insieme con Ka. Tanàkh, la Bibbia ebraica, viene attraversata e ampiamente commentata senza che l’opera assuma per questo le vesti di un saggio. Calasso cita testualmente ampi stralci del Pentateuco, dei profeti maggiori e minori; non mancano – per quanto in misura inferiore – riferimenti ad alcuni passi dei Vangeli che commentano l’Antico Testamento, a testi estranei al canone ebraico come il Siracide e l’apocrifa Vita di Adamo ed Eva, o a commenti di illustri biblisti, da Umberto Cassuto a Gerhard von Rad. Il tutto è tessuto seguendo un principio squisitamente narrativo: come sempre accade nei libri di Calasso, commenti e riflessioni affiorano lungo un disegno che sono i personaggi a dettare, con il procedere delle loro storie. È la potenza delle storie, infatti, che Calasso ammira nelle Scritture: i libri della Bibbia non si dilungano in astratte questioni teologiche, ma si concentrano sulle vicende di personaggi esemplari, con stili differenti, con cali e picchi di tensione. Come ha giustamente rilevato Gianfranco Ravasi, i racconti sacri, procedendo per scarti di voci e autori diversi, sono caratterizzati da una viva policromia.63 Tale policromia è il modello di riferimento di Calasso, che si compiace a sua volta nel ricomporre fra loro le tessere del mosaico biblico insieme a quelle che, nel corso dei secoli, sono state su di esse modellate. Le riletture psicologiche, antropologiche e letterarie sono accostate ai testi di partenza, in un continuum narrativo tipico della scrittura calassiana, che sa mescolare racconto ed erudizione. Ricorrendo in maniera originale ai materiali che ha di fronte, Calasso imita in qualche modo il misterioso Redattore finale, quell’individuo (o quel gruppo di individui) che, avendo stabilito la sequenza definitiva delle storie sacre, è il “primo responsabile di tutte le innumerevoli occasioni di sconcerto che la Bibbia non può che provocare in chiunque” (LTL, p. 146). Così, seguendo l’indicazione goethiana riportata in esergo,64 dopo essersi smarrito nel “libro di tutti i libri”, Calasso prende il posto del suo autore definitivo e vi traccia un percorso che porta dritto al cuore dell’Opera. Secondo quanto dichiarato in margine al volume,65 Il libro di tutti i libri ha iniziato a prendere forma durante la scrittura di K., ed effettivamente Kafka è una presenza aleggiante su tutta l’opera. Tuttavia, un riferimento al rapporto fra la Bibbia e l’autore del Castello compare già nella Rovina di Kasch, in un capitolo intitolato Briciole sacrificali, laddove si cita una lettera di Kafka a Robert Klopstock in cui lo scrittore ipotizza due varianti della storia di Abramo e Isacco. Nella prima, il Patriarca, che ha tutta l’intenzione di rispettare la volontà divina, è impossibilitato a lasciare la propria casa perché deve necessariamente sistemarla, ma non riesce a portare a termine il compito; nella seconda, Abramo teme di aver frainteso la chiamata di Dio, non si capacita di essere il prescelto perché non se ne ritiene degno. Con un’immagine estremamente pregnante, Kafka accosta la seconda situazione alla vergogna che potrebbe provare un pessimo alunno di scuola elementare che, al momento della premiazione dell’allievo più bravo della classe, venga chiamato per errore dal maestro – come a “fare in modo che la premiazione del migliore sia anche una punizione del peggiore” (cfr. RK, p. 278).66 Ripresa e commentata nel Libro di tutti i libri, questa lettera mette a fuoco, in modo particolare con la seconda variante, un suo tema essenziale: Il dubbio sull’elezione, che Abramo aveva formulato nel modo più duro, è il dubbio più corrosivo, irreprimibile. Su quel dubbio Kafka avrebbe costruito, un giorno, Il Castello. E non avrebbe finito di costruirlo, perché da quel dubbio non si esce. Ma avrebbe colto più di ogni altro certi suoi caratteri. (LTL, p. 166) In Kafka, scriveva Calasso già nel 2002, “il punto attorno a cui tutto ruota è sempre l’elezione, il mistero dell’elezione, la sua oscurità inscalfibile. Essere prescelti, essere condannati: due modalità dello stesso procedimento” (K, p. 16). Per questo, nel volume del 2019 i grandi personaggi biblici sono raccontati attraverso la specola dell’elezione e della sua arbitrarietà. Il primo esempio fra tanti riguarda l’elezione di Saul a re di Israele, e le oscure ragioni che fanno ricadere la scelta su un giovane così privo di qualità particolari. La designazione da parte di Iahvè appare tanto immotivata e improvvisa da sconvolgere in primis l’eletto, suscitandogli una reazione di assoluto terrore: Si nascose fra i bagagli, in questo simile a Harpo Marx, perché era stato colpito dal terrore dell’elezione. Un terrore che la sua gente più di ogni altra avrebbe provato nella storia. (LTL, p. 25) Il timore di Saul è giustificato: la sua elezione è il segno di un destino che si compie, la manifestazione di una volontà superiore che governa la sua vita. Attraverso l’unzione, Samuele ha sancito per lui l’appartenenza a una storia eccezionale, che non avrà il potere di orientare autonomamente: “Comune a tutti i significati della consacrazione è che un essere vivente o un oggetto vengono sottratti all’uso e alla vita comune. L’invisibile li investe” (LTL, p. 264). Come abbiamo visto in relazione alla Letteratura e gli dèi, per Calasso il divino è proprio questo: un’essenza soverchiante che può stravolgere la vita dell’uomo in moltissime forme. Non a caso tante pagine dell’Opera, e specialmente delle Nozze di Cadmo e Armonia, sono dedicate a un’esperienza estrema di compartecipazione con il divino, che rappresentava al contempo il picco dello squilibrio psichico e il massimo della conoscenza che un essere umano poteva raggiungere: la possessione. Nella diversità dei modi in cui le varie culture hanno raccontato l’incontro fra l’umano e il divino Calasso trova una costante: quando il divino sceglie un individuo, è sempre per lui il sommo bene e il sommo male. A ogni elezione corrisponde, quindi, anche una condanna. Non può infine mancare il tema del sacrificio, “un atto necessario, a cui non si poteva sfuggire” (LTL, p. 213). Esso è fondamentale per chi vuole seguire la Torah, la Legge, “l’entità suprema e onnipresente, di là dalla quale nulla era ammissibile” (LTL, p. 279). Quest’entità è messa fin dalle prime pagine in antitesi con la legge degli uomini, e l’intero volume è anche una riflessione sulla frattura apparentemente insanabile fra una visione del mondo che contempli il dialogo con l’invisibile e una che invece ne neghi l’importanza. 2.12 Un tempio per la contraddizione Al massimo grado, secondo Calasso, i racconti delle Scritture fanno emergere la profonda ambivalenza del divino, il suo sottrarsi al principio di non contraddizione che è proprio della logica umana e non può in nessun modo appartenere al “continuo”. Il divino è qualcosa di misterioso, le cui scelte non sono interpretabili alla luce del buon senso comune o della morale socialmente condivisa. Su questa imperscrutabilità di destini, e sulle continue antinomie che stanno alla base dell’operato di Iahvè, si regge Il libro di tutti i libri. Emblematiche sono al riguardo le vicende dei due patriarchi Abramo e Giobbe. Il primo è l’emblema della “grazia separata dai meriti”: la Genesi non racconta niente della sua vita che giustifichi il suo rapporto privilegiato con Iahvè. Ciononostante, a lui e alla sua discendenza è concessa la benedizione. Giobbe, come noto, vive la condizione opposta, rappresentando “la disgrazia non fondata sulla colpa” (LTL, p. 168), l’uomo pio e devoto che subisce ogni tipo di afflizione. La sua storia serve a Calasso per esaltare la differenza fra la visione del mondo che predomina nella Bibbia e quella che invece orienta l’“innominabile attuale”: da un lato la prospettiva religiosa, che abbraccia il mistero del giusto che soffre e della grazia senza meriti; dall’altro una visione economica, propria dell’Homo saecularis, quel “raffinato e complicato prodotto dell’evoluzione e della storia” (cfr. IA, p. 51) che si affida alla logica retributiva del dare e avere o alla casualità probabilistica: In quali altri modi potrebbe funzionare il mondo? Come un’azienda, dove gli impiegati efficienti hanno un premio di fine anno mentre gli inefficienti vengono periodicamente adibiti alle mansioni più penose. Così funziona la macchina secolare del mondo. O altrimenti il male potrebbe colpire con piena indifferenza, ignorando il buono e il malvagio. E il bene toccherebbe a chi provvisoriamente sfugge ai colpi del male, per un puro fatto probabilistico. Così funziona la macchina scientifica del mondo. Ma queste due macchine non sono sufficienti per capire la costituzione del mondo, che include sia Abramo sia Giobbe. Questo ha indicato la Bibbia. (LTL, p. 171) Dovrebbe essere semplice, a questo punto, intuire quale sia la strada che per Calasso porta a una conoscenza più profonda della “costituzione del mondo”. Ciò che spinge l’indagine dell’Opera nell’ambito del religioso non è la fede come scelta, come aderenza a un modello di condotta e a una precettistica; non è nemmeno l’adesione a un credo nel pieno controllo delle proprie facoltà, ma piuttosto un riconoscimento del fatto che ci sia qualcosa che sopravanza quelle facoltà, e che richiede di essere percepito, di entrare in relazione con noi. Il divino, nel racconto che ne fa Calasso, è sempre qualcosa che non accetta di non essere visto. Per secoli, in varie forme, le comunità umane hanno sentito l’esigenza di rivolgersi a questo qualcosa, a cui Calasso può intercambiabilmente riferirsi come “il divino”, “l’invisibile”, “il continuo”, volendo indicare una vastità che è possibile intuire ma che, al di là delle declinazioni confessionali, sfugge ai processi classificatori. È una presenza tanto indistinta da manifestarsi spesso come “nube”. I riti erano un modo di accedere al mistero che si cela dietro la compresenza dei graziati senza meriti e dei puniti senza colpe. La casa di Iahvè al centro del Libro di tutti i libri, il tempio che già re David immaginava di costrui re per riporvi l’Arca dell’alleanza, serviva a entrare in relazione con questa “nube”. Era uno spazio terreno in cui il dialogo con il divino poteva avvenire, un modo per celebrare collettivamente il rapporto con un’entità superiore di cui si riconoscevano la potenza e la pericolosità. Con il passare dei secoli qualcosa si è incrinato: gli uomini hanno sentito sempre meno forte l’esigenza di un simile confronto, preferendo rivolgere le loro domande all’interno della stessa comunità. Questa spaccatura nei rapporti con l’invisibile è il grande mistero che l’Opera desidera indagare: “Tutto avviene fra la nube e la Casa – e tutto ciò che accade ne è la conseguenza, la cronaca” (LTL, p. 79). Ben prima che uscisse Il libro di tutti i libri, l’opera calassiana sembrava riecheggiare la domanda che Salomone, inginocchiato sul sagrato del Tempio, rivolge ai cieli: “Veramente Dio abiterà sulla terra con l’uomo?”.67 Se una risposta esiste, dev’essere cercata nelle opere della letteratura assoluta. Per Calasso i grandi scrittori appartengono infatti a una piccola nicchia di dissidenza rispetto al mondo secolare. Come una comunità esclusiva, questa congerie di spiriti affini, che nel nono libro dell’Opera chiamava “gli analogisti”, continua a fare proseliti pur non essendosi mai costituita come gruppo. Così, disgregata e sommersa, sopravvive al caos dell’indifferenziato attuale: Non predicavano, non convertivano. Ma parlavano e scrivevano. Contavano sul puro potere della parola, sulla sua capacità di rivolgere il cuore di chiunque verso un nuovo Oriente. (IA, p. 64) 2.13 “La Tavoletta dei Destini” (2020) La Tavoletta dei Destini è un misterioso oggetto che compare per la prima volta nel Cacciatore Celeste, laddove Calasso ragiona sulle potenze che precedono qualsiasi divinità e incombono anche sugli dèi. La prima fra tutte queste potenze è Necessità, una forza cieca che si impone sulla trama dell’esistenza. Per riuscire a conviverci, gli dèi mesopotamici avevano bisogno di una piccola tavoletta di argilla che impartiva ordine al mondo. Un giorno la tavoletta fu rubata da Anzu, il guardiano con il corpo d’aquila e la testa di leone; la storia dello sgomento che allora invase gli dèi è raccontata, insieme a tante altre, nel più recente pannello dell’Opera. A narrarla è Utnapishtim il Remoto, misterioso personaggio della mitologia mesopotamica, accostato a Noè già nel Libro di tutti i libri (LTL, p. 368) per aver tratto l’umanità in salvo da un diluvio. Rimasto solo in “un luogo che aveva preceduto il mondo e su cui il mondo continuava a fluttuare, senza saperlo” (LTL, p. 372), Utnapishtim viene visitato da Sindbad il Marinaio, l’avventuriero delle Mille e una notte. È a lui che Utnapishtim racconterà le tante storie accadute prima del Diluvio – fatte, come sempre, di uomini e dèi, di inganni, di vendette e, soprattutto, di tentativi costanti di mantenere l’ordine, quel fragile equilibrio fra visibile e invisibile che è il presupposto dell’esistenza. L’ordine sfugge ai mortali tanto quanto agli immortali, e richiede di essere continuamente celebrato e preservato. Fra i molti modi di avvicinarne i misteri c’è quello di provare a raccontarlo, e, proprio per questo, La Tavoletta dei Destini è il volume in cui la vocazione narrativa di Calasso si esprime al massimo grado, lasciando scorrere in piena libertà il flusso delle storie. Non ci sono lunghe pause di riflessione o secche inserzioni aforistiche ad arrestarlo. Non c’è neppure, alla fine del libro, un elenco delle fonti citate a cui attingere per ricostruirne il retroterra. Dal punto di vista formale, costituisce così un unicum nell’Opera. Le letture preparatorie, i riferimenti storici, archeologici, filosofici sono completamente assorbiti dalla voce narrante di Utnapishtim, irreversibilmente perduti nel suo fiume letterario. La Tavoletta dei Destini è, come vedremo in un breve capitolo interamente dedicato, un’opera di letteratura assoluta: si confronta con “le cose ultime” (RK, p. 210) – l’irreversibilità del tempo, la morte, l’invisibile – con la leggerezza della “chiacchiera”, in un sinuoso dialogo fra due personaggi eterni, portandoci “quanto più è possibile vicino al luogo dove sgorga la parola” (LD, p. 150). Letteratura assoluta: 3. Lo stile è una danza 3. Lo stile è una danza La storia della critica letteraria è in gran parte la storia di una vana lotta per trovare una terminologia che definisca qualcosa. Ezra Pound 3.1 Né romanzi né saggi Accertato che le parti dell’Opera, pur nella varietà dei loro argomenti, sono strettamente collegate fra loro, resta la difficoltà di ricondurle a un determinato genere. L’andamento ondivago e la spiccata predominanza del taglio narrativo rendono questi scritti difficilmente etichettabili come saggi. Al tempo stesso, la vastità degli argomenti trattati e lo spessore dell’analisi offerta su una materia non finzionale, oltre alla possibilità di individuare delle tesi di fondo, per quanto velatamente dichiarate, li accosterebbero a questa categoria. È un aspetto su cui i critici si sono lungamente accapigliati a partire dalla Rovina di Kasch.68 Spiegando le proprie intenzioni compositive, Calasso raccontava che la genesi di quella forma singolare era legata alla sua avversione al tradizionale impianto del saggio: Volevo in ogni caso evitare la forma del saggio come tende a fissarsi oggi, una forma sclerotizzata, pesantemente affermativa, che ha subìto la nefasta influenza dell’ambiente universitario, se si pensa alla meravigliosa, rigogliosa molteplicità delle sue possibilità. Ma nemmeno la parola saggio si applica esattamente al mio libro. Dall’aforisma al breve componimento poetico, passando per l’analisi molto stringente di una questione o per la narrazione di una scena, è tutto un ventaglio di forme che volevo vedere spiegarsi nella Rovina di Kasch.69 Il lettore della Rovina di Kasch può sentirsi disorientato di fronte all’agilità con cui Calasso passa dal racconto alla citazione, dagli autentici documenti epistolari alle lettere inventate di personaggi di fantasia (che possono talvolta rappresentare quelli reali, come nel caso del Senatore di San Pietroburgo, alter ego finzionale di Joseph de Maistre).70 Non mancano, nel libro dell’83, commenti a testi sacri o a opere filosofiche, nonché stralci di critica letteraria, come queste acute osservazioni sulla Vita di Rancé di Chateaubriand, che si potrebbero applicare anche al ritmo della prosa calassiana: Il loro procedere è abrupto, intemperante, erratico. Vi si avverte la fatica del pensum virtuoso e l’attrazione di un monologo dilagante. La prosa accosta pietre di fatti, citazioni e ricordi, unite solo dal muschio. (RK, p. 445) Procede per giustapposizioni anche la scrittura di Calasso, regalando reperti di antiquariato quando attinge, per esempio, alla corrispondenza di grandi personaggi storici, facendocene scoprire un volto diverso, gettando una luce più calda sull’insieme del quadro. 3.2 Un racconto con pause di riflessione Anche L’impuro folle, che Calasso ha sempre definito “romanzo”, è in realtà uno strano meccanismo narrativo che mescola saggio e racconto (e anche parti in versi), come emerge con chiarezza da questo passo in cui Dio è presentato al tempo stesso come personaggio finzionale, oggetto di studio e pretesto per una riflessione sulla natura della mente: Dio non si faceva impressionare dalla sensibilità: ma la redingote della scienza lo ha fatto su come una cocotte, stolidamente incantato guardava quel movimento sul vuoto dove è d’obbligo non fermarsi, che sembra un’astratta cerimonia – ma che nasconde una rapacità, un vampirismo della sostanza divina (i nervi che improvvisamente diventano il luogo della malattia, e perciò finalmente venivano malmenati come mai si era riuscito con l’anima inconsistente, che aveva offerto soltanto il futile miraggio della ghiandola pineale, non una rete, la camicia di Nesso del corpo, dove imprigionare per sempre la potenza detta per eufemismo psichica) quali Dio, nei vestiboli eretistici della sua Corte, non aveva ancora incontrato. (IF, p. 33) L’impuro folle nasce in parallelo al tentativo di Calasso di scrivere un saggio introduttivo alle Memorie del presidente Schre ber. Dalla frustrazione per le carenze di una forma giudicata troppo assertiva e sistematica e dalle difficoltà di ricondurre la storia del presidente a spiegazioni definitive nascono due testi gemelli e speculari: una postfazione dedicata ai Lettori di Schreber e un racconto che si propone di dare parola al “malato di nervi” stesso.71 In un’intervista a un quotidiano francese, Calasso dichiarava di aver voluto riportare la storia di Schreber mostrando e al contempo celando tutte le sue possibili linee interpretative, come soltanto il racconto sa fare: Quello che mi sembrava nettamente incompatibile con Schreber era quel residuo tenace di predittività, d’affermatività, di polarizzazione speculativa che la forma del saggio racchiude in sé. Quello che mi interessava, al contrario, era, come dice lei, di parassitare in qualche modo il testo di Schreber, di sollecitarlo, seguendone certe linee di fuga, che permettono di tracciare, al di là delle Memorie, che sono già una storia segreta della metafisica, una storia segreta ulteriore, in cui Freud, Hegel, Nietzsche, Jean Paul e Tiresia fossero obbligati a comparire sulla scena.72 Tutte le opere di Calasso sembrano indagare un tema centrale attraverso sollecitazioni e vie di fuga, senza scandagliarlo analiticamente con l’obiettivo di arrivare a qualche punto fermo, ma piuttosto sottoponendolo a un processo di diffrazione, scomponendolo in molte sfaccettature e “storie segrete”. La commistione di racconto e saggio rimane una costante dell’intero work in progress, come dimostra questo stralcio dal Libro di tutti i libri: Ovunque la Sapienza trovava una sostanza di cui nutrirsi. Ma pensava sempre alla sua tenda. Voleva trovare un altro luogo dove drizzarla. Un giorno il Padre le fece un cenno. “E così mi sono stabilita in Sion,” disse la Sapienza, concludendo il suo racconto. Nella stessa terra, un giorno, il Figlio, che era suo fratello, non avrebbe trovato “dove poggiare la testa”. La Sapienza è personificata, secondo il modello scritturale dei Proverbi o del Siracide, che qui viene esplicitamente citato.73 È tuttavia l’elemento narrativo a prevalere e, riportato in tal modo, il passo può apparire come l’affermazione di un personaggio da romanzo, che racconta ai lettori la propria storia. Il narratore onnisciente del Libro di tutti i libri fa in seguito una riflessione che è al contempo una prolessi sul materiale biblico – il personaggio del Figlio del Nuovo Testamento –, un affondo teologico – la Sapienza è figlia di Dio nelle tradizioni mistiche che seguono il filo rosso dello gnosticismo di matrice ebraica – e una puntuale citazione evangelica – questa volta da Luca: “Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”.74 Per la caratteristica commistione di analisi e narrativa, le opere di Calasso si potrebbero indicare come “racconti critici”, usando un’espressione che Edoardo Sanguineti coniò per descrivere la saggistica debenedettiana.75 Più volte interrogato sulla giusta definizione da dare ai suoi scritti, Calasso si è mostrato consapevole della loro non-appartenenza a un genere e ha sempre rimarcato che la commistione di elementi narrativi e di ragionamenti è insita nell’atto del narrare: Tolstoj, uno dei grandi maestri di questa forma, talvolta si ferma a riflettere su cosa sia la guerra, cosa sia la storia. Ciò appartiene alla fisiologia del romanzo. Non c’è nulla che non possa far parte del romanzo. Inoltre, io preferisco che la componente saggistica si nasconda da qualche parte fra le pieghe della narrazione.76 Come abbiamo avuto modo di vedere, uno dei presupposti fondamentali dell’estetica calassiana è che la letteratura, in modo particolare da una certa altezza storica in poi, ambisca a inglobare in sé qualsiasi forma di sapere, divenendo essa stessa una forma di conoscenza. Calasso è convinto che il pensiero non debba esprimersi in gabbie retoriche troppo definite: nel solco del modello nietzscheano, preferisce che le idee siano esposte in modalità discorsive più fluide; ad Azam zanganeh spiegava: Forse sono incline a quello che Nietzsche ha definito “pensiero impuro”, cioè un tipo di pensiero dove le astrazioni sono così mescolate ai fatti della vita che non possono sganciarsi da esse. Penso che il pensiero in generale, e in particolare ciò che purtroppo si chiama “filosofia”, debba per qualche tempo condurre una sorta di vita clandestina, solo per rinnovarsi. Per clandestina intendo dire celata dietro alle storie, agli aneddoti, in numerose forme che non sono quelle del trattato.77 Non è soltanto l’inclinazione al “pensiero impuro”, tuttavia, ad avvicinare Calasso a Nietzsche. Egli sembra pagare un debito nei suoi confronti anche in materia di scelte formali. “Il mio stile è una danza,” scriveva il filosofo in una lettera all’amico Erwin Rohde, “un giuoco di simmetrie di ogni tipo e un superamento e una satira di queste stesse simmetrie.”78 Similmente si potrebbe definire lo stile di Calasso, che ama giocare con i più diversi generi letterari e mescolare i livelli spazio-temporali. Con l’Opera si è posto l’obiettivo di testare quanto più possibile i limiti di questo gioco: “Vorrei che ogni mio libro fosse una forma che appare una volta sola,” spiegava a Elisabetta Rasy, “anche per questo hanno ciascuno un impianto così differente”.79 3.3 Ai margini del testo In effetti, da un punto di vista strutturale, gli undici volumi dell’Opera sono molto eterogenei. Trattandosi di opere in cui l’autore è anche il curatore editoriale, trovo interessante osservarne la composizione anche sotto l’aspetto paratestuale e constatarne l’effettiva diversità. Possiamo innanzitutto sottolineare come per ciascuna parte Calasso vari sempre il numero dei capitoli, e notare come in alcuni libri la narrazione sia intervallata da un certo numero di epigrafi, che si fanno più rare in altri e mancano del tutto in altri ancora. Il vasto bacino delle citazioni di cui Calasso infittisce i suoi libri è corredato al fondo dei volumi da un repertorio delle fonti. Questa impostazione, come già accennato, è riproposta in ogni parte dell’Opera a eccezione dell’ultima, e sembra essere la prediletta anche per la pubblicazione degli scritti di molti autori del catalogo adelphiano. A tal proposito ci viene in soccorso Calasso stesso quando illustra, in un intervento contenuto nella Follia che viene dalle Ninfe, l’assenza di esponenti di nota: Gli esponenti di nota sono un fastidioso ostacolo in particolare per la narrazione: il suo flusso non accetta l’intrusione di elementi esterni. Già questo indica qual è l’elemento irrinunciabile nel libro: le storie. (FVN, p. 103) Questa opzione per gli apparati è una delle caratteristiche peculiari del “libro unico”. Le implicazioni ermeneutiche di questa scelta sono state messe in luce da Shorrock. È evidente che, da un lato, essa comporti una disparità di accesso alle fonti fra lettore e narratore, soprattutto considerato il fatto che soltanto le citazioni puntuali vengono riportate nel repertorio, mentre le allusioni indirette sono celate nel testo. È questo, per esempio, il caso dell’incipit di Ka in cui, come ha notato Wendy Doniger,80 su una scena ripresa dal Mah ābhārata si innesta senza soluzione di continuità un racconto inventato da Calasso. Dall’altro lato, mi sembra chiaro che Calasso desideri agevolare l’immersione del lettore nel testo ed evitare che esca dal flusso della narrazione per andare alla ricerca dei suoi riferimenti. L’uso insistito di citazioni è un elemento ineludibile della prosa calassiana, come ha sottolineato Alberto Manguel; al quale non sfugge che, inserendo le citazioni nel continuum della narrazione, Calasso le fa sue e le trasforma, interpretandole nell’ottica del proprio discorso. Così, le sue opere sembrano adagiarsi sulla corrente di quell’“onda mnemica” descritta nella Letteratura e gli dèi: Calasso pensa per mezzo di citazioni, un processo che Karl Kraus definiva “mettere il mio tempo fra virgolette” e che Aby Warburg descriveva come “onda mnemica”. Rimossa dal suo contesto originale, gettata nella vasta sacca della memoria letteraria di Calasso, appaiata a testi con i quali il lettore non aveva immaginato una connessione, una citazione diventa in questo rimaneggiamento la sua stessa esegesi.81 La frastornante rapidità dei salti concettuali e dei cambi di scenario della Rovina di Kasch viene preservata in tutti i volumi dell’Opera, in osservanza dell’imperativo analogico. A partire dalle Nozze, tuttavia, Calasso introduce nei suoi libri l’indice dei nomi, dei luoghi e delle opere. È uno strumento che aiuta il lettore a orientarsi, se non altro retrospettivamente, nella selva di personaggi storici e mitici che popolano il racconto. La consultazione di queste appendici ci permette di ripercorrere i loro movimenti all’interno del grande arazzo calassiano e di valutare la frequenza delle loro comparse. Un’altra caratteristica del volume dell’88 – che interessa però soltanto la sua ristampa, modellata sull’edizione americana per Knopf – è la presenza di immagini a corredo del testo. Dalle Nozze in avanti, infatti, Calasso si cimenta in quell’arte dell’“ecfrasi a rovescio” con cui vengono scelte le illustrazioni per le copertine Adelphi (IE, p. 24): quell’arte, cioè, di accompagnare con il giusto impianto iconografico il contenuto testuale, facendo in modo che i due si completino senza rivaleggiare.82 Infine, oltre all’elenco delle fonti e all’indice dei nomi e delle opere, in Ka e nell’Ardore Calasso fornisce un glossario per i vocaboli più importanti e addirittura una Nota sulla pronuncia dei termini sanscriti, utile a restituire al lettore le sonorità proprie dei testi presi in esame. 3.4 L’autoconsapevolezza del testo Per quanto riguarda i contenuti testuali, La rovina di Kasch è senza dubbio l’opera in cui la prosa calassiana esalta massimamente la sua attitudine al pastiche e alla commistione di piani spazio-temporali. La spinta analogica che, come abbiamo visto, Calasso predilige quale criterio compositivo è portata al massimo grado. In questo libro, come ha scritto Pietro Citati, “tutto riecheggia in tutto: la capacità di associazione e di variazione è spesso portentosa”.83 Sebbene nel cuore del racconto ci sia un determinato periodo storico, la narrazione non ha un impianto storiografico e si muove in maniera “intemperante ed erratica” tra i luoghi e i tempi più diversi: La storia di cui qui si parla è “sinottica e simultanea”, è lo smisurato tappeto senza margini dove “è possibile giustapporre e annodare strettamente, sotto lo sguardo, gli avvenimenti più disparati o i più distanti”, dove i fatti e i fantasmi dei fatti rimangono perpetuamente avvinti in un letto di tortura e di piacere, dove le forme e le forze non riescono a districarsi, dove lo sguardo è sempre esposto al “pericolo terribile di toccare i simboli”. Qualsiasi giudizio è qui un filo perduto nel groviglio del tappeto e la sua unica pretesa è quella di aggiungersi con il suo tenue colore all’intreccio del tutto.84 (RK, p. 62) Rispetto alla Rovina, il secondo volume si muove in maniera più sinuosa e, malgrado la preponderanza del criterio analogico, con scarti concettuali meno disorientanti. Ci troviamo sempre all’interno del tempo senza tempo del mito. La frase “ma com’era cominciato tutto” ritorna ciclicamente, a simboleggiare la continua espansione delle storie in tutte le loro varianti, e il tentativo di restituirle alla vertigine originaria. Le nozze di Cadmo e Armonia è un libro ciclico e circolare, che si apre e si chiude sulla stessa scena; il simbolo più ricorrente è quello della collana, figura della Necessità. Anche Ka presenta un andamento di questo tipo: il libro si chiude infatti sulla scena e sulla sillaba con cui tutto è iniziato. Una girandola di doppi popola le pagine di questi volumi, perché nel mito le figure si moltiplicano come in un corridoio di specchi, e su simili giochi è impostata ogni narrazione: se zeus rapisce Europa sotto forma di toro, poi la affida a un altro toro, Talos. Fedra e Arianna, Io e Pasifae sono tutte varianti della stessa immagine, fotografata da angolature differenti. Ogni personaggio, eroico o divino, si rivela doppio per la costitutiva compresenza di inconciliabili che caratterizza il discorso mitico, non rispondente al principio di non contraddizione. Il taglio narrativo è senza dubbio preponderante, al punto che i personaggi storici che compaiono sulla scena vengono trattati esattamente come le figure del mito. È questo, per esempio, il caso di Johann Jakob Bachofen: lo storico-antropologo svizzero viene messo a diretto contatto, nella narrazione, con i propri oggetti di studio: Ma Bachofen guardava con altro occhio le quarantotto fanciulle. A lui non apparivano fra le ombre infere, ma in un paesaggio primordiale, di canne e paludi, là dove il Nilo si dirama in tante bocche e penetra nella terra assetata. Le Danaidi erano venute dall’Africa nel luogo più riarso del Peloponneso, portando il dono dell’umidità. Anche la loro antenata, Io, amava mostrarsi con una canna in mano, creatura della palude. Per Bachofen, quell’eterno versare acqua in un recipiente senza fondo non aveva nulla di vano e disperante. Al contrario, era quasi un’immagine della felicità. (NCA, p. 83) Ci troviamo insomma di fronte a libri che creano miti sulla stessa mitologia e sui suoi studiosi. Da un lato Calasso tratta le figure del mito quali personaggi di un romanzo, come nel caso di questo passaggio su Oreste: E alla fine giunse il momento in cui Oreste si introdusse nel palazzo di Micene con l’inganno e uccise la madre e l’amante: il delitto fu facile, come una scena provata da anni e anni, che gli attori hanno fretta di concludere per tornare a casa. (NCA, p. 217) Dall’altro lato, in particolar modo nelle Nozze di Cadmo e Armonia, Calasso riflette lungamente sul rapporto fra mito e romanzo: “L’azione romanzesca tende, come verso il suo paradiso, all’inclusione dell’opposto, che il mito possiede per diritto di nascita” (NCA, pp. 315-316). Al contempo, mette in discussione anche il proprio ruolo di mitografo, intercalando al racconto alcune parentesi metanarrative: Il mitografo vive in una perenne vertigine cronologica, che finge di voler sanare. Se su un tavolo mette ordine fra generazioni e dinastie, come un vecchio maggiordomo, che conosce gli affari di famiglia meglio dei suoi padroni, allora si può esser certi che su un altro tavolo il groviglio intanto si accresce e i fili si imbrogliano. Nessun mitografo è riuscito a comporre la propria materia in una sequenza coerente, eppure tutti si sono proposti di fare ordine. In questo, erano fedeli al mito. (NCA, p. 316) Quasi a tradurre su carta il misterioso meccanismo mentale che ci rende consapevoli di noi stessi – un argomento che, come vedremo, è al centro dell’Opera –, i libri di Calasso esplicitano spesso la propria natura di libri. L’incipit della Rovina, con Talleyrand che asserisce di parlare “sulla soglia di questo libro”, ne è un esempio eloquente. Benché sia accostabile a meccanismi tipicamente postmoderni, questa tendenza è stata ricondotta da Wendy Doniger a modelli molto antichi: l’indologa metteva in luce, a proposito di Ka, come Calasso fosse riuscito a integrare nella propria narrazione l’autoconsapevolezza della propria natura testuale, in perfetta sintonia con le fonti vediche.85 A tal riguardo, nell’Ardore, si sottolinea come nei due testi più citati all’interno del libro, il Mah ābhārata e lo Śatapatha Brāhmaṇa, il presunto autore sia anche un personaggio dell’opera stessa, “l’occhio in cui si riflette l’occhio che legge” (A, p. 46). 3.5 Scelte formali e ambiguità Se i paratesti e le strutture compositive variano, lo stile di Calasso sembra attraversare gli anni della costruzione dell’Opera pressoché immutato. Penso che la coerenza stilistica sia il più stringente anello di congiunzione fra i diversi volumi. Calasso non abbassa mai il suo livello di eleganza e ricercatezza formale, ma non impenna nemmeno verso virtuosismi sintattici o preziosismi lessicali; il registro è sempre alto, la lingua piana. Una delle sue caratteristiche più facilmente individuabili è l’inclinazione a pausare il discorso con frasi secche e assertive, dal taglio quasi profetico, proposizioni che definirei autoevidenti. Scelgo qualche esempio pescando in maniera casuale da opere che distano dieci anni l’una dall’altra (1996, 2006, 2016): Il repertorio dei gesti è limitato, i significati sono inesauribili. Così le stesse storie si ripetono e variano perché ogni volta si scopra, in una lenta rotazione, una nuova terra e un nuovo cielo dei significati. (Ka, p. 73) Perché Veronese è la pittura, per chiunque. È il fondo remoto, rigoglioso e dorato da cui traboccano le immagini, senza la soma del significato. È il puro distendersi delle figure sulla superficie, come altrettanti tappeti srotolati. (RT, p. 66) Il mondo secolare non è soltanto indifferente al divino, ma ostile. Ricorda con quanta fatica se ne è svincolato, è obbligato a riconoscere che le proprie forme sono ancora quelle che il divino aveva coniato. A chi segue il divino è riservata una vita clandestina. (CC, p. 383) Questa caratteristica ha suscitato perplessità in alcuni critici: Manguel, per esempio, ha definito Calasso “un autore tendenzioso; lavora a colpetti di gomito e ammiccamenti, intrecciando immaginario e ragionamento, logica e metafora”.86 Tale “tendenziosità”, tuttavia, è per Calasso un elemento ineliminabile da qualsiasi processo conoscitivo. Per questo motivo, una conoscenza che si esprime per immagini e metafore si dimostra, sulla scia della lezione di Nietzsche, più fededegna. Un altro aspetto caratteristico delle opere calassiane è il particolare trattamento riservato ai personaggi storicamente esistiti che chiamano in causa. Che si tratti di artisti, scrittori o politici, Calasso tende a guardare alle loro vicende biografiche o alle loro opere come tratti significativi di un disegno più grande, a interpretarli come emblemi, attribuendovi un significato ulteriore a quello generalmente riconosciuto. Questo accade anche per i personaggi del mito e del romanzo. Buddha o Ovidio possono diventare così precursori del moderno,87 o della sua letteratura,88 Talleyrand “l’ultimo conoscitore delle cerimonie”.89 È stato notato come Calasso tenda a fare di alcune figure dei portavoce dei suoi punti di vista, citandoli in maniera selettiva o decontestualizzata. 90 Sunil Khilnani ha paragonato l’operazione compiuta da Calasso con i suoi personaggi alla tecnica pittorica dell’anamorfosi, che prevede la deformazione delle immagini al fine di ottenere, dalla giusta angolazione, un effetto di tridimensionalità; allo stesso modo, Calasso giustappone eventi, idee e fonti concedendo il loro significato soltanto da un punto di osservazione privilegiato. Mi sembra che Khilnani abbia centrato la questione intuendo che tale scelta riguardi l’ideale di letteratura di Calasso e l’implicita ambizione a creare un libro che rispecchi la complessità del cosmo: Calasso condivide l’ambizione di Proust di creare un’opera che vada oltre la letteratura: come “l’Anello” di Wagner o l’idea di Mallarmé di letteratura semplicemente come “Il Libro” emblematico della creatività dell’intero universo – in una parola, un’opera che racchiuda in sé tutto ciò che esiste.91 Proprio a tale ambizione si deve il tratto di enigmaticità che i critici riscontrano nella forma dei suoi libri. Oltre a questo, c’è senz’altro la volontà di applicare al proprio stile una formula che lui stesso utilizzava per descrivere la scrittura di Elias Canetti, il “pensare narrando” (QG, p. 227). Le opere di Calasso sono narrazioni continuamente intervallate da momenti di riflessione, o pensieri che si adagiano sui ritmi del racconto. In primo luogo questa scelta è figlia di una fede nella capacità del racconto di veicolare significato in modo più efficace di altre forme espressive: Le storie sono autosufficienti: se significati devono esserci, li trascinano con sé, come relitti nella corrente. E dalle storie si può giungere a tutto, anche a ciò che è più astratto o più segreto o più remoto. Non c’è acquisizione del pensiero che non possa essere raggiunta attraverso una storia.92 Simili considerazioni sembrano anche giustificate da una certa insofferenza per le canoniche forme argomentative e gli schemi retorici tradizionali, nella convinzione che, dove necessario, le idee vadano espresse in maniera indiretta e velata. Uno dei tratti che Calasso dichiara di amare in uno scrittore come Bruce Chatwin è proprio l’“ostilità per il concetto” (FVN, p. 105). Già nella Rovina di Kasch, a proposito dell’incipit del Nipote di Rameau, lasciava trasparire l’ammirazione per la libertà con cui Diderot esprimeva le sue idee, in una sorta di cavalcata a briglie sciolte: “Qui il più pervicace dei peccati, la delectatio morosa, non solo viene rivendicato ma elevato a metodo” (RK, p. 421). Non utilizzo a caso una metafora ippica: l’amore di Calasso per quel tipo di prosa ricorda l’apologia della velocità mentale, di cui la letteratura sola sa restituire il ritmo, elogiata da Italo Calvino nella sua “lezione americana” sulla Rapidità: La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura; tutte qualità che s’accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte.93 3.6 Enciclopedismo e passione aforistica Dispiegato per quanto possibile il “ventaglio di forme” messo in gioco da Calasso con la sua Opera, rimane l’imbarazzo di doverlo etichettare secondo un’indicazione di genere. Una dicitura quasi analoga alla già avanzata ipotesi di “racconti critici” viene da uno studioso statunitense che, in un lavoro sulle reminiscenze classiche nella narrativa italiana, parla dei libri di Calasso come critical fiction, ovvero un’anomala tipologia di fiction che sovverte le regole mostrandosi al contempo più autoriflessiva e consapevole.94 La scelta più saggia mi sembra in ogni caso di accantonare il problema dell’ascrizione a un preciso genere e accettare la natura composita di libri come quelli di Calasso, che costituiscono nel panorama contemporaneo soltanto uno fra i tanti esempi di contaminazione delle forme. Più di vent’anni fa, nel suo intervento In difesa del romanzo, Salman Rushdie si esprimeva in questi termini a proposito della vitalità della narrativa contemporanea, che a suo giudizio traeva giovamento da esperienze di ibridazione come quelle portate avanti da Calasso: Di fronte a un brillante tour de force di non-fiction come Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso, in cui la reinterpretazione del mito greco raggiunge tutta la tensione e l’entusiasmo intellettuale della migliore fiction, si può soltanto applaudire l’arrivo di una nuova tipologia di una saggistica creativa – o, meglio, il ritorno della giocosità enciclopedica di un Diderot o di un Montaigne. Il romanzo può dare il benvenuto a questi progressi senza sentirsi minacciato. C’è spazio per tutti qui.95 L’enciclopedismo – inteso, però, come inesausta divagazione nello scibile umano, e non come sistematizzazione di saperi all’interno di precise campiture – è del resto uno dei tratti fondamentali della letteratura assoluta. È anche una sua caratteristica antisociale, in un’epoca come quella moderna in cui ogni conoscenza deve essere finalizzata all’utile e ogni esplorazione porsi precisi obiettivi e altrettanto categorici limiti. A tenere insieme il groviglio dell’Opera sono un’attitudine mentale e una scelta formale. L’attitudine è, ovviamente, quella al pensiero analogico, che consente di accostare in maniera creativa lembi dell’esistente molto lontani fra loro. L’impianto narrativo, invece, è la scelta formale che garantisce coerenza nella discontinuità, mette ordine e fa procedere queste strane creature di carta e parole. Per chiarire tale delicato equilibrio mi soccorre un’immagine mitica cara a Friedrich Nietzsche, l’autore che ha un peso fondamentale nella formazione di Calasso. Sto pensando alla dicotomia creativa tra la vibrante, eccessiva natura di Dioniso e la sistematizzante, ordinata dottrina di Apollo. Anche sotto questo profilo, Calasso confermerebbe così la propria vocazione mitografica, dal momento che, per utilizzare le sue stesse parole: “Il mito non ammette sistema. E il sistema stesso è innanzitutto un lembo del manto di un dio, un lascito minore di Apollo” (NCA, p. 316). Entrambe le divinità sembrano in azione sugli strani oggetti narrativi che compongono l’Opera, in cui una materia apparentemente informe trova il modo di ordinarsi, di acquistare coerenza. Anche quando l’affastellarsi delle suggestioni sembra sopraffare il ruolo del narratore – si susseguono allora poesie, citazioni, lettere – subito egli riprende il controllo, riassesta il taglio saggistico, procede con frasi dal forte tono assertivo, che ristabiliscono l’idea di autorialità, mostrando la mente ordinatrice celata dietro il flusso, indicando una meta a cui tendere. Offro di seguito un paio di esempi, tratti dalla Rovina di Kasch, in cui il lettore delle altre opere calassiane potrà facilmente riconoscere una cifra stilistica che perdura: D’altra parte, ogni conoscenza è fisiognomica. (RK, p. 17) Gli esprits forts del XVIII sono diventati gli Homais del XIX e il buon senso del XX. (RK, p. 393) Con la tendenza aforistica96 della sua scrittura e con i continui scarti logici, Calasso si pone nel solco di molti dei suoi autori di riferimento. Ho già messo in rilievo le consonanze del suo stile con quello di Nietzsche, maestro di aforismi che nel Crepuscolo degli idoli attribuiva alla volontà di sistema una “mancanza di onestà”. In passaggi come quelli sopra citati, Calasso sembra sposare pienamente questa visione, quasi dovesse rivelare per barlumi una verità frammentata, che sfugge alla sistematizzazione. Lo sprazzo, il lampo improvviso, appare l’unico modo che la verità ha di esprimersi, di lasciarsi intuire. Per ragioni tanto estetiche quanto metafisiche, dunque, Calasso vede nel concetto una forma di alterazione della verità. L’ostilità per la spiegazione è a sua volta, come ha opportunamente segnalato Mario Andrea Rigoni,97 un’eredità della tradizione neoplatonica, estremamente importante per Calasso, che si mantiene viva ai giorni nostri per il tramite della letteratura ottocentesca. Onnivora per quanto concerne gli argomenti trattati; popolata di dèi; critica nei confronti della società moderna; sfrontata e ingannevole nei confronti del lettore, a cui richiede uno sforzo analogico per cogliere i nessi tra argomenti lontani; ossequiosa al solo imperativo formale: nessun concetto, a questo punto, sembra spiegare con maggior chiarezza la natura dell’opera calassiana di quello di “letteratura assoluta”. Letteratura assoluta: 4. Alla ricerca di uno sguardo sommario 4. Alla ricerca di uno sguardo sommario Glorificare il culto delle immagini (mia grande, mia unica, mia primitiva passione) Charles Baudelaire 4.1 Le immagini hanno una natura e una storia 98 Come accennato, Calasso correda gran parte dei libri dell’Opera di un repertorio iconografico da lui accuratamente scelto. È un processo che può in parte essere accostato a un compito, la selezione di immagini per le copertine, che in Adelphi ha svolto personalmente per lunghissimo tempo; lo racconta nell’Impronta dell’editore: L’editore che sceglie una copertina – lo sappia o no – è l’ultimo, il più umile e oscuro discendente della stirpe di coloro che praticano l’arte dell’ecfrasi, ma applicata questa volta a rovescio, quindi tentando di trovare l’equivalente o l’analogon di un testo in una singola immagine. (IE, p. 21) Questa delicatissima operazione analogica è stata declinata in modi diversi negli undici volumi dell’Opera. Per i primi quattro non era inizialmente previsto un apparato iconografico, e ne rimane priva La rovina di Kasch. Le nozze di Cadmo e Armonia, Ka e K., che non lo presentavano nella prima edizione, sono poi stati ripubblicati con inserti figurativi nei più significativi snodi peritestuali (inizio di volume e di capitolo, elenco delle fonti citate, glossari ecc.), secondo una modalità poi riproposta nell’Ardore. Il Cacciatore Celeste, L’innominabile attuale e Il libro di tutti i libri sono invece spogli. La Tavoletta dei Destini contiene un’unica immagine, fra il terzo e il quarto capitolo. Diversi sono i casi del Rosa Tiepolo e della Folie Baudelaire, in cui le immagini dialogano direttamente con il testo, inserendosi nella narrazione. Proprio raccontando la genesi del primo di questi due volumi illustrati, Calasso spiegava in un’intervista del 2007 a Umberto Eco che, lungi dall’avere un valore meramente esornativo, le immagini contenute in questi libri hanno un portato ermeneutico di primaria importanza: ECO. […] Che bisogno c’era di figure? Il tuo libro in realtà è un modello di ekfrasi, ovvero di resa delle immagini con il solo mezzo delle parole. Per l’edizione economica suggerisco di togliere tutte le illustrazioni. […] CALASSO. Qui siamo diversi. Per te le immagini sono nómos, regola e ragione. Per me sono phýsis, hanno una natura e una storia loro propria.99 Per comprendere appieno il significato di questi corredi figurativi è necessario guardare all’Opera nella sua interezza. Soltanto così queste immagini si rivelano parti integranti del percorso che con i suoi undici volumi – a cui si deve aggiungere L’impuro folle, anch’esso illustrato – Calasso desidera portare avanti. 4.2 Illustrazioni e simulacri È perciò fondamentale interrogarsi su quale significato Calasso attribuisca alle immagini in sé. È lui stesso a spiegarlo, in un saggio messo in appendice alla ricca riedizione delle Nozze di Cadmo e Armonia uscita nel 2009 come pubblicazione fuori collana. Si tratta di una terza versione del volume del 1988, già nel 2004 ripubblicato con immagini provenienti soprattutto dal repertorio iconografico di Bernard de Montfaucon. In questa nuova proposta, Calasso porta il numero degli inserti da 12 a 384. Il bacino di selezione delle immagini è allargato alle arti di ogni tempo, dai sigilli minoici alla pittura del Novecento; ogni capitolo si apre con una xilografia dall’edizione aldina dell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna e il testo viene seguito da un breve saggio dal titolo Lo sguardo sommario. Questo scritto parla di un libro che Gottfried Benn racconta di aver sfogliato in caserma durante il Secondo conflitto mondiale: una raccolta di figure femminili nell’arte europea. Da tale lettura Benn viene colpito al punto da trarne una sezione fra le più ispirate del Romanzo del fenotipo. In una lettera a un amico, Benn formula a riguardo un’ipotesi: alla base dell’ispirazione letteraria c’è uno “sguardo sommario”, cioè uno sguardo che “scarta i passaggi, toglie via i secoli, le filologie, le categorizzazioni” (NCA2009, p. 483). Quello che è successo a Benn, secondo Calasso, è di essere stato colpito, scorrendo le pagine del libro, dalla “massa visionaria” delle sue figure: “Era un accenno al modo primario e primordiale in cui si manifestano e agiscono le immagini, precedente – in senso metafisico e psichico – al loro disporsi in drappelli nei recinti della storia” (NCA2009, p. 485). Ogni nostro rapporto con le immagini si spiega, secondo Calasso, solo comprendendo come esse siano inscritte nella nostra conformazione psichica. Nell’Opera la mente viene a più riprese associata a una superficie liquida, sul modello di una scena contenuta nel Ṛg Veda in cui la materia mentale è presentata come indistinta distesa d’acqua.100 La fisionomia della mente è uno dei temi più importanti dell’Opera, che tratterò in maniera approfondita nella Seconda parte di questo libro; per il momento, accenno soltanto al fatto che questa visione “fluida” della mente influenza anche la concezione calassiana del pensiero. Dalle acque della psiche, infatti, in ogni momento e in maniera imprevedibile, possono emergere delle figure: Prima di rivestirsi con un qualsiasi altro nome – fosse anche divino –, ogni immagine è un fantasma mentale. E, dopo aver circolato per il mondo assumendo epiteti, etichette, funzioni e poteri, e depositandosi in simulacri, alla fine torna a immergersi nel continuo mentale. (NCA 2009, p. 485) La forma primigenia del pensiero, per Calasso, è proprio quella racchiusa nei profili che si stagliano improvvisamente sul fluido mentale; tale modalità si manifesta nella nostra capacità di intuire corrispondenze fra gli oggetti più disparati, di creare analogie, di andare oltre i dati sensibili. Il pensiero rivela quindi una natura fantasmatica, perché la mente è un luogo di epifanie, che sono una sua forma primordiale, ancora non articolata in parole. Uno dei tratti caratteristici dell’“innominabile attuale” è per Calasso proprio il mancato riconoscimento del portato cognitivo delle immagini; l’indifferenza generale nei confronti di tale portato motiva la fiera rivendicazione di autonomia delle immagini stesse indirizzata a Eco. In un’intervista successiva alla pubblicazione della versione speciale delle Nozze, Calasso lamentava proprio l’insensibilità del mondo contemporaneo nei confronti delle immagini: È un vecchio e un po’ comico luogo comune quello della “civiltà dell’immagine”. Che ha senso solo se si intende come “civiltà della produzione ininterrotta di immagini”. Mentre, se si parla della comprensione delle immagini, credo che la nostra dovrebbe essere considerata una delle civiltà più rudimentali.101 Vivendo in un continuo proliferare delle immagini, il nostro tempo ha perso la capacità di riconoscerle come simulacri, abitanti evanescenti della nostra psiche; esse vengono recepite come dati inerti e non indagate ulteriormente. In un certo senso allora, la rassegna di immagini pregnanti, accuratamente selezionate, nell’Opera mira a riaccendere nella mente del lettore, attraverso il potere delle figure stesse, una rete di connessioni che strutturalmente le appartiene. Noi non possiamo rinunciare a quel particolare tipo di pensiero meticciato con le immagini: la possibilità del pensiero analogico, insita nella conformazione della nostra psiche, ci è data in modo permanente. 4.3 Il primo esperimento con le immagini: “L’impuro folle” Il potenziale infinito della mente, con la sua estrema pericolosità – può infatti portare il soggetto a perdersi fra i propri fantasmi – è da sempre al centro degli interessi di Calasso. Nell’Impuro folle, il delirio del presidente Schreber è connesso al suo particolare rapporto con le immagini. L’influsso conturbante di queste ultime deve agire anche sul lettore; perciò, fin dalla prima edizione, una serie di inserti figurativi inframmezza la narrazione, pur non mescolandovisi come nei volumi degli anni zero: le immagini si trovano infatti su un diverso tipo di supporto – pagine in carta lucida e patinata che si inseriscono fra le consuete adelphiane, opache e dalla grammatura pesante –, accompagnate da una didascalia che indica il luogo del testo in cui sono state, per così dire, evocate. Nell’Impuro folle le figure interagiscono con il contenuto del libro in maniera originale e vi apportano un sovrappiù di senso, come è chiaro fin dalla prima fotografia che vi compare, un ritratto dello psichiatra tedesco Flechsig, medico curante di Daniel Paul Schreber, della quale viene subito indicato il valore “allegorico”: “Il Professore è il maligno Demiurgo-Mediatore, pensoso e severo” (IF, p. 27). Questa modalità di rapporto con il lettore è particolarmente congeniale all’Opera e massimamente adatta ai volumi più direttamente incentrati su quel “pensiero per immagini”, per utilizzare una definizione cara a Italo Calvino,102 che è il mito; così, la versione deluxe delle Nozze di Cadmo e Armonia, pur nella singolarità del suo formato, è per Calasso la sola che corrisponda davvero al testo: Le Nozze nella versione con immagini è un libro impossibile secondo i criteri attuali (per i costi, il formato, l’impostazione), ma al tempo stesso quella forma era l’unica che corrispondesse al testo. Per l’autore, è un libro parallelo, una variazione del tutto autonoma rispetto al testo originale. Del resto, il rapporto con l’immagine effettivamente mi accompagna fin dal mio primo libro, L’impuro folle, che è del 1974 e già allora si presentava come un romanzo con immagini, anche piuttosto sconcertanti, intercalate al testo. Più tardi, con Il rosa Tiepolo e La Folie Baudelaire, quel rapporto sarebbe diventato ancora più evidente.103 4.4 Il dialogo fra testo e immagini nel “Rosa Tiepolo“ e nella “Folie Baudelaire” Come accennato, i primi libri dell’Opera a presentare un vero e proprio dialogo fra testo e immagine sono Il rosa Tiepolo e La Folie Baudelaire, che costituiscono il momento di maggiore approfondimento del problema delle immagini nella modernità. Entrambi sono incentrati sulle opere di pittori “moderni”: se La Folie Baudelaire racconta il mondo degli Impressionisti e degli albori della fotografia, nel volume a lui dedicato Tiepolo è descritto come l’alfiere di una modernità di segno baudelairiano che precorre i tempi (cfr. RT, p. 43). Per Calasso “il vero moderno che prende forma in Baudelaire è questa caccia alle immagini, senza inizio né fine, pungolata dal ‘demone dell’analogia’” (FB, p. 27); la cifra del suo tempo, infatti, è lo slittare dei più importanti significati teologici, filosofici e scientifici nel puro regno dell’apparenza. Si tratta, ancora una volta, di quel processo di “emancipazione dell’estetico”, di chiara ascendenza nietzscheana, di cui Calasso si occupa diffusamente nella Letteratura e gli dèi. Durante il periodo che affonda le sue radici nel Settecento di Tiepolo, la società secolarizzata comincia a dare maggiore spazio a un tipo di pensiero “digitale”, cioè operativo: privilegia quel polo mentale che organizza la conoscenza in una serie di dati utili e scarta tutti quelli non finalizzati a uno scopo preciso, tralasciando di considerare il polo analogico. Un tema ricorrente nell’Opera, essenziale nel Rosa Tiepolo e nella Folie Baudelaire, è proprio la centralità dell’analogia, processo mentale costitutivamente legato alle immagini, meccanismo per cui la psiche è invasa da una ridda di simulacri. Non a caso Il rosa Tiepolo si apre con una citazione di Leibniz sulla “concatenazione delle cose dell’Universo” (RT, p. 13), mentre La Folie è dedicata al più acuto ricercatore delle “corrispondenze”, che vedeva nell’analogia la sola forma di conoscenza che potesse interessarlo. Sono due libri intrisi d’arte e ricchi di riflessioni sui significati profondi della pittura; soprattutto rispondono, come e più dei volumi precedenti, a un criterio compositivo squisitamente analogico. L’opera e la vita del pittore veneziano e quelle del poeta dei Fiori del male si intrecciano alle trame del loro tempo, si riverberano su quanto verrà dopo, o si scoprono nel solco di un passato remoto: pensiamo ai serpenti del Mah ābhārata (cfr. RT, p. 132) che Calasso rintraccia in Tiepolo, o ai cammei alessandrini popolati di dèi di Rimbaud (cfr. FB, p. 291). Il lettore è chiamato a partecipare dell’universo mentale dei protagonisti, accomunati in primo luogo dall’iconolatria. Tiepolo non è soltanto un pittore pieno di grazia, un artista “decorativo”; coltivava, secondo un’acuta definizione di Giorgio Manganelli, una “naturale reverenza verso l’immagine”.104 Questa caratteristica lo avvicina immediatamente a Baudelaire, convinto assertore dell’“idolatria” dei poeti.105 Una simile passione non può essere neutra: vi corrisponde giocoforza un’intensa percezione dei propri stati mentali. Tra i tanti pittori contraddistinti da un amore viscerale per le immagini, nella Folie Calasso si sofferma in particolar modo su Ingres, descrivendolo come un uomo tutto dedito all’immagine, oggetto di una “sottomissione servile al visibile” (FB, p. 108). A tale sottomissione anche il lettore dev’essere indotto; perciò, come ha notato Pietro Citati, tutto il libro del 2008 sembra scorrere attraverso gli occhi di Baudelaire. 106 Evidente è la ricerca dello sguardo del lettore, che deve lasciarsi invadere da queste figure, e riconoscerle; prendendo l’ispirazione da un maestro dell’ecfrasi come Baudelaire, Calasso cerca di praticare la stessa arte al rovescio, trascinando l’osservatore, con la scrittura e la giustapposizione di figure, in un vortice di richiami, creando una rassegna di immagini da cui, come ha scritto Rolando Damiani, “ci viene quasi una scienza ottica per avvistare il mistero dei Fiori del male”.107 L’idolatria è per Calasso anche un elemento essenziale della letteratura assoluta, “come se la scrittura fosse innanzitutto un’opera di trasposizione da un registro all’altro delle forme” (FB, p. 23). È come se gli scrittori fossero in grado di veicolare il portato misterioso e metamorfico delle immagini mentali nella forma chiusa e perfetta dell’opera letteraria. Di alcuni di loro, del resto, rimangono anche testimonianze per immagini: disegni che esprimono in modo coerente il loro universo interiore, aggiungendo alle prove letterarie sfaccettature inedite e importanti. È il caso di Baudelaire, di cui nella Folie si ripropone un autoritratto, o di Kafka, del quale si ammirano, nell’edizione aggiornata di K. che segue di due anni la prima, alcune chine.108 Quanto al modo in cui le immagini vengono commentate nel testo, come nota Pierluigi Pietricola a proposito del Rosa Tiepolo, nelle descrizioni dei dipinti o degli affreschi presentati “Calasso non bada all’essenza visiva della scena descritta, quanto alla sua trasfigurazione psicologica”109; ciò accade anche e soprattutto perché Calasso è un convinto assertore dell’autonomia di significato delle immagini e della loro capacità di nascondere sulla superficie, parafrasando Hofmannsthal, dei significati profondi.110 Calasso è consapevole, soprattutto, della componente esoterica della pittura, della quale ritiene Tiepolo un maestro: i Capricci e Gli Scherzi sono “quanto di più esoterico si concesse l’epoca che più di ogni altra fu nemica del segreto” (RT, p. 104). L’antinomia fra nascosto e manifesto è molto presente nell’Opera, che è fortemente intrisa di esoterismo. 4.5 I due volumi fuori collana Sono senza dubbio i due volumi fuori collana a fornirci più spunti di riflessione. Innanzitutto vi si può osservare, ancora una volta e per il tramite delle sole immagini, la fitta coesione interna dell’Opera: nell’edizione speciale delle Nozze compaiono la riproduzione di un fregio calcareo di Taranto e uno schema illustrativo dei diversi tipi di Iynx contenuti nel libro di Cook su zeus che Calasso aveva già utilizzato per il paratesto della riedizione del 2004; ritornano poi le riproduzioni prese dal Lexikon di Roscher, altro serbatoio di quel primo esperimento. Nel quarto capitolo dello stesso libro troviamo un collegamento con Il rosa Tiepolo e La Folie Baudelaire: una Briseide condotta da Agamennone del pittore veneziano fa sfoggio di sé proprio accanto al Giove e Teti di Ingres. Similmente, nella riedizione della Folie Baudelaire, il cui repertorio visivo viene notevolmente implementato – 281 immagini a fronte delle 52 di partenza –, compaiono alcuni dei soggetti mitologici di cui nelle Nozze si tessono le storie. Meritano approfondimento e riflessione le motivazioni che guidano le scelte iconografiche dell’autore-editore. È facile intuire la ragione per cui, nel terzo capitolo delle Nozze, le pagine dedicate al confronto degli amori maschili con quelli femminili siano costellate di scene con erástai ed erómenoi, perlopiù tratte dalla pittura vascolare del V secolo a.C.; a esse fa seguito uno scatto del 1937 di Herbert List che raffigura una Statua di marmo da Anciterra, nudo maschile dalla grande carica sensuale; tali immagini precedono una serie di inserti erotici al femminile, fra cui un’immagine scattata dallo stesso autore, il dettaglio di una Afrodite conservata al Louvre. L’affastellarsi di questi stimoli visivi risulta coerente con il motivo conduttore, carico di erotismo, della possessione divina. Meno immediato appare l’accostamento, in due pagine centrali dello stesso volume, di una testa di Platone del V secolo a.C. e di un ritratto di Rita Hayworth nei panni di Gilda in una scena dell’omonimo film di Charles Vidor del 1946. Le ragioni di un simile confronto si ritrovano in un articolo pubblicato da Calasso su “Panorama” nel 1977 e raccolto nella Follia che viene dalle Ninfe. Lo scritto racconta la migrazione degli dèi nel cinema, un mondo luccicante che ha il potere di generare simulacri psichici di intensità paragonabile alle ombre sulla caverna platonica: “Nel cinema i fantasmi diventano cosa” (FVN, p. 69). Calasso ha dichiarato in più occasioni di essere stato un fedelissimo cinefilo 111; la sua passione nasce dalla convinzione che questa forma d’arte sia capace di manipolare al massimo grado la materia mentale e di folgorarla con le sue apparizioni, offrendole qualcosa a cui, in un mondo ormai privo di dèi, può attaccarsi come a un feticcio: Quel feticismo che per Marx era un contrassegno primario del “mondo delle merci” è in realtà il feticismo di tutto, perché il magazzino delle merci è diventato il cosmo stesso, e noi ne siamo dunque un’infima parte. Ora, il cinema mette nella condizione di poter utilizzare come feticcio la totalità dei fantasmi psichici, che del feticcio sono comunque e sempre il materiale. (FVN, p. 68) Così, il “guanto di Gilda” da cui prende il titolo l’intervento, che è al tempo stesso un oggetto, un fantasma feticistico e un’allucinazione generalizzata, rappresenta per lo meno uno strass del mito. E lo intendo in senso letterale: bisognerà decidersi, un giorno, a capire che le star sono astri, come lo erano Andromeda e le Pleiadi e tante altre figure della mitologia classica. (FVN, pp. 69-70) Questa dichiarazione può spiegare soltanto in parte l’accostamento, nella versione accresciuta della Folie, di una celebre immagine di Marlene Dietrich vestita da uomo in Marocco di Josef von Sternberg (FB2012, p. 58) e di un’acquaforte di Manet che ritrae Baudelaire di profilo mentre indossa un cilindro simile. La vicinanza dei due soggetti attiva la rete delle connessioni, e il lettore può ritrovarvi, senza che il testo ne faccia menzione, allusioni al femminino in Baudelaire, alla sua eleganza anticonvenzionale, o all’ambigua natura del moderno. Differentemente da quelle contenute nell’originale, le figure selezionate per la riedizione non appartengono soltanto al periodo interessato dall’intreccio del libro: dai rilievi egizi provenienti dalla tomba di Tutankhamon alle opere di Léon Spilliaert, esse seguono lo stesso criterio analogico che guida il movimento della narrazione: anche in questo caso, a evocarle non è quindi un’attinenza meramente contenutistica al testo, ma un’affinità che si sostanzia nelle immagini stesse, intraducibile a parole. Non mancano le fotografie dei protagonisti, scelte soprattutto per il loro portato emblematico; c’è in Calasso una sorta di fede fisiognomica, connessa alla rilevanza cognitiva che attribuisce alle immagini. I ritratti di Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Renoir, Proust, Fondane e molti altri ci accompagnano nella lettura, latori di significati che possiamo individuare soltanto scrutando i loro volti. Il confronto fra quello del direttore del quotidiano “Le Siècle” tanto odiato da Baudelaire e quello di Karl Kraus deve suggerire, per il solo tramite della differenza di sguardi, l’idea di una diversità ineliminabile nella loro Weltanschauung; lo stesso effetto straniante è ottenuto dall’accoppiamento del medagliere del generale Aupick con il manoscritto del Mio cuore messo a nudo di Baudelaire (FB2012, pp. 170-171). Molti altri sono gli accoppiamenti che, per la sola forza delle immagini che dialogano fra loro, suscitano riflessioni e voli pindarici: all’inizio del secondo capitolo (FB2012, pp. 100-101), vediamo appaiate due opere di Ingres: una Vergine nuda del 1859 e un’Odalisca dormiente realizzata fra 1810 e 1830; i dipinti potrebbero da un lato rappresentare la commistione, che Calasso considera tipicamente ottocentesca, fra demi-monde e ritorno degli dèi, dall’altro alludere alla promiscuità del divino, secondo l’assunto baudelairiano del Mon coeur mis à nu per cui Dio è “l’essere più prostituito”.112 A una serie di ritratti femminili del XIX secolo può così fare seguito una fotografia di Ellen von Unwerth, celebre fotografa di moda contemporanea. Calasso invita il lettore a rintracciare il senso di quelle aggiunte in una noterella in coda agli indici: Come già nel 2008 con Le nozze di Cadmo e Armonia, si trattava di espandere e articolare il repertorio di immagini intessute al libro e connesse ciascuna a uno o più dettagli del testo. Chi vorrà dedicarsi a questo gioco di corrispondenze, potrà farlo sapendo che in ogni singolo caso troverà una risposta. Se un rilievo egizio proveniente dalla tomba di Tutankhamon può essere affiancato a una fotografia di Ingres secondo l’opinione di Thoré Bürger per cui il pittore del Bagno turco era entrato in contatto con la “pittura primitiva dei popoli orientali” (FB2012, pp. 106-107), la Sezione verticale di un sotterraneo della casa gotica di Jean-Jacques Lequeu, messa all’inizio del capitolo incentrato sul sogno di Baudelaire (FB2012, p. 168), può forse far riferimento alla discesa nell’inconscio. Nella stessa sezione del libro, troviamo l’Interno del Soane’s Museum di Londra di Joseph Michael Gandy, un inchiostro e acquerello della serie Figures lascives di Jean-Jacques Lequeu che rappresenta una donna nuda affacciata alla finestra e un’incisione di Vivant Denon che raffigura un satiro e una ninfa: tutto concorre a una costruzione per immagini del bordello-museo in cui ci troviamo. Un seno nudo, Bellezza svelata di Sarah Goodridge, all’inizio del quarto capitolo (FB2012, p. 168), può rappresentare il concetto di rivelazione, così come alludere – se pensiamo che si tratta di un autoritratto regalato dalla pittrice a un politico suo corrispondente – alla necessaria prostituzione dell’artista, altro caposaldo baudelairiano.113 Già nel 1971, prima quindi di iniziare il suo poderoso arazzo di testi, Calasso, commentando Adorno, ricordava che la categoria centrale dell’arte è l’enigma, e citava un passo della Teoria estetica: “Tutte le opere d’arte, e l’arte nel suo complesso, sono enigmi; ciò ha irritato la teoria dell’arte fin dai tempi antichi. Il fatto che le opere d’arte dicono qualcosa e nello stesso tempo lo celano designa il loro carattere enigmatico nella prospettiva del linguaggio” (QG, p. 100). A questa dimensione misteriosa alludono alcune delle figure contenute nella riedizione della Folie Baudelaire; pensiamo, per esempio, alle numerose incisioni provenienti dall’Ars magna di Athanasius Kircher, scienziato e filosofo dalla cultura enciclopedica, appassionato di geroglifici egizi e avverso al razionalismo cartesiano; alla riproduzione della Tavola smeraldina, testo cardine delle dottrine ermetiche; o, ancora, al riferimento allo scienziato, alchimista e occultista britannico del XVII secolo Robert Fludd. Le immagini affascinano Calasso proprio per la capacità di nascondere sulla loro superficie una infinità di significati e connessioni, soddisfacendo quella dialettica fra manifesto e nascosto fondamentale nell’affresco dell’Opera. La loro presenza costringe inoltre il lettore a riaccostarsi anche alle fonti più note, come l’Olympia di Manet o Il bagno turco di Ingres, attraverso il filtro dello sguardo dello scrittore: il che assume un significato particolare in un’opera in cui l’istanza autoriale tende spesso a nascondersi fra le pieghe della narrazione. 4.6 L’influenza di Aby Warburg Un riferimento imprescindibile per orientarsi fra le immagini dell’Opera è costituito dagli studi di Aby Warburg; non sembra un caso, in effetti, che con La Folie Baudelaire Calasso abbia conquistato il premio della Warburg Haus di Amburgo. In un certo senso, nella disposizione di quadri delle opere calassiane possiamo ritrovare qualcosa di Mnemosyne, il grande “atlante dei simulacri” (FVN, p. 40), l’incompiuto progetto warburghiano di catalogare alcuni “gesti” umani creando un insieme di pannelli con montaggi fotografici di opere d’arte, celebrando l’immagine e il suo portato storico-culturale tramite l’immediatezza della loro giustapposizione. Calasso spiega nella Letteratura e gli dèi il suo interesse per il flusso di quella che Warburg chiamava “onda mnemica”, cioè l’impatto del passato sopraindividuale sull’opera degli artisti di una determinata epoca. Fin dalla Rovina di Kasch mostra di voler seguire le metamorfosi degli dèi e il loro riemergere dal ricco serbatoio del passato come vivide immagini mentali costrette ad agire in incognito. Calasso è inoltre affascinato dal concetto warburghiano di Pathosformel, cioè dall’idea che esista un repertorio di forme che tende a riproporsi nel tempo, cui gli artisti attingono per veicolare contenuti personali, in un indissolubile intreccio fra carica emotiva e formula iconografica. Il potere che si rovescia in determinate immagini attraversa le epoche: per quanto l’osservatore possa non credere più alla loro forza mitico- religiosa, qualcosa in lui rimane legato alle immagini.114 In questo senso mi sembra che si possano leggere le numerose carrellate di soggetti mitologici che popolano sia La Folie Baudelaire sia Le nozze nella versione del 2009. Pensiamo alle tante variazioni sul tema del ratto di Europa, con cui il volume ha inizio: gli esempi proposti spaziano dall’arte antica (Selinunte, Pompei…) a quella del Novecento (Félix Vallotton e Max Beckmann). Questo tipo di manifestazioni rimanda, ancora una volta, a un’idea della conformazione psichica che affascina immensamente Calasso. “Si crea una distanza tra ‘formula del pathos’ e raffigurazione,” scrive nella Follia che viene dalle Ninfe, “distanza che è contrassegno della memoria, della presenza fantomatica di ciò che riemerge” (FVN, p. 38). Pensiamo per esempio all’analisi che, nella Folie Baudelaire, Calasso conduce sul Giove e Teti di Ingres: nel quadro Calasso rileva una tensione erotica fortissima, una perfetta riemersione dell’inappagato desiderio sessuale di zeus, impossibilitato ad accoppiarsi con la dea destinata a generare un figlio “più forte del padre”: Che Ingres fosse consapevole del legame nascosto fra zeus e Teti non è affatto sicuro. Anzi è altamente plausibile che lo ignorasse. Ma le immagini mitiche vivono di una forza propria – e possono guidare il pennello di un pittore così come il delirio di uno schizofrenico. (FB, p. 119) Non a torto, dunque, Marc Fumaroli ha definito Calasso “l’Aby Warburg italiano”115: nel raccontare il ritorno degli dèi nella letteratura, Calasso tiene certamente presenti gli studi warburghiani sulla reviviscenza dell’antichità pagana. A Warburg ricondurrei anche l’interesse di Calasso per quei pittori che tendono a riproporre ciclicamente nel loro repertorio iconografico alcune figure, in forma quasi ossessiva. Questo tratto è messo in evidenza nell’opera di Tiepolo. Dell’artista veneziano Calasso riporta, anche visivamente, l’esempio di una figura femminile che torna sia in un affresco conservato a Udine, l’Apparizione dell’angelo a Sara, sia in un olio su tela, Il ritrovamento di Mosè; altrettanto seriali sono le enigmatiche figure di “orientali” che compaiono nelle sue incisioni: Nel corso degli anni, Tiepolo ricompose il mondo in una sequenza di figure, di gesti, di angolazioni. Sequenza immensa, ma ben circoscritta: circa quattromila disegni in parte sistematicamente divisi, come soldati pronti a essere gettati in campo. Combinando quelle figure, quei gesti, quelle angolazioni, sapeva di poter soddisfare qualsiasi nuova commissione, sacra o profana. (RT, p. 94) A questa fascinazione per l’aspetto “persecutorio” delle immagini potremmo ricondurre anche la scelta di inserire, nelle Nozze del 2009, Le figlie di Tespio di Gustave Moreau, autore di opere in cui le stesse figure sembrano riproporsi in maniera ossessiva. Una frase di Moreau sullo sgomento che suscitano le figure del mito quando si risvegliano dentro di noi, del resto, veniva citata all’inizio del libro (cfr. NCA, p. 422). Un vero e proprio catalogo di simulacri si può incontrare nella galleria di cocottes di Guy o fra le ballerine di Degas: in entrambi i casi, osserva Calasso nel presentarci le opere nella Folie, “essenziali rimanevano l’ossessione e la ripetizione” (FB, p. 208). Largo spazio è dato, fin dalla prima edizione della Folie, alla Bagnante di Valpinçon di Ingres, le cui riproduzioni occupano quasi un’intera pagina. La donna compare per la prima volta in un dipinto del 1808, a cui fanno seguito tre riproposizioni: la prima è del 1828 (La petite baigneuse); la seconda, perduta ma testimoniata da un’incisione a opera di Achille Réveil e da un acquerello dello stesso Ingres, è del 1851; infine, lo stesso soggetto approderà nel famoso Bagno turco del 1862. La ciclica ricomparsa di questa immagine, che l’accostamento delle quattro varianti aiuta a far emergere con tutto il suo portato ossessivo e conturbante, dimostra secondo Calasso la “monomania di Ingres” (FB, p. 125) e, di conseguenza, la capacità delle immagini di riemergere dalle acque della mente e infestarle. Nella versione accresciuta del libro su Baudelaire, Calasso proporrà a confronto altri studi e bozzetti di Ingres e, a testimonianza ulteriore del perdurare di alcune figure nella psiche degli artisti, più varianti dello Studio per la “Morte di Sardanapalo” di Delacroix. Interessato da sempre agli stati alterati della mente – i più produttivi sul piano creativo –, Calasso subisce il fascino del risvolto maniacale di simili riemersioni e dell’aspetto pericoloso e terribile dell’arte. A tal proposito si può ricordare che, per un curioso cortocircuito analogico, si concretizza per lo stesso Warburg un pericolo che, nel risvolto di un libro scritto dal suo sodale Edgar Wind, Calasso paventava a proposito dell’arte: Forse Platone sapeva meglio di noi che cos’è l’arte, e giustamente la temeva, perché i poteri dell’immaginazione sono quanto di più vicino, nell’uomo, a un fuoco trasformatore o distruttivo. (CLS, p. 40) L’Opera è anche un canto d’amore per tutto ciò che su quel fuoco arde, in un “innominabile attuale” che sembra voler spegnere ogni scintilla che non illumini l’Utile. Di tutto questo parlano le immagini contenute nell’Opera, con un linguaggio che appartiene a loro e a loro soltanto, a cui la parola può prestare il destro senza però esaurirne pienamente il significato. Calasso crede fermamente che ci sia qualcosa, nell’immediatezza dell’immagine, che va oltre le possibilità d’espressione verbale, qualcosa che è impresso nella struttura della nostra psiche e funziona con criteri suoi propri. Letteratura assoluta: 5. Carmen solutum 5. Carmen solutum L’oscurità non si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di quanto poco riusciamo a trattenere, di quante cose cadano incessantemente nell’oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno. Winfried Georg Sebald 5.1 Il legame fra storia e letteratura Gran parte dell’Opera di Calasso si rivela a ben guardare un’inchiesta sul passato. Dalla fine del Pliocene, in cui comparvero i nostri più remoti antenati, al XX secolo, con la nascita dell’“innominabile attuale”, gli undici volumi si intrecciano continuamente con la Storia. D’altro canto, l’Opera è caratterizzata da quella che è stata definita una visione “stereoscopica”116 del tempo, fatta di intrecci e sovrapposizioni; quella che si attraversa non è mai, insomma, una storia intesa in senso piano, progressivo e lineare. In questo capitolo vorrei ricostruire l’approccio di Calasso alla storia e alla storiografia. Come illustrato nelle pagine precedenti, l’amore per l’analogia determina ogni spostamento interno all’Opera, lungo quella che, per usare le parole di Calasso, potremmo indicare come “una rete mistica che avvolge ogni rete logica” (RK, p. 262). L’ossequio al polo analogico del pensiero giustifica i bruschi salti temporali che caratterizzano La rovina di Kasch, excursus in un moderno i cui estremi cronologici sono quanto mai labili. Dal centro della Rovina – grossomodo circoscrivibile al periodo in cui Calasso colloca la nascita della letteratura assoluta – si dipartono innumerevoli retrogressioni e balzi in avanti. Calasso, infatti, sembra trattare la materia storica come materia mitica, ammiccando alle corrispondenze tra avvenimenti lontani nel tempo come a varianti alternative di un unico racconto. In ogni epoca, in ogni avvenimento, cerca di isolare delle fisionomie ricorrenti, guardando ai personaggi in gioco come a figure che tornano a riproporre, nella trama del tempo, le stesse storie: “Ci sono forme che non si estinguono,” scrive nell’Innominabile attuale, “mutano, si caricano e si svuotano di significati a seconda delle occasioni. Ma un filo sottile le lega sempre ai loro inizi” (IA, p. 20). Come è stato osservato, La rovina di Kasch è un libro in cui storia e letteratura appaiono intrecciate fra loro e si illuminano a vicenda.117 Ciò accade non soltanto perché i personaggi storici diventano materiale da romanzo, soggetti perfetti a cui dedicare piccoli medaglioni biografici, ma soprattutto perché la storia stessa è vista come un testo, un tessuto su cui è possibile intervenire a piacimento annodando fra loro i fatti e le interpretazioni sui fatti che si sono stratificate nel tempo. La rovina si rivela così, secondo la calzante definizione di Guido Ceronetti, “un libro fatto di letture storiche, di storia ripensata antistoriograficamente”118; o, per meglio dire, un libro che presenta una precisa idea di storiografia, indissolubilmente legata a una precisa idea di letteratura. Questa idea è, ovviamente, quella di letteratura assoluta, di letteratura come cavo senza fondo in cui tutto rientra e si trasforma, obbedendo al solo imperativo formale. A questo gioco si prestano le fonti storiche e le opere di storiografia di cui Calasso si serve in una critica continua a un certo metodo storiografico. In Archivi e fuochi fatui, uno dei capitoli centrali della Rovina, Calasso esprime infatti la sua sfiducia nei confronti di una storiografia fondata sulla mera rielaborazione di dati e materiali di archivio, rivendicando la necessità che storia e letteratura vadano di pari passo. Questa esigenza trova realizzazione nell’operato di Richard Cobb. Quello di Cobb e della sua opera del 1972 Reactions to French Revolution, citata più volte nella Rovina ed entrata nel 1990 nel catalogo Adelphi,119 mi sembra un caso ben rappresentativo del tipo di approccio storiografico che Calasso predilige. Lo studioso inglese preferiva investigare le storie individuali piuttosto che i movimenti delle grandi masse, nella speranza di ricavarne dettagli utili a rivelare verità nascoste sullo sfondo di una determinata epoca. Numerose sono le caratteristiche che Calasso può aver apprezzato nel lavoro di Cobb: in primo luogo la sua sensibilità estetica, che lo fa indugiare nelle descrizioni di particolari minimi e apparentemente insignificanti. Cobb è uno storico-scrittore la cui prosa procede per intuizioni e idiosincrasie, rivendicando fin dalle premesse l’incertezza sulla meta finale delle proprie esplorazioni. Perfino a livello paratestuale c’è una forte affinità con Calasso: Cobb spiega infatti che i materiali da cui ricava gli aneddoti sono così vasti che sarebbe impossibile usare delle note a piè di pagina e opta quindi per un unico repertorio finale delle fonti.120 In secondo luogo, Cobb ha una passione per le figure ai margini della società, quelle che non si possono inquadrare in classi o in gruppi ben definiti e dunque associare a una qualsiasi “buona causa”. Scrive infatti: Un proposito di questo studio è dare spazio a quei tanti elementi della società che non si sentirono mai attratti in nessuna direzione, molto spesso perché erano così poveri, così modesti, così umili, così ignoti che nessuno pensò mai che valesse la pena di preoccuparsene. 121 Soprattutto, è il modo in cui Cobb rilegge prospetticamente alcuni personaggi storici, come modelli di azioni che tenderanno a riproporsi nel tempo, a essere estremamente in sintonia con l’Opera. Robespierre diventa così un’allegoria, “perché Robespierre è costantemente rinato, e ci sono svariate formule per la costruzione di tanti Robespierre personali”.122 C’è infine in Cobb l’idea, che ci riporta nell’alveo della letteratura assoluta, che le storie proposte si siano scritte da sé, utilizzando il loro autore come un veicolo espressivo quasi impotente. 123 Nella Rovina, è una citazione dello stesso Cobb a spiegare che, per penetrare appieno le vicende, le vite, “degli altri”, la storiografia deve assumere forme romanzesche, celebrare la sua dimensione di racconto: “Lo storico ha un compito che in gran parte coincide con quello di Proust, ma non ha il vantaggio di possedere la memoria di Proust; lo storico allora deve costruire, e infine saccheggiare, la memoria degli altri”. Questa è storia. (RK, p. 238) Nella sola interconnessione con la letteratura la storiografia trova dunque, secondo Calasso, la sua ragion d’essere: La storia non ha alcuna ragione essenziale per distinguersi dalla letteratura. “Carmen solutum” – la chiamava già Quintiliano. Senza coazione metrica, senza preordinata gabbia formale, la ricerca storica è il graduale costituirsi di una memoria artificiale, lo sciogliersi successivo dei lacci di una serie senza fine di scatole di cartone negli archivi. (RK, p. 234) Se dunque la letteratura aiuta a cogliere il lato nascosto della realtà, ciò rende il racconto di fatti storici più denso di significati. Questo presupposto è gravido di conseguenze. In primis, come già notava Maria Di Salvatore, fa sì che nella Rovina di Kasch prenda corpo una galleria di “ritratti biografici” in cui si fondono testimonianze storiche e affreschi letterari.124 Attraverso tali ricostruzioni Calasso vuole offrire un osservatorio privilegiato per una porzione di realtà molto ampia. Per certi versi, l’operazione compiuta da Calasso è simile a quella che un personaggio che spesso compare nel volume, Charles-Augustin de Sainte-Beuve, aveva tentato nella sua monumentale opera Port-Royal.125 All’esperienza dei “solitari” che si ritirarono nel monastero cistercense guidato da mère Angélique Arnauld, peraltro, è dedicato un lungo capitolo della Rovina di Kasch. Ecco dunque un altro elemento a dimostrare la complessità di quest’opera: Sainte-Beuve è al contempo personaggio finzionale e autore di riferimento, Port-Royal è ipotesto, scenario e oggetto di studio, così come Talleyrand è personaggio, fonte da citare e narratore fittizio, e Richard Cobb storico della Rivoluzione francese e al contempo modello di riflessione sugli scopi della storiografia. 5.2 La storia e i suoi simboli In quest’opera di storia “sinottica e simultanea”, lavoro di documentazione e inventiva romanzesca vanno a braccetto. Poiché i personaggi storici diventano personaggi finzionali, non si fa distinzione fra quelli veri e quelli inventati, come il Chevalier de B. o il misterioso M***. Questo accade soprattutto perché i personaggi storici vanno via via perdendo la loro concretezza per diventare simboli, archetipi, come i personaggi mitici. C’è, alla base della Rovina di Kasch, un’idea ciclica della storia come ripetizione di avvenimenti eterni: Come non esiste un libro che non sia la ripresa o la risposta o la conseguenza rispetto a un altro libro, così in ogni gesto si posa, sulla mano che traccia, un’altra, invisibile mano, che la guida, la preme o la trattiene. Rispetto a ogni evento dobbiamo chiederci: che cosa, qui, voleva ripetersi? a che cosa, qui, si dava risposta? Talvolta è difficile persino ritrovare gli indizi di un nesso, tanto gli eventi sono sfigurati dall’erompere della casualità, che compone la storia stessa. Nel pensiero della ripetizione c’è tutto il nostro rapporto con il passato; dal tempo, come da un immenso vuoto di memoria, si distaccano le figure in avida attesa di riapparire. (RK, p. 253) Dietro questo passaggio della Rovina di Kasch si cela un’idea cardine dell’opera calassiana, quella della ripetizione; svettano la figura di Nietzsche e il “pensiero abissale” dell’eterno ritorno. Tale visione cosmica è esplicitata in un capitolo della Rovina che sottolinea fin dal titolo la sua ascendenza nietzscheana: Il demone della ripetizione. Proprio come un demone, infatti, si presenta, nell’aforisma numero 341 della Gaia scienza, l’ipotesi dell’eterno ritorno: Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!”.126 In Così parlò Zarathustra con parole simili (“E quel ragno lento che striscia al chiaro della luna, e lo stesso chiaror della luna, e io e te che qui sotto il portico bisbigliamo insieme di cose eterne – non dobbiamo tutti essere già stati una volta?”127) si riafferma con forza l’idea sconvolgente dell’eternità circolare del tempo, punto di partenza anche di quell’Ecce Homo che Calasso traduce per Adelphi; una intuizione insopportabile se non accompagnata da un amor fati che dia senso al tutto. Accanto all’autore dello Zarathustra, innumerevoli reminiscenze concorrono a definire questo concetto di importanza cruciale. Nel mondo moderno, che nega l’esistenza di un ordine superiore a quello che l’uomo si autoimpone per vivere in società, la circolarità del tempo, che i riti celebravano collettivamente, è uno spauracchio inquietante; per funzionare a dovere, la macchina produttiva del mondo ha bisogno di un tempo lineare e progressivo. Così, per seguire ancora la scia del pensiero nietzscheano, l’uomo ha mistificato il senso del passato, sovrapponendo significati originari a scopi successivi, inventando una teleologia funzionale ai propri scopi. Ma il vero senso della ripetizione degli avvenimenti umani, il loro scopo, può risiedere soltanto, secondo Calasso, al di fuori di essi. L’analisi puramente morfologica degli eventi che si ripresentano non porta a niente, se non a constatare l’assenza di significato del divenire storico; conclusione a cui sono giunti molti fra i più grandi pensatori moderni e sarà oggetto della Terza parte di questo libro. L’Opera, in modo particolare nelle sue parti più impregnate di storia, La rovina di Kasch e L’innominabile attuale, vuole indagare questo cambiamento di paradigma, mostrando gli effetti dell’abbandono di un pensiero della ripetizione. All’interno di una concezione ciclica del tempo, dunque, i molti protagonisti dell’Opera assumono un senso ulteriore rispetto a quello delle vicende terrene che li vedono coinvolti, diventando simboli di aspetti del reale che Calasso vuole illustrare. È un meccanismo che si svela per esempio nel capitolo L’austriaca della Rovina di Kasch, con la figura di Maria Antonietta. Riprendendo alcuni passaggi dell’autobiografia di Goethe, Calasso rappresenta la giovane arciduchessa nell’atto di entrare nuda nella sala in cui la attende il suo sposo: la stanza è ricoperta da arazzi che raffigurano le storie di Medea, Giasone e Creusa, esempi di un matrimonio quanto mai sventurato; Goethe è inquieto, gli sembrano presagi nefasti per una novella sposa, ma i suoi amici lo tranquillizzano, spiegandogli che nessuno si preoccupa più di cercare significati nelle immagini. Tale noncuranza è per Calasso un altro aspetto fondamentale che dal mondo moderno passerà inalterato nell’“innominabile attuale”; ecco infatti il suo commento: L’immagine si vendica di chi non la osserva. La vita di Maria Antonietta viene sempre più soffocata dal simbolo, quanto meno intorno a lei si mostrava di percepirlo. (RK, p. 100) 5.3 Per una storiografia anacronistica Riflettere sul modo in cui Calasso si pone rispetto alle vicende del passato aiuta anche a mettere l’Opera in rapporto con il proprio tempo. Si è parlato, in modo particolare per La rovina di Kasch, di una tendenza all’orizzontalizzazione della prospettiva storica; è stata notata cioè la propensione di Calasso a trattare contemporaneamente vicende del passato anche molto lontane nello spazio e nel tempo128; pensiamo, per esempio, all’approccio sincronico usato dal narratore della Rovina per commentare un passaggio del Mémoire sur les relations commerciales des États-Unis avec l’Angleterre di Talleyrand: Non è un La Bruyère della barbarie che parlava in questi termini ai membri dell’Institut, ma un sociologo dell’età dell’inflazione e delle bande paramilitari. Intorno gli risuonano Rathenau e Hitler, gli hoboes arrampicati sui treni e la polizia a cavallo. (RK, p. 106) Nella lettura di Calasso, Talleyrand avrebbe scorto in figure marginali della società americana (il “Taglialegna”, il “Pescatore”) un potenziale disgregativo della stessa, cogliendo i prodromi di una trasformazione delle masse che avrebbe portato, un secolo dopo, a conseguenze disastrose come il Secondo conflitto mondiale. Fredric Jameson, uno dei critici più rappresentativi del postmoderno, ha sottolineato come la nozione modernista, bergsoniana, di “tempo profondo” sembri “radicalmente irrilevante per la nostra esperienza contemporanea, che è piuttosto l’esperienza di un perpetuo presente spaziale”.129 Remo Ceserani ha riscontrato, come conseguenza di questa “spazializzazione” del tempo, una metamorfosi del passato in “un grande serbatoio culturale di immagini”.130 A un simile stato di cose sembra alludere anche Calasso quando, in un saggio sull’opera di Karl Kraus, parla della “disponibilità del passato come deposito” (QG, p. 105), come “esperienza comune a tutte le forme della nuova età”. Già in questo rilievo, tuttavia, si registra una significativa distanza rispetto alla riflessione postmoderna, se si considera che una simile concezione del passato viene indicata come caratteristica ineliminabile già agli inizi del XX secolo, dunque in quella che è tradizionalmente designata come stagione modernista. La posizione di Calasso rispetto al problema della storia si rivela insomma più complessa e originale di quanto possa apparire a un primo sguardo. Nel suo affresco dell’età moderna, Calasso sceglie di utilizzare un particolare modo di guardare agli avvenimenti storici, consapevole dell’esistenza di un’altra strada, ereditata dall’età dei Lumi e colpevole, secondo lui, di trascurare la natura archetipica dei fatti, di non vedere il loro collegamento con il passato: L’età borghese era malata di storia. […] Quella malattia era conseguenza di un fatto impalpabile: la recisione del nodo familiare che collegava il presente alla storia passata. (RK, p. 123) La visione progressiva della storia è un prodotto dell’età moderna, il frutto di un irrigidimento nei confronti del tempo, il cui scorrere era stato per secoli scandito dai cicli naturali. Da un certo momento in poi, una visione ciclica del tempo è apparsa irragionevole, e qualsiasi confronto con il passato è stato impostato nei termini del contrasto, dell’alterità. Questa “recisione” del legame con il passato è, da un lato, la causa di una condizione essenziale dell’Occidente moderno, il suo essere “privo di presagi” (RK, p. 201); dall’altro, questo distanziamento appare, in prospettiva freudiana, come una rimozione, una strategia di difesa dall’influenza del passato sul presente. Tuttavia, il passato, come tutto ciò che viene rimosso, tenderà a ripresentarsi. Nel Libro di tutti i libri la questione del rapporto con il passato è al centro di un capitolo dedicato al Mosè di Sigmund Freud, uno dei personaggi storicamente esistiti che, come vedremo, ricompaiono più spesso nell’Opera in forma allegorica. Senza dubbio la visione di Calasso paga un debito di riconoscenza alla teoria freudiana del rimosso, ma l’influenza del padre della psicoanalisi sulla sua opera è ben più profonda e radicata. Il libro di tutti i libri si interroga in special modo sulla natura di quelle che Freud avrebbe chiamato “tracce mnestiche”, frammenti di memoria che avrebbero agito non soltanto sulla psiche individuale, ma anche su quella della specie, tramandando nei secoli, per esempio, la consapevolezza dell’uccisione del padre primordiale. Rispetto all’esistenza di un simile portato, e all’ipotesi che esso potesse agire sulla specie, Freud si manteneva piuttosto vago, diviso tra la volontà di negare l’ipotesi di un “inconscio collettivo” (avrebbe dato ragione all’avversario Jung) e l’impossibilità di dimostrare la presenza di simili memorie nel tracciato neurale. Freud scelse di attribuire questa inconscia eredità del passato, senza però darne spiegazioni convincenti, all’evoluzione della specie, che avrebbe tramandato le informazioni mnestiche congiuntamente al bagaglio genetico. Secondo Calasso, con tutti i limiti delle pretese scientiste proprie dell’epoca, Freud aveva una sensibilità e un acume tali da non poter ignorare che il passato in qualche modo “agisse” sul presente (LTL, p. 331), e con alcune sue opere fondamentali, come Totem e tabù, gettava una luce sul mistero che rende il passato un tempo compresente al nostro: Non potendo situare le “tracce mnestiche” nel tessuto neurologico dell’uomo e dovendo ricorrere a una generica presenza collettiva dell’inconscio, rimaneva aperta solo la via di riconoscere l’impossibilità di accedere a un qualsiasi passato che non fosse quello vissuto dal singolo. Eppure il passato di tutti continua ad agire, anche se sporadicamente e per vie traverse, nella psiche di chiunque. Dilemma senza soluzione, se non si accetta una totale simultaneità (quindi anche acronicità) del passato e il fatto che la psiche è qualcosa i cui confini “nel tuo andare non potrai scoprire, neppure se percorrerai tutte le strade”. Così Eraclito, in parole trasmesse da Diogene Laerzio. (LTL, p. 331) Calasso sembra accogliere la sfida implicita in queste parole di Eraclito, guardando al passato come a un orizzonte talvolta sovrapponibile al presente, leggendolo in termini di compresenza e non di alterità. Questa operazione anacronistica, generalmente bandita come supremo male dalla comunità degli storici, è stata oggetto di rivalutazioni da alcune correnti della storiografia postmoderna.131 Nicole Laroux, per esempio, riconosceva che ogni oggetto storico appare sempre scandito da un controritmo che lo colloca su piani diversi, fra passato e presente, origine e attualità, conscio e inconscio.132 Roberto Esposito ha recentemente proposto un’apologia di questo modo di guardare alla storia, scoprendola perennemente anacronistica nelle sue stratificazioni più profonde. Nel suo scritto, Esposito da un lato sottolineava il fatto che la genealogia di Nietzsche e la reminiscenza di Freud forniscono allo storico strumenti ormai irrinunciabili, dall’altro metteva in luce le possibilità che l’anacronismo può offrire nei termini di una parziale uscita dalla storia che, come le Considerazioni inattuali di Nietzsche, ci ponga “contro il tempo e, speriamo, a vantaggio di un tempo a venire”.133 Similmente Calasso è convinto che soltanto gli storici che sono in grado di essere inattuali sappiano rendere ragione del mistero del nostro rapporto ambiguo con il passato, del suo continuo affiorare e scomparire dal nostro orizzonte: La ripetizione è l’invisibile passo indietro che accompagna ogni gesto. Gli storici si distinguono soprattutto dalla capacità che hanno di congiungerlo al loro racconto dei gesti, delle gesta visibili. Ma per giungere a questo, devono mescolarsi senza prudenza alle ombre, ed emergere dal passato come dall’Averno. Michelet, Burckhardt, Warburg, Tocqueville… (RK, p. 253) I puntini di sospensione indicano che l’elenco non si esaurisce con i sopracitati; fra i nomi mancanti, andrà menzionato perlomeno un autore che compare spesso nelle pagine della Rovina di Kasch, Léon Bloy. Dall’opera del saggista francese Calasso recupera l’immagine di Maria Antonietta come simbolo sacrificale; inoltre vi trova rafforzata la sua visione dello scrittore come iniziato ai misteri, che ha la capacità di proiettare le “ombre della storia” in uno scenario ulteriore, metastorico (CLS, p. 207). Nell’Innominabile attuale dichiara la sua predilezione per una particolare tipologia di storici, quelli capaci di essere “necromanti” (IA, p. 88); è una dote tanto rara quanto fondamentale, soprattutto per chi vuole capire l’epoca successiva al Congresso di Vienna, che trasforma in maniera irreversibile il modo in cui ci relazioniamo con il passato. A quell’altezza, il significato di alcune immagini si perde definitivamente, e soltanto una particolare affinità con i dèmoni – da leggersi, al solito, come essenze psichiche – può aiutare a orientarsi. Quanto al modo migliore per comprendere il passato, la strada della narrazione continua a rivelarsi la scelta adatta a chi voglia rendere ragione del suo riproporsi: Il passato è accessibile attraverso lo studio, quindi attraverso la conoscenza delle fonti – ovvero delle sue tracce, non mnestiche ma tangibili (ossa, simulacri, scritture). O altrimenti – ed è l’unica altra via – attraverso narrazioni mitiche, quindi attraverso racconti non situabili nella successione temporale. (LTL, p. 332) È evidente che gli storici che Calasso ammira siano, pur nella specificità delle singole esperienze e nella varietà dei loro orientamenti, in qualche modo riconducibili, per vocazione, alla galassia della letteratura assoluta. Alla stessa dovrebbero rivolgersi, più in generale, tutte le discipline che sono costrette a studiare l’impatto del passato sul presente. Tutte le forme che scelgono la parola come veicolo espressivo sono tuttavia minacciate da un rischio: Darwin, con The Descent of Man, e Freud, con Totem e tabù, inventarono un ibrido fra le due possibilità. Le loro teorie antropologiche – e anche le loro narrazioni – vennero presto smentite e dismesse. Ma la forma dell’ibrido rimase intatta, anzi si sviluppò rigogliosamente per tutto il Novecento, assumendo molteplici altre forme. E questo ha fortemente contribuito a occultare l’impervia questione di come l’accesso al passato sia semplicemente possibile. Se il passato perde o attenua il suo carattere di estraneità, diventerà più facile che la sua immagine si avvicini a una duplicazione del presente. A quel punto il passato tenderà a somigliare, quanto più possibile, a ciò che è noto e dominabile. Ma avrà perduto il suo elemento distintivo, che è l’assenza. Apparirà allora evidente che il profluvio di speculazioni sulla memoria culturale ha avuto spesso la funzione di eufemizzare questo stato delle cose, che di per sé è drammatico e non concede immediate risposte. Il passato sussiste e agisce, anche violentemente. Su questo non c’è dubbio. Ma tutti sono ancora nell’impossibilità di spiegare come questo avvenga. E talvolta viene da sospettare che le conoscenze più utili si raggiungano là dove si cozza contro questa invincibile impossibilità. (LTL, p. 332) C’è un solo campo dell’espressione in cui, come notava anche Roberto Esposito, si può davvero disinnescare il principio di successione della storia lineare e dare libero spazio all’anacronismo 134: è il regno dell’arte figurativa. È soltanto nell’immagine che, come accennato, l’“onda mnemica” può colpire nella sua piena potenza; solo nell’immagine passato e presente possono sovrapporsi senza che la contraddizione fra assenza e compresenza venga annebbiata. È la lezione che si può trarre dalle ricerche di Aby Warburg sulla sopravvivenza dell’antico, e che Calasso sembra seguire fedelmente. La natura ambigua e drammatica del nostro rapporto con il passato si mostra perciò nelle opere di Tiepolo e di tutti i grandi astisti che popolano il work in progress: “Così avviene la Storia, ci dice l’immagine: per via di scalfitture o fratture che possono facilmente passare inosservate. Ma sono irreversibili” (RT, p. 273). Letteratura assoluta: 1. Il predominio della mente 1. Il predominio della mente La Mente è più grande del Cielo Perché se li metti fianco a fianco L’una conterrà l’altro Facilmente – e anche Te La Mente è più profonda del mare Perché stringili insieme – Blu contro Blu L’una assorbirà l’altro Come fanno Spugne – Secchi La Mente è giusto il peso di Dio Perché alzali – libbra per libbra E differiranno – semmai Come Sillaba e Suono. Emily Dickinson 1.1 La questione da cui tutto parte: la natura della mente Come abbiamo avuto già modo di osservare, l’Opera di Calasso si muove lungo tante direttrici diverse, spaziando fra gli argomenti più disparati e dimostrando al contempo una forte coesione interna. Per vagliarla nella sua interezza, mi soffermerò ora con particolare attenzione su alcuni temi essenziali e immagini ricorrenti. Nell’impossibilità di creare una gerarchia delle questioni trattate, mi sembra imprescindibile partire da quella che in qualche modo le ingloba tutte: la natura della mente. L’interesse di Calasso per l’universo psichico è chiaro fin dal suo primo libro, L’impuro folle, un prologo celeste all’Opera che ruota attorno al delirio allucinatorio del presidente Schreber. La mente del Capo della Corte d’appello di Dresda è infatti lo scenario senza fondo del volume del 1974. Per procedere nella delinea zione di un argomento tanto vasto, è necessario porre un quesito preliminare, di soluzione tutt’altro che semplice: cosa si deve intendere con il termine “mente”? La domanda è vecchia come la storia della filosofia, che si interroga da sempre sulla natura di “ciò” (impossibile utilizzare un termine meno vago senza addentrarsi automaticamente in una definizione) che ci consente di vivere, di pensare e di pensarci. Il problema è oltremodo complesso, e riguarda ugualmente la teoria della conoscenza e l’ontologia. All’inizio di Ka Calasso lo presenta nella forma che più gli è congeniale, inserendolo in una storia. All’alba della creazione, Prajāpati, mitico progenitore vedico, non è ancora certo della propria esistenza. Tutto è ancora soltanto manas, “la mente”; questo è per Calasso il primo presupposto: innanzitutto “la mente ha questo di peculiare, che non sa se esiste o non esiste. Ma precede ogni altro” (Ka, p. 35). Da questo stato di pura percezione – manas è appunto la facoltà che riceve ed elabora gli stimoli, una zona di commistione fra mente e materia1 – tutto viene generato. La mente così intesa è accostata a una serie di immagini giustapposte, tutte originate dalla tradizione vedica: “la fiamma celata dietro le ossa”, “il succedersi, il dissolversi delle figure disegnate nel buio”, “l’onda indistinta” in cui “fluiscono e rifluiscono le somiglianze” (cfr. Ka, p. 36). È qualcosa che viene sempre presentato come liquido, visitato da molte presenze e, soprattutto, cosciente. Gli appartiene inoltre un primato ontologico indiscutibile: la certezza inscalfibile è “il primato e la pervasività della mente” (Ka, p. 372). La predominanza di una mente così concepita è tale da non consentire distinzione fra essa e il mondo esterno; è, questo, un aspetto essenziale nella trattazione di Calasso, che si aggancia al suo tentativo di raccontare l’“innominabile attuale”: come vedremo, la scienza di questo periodo sente invece il bisogno di creare una barriera, una separazione, fra ciò che è mentale e il mondo esterno, per far sì che il soggetto, staccato dal mondo, possa agire su esso e usarlo per i propri scopi. È a questo punto necessario rivolgersi alle fonti che maggiormente hanno influenzato il pensiero di Calasso sul tema. Come accennato, primo e imprescindibile riferimento sono i testi del Veda, a giudizio dello scrittore “assimilabile a una microfisica della mente più che ad altre categorie” (A, p. 450). Calasso li scopre negli anni sessanta, e inizia a coltivare una passione che non lo abbandonerà mai.2 L’Opera è in dialogo costante con la cultura vedica: basti pensare alla nozione di ṛta, “ordine del mondo”, uno dei centri nevralgici della Rovina di Kasch – che, del resto, si apre con l’immagine di Indra che taglia le ali alle montagne. Il Veda raccoglie testi che arrivano, secondo Calasso, a porre le basi di qualsiasi riflessione sulla conoscenza con una lucidità avvicinabile alle indagini sulla teoria dei fondamenti dell’inizio del Novecento: L’India comincia e finisce con qualcosa che solo all’inizio del Novecento – e per la via imprevista della logica – è diventato centrale anche in Occidente, quando vennero scoperti i paradossi della teoria degli insiemi. (A, p. 161) Queste opere – a cui nella mia traversata dell’Opera tornerò con significativa frequenza – testimoniano la ricerca di un culto totalizzante: l’interesse degli ignoti autori è rivolto esclusivamente alla fenomenologia del rituale. Ciò che colpisce maggiormente Calasso è l’attenzione che questi testi – unici testimoni di una cultura che non ha lasciato altre tracce tangibili della propria esistenza – dimostrano nei confronti del rito e, soprattutto, la loro consapevolezza del nesso inscindibile fra liturgia e coscienza: Uno stato della coscienza diventava il perno attorno a cui ruotavano, in una meticolosa codificazione, migliaia e migliaia di atti rituali. La mitologia, e così anche le speculazioni più temerarie, si presentavano come una conseguenza dell’incontro fatale e dirompente fra una liturgia e l’ebbrezza. (A, p. 30) Per quanto concerne la fisionomia della mente, il punto di partenza della riflessione calassiana può essere cercato nei versi del Ṛg Veda X.129 (ripresi, per esempio, nel capitolo VI dell’Ardore), che raccontano gli attimi precedenti la formazione del cosmo, quando l’universo, ancora increato, giaceva nelle tenebre come “acqua indistinta”. La creazione è un atto psichico a tutti gli effetti: l’avvio è dato da un particolare tipo di stato, il tapas, “l’ardore”, a cui il volume del 2010 deve il suo titolo. La coscienza è descritta come scoperta delle connessioni – i bandhu – tra essere e non-essere o, secondo una definizione cara a Calasso, fra continuo e discontinuo. Soprattutto, si avanza qui un’ipotesi concettualmente ardita: che lo stesso Progenitore ignori quale sia la sua origine. Questa insicurezza ontologica ha un impatto fortissimo, come vedremo, sul pensiero di Calasso: Ciò che esisteva come cosa in procinto di essere, nascosta dal vuoto – quell’Uno nacque dalla forza dell’Ardore. Allora, all’inizio, dal pensiero evolvette il desiderio, che esistette come seme originario. Cercando nei loro cuori con pensiero ispirato, i poeti trovarono la connessione dell’esistente nel non-esistente. La loro corda fu tesa trasversalmente: esisteva qualcosa al di sotto? Esisteva qualcosa di sopra? Esistevano gli inseminatori ed esistevano le potenze. C’era una volontà indipendente sotto, l’offerta sopra. Chi sa davvero? Chi deve dichiararlo qui? – da dove era nata, da dove veniva questa creazione? Gli dèi sono da questa parte della creazione di questo (mondo). Perciò chi sa da dove è venuto a essere? Questa creazione – da dove è venuta a essere, se è stata creata o no – solo chi dal cielo più alto sorveglia questo (mondo) lo sa sicuramente. O forse non lo sa…?3 Prima ancora che il Tutto esistesse, dunque, c’era (o, indistinguibilmente, non c’era: in questa fase, non ci sono differenze tra i due stati) la sola Mente: come ricorda L’ardore, “l’attività da cui dipende e discende l’intera creazione è soltanto mentale” (A, p. 137). Manas, del resto, precede tutto: prima ancora che il mondo si rivelasse, esisteva come pura percezione: Il fatto che manas fosse già prima che il tutto si spartisse fra manifesto e immanifesto conferisce alla mente un privilegio ontologico rispetto a ogni altro elemento. Il mondo può anche essere infinito, ma non riuscirà a cancellare quell’entità che da sempre lo osserva. (A, p. 144) Poiché Prajāpati, che è manas, si è smembrato per creare il mondo, ogni soggetto è una parte di quella grande mente scomposta, ed è in contatto perenne con l’invisibile, con la divina natura mentale da cui, insieme a tutto il resto, è stato creato. L’ombra lunga di Prajāpati si estende su qualsiasi cosa: il Progenitore che generò desiderando, e generando si disfece, è la materia invisibile su cui è imperniata l’esistenza: Prajāpati: il rumore di fondo dell’esistenza, il ronzio costante che precede ogni profilo sonoro, il silenzio dietro il quale si avverte l’operare di una mente che è la mente. È l’Es dell’accadere, quinta colonna che spia e sostiene ogni evento. (A, p. 128) Come accennato, una caratteristica fondamentale di Prajāpati è il suo porsi una costante interrogazione su se stesso: egli è il Tutto che si domanda “Ka”, cioè “chi [sono]?”, quesito eterno a cui è dedicata la terza parte dell’Opera; nella concezione del divino viene così inclusa una radicale insicurezza sulla propria natura, un dubbio originario e onnipervasivo. Poiché non esiste nulla fuori di lui, Prajāpati non può studiarsi, guardarsi da fuori. Nel momento stesso in cui si volge all’esterno, il Primo, il Progenitore, crea un secondo: la “Seconda”, per l’esattezza, è Vac, “parola”: con essa Prajāpati si accoppia. Come illustrerò a breve, il primato della mente sulla parola è un altro tema fondamentale dell’Opera calassiana. Una sorgente della cultura vedica da cui Calasso attinge a più riprese sono le Upani ṣad, un insieme di testi di epoche diverse, scritti sia in prosa sia in versi, pensati per un pubblico di iniziati. Nelle Upani ṣad inizia ad affermarsi il principio dell’identificazione di assoluto (brahman) e Sé (ātman); in un certo qual modo l’intero pensiero dei filosofi upaniṣadici si incentra su questi due concetti e sul riconoscimento della loro identità. Anche se abituato a pensarsi come qualcosa di separato dal mondo, il soggetto seguita a percepire e a ricercare la congiunzione con il continuo, con il Tutto. A compendiare questa idea, l’espressione Tat tvam asi, “ciò tu sei”, cioè “questo brahman, questo universo, sei tu”.4 Viene così a delinearsi un ideale religioso che mette al centro la conoscenza, uno dei più alti valori della dottrina upaniṣadica, la sola via per ottenere la congiunzione con il brahman. Anche in ragione di ciò, la trattazione di Calasso sulla mente è legata a doppio filo con l’indagine sulle modalità del conoscere umano. 1.2 La mente e il mondo esterno Dopo questa prima incursione nella storia della cultura indiana – alla quale sarà necessario far ritorno –, possiamo iniziare a tratteggiare gli aspetti costitutivi della mente per Calasso. Come facilmente intuibile, egli non ha della psiche una visione fisicalista, non la vede cioè come un mero agglomerato di fenomeni neurologici; allo stesso modo è estraneo a un approccio funzionalista, che caratterizza gli eventi mentali nei termini della loro efficacia causale. Il primo tratto che distingue la mente, e il più importante per Calasso, è la sua capacità di avere coscienza di sé. Un secondo elemento determinante è la sua comunione con il Tutto: partendo dal presupposto mitico prima esposto, per cui l’universo non è che un’articolazione della mente, Calasso arriva alla conclusione che ciascun soggetto può esperire e realizzare la propria connessione all’originaria sostanza mentale: così come all’inizio dei tempi, “la mente e l’esterno non erano entità separate – e forse neppure entità. Penetrandosi, perdevano ogni ritrosia. Il flusso era unico” (Ka, p. 146). Non esiste una divisione netta fra queste due realtà. Perché, del resto – si chiede Calasso –, la separazione fra la mente e il fuori dovrebbe sembrare più logica della connessione fra cosmo e individuo? Perché, come Calasso ha chiarito fin dalle pagine iniziali della Rovina di Kasch, la filosofia dell’Occidente teme moltissimo la commistione fra soggetto e alterità: il suo principale obiettivo è “delimitare il campo” in cui il soggetto può agire, ma, soprattutto, può avere il controllo: Il tat tvam asi, quel “ciò tu sei” che schiude le porte del cosmo e della mente, presupposto di ogni presupposto vedantico, non è poi così eccentrico rispetto all’esistenza comune. Certamente non più dell’ego cogito di Descartes. Ma l’Occidente civilisé, il XVIII che tiene la scena, sembra separato da una lastra di piombo da tutto ciò che potrebbe volgere lo sguardo verso l’ātman-brahman. […] Ciò che importa – già Descartes insisteva – è delimitare il campo, espugnare la psiche-senza-confini, lasciare invece che l’esprit si sfreni in una sua aurea gabbia tremante. (RK, p. 23) Calasso si scaglia contro la lettura razionalistica del problema cognitivo: critica qui non soltanto il dualismo cartesiano – una posizione che ha avuto una longevità straordinaria nella storia della filosofia della mente5 ed è stata per secoli predominante nel pensiero occidentale –, ma anche il tipo di soggetto che da questa concezione emerge, una sorta di macchina in grado di operare sul mondo, un “centro di comando” efficiente e autonomo: Il corso ufficiale della filosofia, quella sequenza Locke-Hume-Kant che incontriamo nei manuali, aveva da sempre inteso cancellare ogni dualità della mente e tendeva a ridurre il soggetto a centro di comando, del quale rimaneva da saggiare l’attendibilità. (RK, p. 200) A demolire una simile visione basta, ricorda Calasso, rivolgere lo sguardo al fenomeno dell’autocoscienza, il banale avvertimento della propria individualità; l’esperienza comune del vivere mette in crisi l’autonomia del soggetto, che per la sua stessa capacità di pensarsi produce un proprio sdoppiamento: E la mente stessa: non è forse capace di guardarsi come un’altra cosa? Non è questo, anzi, un suo carattere imprescindibile? Che cos’è la gloriosa “autocoscienza”, in cui allora svettava lo Spirito, se non l’espansione totale di quella capacità? (RK, p. 357) Una delle caratteristiche fondamentali della psiche, e certamente quella che più interessa la ricerca di Calasso, è di avere coscienza di sé. Questo tratto straordinario e misterioso della mente trova nelle Upani ṣad la propria cristallizzazione perfetta, in un’immagine che torna nell’Opera con una certa frequenza: quella dei due uccelli – descritti dal Ṛg Veda in una scena poi ripresa nelle Upani ṣad (IV, 6) – che vivono su un ramo dello stesso albero; mentre uno dei due mangia, l’altro lo osserva mangiare. 1.3 Soggetto e simulazione Lungi dall’essere un semplice “epifenomeno” – così veniva intesa in ambito positivistico –, la coscienza si rivela un’insidiosa trappola concettuale, che vanifica lo sforzo classificatorio della linea più feconda della filosofia moderna: Nel tentativo di conoscere i propri strumenti il pensiero necessariamente si autodistrugge – e in particolare il pensiero dell’Occidente, l’unico che si sia azzardato tranquillamente per questa via. (QG, p. 49) Contrariamente a quanto ipotizzato da Descartes, la dualità del soggetto non è per Calasso legata all’antitesi fra corpo e mente (res extensa e res cogitans), ma è intrinseca alla natura di quest’ultima, ponte fra individuo e cosmo, e capace di guardarsi, grazie alla coscienza, come altro da sé. La sua doppiezza si riflette sul linguaggio, ed è esemplificata dal carattere autoriflessivo di quest’ultimo: non si può parlare del linguaggio al di fuori del linguaggio, così come non si può parlare del soggetto al di fuori del soggetto stesso. Così come concepito dalla corrente dominante della filosofia occidentale, del resto, il soggetto è ridotto a centro operativo e deve essere superato, dal momento che, come scrive Friedrich Nietzsche nei Frammenti postumi, “ogni cosa è talmente legata con tutto che voler escludere una qualsiasi cosa vuol dire escludere tutto”.6 Nietzsche è un riferimento irrinunciabile per la teoria della conoscenza di Calasso. Nel saggio introduttivo all’edizione adelphiana di Ecce Homo egli espone alcuni capisaldi della sua visione del problema. Calasso vede nell’opera del 1888 l’approdo di Nietzsche a una “vocazione teatrale”, e sottolinea che “la questione del teatro” è ciò che spalanca “la questione stessa della conoscenza” (QG, p. 32). La grande acquisizione di Nietzsche è questa: nel tentativo di conoscere la realtà, l’uomo, per costituzione, è costretto a parcellizzarla illudendosi di poterla abbracciare nella sua interezza; deve isolare una porzione della realtà fingendo che sia la realtà tutta. Una (inconsapevole) simulazione è sottesa a qualsiasi nostra esperienza conoscitiva. Tale simulazione trova la sua ragion d’essere, ancora una volta, in un principio cartesiano: nelle Regulae ad directionem ingenii (1628), Descartes teorizza la necessità, per qualsiasi indagine, di enumerare i dati a essa pertinenti. In questa operazione risiede, secondo Calasso, il fondamento teorico dei sistemi formali. La caratteristica di questi sistemi che poggiano sul criterio enumerativo è l’esclusione di una parte del tutto: “Dato un insieme enumerabile di dati, la simulazione è il processo che permette di considerare quell’insieme equivalente al tutto del problema posto” (QG, p. 36). Per questo motivo “formalizzazione è solo un altro nome del nichilismo” (QG, p. 37). Una ricerca che ha come punto di partenza la rinuncia a una conoscenza totale, e che funziona solo grazie a questa rinuncia, appare come una resa al vuoto, priva com’è del suo presupposto di senso. Non esiste alternativa al nichilismo, nell’ottica del sistema formale: “Si vive nella coazione a conoscere, e quel conoscere è infondato” (QG, p. 38), giacché poggia sull’eliminazione di una parte del tutto. Partendo dal presupposto che il nostro conoscere sia basato su un rapporto simulativo con la realtà, sulla scorta di Nietzsche Calasso giunge alla conclusione che “il soggetto stesso, di fatto, è la prima simulazione” (QG, pp. 33-34), la prima finzione di conoscenza. Il pensiero del soggetto appartiene, allora, al circolo dei segni: esso è pura esteriorità, perché è la manifestazione di un processo al cui principio è impossibile risalire,7 un percorso che ha la propria origine nel mezzo del percorso. Il lascito più significativo della filosofia nietzscheana sta proprio nella rivelazione della natura teatrale di qualsiasi forma di conoscenza, che per Calasso spazza via anche l’errato presupposto, postulato da Locke nel suo Saggio sull’intelletto umano (1689), della mente come tabula rasa su cui si imprimono le informazioni: Se la filosofia è il pensiero che parte da zero, il pensiero senza fondamento, la filosofia occidentale è il pensiero che parte da zero per arrivare, ogni volta, a porre un primum. Ma non c’è via tra zero e uno. Nietzsche ha svelato le regole di questo gioco, perciò è il grande traditore del pensiero occidentale. (QG, p. 36) 1.4 Plotino e l’invenzione dell’interiorità Il rapporto fra la mente e il cosmo così come delineato finora trova significative affinità con la filosofia di Plotino, a cui è dedicato un intero capitolo del Cacciatore Celeste. Dell’autore delle Enneadi Calasso apprezza l’originalità di “una visione cosmica, dove la parte dell’uomo non si distingue, nella sua essenza, da quella degli alberi e delle piante” (CC, p. 300). Nessun filosofo antico ha inoltre saputo descrivere con l’ardore di Plotino il lungo cammino dell’anima individuale verso il “divino nell’universo”, secondo quanto traspare dalle Enneadi, sistematizzazione del pensiero plotiniano restituitaci dal suo allievo Porfirio. Molte sono le suggestioni che Calasso trae dal pensiero di Plotino – definito, nel libro del 2016, “l’inventore dell’interiorità” –, a partire dalla sua idea dell’Uno, il principio supremo che si colloca a metà fra trascendenza e immanenza, e si offre come meta a cui tendere per chi si arrischi nella “fuga di solo a Solo”8 dell’esperienza mistica: Non Platone, ma Plotino è il vero inventore dell’interiorità. La mistica cristiana, dal Cloud of Unknowing a Jean-Pierre de Caussade, applica, varia ed elabora ciò che Plotino aveva descritto e circoscritto: il territorio in cui il singolo si avventura nel divino. Quando la mistica cristiana si inaridì, le fece seguito la Innigkeit dei romantici tedeschi, diramandosi fino a Proust. Vicino a Plotino si incontra Schubert ben prima di Kant. Nel secolo dei moderni, dell’interiorità si perde il bandolo e la psiche viene invasa dal fluire delle associazioni. Da qui prese le mosse Freud. (CC, p. 300) Il filosofo nasce in Egitto (a Licopoli), una terra in cui “i culti invadevano ogni interstizio” (NCA, p. 302), che vede circolare, nell’età ellenistico-romana, i primi trattati sulla magia. Plotino manifesta fin dalla giovinezza il desiderio di studiare la filosofia dei Persiani e quella che fioriva in India; per questo accompagnerà l’imperatore Gordiano III in Oriente, in una sfortunata impresa che si concluderà con un disastro militare e una ritirata verso Antiochia. Benché dunque non abbia avuto l’opportunità di frequentare direttamente i testi del lontano Oriente, la filosofia di Plotino presenta singolari analogie con le Upani ṣad, come ha messo in luce Émile Bréhier.9 Plotino è un autore congeniale a Calasso per la sua scrittura intuitiva, fatta di corsi e ricorsi, in cui il ragionamento non procede in maniera forzatamente sistematica, ma cerca di guardare con coerenza ai problemi dalle più diverse prospettive. Plotino era inoltre a contatto con la disciplina gnostica, alla quale per molti versi il suo pensiero veniva associato. Si parla spesso di gnosi anche in relazione a Calasso: Guido Ceronetti, per esempio, ha definito Calasso un “serpente gnostico”.10 In un passo del Rosa Tiepolo Calasso faceva riferimento alla gnosi in questi termini: “Per venti secoli, oramai, la parola ‘gnostico’ ha agito come aiuto inestimabile per indicare qualcosa che si è decisi a non capire e da cui si vuole fuggire a ogni costo” (RT, p. 148). La dottrina gnostica è in effetti oltremodo difficile da definire; il tratto che qui interessa sottolineare – soprattutto in relazione a Plotino, e di riflesso a Calasso – è la convinzione che esista un legame fra conoscenza e salvezza, e che entrambe siano concessioni del divino riservate a pochi. Alcuni giovani seguaci dello gnosticismo frequentavano e intervenivano alle lezioni di Plotino per dialogare con il maestro. Da una parte, egli riconosceva spesso in loro le menti più brillanti della sua platea, e non ebbe gioco facile a chiarire la propria posizione nei confronti della loro disciplina, perché, per molti aspetti, presentavano diverse linee di convergenza. Dall’altra parte, forse anche per evitare che idee al contempo simili e distanti potessero traviare i suoi allievi, scrisse una polemica antignostica, mettendo in chiaro le differenze tra la propria disciplina e quella degli avversari.11 In modo particolare, come sottolinea Calasso stesso, Plotino non poteva condividere il disprezzo che gli gnostici riservavano al cosmo, che era invece per lui una perfetta copia del mondo intellegibile da onorare e rispettare. Plotino era convinto che l’anima del mondo fosse più grande dell’anima del singolo, e per questo Calasso trova in lui un’appassionata lode alla bellezza del cosmo, e la convinzione – affine alla dottrina vedica poc’anzi menzionata – che lo scopo ultimo del pensiero sia quello di annientarsi, per ricongiungersi al proprio stato originario: E qui Plotino ricorda ciò che la mente è stata, come se nel corso del suo viaggio l’avesse abbandonata: “Sì, la mente è bella, è l’essere più bello, nella pura luce e nello splendore puro avvolge la natura degli esseri”. Guardarla provoca “sgomento” in “colui che la vede e penetra in essa”. Eppure c’è qualcosa che sta oltre, “che non ha bisogno di niente e neppure di pensare”. Ed è là che deve giungere il pensiero: ad abolirsi. (CC, p. 310) Non dobbiamo inoltre dimenticare l’importanza attribuita da Plotino alla contemplazione estetica: il volgersi alla bellezza, della natura o delle opere d’arte costruite dagli uomini, poteva secondo lui costituire un prezioso viatico per l’Uno, suscitando nell’anima il desiderio della bellezza trascendente. Grazie a esso l’anima, dopo aver esercitato ogni livello di conoscenza, poteva finalmente superare la ragione e accedere all’Uno senza mediazioni. La contemplazione del bello poteva dunque portare alle soglie dell’Uno, a sperimentare l’estasi. L’anima felice era così “rapita, beatamente posseduta dal Dio”.12 Concluderei questa prima incursione nelle fonti del pensiero calassiano con un episodio particolarmente significativo della biografia di Plotino redatta da Porfirio che condensa in un racconto molti temi su cui ho cercato di riflettere in queste pagine. Le ultime parole del filosofo, pronunciate al discepolo Eustochio giunto al suo capezzale, sarebbero state: “Il divino che è in me sale a congiungersi con il divino che è nell’universo”.13 Accenno solo al fatto, non privo di peso, che in quel momento, secondo il racconto di Porfirio, un serpente sgusciasse da sotto il suo letto per infilarsi in un buco della parete. Come avrò modo di spiegare diffusamente, il serpente ha un’importanza tutt’altro che secondaria nell’Opera. Letteratura assoluta: 2. Il risveglio della coscienza 2. Il risveglio della coscienza È un mondo della morte – un tempo si nasceva vivi e a poco a poco si moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi. Roberto Bazlen 2.1 Il pensiero come spazio della commistione Poiché l’Opera si configura, tra le altre cose, come un’indagine sulle modalità del conoscere, ampio spazio vi trovano le riflessioni sulla scienza. Quella occidentale, e in modo particolare la scienza medica, tende secondo Calasso a guardare alla mente e alla coscienza esclusivamente dal punto di vista organico; tale orientamento iniziava a imporsi verso la fine dell’Ottocento, e caratterizzava le indagini del professor Flechsig, medico di Daniel Paul Schreber e inquietante personaggio dell’Impuro folle: La medicina, dunque, attraverso i suoi più autorevoli rappresentanti, concepisce oggi la coscienza come fenomeno concomitante di processi biofisici, quindi la psicologia medica oggi non potrà esser altro che una sezione della teoria delle funzioni cerebrali. (IF, p. 48) Questa tendenza si allinea con una delle caratteristiche fondamentali dell’“innominabile attuale”: “la confisca del divino da parte dell’umano” (RK, p. 359). Se la nostra mente è per Calasso il terreno di incontro fra una componente umana e una sovraumana, divina, nella modernità si avvia il tentativo di inglobare il divino, di piegarlo alle spiegazioni scientifiche, sociologiche, alimentando l’unica forma di devozione socialmente riconosciuta: quella verso la società stessa. Vediamo più nel dettaglio la fisionomia della questione. La filosofia cartesiana, che ha orientato per lungo tempo gli studi in materia di mente e coscienza, cercava di indagarla ponendo il problema tutto all’interno di un soggetto chiuso al mondo esterno, che si limitava ad autoaffermarsi, utilizzando la propria coscienza come leva per instaurare un’uguaglianza fra se stesso e il pensiero, ed esplorava la fisionomia della mente solo in quanto spazio del soggetto cogitante. Nel passato, però, tradizioni diverse avevano guardato alla coscienza da prospettive differenti, e senz’altro più affini a quella calassiana, concependo il pensiero come qualcosa che pre-esiste all’intelletto individuale, soggettivo, che lo manifesta. La prospettiva averroista, per esempio, mi sembra perfettamente inversa a quella appena citata: come spiega Emanuele Coccia, l’averroismo preferisce formulare l’enigma della forma di esistenza che il pensiero assume quando nessun Io ancora esiste, quando l’Io sembra ancora assente, per definire le condizioni della reciproca intraducibilità di homo e intellectus (homo non cogitat). Piuttosto che chiedersi quid sum, dum sum cogitans?, si chiede quid est intellectus dum ego non sum?14 Ancor prima, i sapienti vedici che praticavano il tapas, raccontati da Calasso nell’Ardore, erano più interessati a indagare la molteplicità di forze che attraversano la psiche e a riflettere sulla mente come un qualcosa di parzialmente difforme dal soggetto cogitante che a chiedersi cosa caratterizzasse il soggetto pensante in quanto tale: Per chi percepisce la propria mente come un soggetto compatto, dal profilo netto, che al più si accende o si spegne, quasi per opera di un interruttore, al sopraggiungere del sonno o quando dal sonno si esce, quella dottrina suonerà incongrua. Se invece la mente che agisce in ciascuno non si presenta come un blocco unico, ma almeno attraversata da una incisione, più o meno profonda di momento in momento, fra colui che guarda e un altro essere, che guarda colui che guarda, allora comincerà a balenare ciò che si cela dietro la divisione fra aham e ātman. Ma sarà solo l’inizio. Anche le parole che si formano nella mente – e tendono a costituire una fortezza autosufficiente – dovranno riconoscere di avere di fronte un’altra parte (non linguistica, perennemente in attività) con la quale in ogni attimo si scontrano o si amalgamano o si intrecciano (ma le modalità del rapporto sono molto più numerose e sottili). (A, p. 159) A chi appartiene quindi, per Calasso, il pensiero? Non al soggetto che lo pensa. Non soltanto, perlomeno; prima di qualsiasi declinazione personale e psicologica, il pensiero appartiene alla mente primordiale della quale ogni mente è un riflesso. Ogni persona conserva nella propria scatola cranica un frammento di un’entità che la precede ed esiste anche quando non viene pensata. È in questa componente psichica estranea all’Io che per Calasso si manifesta il divino. Con le parole di Simone Weil, potremmo dire: “Ciò che è sacro, lungi dall’essere la persona, è quello che in un essere umano è impersonale”.15 A tal riguardo, nel Libro di tutti i libri viene citato un passo di Osea di non semplice interpretazione: Iahvè concede il perdono a Israele per la sua infedeltà in un versetto che Calasso rende, anche appoggiandosi alla versione luterana, “perché sono Dio e non un uomo, / dentro di te sono santo / e non desidero devastare”. Sebbene altre versioni rendano in maniera diversa quel passo, che in greco recita en soì ágios, Calasso opta per una traduzione che supporta l’immagine di un divino che risiede dentro l’umano: Esisteva dunque, all’interno di qualsiasi interlocutore di Iahvè, una zona “santa” e incompatibile con ogni altra reazione umana. Soltanto per via di essa Iahvè avrebbe detto: “Non verrò per devastare”. (LTL, p. 426) Calasso ci invita dunque a immaginare una frattura che separa un’ideale linea Descartes-Locke-Hume-Kant da coloro che, similmente ai ṛṣi, vedono il pensiero come commistione irresolubile fra individualità e sovraindividualità. Più specificamente, il contrasto fra “la via occidentale” e quella vedica sta nella direzione: lo scopo della conoscenza diventa per l’Occidente l’annessione del mondo sotto il dominio dell’Io, grazie alla tecnica come strumento di controllo; al contrario, per la religione vedica la conoscenza si indirizza al progressivo distacco dall’Io, alla liberazione dall’illusione egocentrica, per la ricongiunzione dell’ātman, il Sé, essenza immanente e trascendente al contempo, con il brahman, l’assoluto: La via occidentale della conoscenza è stata la via della protesi, quindi dell’imitazione. La tecnica non ne è che il momento culminante. Del tutto opposta era la via vedica, che trasformava la totalità del singolo essere nel momento in cui operava il distacco del Sé dall’Io, dell’ātman dall’ahamk āra, che è la “fabbricazione dell’Io”. (CC, p. 127) In quest’ottica si può spiegare un altro aspetto fondamentale della mente secondo Calasso, cioè la sua doppiezza, che nulla ha a che vedere con il dualismo cartesiano, e si traduce invece in un’anfibolia di componente divina e umana che appartiene alla natura stessa del pensiero. Ritroviamo così il significato profondo del concetto di ierogamia, su cui Calasso insiste con frequenza. Essa è il risultato di una concezione del pensiero che, seguendo nuovamente uno spunto esterno all’Opera, possiamo ritrovare nella filosofia di Averroè: Pensare non significa diventare soggetto di idee, ma congiungersi, entrare in composizione con qualcosa che può essere pensato e che anche nello stato di congiunzione conserva il carattere di potenzialità, in quanto abito. Un pensiero in atto non è l’espressione di una soggettività, ma la realtà di una composizione con qualcosa che non si è. Questa peculiare rivoluzione, poetica prima che noetica, che fa della congiunzione il nome proprio del pensiero, si esprime chiaramente nel principio per cui è la congiunzione la vera causa dell’atto di pensiero.16 Una simile lettura relazionale del pensiero implica la non totale autonomia del soggetto nell’atto del pensare. Si ipotizza quindi che il soggetto subisca il pensiero, si faccia strumento del pensiero più che esserne il creatore. Si apre così la strada a una teorizzazione sulle esperienze di rapimento del soggetto che ha un’importanza straordinaria nella formazione dell’ideale di letteratura assoluta: Per un paradosso appena formulabile l’Io penso diviene qui luogo ed esperienza di un’estasi: non sono io a pensare ciò che penso; non è mai l’Io a pensare ciò che si pensa. Piuttosto, l’esperienza del pensiero diviene per l’uomo quella di una passività. Nel pensare si fa l’esperienza di essere l’oggetto di un sapere superiore e non necessariamente – non immediatamente almeno – di essere il soggetto di questo sapere superiore. In questo senso ogni coscienza è l’esperienza di un venir pensato piuttosto che di un vero e proprio pensare attivo, di un cogitor prima ancora che di un cogito.17 Potremmo utilizzare parole simili per descrivere l’idea di pensiero di Calasso, o meglio: per descrivere una possibilità offerta alla mente umana che a Calasso interessa più di ogni altra cosa esplorare. Che cos’è infatti la possessione, tema fra i più importanti dell’Opera,18 se non un’esperienza di passività? Una forte componente erotica è dunque ineliminabile dalla concezione calassiana della mente: il pensare è strettamente connesso all’erotismo perché frutto di una congiunzione con il divino. Sono argomenti che approfondirò nell’ultima parte di questo libro. Per il momento, preciso soltanto che la conoscenza del divino è sempre qualcosa di dirompente e violento, che può talvolta assumere i tratti di un vero e proprio stupro: “Theós, l’indeterminato divino, era un’invasione, del corpo e della mente. Era il diventare intimo di ciò che più è estraneo” (NCA, p. 235). Il fatto che l’esperienza del pensiero non appartenga a un soggetto libero e autonomo è uno dei grandi misteri dell’esperienza religiosa. Nel Libro di tutti i libri Calasso attribuisce questa dirompente consapevolezza ad Abramo. Un attimo prima di affondare il coltello nella carne del figlio, un attimo prima di essere graziato da Iahvè, Abramo riconosce che qualcosa si muove dentro di lui al di là della sua volontà, e vi si affida. È un passo fatale, secondo Calasso, una sfida a quel principio di autodeterminazione che dà al soggetto l’illusione del controllo: Abramo si era spogliato della sensazione del libero arbitrio. Non riteneva più di poter volere qualcosa. Aveva riconosciuto che qualcos’altro agiva in lui. La conquista di Abramo non fu l’obbedienza totale, ma la capacità di sospendere il dono più raro che Iahvè aveva consegnato a Adamo: la sensazione del libero arbitrio. Dono insidioso, necessario per vivere. Ora però non si trattava di vivere, ma di riconoscere. Che il libero arbitrio sussista, nessuno può affermarlo con certezza. Ma chiunque può testimoniare di possedere la sensazione del libero arbitrio. Sensazione preziosa, che rende la vita vivibile e promette di fondare ogni ordine, per quanto fragile possa essere il suo fondamento. La prova a cui Iahvè sottopose Abramo fu estrema, perché lo obbligò a riconoscere l’inganno necessario che gli uomini subiscono: attribuire a se stessi il potere della sostituzione e il libero arbitrio. (LTL, p. 165) 2.2 Vedere e riconoscere Nell’Opera calassiana ricco è il repertorio di immagini legate allo sguardo nelle sue declinazioni: l’occhio, la vista acuta, la pupilla ecc. Esso si colloca nella più ampia trattazione sul rapporto fra visibile e invisibile e sulle modalità di confronto e scambio fra queste due realtà. Lo sguardo viene indagato come mezzo per esperire il mondo, com’è ovvio, ma in special modo come strumento per catturare le immagini. Diventa inoltre, più significativamente, emblema tanto della conoscenza quanto dell’autocoscienza, laddove quest’ultima viene presentata nei termini di un’attitudine all’osservazione dell’attività mentale. La conoscenza è spesso concepita come una “visione”. Il presupposto si può rinvenire, ancora una volta, nel significato di “Veda” (cioè “sapienza”), che ha la stessa radice indoeuropea *wid del greco oída (“ho visto”, ma anche “so”) portatrice del significato di “vedere”. I leggendari autori dei Veda, i ṛṣi, avrebbero “visto” gli inni “attraverso una sorta di percezione soprannaturale”,19 comunicandoli poi agli uomini sotto forma di parole. Lo stato da cui gli inni furono generati, precedentemente alla comparsa degli dèi, è tapas, l’ardore: i ṛṣi dovettero sperimentarlo nella loro coscienza per poter vedere gli inni, e far sì che esistessero; in quello stato essi ancora permangono, seguitando a vegliare sul mondo, affinché i Veda continuino a essere. Il tema della veglia, del risveglio della coscienza, ha un’importanza fondamentale nella Rovina di Kasch e in tutta l’Opera di Calasso; anche qui, il presupposto è vedico, affidato alle parole di Brahmā nel finale di Ka: Il mondo nacque dall’interruzione di un sonno. Per questo la veglia è l’unica prova dell’esistenza. Per questo il mondo è frammentato e non può raggiungere la pienezza. Per questo tenta continuamente di ricomporre la pienezza. Invano, perché il discontinuo non trapasserà mai nel continuo. La matematica lo assicura, ultima stazione di ciò che è. (Ka, pp. 461-462) Connesso in qualche modo allo sguardo, il concetto di veglia, altrettanto strettamente collegato a quello di coscienza, è fra quelli su cui l’Opera insiste con maggior frequenza. La veglia viene ripetutamente presentata come una ripresa dal torpore, un permanere desti. In Ka si ritrova come filo conduttore nelle parole di Atri, uno dei Saptaṛṣi, i sette cantori originari, a cui Calasso dà voce in una sorta di summa del pensiero vedico: Il luogo dove sorgono e dove si nascondono i significati potrebbe anche essere insignificante. Ipotesi che impaurisce e imbarazza tutti, ma che dovremmo aver cara perché – laggiù dove le definizioni non sono operanti – tutto è massimamente incerto. Ed è anche salutare che come tale sia avvertito. Ma proviamo a osservare che cosa accade quando siamo costretti a riconoscere (e non a definire) l’esistenza di ciò. Quando accade? Quando ci svegliamo. Il risveglio: è l’unico fenomeno fisiologico che ha a che fare con ciò. Aggiungerò solo questo: provate a pensare a un secondo risveglio: a un risveglio che avvenga all’interno della veglia, che non si sommi alla veglia ma la moltiplichi, per un n che non sapremo mai precisare. Non so se così fu per voi. Ma per noi questo fu il pensiero. Questo è il pensiero. (Ka, p. 204) Il torpore sembra lo stato in cui l’umanità staziona per la maggior parte del tempo; rari sono i momenti di intensità e vera coscienza, in cui si avverte la presenza dello sguardo che scruta i movimenti interiori mentre accadono. Il contatto con il divino si interrompe nel momento in cui l’uomo smette di averne consapevolezza, quando si offuscano le vie psichiche che lo garantiscono; ma non può arrestarsi completamente. Non è possibile, cioè, alterare la natura doppia dell’uomo, che si rivela nella sua capacità di pensarsi. Calasso lo spiega così, assistito dalle parole di Plotino, nelle parti conclusive del Cacciatore Celeste: L’uomo è per costituzione incapace di essere uno. La sua natura è sempre per difetto o per eccesso. E così dev’essere. Da una parte gli uomini sono “quelli che vedono, dall’altra la visione che un altro vede”. Senza l’autoriflessione non si dà pensiero – e non si dà contatto con il divino. (CC, p. 316) Al tema dello sguardo rimanda nell’Opera la ciclica apparizione di Core, altro nome di Persefone, che significa “fanciulla”, ma anche “pupilla”. Il rapimento della giovane figlia di Demetra da parte di Ade diventa un altro emblema della coscienza o, meglio, di quel momento in cui il soggetto scorgendosi riesce a percepirsi come altro da sé, giacché la pupilla è quel punto del corpo umano in cui chi guarda si specchia, vedendosi restituita la propria immagine. È un’idea che compare per la prima volta nelle Nozze di Cadmo e Armonia: Core vede se stessa nell’occhio del suo rapitore, scopre il riflesso, la duplicazione, l’attimo in cui la coscienza vede se stessa. (NCA, p. 240) La stessa immagine torna, a testimoniare la propria importanza, nelle pagine finali del Cacciatore Celeste, di quasi trent’anni successivo: Core significa “pupilla” – e la pupilla è l’unico punto del corpo che ospita in sé il riflesso. Ma, dove c’è il riflesso, c’è anche uno sguardo che guarda se stesso. Non c’è vita, per gli uomini, senza quello sguardo. E al tempo stesso è quello sguardo a rivelare il predominio inscalfibile dell’assenza sulla presenza. (CC, p. 408) Letteratura assoluta: 3. Edipo e la Sfinge 3. Edipo e la Sfinge “Quando a un crocevia uccisi un vecchio irascibile e vanaglorioso seppi, ancora prima di averlo ucciso, che si trattava di mio padre, chi altri avrei potuto uccidere se non lui… in realtà un altro uomo l’ho ucciso, ma fu più tardi, un tipo insignificante, un ufficiale della guardia di cui ho scordato perfino il nome.” “C’è ancora qualcun altro che hai ucciso,” intervenne la Pizia. “E chi?” domandò Edipo in tono di meraviglia. “La Sfinge,” rispose Pannychis. Friedrich Dürrenmatt 3.1 Lo spalancarsi dell’enigma L’indagine sulla natura della conoscenza conduce sempre, per l’uomo, a un dubbio identitario, quasi seguisse l’esempio mitico di Prajāpati, costantemente alle prese con un tormentoso interrogativo su se stesso. Questo tema fondamentale si lega, nell’Opera calassiana, alla ricorrente riflessione sulla figura di Edipo. A interessare in maniera particolare Calasso, nella storia dell’eroe tebano, è il “peccato infinito” che riscontra in lui sulla scia di Hölderlin: quello di “interpretare infinita mente”.20 Calasso vi dedica alcuni passaggi del già citato saggio su Ecce Homo: Edipo pecca perché “interpreta troppo infinitamente”, come se egli per primo avesse sentito l’esaltazione provocata da Nietzsche di fronte allo spalancarsi, da lui stesso provocato, di un mondo passibile di interpretazioni infinite. (QG, pp. 46-47) Il riferimento è al frammento 374 della Gaia scienza, in cui Nietzsche contempla la possibilità ineliminabile che il mondo si presti a interpretazioni infinite.21 Questa riflessione proietta sull’indagine conoscitiva l’ombra di un problema più vasto, quello del nostro rapporto “simulativo” con la realtà, che, come sottolinea Calasso, Nietzsche ha avuto il merito di mettere in evidenza: Noi non siamo fatti per sapere ma per agire come se sapessimo – questo come se è la garanzia necessaria del pensiero, ma una garanzia che è sempre dovuta restare inconsapevole perché è insopportabile riconoscerla, per la bête philosophe essa è la paralisi e la derisione. Nietzsche sceglie di porre quel come se al centro dell’azione e si impone che l’azione ne venga esaltata – perché ora solamente ha perso ogni riferimento, appare nella sua forma pura, un aggregato di segni che non sanno, non possono sapere, non vogliono sapere della loro origine. Con quest’ultimo passaggio alla volontà senza fondamento del tutto, il mondo è tornato a essere un enigma, un enigma composto anche dalle sue varie soluzioni. (QG, p. 40) Strutturalmente incapace di conoscere il mondo nella sua interezza, l’uomo è costretto a ridurlo, adattandolo alle forme parziali delle proprie rappresentazioni. In questo modo il mondo si rivela enigmatico, cioè impossibile da comprendere, da abbracciare come totalità. La questione dell’enigma è di estrema importanza per Calasso, e si ritrova, vent’anni dopo il saggio su Nietzsche, nelle Nozze di Cadmo e Armonia: I Greci furono attirati dall’enigma. Ma cos’è l’enigma? Una formulazione misteriosa, si dice. Eppure questo non basta a definire l’enigma. Occorre aggiungere che la risposta all’enigma è anch’essa misteriosa. Questo distingue per noi l’enigma dal problema, anche se alle origini greche le due parole si sovrapponevano. (NCA, p. 385) È un nodo evidentemente fondamentale per la fisionomia della modernità, tanto che Calasso continua a rifletterci, con sorprendente puntualità, due decenni dopo, nella Folie Baudelaire: Chi pensa è costretto a commettere un “peccato infinito” – quello che secondo Hölderlin aveva avuto origine in Edipo: interpretare infinitamente, senza un primum e senza uno sbocco, in un moto incessante, abrupto, frantumato e ricorsivo. (FB, p. 27) L’eroe di Tebe è dunque l’emblema di un problema gnoseologico. Svariate sono le prospettive da cui possiamo accostarci alla sua storia, e diversi gli aspetti che essa chiama in causa. Innanzitutto Edipo è colui che apre all’enigmaticità: su di lui si riversa la forza distruttiva della domanda a cui, solo fra i molti, riesce a rispondere. L’indovinello della Sfinge, interrogazione enigmatica per antonomasia, dimostra la potenza misteriosa che distingue l’enigma dal problema. La soluzione al quesito sulla creatura che, con una sola voce, può essere alternativamente bipede, tripode e quadrupede, spalanca dietro di sé il vortice di una complessità estrema: l’uomo stesso è infatti un mistero più oscuro di qualsiasi domanda posta dal mostro che tormenta Tebe. In secondo luogo, Edipo rappresenta la pericolosità di ogni indagine conoscitiva. Interrogando Tiresia sul misterioso assassinio di Laio, il re di Tebe pecca di tracotanza, si spinge al punto di voler sapere, nelle parole di Hölderlin, “più di quanto possa sopportare o comprendere”.22 Similmente l’uomo moderno, che come ha illustrato Nietzsche vive nel mondo reso “favola” dall’accantonamento del divino, non può accettare la verità sulla propria condizione, cioè la sua mancanza di fondamento. Mettendo da parte il “mondo vero” della trascendenza, in quanto superfluo, l’uomo ha perso anche il proprio fondamento ultimo. Provando a porsi essa stessa come fondamento ultimo delle cose, l’umanità accetta infatti uno stato di ambiguità perenne: come può l’origine collocarsi lungo il percorso? Ogni cosa che appare diventa così un agglomerato di segni che non rimandano a niente, perché il fondo ultimo delle cose è stato svuotato. Così l’uomo, proprio come Edipo, si è incamminato lungo un percorso conoscitivo che si rivela autodistruttivo. Egli avrà bisogno di fingere la conoscenza, di avviare una serie di processi che simulano la conoscenza per ignorare il fatto che la realtà è diventata enigmatica. Edipo è dunque per Calasso un simbolo della condizione umana, costretto a interpretare continuamente la natura di segni che non comprende, pagando il prezzo, altissimo, della sua indagine più difficile: quella su se stesso. 3.2 La Sfinge e la potenza del simbolico Prima di soccombere di fronte all’abisso della propria identità, Edipo si è guadagnato la fama di risolutore di enigmi. La storia del suo scacco alla Sfinge, cioè al simbolo enigmatico per eccellenza, ci pone di fronte a un’inquietante intuizione sul senso della significazione tout court. Giorgio Agamben ha scritto che la Sfinge ci invita a riflettere sul “disagio” a cui ci costringe il simbolico.23 Tale imbarazzo ci viene dal difficile riconoscimento della lotta tra forma e significato: capiamo infatti che il simbolo è il luogo in cui il significato e la sua espressione si incontrano e, al tempo stesso, una prova della dualità ineludibile di manifestante e cosa manifestata, implicita in un’idea di verità che si svela, verità come non nascondimento (alétheia).24 La Sfinge ci ricorda che non possiamo mai perdere di vista la natura ambigua del segno, e l’arbitrarietà che sta dietro alla nostra accettazione della significazione. Agamben vede nell’enigma della Sfinge la perfetta espressione di un occultamento della “frattura della presenza”, un mascheramento, cioè, della distanza fra significante e significato. Con la sua impresa risolutrice, Edipo avrebbe perciò in primis peccato di hýbris nei confronti della potenza del simbolico: Con il suo gesto, egli inaugura una spaccatura del linguaggio che avrà una lunga discendenza metafisica: da una parte il discorso simbolico e per termini impropri della Sfinge, la cui essenza è un cifrare e un nascondere, e, dall’altra, quello chiaro e per termini propri di Edipo, che è un esprimere o un decifrare. […] Ogni interpretazione del significare come rapporto di manifestazione o di espressione (o, all’inverso, di cifra e occultamento) fra un significante e un significato […] si pone necessariamente sotto il segno di Edipo, mentre si pone invece sotto il segno della Sfinge ogni teoria del simbolo che, rifiutando questo modello, porti innanzitutto la sua attenzione sulla barriera fra significante e significato che costituisce il problema originale di ogni significazione.25 La figura dell’eroe di Tebe sta dunque sulla soglia di una frattura insanabile che riguarda il nostro rapporto con la rappresentazione. Su tutt’altro versante, anche Calasso indaga la figura di Edipo risolutore di enigmi, mettendone in luce altri aspetti. Nelle Nozze di Cadmo e Armonia l’eroe tebano diventa l’emblema dell’illusione propria dell’uomo moderno di afferrare, con la scienza, una verità che costituzionalmente gli sfugge: Con Edipo, l’uccisione del mostro si scinde: da una parte, un’uccisione perfettamente consapevole, quella compiuta con la parola che distrugge la Sfinge; dall’altra, un’uccisione perfettamente inconsapevole, quella con cui Edipo elimina Laio in una rissa fra viaggiatori. C’è un rovescio nefasto della lucidità che aderisce alla coscienza, da allora. È quella la vendetta del mostro. Il mostro può perdonare chi lo ha ucciso. Ma non perdonerà mai chi non ha voluto toccarlo. (NCA, p. 385) Da un lato c’è Edipo come immagine dell’intelligenza operativa, al servizio della risoluzione di un problema: il suo ingegno porta all’uccisione della Sfinge. Dall’altro lato c’è il risvolto tragico della sua storia, che sta in un’altra uccisione, quella del padre, e risponde a un’intelligenza diversa, cosmica e fatale. Cosa significa che il mostro si vendica di chi non ha voluto toccarlo? Che esso si rifà su chi si è illuso di poterlo annientare dando una risposta univoca, senza entrare in contatto con la mostruosità. Risuonano qui le parole di Al di là del bene e del male: Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te.26 Non è possibile rimuovere l’ambigua complessità che il simbolo della Sfinge racchiude in sé. Eliminato il mostro, l’eroe deve farsi carico della sapienza che il simbolo custodiva al suo interno: Il mostro aspetta vicino alla sorgente. Il mostro è la sorgente. Non ha bisogno dell’eroe. È l’eroe che ha bisogno di lui per esistere, perché la sua potenza sarà protetta dal mostro e al mostro va strappata. Quando l’eroe affronta il mostro, non ha ancora potere, né sapienza. Il mostro è il suo padre segreto, che lo investirà di un potere e di una sapienza che sono soltanto di un singolo, e soltanto il mostro gli può trasmettere. (NCA, p. 382) Anche per questo motivo l’enigma pone di fronte a un pericolo mortale, che l’uccisione della Sfinge attira invece di scongiurare: è la manifestazione di un perenne e insolvibile scollamento fra la realtà e le sue rappresentazioni, a cui noi dobbiamo sopperire con la simulazione, con il come se. 3.3 Il problema del segno, o delle interpretazioni infinite Può essere utile inserire simili ragionamenti sul simbolo della Sfinge nel magma di riflessioni sul linguaggio che hanno animato il secolo scorso, con particolare riferimento alle teorie semiotiche. Nel 1984, in un’ampia ricognizione storica sui principali problemi posti alla sua disciplina, Umberto Eco ricordava che il segno è costitutivamente “ciò che mi apre a qualcosa d’altro. Non c’è interpretante che, nell’adeguare il segno che interpreta, non ne sposti seppure di poco i confini”.27 Riconosceva inoltre che il soggetto stesso partecipa della natura dinamica dei segni, venendo di volta in volta ricostruito dalla “pulsione profonda che produce la semiosi”.28 In questo dinamismo, che è il problema fondamentale espresso dal simbolo della Sfinge, Eco vedeva invece una caratteristica positiva del rapporto fra soggetto e segno: Il segno come momento (sempre in crisi) del processo di semiosi è lo strumento attraverso il quale lo stesso soggetto si costruisce e si decostruisce di continuo. Il soggetto entra in una crisi benefica perché partecipa della crisi storica (e costitutiva) del segno. Il soggetto è ciò che i processi continui di risegmentazione del contenuto lo fanno essere.29 In un saggio più tardo, Eco affronta più direttamente la natura del simbolo, cioè di quel particolare tipo di segno che, in alcuni contesti, può rappresentare una “realtà inesprimibile a parole, contraddittoria, inafferrabile”.30 Secondo Eco, fino a una certa altezza storica – l’Ottocento della décadence –, al simbolo non veniva associato un significato insondabile poiché era considerato una strategia retorica che serviva a rivestire il discorso razionale per suscitare un percorso interpretativo capace di svelarlo. Ogni celebrazione di oscurità del simbolo voleva insomma affermare, al fondo, una strenua volontà di commento. Già nel 1984 Eco tratteggiava però anche le caratteristiche di quello che definiva il “modo simbolico”, cioè una strategia testuale volta a manifestare un’esperienza semiotica totalizzante e intraducibile, in cui l’espressione rinvia a una nebulosa di contenuti di fronte alla quale nessuna regola semantica può suggerire la corretta interpretazione.31 Nel saggio del 1994, Eco precisa che tale concezione di simbolico “si radicalizza solo in un universo ormai laico, in cui il simbolo non deve più svelare e nascondere l’assoluto delle religioni, ma l’assoluto della poesia”.32 Anche il semiologo dunque riconosce all’arte e alla letteratura la facoltà di assumere in sé dei valori prima appartenuti alle religioni: Forse è la modernità che ha inventato un concetto di poesia, visto che i lettori contemporanei, o di poco più tardi, leggevano Omero come un’enciclopedia del sapere universale, e i medievali usavano Virgilio come più tardi si sarebbe usato Nostradamus. Siamo noi, oggi, che alla poesia, e sovente alla narrativa, non chiediamo solo espressione di sentimenti, o racconto di azioni, o moralità, ma anche folgorazioni simboliche, pallido Ersatz per una verità che alle religioni non chiediamo più.33 Eco ritiene che il modo simbolico, giunto con il Novecento alla sua più alta realizzazione come strategia cosciente, sia passato nel nostro tempo attraverso alcune “sofisticazioni”, la prima delle quali è “che ogni detto sia costruito secondo l’isotopia del non detto”.34 In tal modo la ricchezza simbolica si disperde, secondo Eco, in una rete che si sovrappone al tessuto di ogni discorso, portando a un’inutile sovrainterpretazione di tutti i testi. Eco parte, di fatto, dalle stesse premesse di Calasso: la modernità e la contemporaneità sono caratterizzate dalla “morte di Dio” e dal crollo dell’illusione di poter conoscere la totalità del reale. Laddove però Calasso nega che il divino possa scomparire davvero, e individua nel simbolico la manifestazione di significati inspiegabili in maniera univoca, Eco si scaglia contro la “malattia del linguaggio”35 che porta a ipotizzare costantemente che ogni messaggio abbia un senso secondo. Ritorniamo così alla questione da cui siamo partiti, ovvero la colpa di Edipo: “interpretare infinitamente”. Anch’essa può essere ricondotta al dibattito degli anni settanta sui “limiti dell’interpretazione”, sui quali ugualmente Eco si interroga in un saggio del 1989.36 L’Edipo calassiano, infatti, può essere visto come emblema del fenomeno definito “semiosi ermetica”, una tendenza all’infinita decodifica dei testi in virtù della loro natura di segni. Se un segno rimanda sempre a un altro, il continuo slittare del significato di simulacro in simulacro genera una vertigine interpretativa in cui l’uomo può precipitare senza fine. Nelle sue considerazioni sulle derive della semiosi ermetica e sulla possibilità della semiosi illimitata, Eco scrive: La semiosi ermetica […] assume che qualsiasi cosa – ammesso che venga isolato il nesso retorico giusto – può rimandare a qualsiasi altra cosa, proprio perché c’è un soggetto trascendentale forte, l’Uno neoplatonico. Esso, essendo il principio della contraddizione universale, il luogo della Coincidentia Oppositorum, estraneo a ogni possibile determinazione e dunque, contemporaneamente, Tutto, Nulla, e Fonte Indicibile di Ogni Cosa, fa sì che ogni cosa si connetta a ogni altra grazie a una ragnatela labirintica di mutui riferimenti.37 Il semiologo, nel consueto tentativo di dare forma al caos, giunge a conclusioni molto distanti da quelle di Calasso: la semiosi è anche per Eco virtualmente illimitata, ma “i nostri scopi cognitivi organizzano, incorniciano e riducono questa serie indeterminata e infinita di possibilità. Nel corso di un processo semiosico ci interessa sapere solo ciò che è rilevante in funzione di un determinato universo di discorso”.38 Così, la questione è riportata una volta di più al problema centrale della delimitazione di campo, strumento indispensabile per arginare la possibilità che la nostra mente precipiti in una spirale di segni che rimandano continuamente ad altro. È insomma evidente come Nietzsche abbia spalancato, sul finire del XIX secolo, una finestra mai richiusa sulla natura enigmatica del linguaggio. 39 I temi della morte di Dio, della simulazione e della maschera sono anche alla base dell’indagine “archeologica” di Michel Foucault sull’episteme moderna, Le parole e le cose. In un mondo che è diventato favola, che ha perso il suo fondamento, cioè il rapporto con il continuo, con quella totalità che è più vasta della somma delle sue determinazioni, qualsiasi interpretazione è destinata a ripiegarsi su se stessa e, come scriveva Enzo Turolla proprio recensendo Le parole e le cose, un’“esegesi senza volto, priva di esegeta, percorre il mondo come suo doppio, interpretazione di un’interpretazione […] [e] fa discendere il testo (il mondo) in profondità sempre più cupe e sempre più enigmatiche”.40 Dal post-strutturalismo in avanti, le discipline umanistiche – e non solo – hanno continuato senza requie a interrogarsi sulle limitazioni dei processi ermeneutici, in un discorso che non pare esaurirsi. In un volume dedicato alla questione, Paolo Virno ha sottolineato che “il regresso all’infinito, che in logica segnala il fallimento o l’incompletezza della dimostrazione, è innanzitutto una possibilità permanente cui è esposta l’esistenza del primate superiore denominato Homo sapiens”.41 Chiarita dunque la natura enigmatica del mondo, presupposto indispensabile per afferrare la concezione della mente di Calasso, si spiega anche il principio gnoseologico espresso in Ka: “La conoscenza ultima non può manifestarsi se non per enigmi” (Ka, p. 170). Nel mondo vedico, che segue una via alternativa alla conoscenza come adaequatio rei et intellectus, Calasso trova infatti la visione a lui più congeniale per affrontare le grandi questioni relative alla mente: In un certo modo, l’assolutismo vedico della mente è molto più pronto ad accogliere un dubbio radicale su se stesso di quanto lo sia l’empirismo della scienza, la quale offre sempre i suoi risultati – per quanto provvisori e perfettibili – come una trascrizione verificata (quindi vera) di ciò che è. (A, p. 427) C’è una metafora che Calasso utilizza spesso per descrivere l’indagine conoscitiva: è quella della caccia, tema centrale del Cacciatore Celeste. La caccia è una rappresentazione fedele all’idea di conoscenza di Calasso innanzitutto per la sua pericolosità che, similmente alla sfida di Edipo con il mostro, mette a confronto l’uomo con l’alterità bestiale: Sin da Platone, caccia e conoscenza sono termini che si inseguono e si sovrappongono. Implicito, nella connessione, è un certo carattere assassino del conoscere, che nel raggiungere il suo oggetto può ucciderlo. (CC, p. 49) La caccia rappresenta inoltre per Calasso un passaggio della scala evolutiva estremamente affascinante, quello in cui l’uomo smise di essere terrorizzato e succube degli animali e cominciò a ucciderli imitandoli, contrapponendo alle loro zanne e artigli le armi che si fabbricava copiandoli. Quello che interessa a Calasso è la rivoluzione psichica implicita in questo mutamento, soprattutto in riferimento alle modalità del pensiero che entrano in gioco per permettere un simile cambio di abitudini. La caccia, allora, diventa il modello di molte altre operazioni sostitutive a cui la nostra mente si sottopone. Per affrontare questo tema, è necessario rivolgerci a uno degli snodi più significativi del discorso calassiano sulla mente, la dicotomia fra analogico e digitale. Letteratura assoluta: 4. Analogico e digitale 4. Analogico e digitale Sia detto per inciso, la conoscenza di ciò che sono l’analogia e il trasferimento – conoscenza per la quale la matematica, le diverse scienze e la filosofia sono una preparazione – ha così un rapporto diretto con l’amore. Simone Weil 4.1 Due poli sempre in azione In una lunga e articolata intervista televisiva del 2016, Calasso spiegava che la grande protagonista dell’Opera è la polarità fra pensiero analogico e pensiero digitale, su cui tutti i volumi in qualche modo agiscono.42 Accennava così a una questione centrale della sua indagine sulla mente umana, quella delle due modalità di funzionamento del pensiero, dei due poli fra cui perennemente si dispiega la nostra psiche. Calasso ne segue i profili, i movimenti nel tempo, cercando di rintracciare, dalla preistoria all’“innominabile attuale”, l’origine inafferrabile della loro diversificazione. Il tema viene esposto per la prima volta nella Rovina di Kasch: nella parte iniziale del libro compare, in un ampio ragionamento sulla sostituzione, il riferimento a John von Neumann e alla distinzione da lui proposta fra calcolatori analogici e digitali. La sostituzione è il perno del nostro sistema cognitivo, e si manifesta soprattutto nel linguaggio – nella procedura con cui sostituiamo a ogni referente del mondo oggettivo o immaginario, a ogni significato, un significante. Dalla sostituzione si dipartono due rami o, come scrive Calasso, “si biforca una Y che a lungo aveva vagato nel cosmo e ora si è ritratta nella mandorla della mente” (RK, p. 273). Da una parte, una modalità del pensiero che dice che “a sta per b, e implica che a annulli b e lo uccida, talvolta per scoprirne il funzionamento”; dall’altra una che dice: “a sta per b, ma come una scheggia di granito sta per la montagna da cui si è distaccata” (RK, p. 273). Nel primo caso vediamo all’opera la potenza della digitalità, nel secondo quella dell’analogia. Sebbene in questo passo della Rovina di Kasch Calasso parli di analogico e digitale come di due derivati della sostituzione, poiché in entrambi i casi si tratta della capacità di movimento associativo del nostro pensiero, più spesso nell’Opera il termine “sostituzione” indica il meccanismo del pensiero digitale, mentre “connessione” definisce il reame del pensiero analogico. Fra i due non c’è opposizione, ma eterna compresenza: si compenetrano e si supportano a vicenda. Nel Cacciatore Celeste Calasso spiega che la loro cooperazione si evince chiaramente da due fondamentali attività: l’imitazione, che cerca la sostituzione ma suggerisce un’analogia, e la metamorfosi, che segue la spinta analogica per arrivare alla sostituzione: Sostituzione e connessione – i due poli perenni della mente – convivono nell’imitazione e nella metamorfosi, si intrecciano, si fomentano, si sopraffanno. Ai loro estremi: il simulatore incessante – o l’animale, la pianta o la pietra che sono il risultato delle metamorfosi senza ritorno narrate da Ovidio. (CC, p. 126) La digitalità è all’opera nella convenzione, che maschera l’arbitrarietà del segno facendolo sembrare scontato e naturale; a essa appartengono, secondo Calasso, la codifica, il diritto positivo e la separazione fra Io e mondo. La digitalità è il reame del discreto, della barriera che stacca l’Io dal mondo: serve a creare quella conoscenza che concede al soggetto uno spazio d’azione e di dominio sulla natura. Come accennato, essa si manifesta in primo luogo nel linguaggio, in cui appare evidente la capacità sostitutiva della nostra mente. È un meccanismo perennemente attivo e molto potente: L’atto che è stato il più potente e continua a manifestare la sua potenza fu un atto silenzioso della mente: l’atto della sostituzione, l’atto con cui venne stabilito che a stava per b, che a prendeva il posto di b, che a rappresentava b, che una pietra sarebbe stata chiamata come un’altra pietra, che una tacca su un legno avrebbe indicato un astro. È l’atto della codifica. (CC, p. 130) Con un simile ma più sottile gioco di rimandi opera il polo analogico, regno del continuo, della connessione. L’analogia ci consente di slittare da un significato all’altro senza sostituirli fra loro, priva com’è del carattere eliminatorio della digitalità, e ci permette quindi di accostare idee, concetti e immagini pur continuando a riconoscerne la difformità. All’analogia appartengono le connessioni – i bandhu vedici – e la Legge, intesa come controparte di ordine cosmico del diritto. Sua è l’immagine della rete, dell’invisibile trama su cui il pensiero si articola all’infinito, procedendo senza confini di simulacro in simulacro. L’analogia serve a conoscere il mondo nella sua complessità, a guardarne il funzionamento in una prospettiva universale: non prende dunque il mondo come dato inerte, ma come materia metamorfica. Come facilmente intuibile, nella sua lettura della modernità – di quel moderno che sfocia poi nell’“innominabile attuale” – Calasso rileva che a prevalere significativamente sia il polo digitale, a cui la scienza tende a dare maggior credito, ritenendolo utile e affidabile in termini pratici. Come spiegare l’insistenza con cui Calasso torna sulla distinzione fra i due poli della mente? In primo luogo, a Calasso interessa sottolineare il peso della loro concomitanza, in secondo luogo analizzare le conseguenze dell’indifferenza che viene loro riservata nella contemporaneità. Nella convinzione che soltanto uno sguardo che abbracci in toto le possibilità della mente possa indagare in maniera efficace il nostro tempo, Calasso mira anche a illustrare come, nella storia della cultura europea, queste due tendenze si siano trovate sempre in conflitto fra loro, secondo quella che Aby Warburg definiva la “schizofrenia della civiltà occidentale”43: Per secoli, dall’inizio della fortuna degli Hieroglyphica di Orapollo, si può dire che la cultura europea si sia spartita fra i due poli della sostituzione (percepibile nell’accanimento a decifrare, quindi a sostituire) e dell’analogia (percepibile nella ricerca delle corrispondenze, quindi di una catena simbolica che permettesse di passare, per via di somiglianza, da immagine a immagine, senza mai uscire dal gioco cosmico delle figure). (FB, pp. 173-174) Per Calasso la predominanza del polo digitale su quello analogico è una prerogativa di quella linea della filosofia e della scienza occidentale che guarda alla mente come un centro operativo e trascura la natura doppia delle nostre facoltà conoscitive; nega così la commistione del soggetto con il mondo esterno, e crea l’impostura della mente come foglio bianco e privo di connessioni, di un’individualità estranea al continuo: Il motivo dell’abissale differenza di presupposti che separa l’India vedica dall’Occidente. O per lo meno da ciò che, dopo lunga elaborazione e macerazione, è finito per diventare il presupposto taciuto, il buon senso occidentale: la visione dell’uomo come tabula rasa, la tavoletta di cera di cui parlava Locke. Questo è l’unico presupposto che permette di far funzionare la complicata macchina della vita sociale (e a che altro – dicono alcuni – dovrebbe servire il pensiero?). (A, p. 395) 4.2 I sistemi formali L’“innominabile attuale” predilige un certo modo della conoscenza, quella che, seguendo una linea filosofica che ha in Descartes il suo alfiere, “si è concepita come protesi, apparato da sovrapporre alla propria mente per mettere ordine nel mondo” (CC, p. 137). Questa linea riconosce validità quasi esclusiva a un particolare tipo di discipline scientifiche, quelle matematiche, che Calasso studia con interesse fin dalla Rovina di Kasch. In special modo, guarda alle teorie degli insiemi, alle scienze computazionali e alla creazione di sistemi formali. Il “tempo senza dèi”, cioè il nostro, scrive, ha cercato lì la risposta alle proprie domande: “La ragione senza presupposti – ogni presupposto è un estraneo – la ha fissata nell’indagine in cui sviluppa la sua massima forza: quella logico-matematica” (RK, p. 357). Il confronto con le scienze logico-matematiche è dunque fondamentale, secondo Calasso, per delineare la variegata tela della mente. Ecco allora che accanto ai poeti e ai romanzieri, agli storici e agli artisti cui abbiamo accennato, fra i personaggi dell’Opera si annoverano anche matematici del calibro di John von Neumann, Alan Turing, Kurt Gödel o Eugene Wigner – tutti a vario titolo impegnati, nella prima metà del Novecento, a sfidare i limiti dei sistemi formali, a indagare le più disparate forme di intelligenza, a interrogarsi sulle restrizioni della stessa. In modo chiaro e sintetico, il matematico Paolo zellini illustra uno dei problemi fondamentali della scienza del calcolo nel XX secolo: Turing dimostrava che i numeri calcolabili, le cui cifre decimali sono valutabili da una macchina, formano nel complesso un insieme numerabile; ma questo insieme lascia aperto, fuori di sé, un baratro di incalcolabilità paragonabile a quello dei numeri irrazionali, un territorio alieno che la mente umana non riesce a catturare se non per via di complesse costruzioni teoriche, non sempre adeguate a quel principio di realtà che anche la matematica si sforza di rispettare. I numeri e le figure ci distolgono da quel baratro, ma non fino al punto da poterlo ignorare.44 La difficoltà insormontabile delle teorie dei sistemi formali appartiene, secondo Calasso, alla sfera del proprio, cioè alla scelta degli elementi da farvi rientrare. Come indicato dalle dimostrazioni di Kurt Gödel che hanno scosso le fondamenta della logica novecentesca, non esiste infatti per nessuna teoria formalizzata il modo di decidere senza equivoco dell’appartenenza di un enunciato generico alla teoria stessa. Le debolezze dei sistemi formali che interessano particolarmente Calasso sono due: il fatto che tutto ciò che sta fuori dal sistema non venga considerato in quanto trascurabile; il fatto che l’arbitrio che contraddistingue il sistema possa rendere trasparente tutto, ma non se stesso (cfr. RK, p. 358). Così, fino al crollo – imprevedibile ma certo –, il funzionamento del sistema formale dà un senso smisurato di potenza, che deriva dall’illusione di poter gestire un dominio sconfinato. Il rovescio della medaglia è nella nozione di trascurabile: se per operare in un determinato ambito la mente deve innanzitutto delimitare il campo, rinunciare a perdersi nelle infinite diramazioni che le si offrono seguendo il polo analogico, ogni scienza porta con sé un surplus di trascurabilità (e di inconoscibilità): Il cervello apparteneva al continuo, ma aveva bisogno – un bisogno vitale – del discreto per operare. […] Il cervello riesce ad agire in modo efficace soltanto se decide di ignorare qualcosa. Il trascurabile è la chiave di ogni efficacia. E il trascurabile è il residuo. Ignorare il trascurabile è un imperativo del cervello. E lo diventerà della scienza. (CC, p. 132) Calasso trova la smentita più acuta di questo modo di vedere le cose in alcune riflessioni di Simone Weil contenute in una lettera al fratello André, matematico; la filosofa vi esprime le sue perplessità sul metodo sperimentale, che ha il principale punto critico di considerare irrilevante qualsiasi dato che possa contraddire l’impianto teorico di partenza, grazie alla precisa delimitazione di campo a cui ogni esperimento costringe la realtà: “Contraddizione essenziale nella nostra concezione della scienza: la finzione del vaso chiuso (fondamento di ogni scienza sperimentale) è contraria alla concezione scientifica del mondo. Due esperimenti non potrebbero mai dare risultati identici. Si sfugge a questo attraverso la nozione di trascurabile. Ma il trascurabile è il mondo…” Quest’ultima frase combacia con la visione dei ritualisti vedici: il residuo è il mondo. Due righe sotto: “La nozione di analogia, di rapporti identici, è centrale per i Greci. Ponte fra il finito e l’infinito”. (CC, p. 134) È evidente che la dualità dei centri focali della psiche è strettamente connessa con la natura simulativa della nostra conoscenza. Per tornare alla lettura che Calasso fa del nostro tempo, dobbiamo quindi, una volta di più, rifarci al suo saggio su Ecce Homo. È necessario ricordare l’essenza simulativa dei nostri processi cognitivi, giacché il presupposto da cui Calasso parte, sulla scorta di Nietzsche, è ancora questo: “Ogni forma della rappresentazione è una necessaria falsificazione, che riduce immensamente il reale ma si presenta in noi come se lo comprendesse nella sua interezza” (QG, p. 33). La prima e decisiva omissione sulla quale la scienza moderna fonda la propria efficacia è semplice e ricca di implicazioni: “Ignorare la psiche dello scienziato che la elabora – e la coscienza in genere” (CC, p. 137). L’opposizione fra digitale e analogico corrisponde dunque a quella fra mentalità economica e consapevolezza del dato di fatto primario: il soggetto umano ha coscienza di se stesso. Benché sia possibile ignorare il polo analogico e preferirgli quello digitale, il continuo sarà sempre più vasto del discontinuo, e non smetterà di agire su di esso in forme celate. Il polo analogico della mente è quello che consente di risalire alla radice di ogni possibile sostituzione, rendendo omaggio al fondamento del pensiero stesso. Nella Bibbia, alcune cruciali vicende di Abramo sono mosse da un meccanismo sostitutivo: sua moglie Sara, ritenuta sterile, viene sostituita dalla schiava Hagar per il concepimento di un figlio, Ismaele. Abramo, per indicazione di Iahvè stesso, sostituirà il secondo figlio Isacco con un ariete al momento di commettere il sacrificio richiestogli. Per Calasso, il punto cruciale di queste storie, sullo sfondo di una mentalità radicalmente diversa da quella dominante nel mondo attuale, è che questi meccanismi sostitutivi non siano dati per scontati, ma riconosciuti come un dono divino: La sostituzione doveva essere un dono di Iahvè, non un’invenzione degli uomini. Se Abramo fosse stato capace di sostituire Isacco con un ariete, se Abramo avesse contato sul fatto che l’angelo lo fermasse, da quel momento tutto avrebbe potuto essere sostituito con tutto. E nessuno avrebbe pensato diversamente, perché la sostituzione era una compagna costante della mente, a cominciare dalla parola, che sulla sostituzione si fonda. (LTL, p. 164) Quello digitale è il polo dell’efficienza: dà grandi possibilità di manovra, ma se usato in modo esclusivo impedisce la consapevolezza di ogni gesto e finisce con l’annullare il mondo esterno trasformandolo in mero materiale da laboratorio. Al contempo, il polo analogico, se ignorato, acquisisce una potenza sotterranea incontrollata. Questa minaccia pervade tutta La rovina di Kasch: Il polo digitale dà una grande potenza, ma non contiene, all’interno della macchina, quella fisicità dei valori mobili che è un ultimo palpabile ricordo del mondo esterno. Digitalità è pura sequenza di segni: quando il suo dominio si è esteso a tutto, non sappiamo più quale terra ci sostiene – se una terra c’è ancora. Continuiamo a vivere il polo analogico, ma non sappiamo più come nominarlo: è emozione muta, che opprime e non sbocca più nel suo antico estuario. (RK, p. 32) La rovina di Kasch insiste moltissimo su questo punto: i limiti del polo digitale, che cerchiamo sempre di ignorare, di mascherare con la convenzione, tornano fuori e si manifestano in modi inquietanti. Seguendo la modalità digitale, il pensiero immagina un progresso infinito e lineare, ma vive nel terrore che qualcosa lo ostacoli, qualcosa di celato nei gerghi dei sistemi, della complessità, del controllo. O altrimenti nell’assillo di un materiale che viene meno, di una forza irreversibilmente consumata, di una mancanza invincibile. E ogni volta risuona l’antico esorcismo: troveremo nuove convenzioni, procederemo con severe correzioni di metodo. Il circolo si ripete, ma sempre più stretto, in attesa che si stringa in un cappio. (RK, pp. 284-285) Del resto, un’indagine sulla conoscenza che si ponga con un approccio digitale non riesce a dar ragione del proprio punto di partenza: il farsi altro da sé del soggetto nell’atto stesso di pensarsi. Nell’“innominabile attuale” la scienza investe le proprie energie nella ricerca di un modo per controllare i processi conoscitivi e renderli più efficienti. L’impegno profuso nello studio delle intelligenze artificiali mira esattamente a ricostruire e a rendere gestibile all’esterno della mente quelle operazioni che il cervello compie in maniera automatica come un macchinario imperfetto. Ma l’informatica, con i suoi algoritmi, non ha ancora trovato il modo di capire il fenomeno della coscienza, che non si può scomporre in stati discreti: Se l’intelligenza è stata assorbita in algoritmi non coscienti che però funzionano in modo più efficace della mente – descrizione abbreviata della rivoluzione informatica –, è facile immaginare, come passo successivo, che la coscienza subisca qualcosa di simile. Ma appunto qui si incontra qualche ostacolo imprevisto. L’intelligenza può essere concepita come una successione di stati discreti, simulabili in linea di principio anche all’esterno della mente. Ma la coscienza? Qui, nonostante il profluvio di scritti che ne trattano, è inevitabile giungere a una osservazione paralizzante: nessuno sa di cosa è fatta la coscienza. E non solo non lo sappiamo, ma ogni apparato che dovrebbe avvicinarci a saperlo, come per esempio la fMRI o la microscopia tridimensionale, non fa che accrescere il nostro senso di inadeguatezza. (IA, pp. 77-78) La rassicurante concezione del soggetto come qualcosa di irrelato dal mondo esterno è limitante rispetto al cruciale problema dell’autoriflessività. Una visione discreta-digitale concede al soggetto di intervenire sul mondo, ma non gli dà accesso alla vera conoscenza: La capacità di controllo (sophrosýne), l’abilità nel dominarsi, nel reggere, l’acutezza dell’occhio, la sobria scelta dei mezzi adatti per raggiungere i fini: tutto questo distacca la mente dalle potenze, concede l’illusione di usarle senza esserne usati. Ed è un’illusione efficace, che spesso trova conferme. Lo sguardo si è fatto indifferente e lucido verso tutto, pronto a cogliere qualsiasi occasione e trarne vantaggio. Ma rimane una macchia nera in questo sguardo circolare, un punto che lo sguardo non vede: se stesso. Lo sguardo non vede lo sguardo. Non riconosce di essere esso stesso una potenza, come quelle che ora pretende di dominare. (NCA, p. 260) 4.3 Continuo e discreto La questione della coscienza è dunque determinante, perché è una realtà che un approccio di tipo digitale si mostra insoddisfacente a conoscere. Non è possibile concepire la coscienza come un insieme scomponibile in tanti stati discreti, indipendente dal suo ambiente, perfettamente definita e controllabile. Queste caratteristiche, essenziali per il buon funzionamento dei computer, non si applicano facilmente alla nostra psiche. Tuttavia, la nostra mente è capace di comportarsi come un calcolatore. Innate sono in noi le capacità di circoscrivere il campo di un problema, risolvere operazioni, comporre messaggi utilizzando dei codici definiti e decodificarli, vedere le cose del mondo come oggetti slegati da noi che è possibile gestire. Al tempo stesso, però, la nostra mente è in grado di pensare il continuo: è in grado di avvertirsi come unica e complessa, di scorgere intuitivamente le affinità tra gli oggetti più disparati, di avvertire ed esperire l’ineffabile e incodificabile. Calasso dedica una grande parte della sua Opera a descrivere la misteriosa compresenza di queste due possibilità del pensiero. Vediamo di ripercorrerne per sommi capi i punti fondamentali. Considerando i modi in cui il nostro pensiero crea associazioni fra oggetti diversi, Calasso pone una linea di demarcazione fra i processi in cui gli elementi in gioco sono ben distinti e quelli in cui non lo sono. Il polo sostitutivo, o digitale, della mente sarà allora quello più adatto alla codifica in quanto mette in azione quella parte del nostro encefalo che sa comportarsi come una macchina, che seguendo regole prestabilite e precise può lavorare sulle quantità e circoscrivere accuratamente il proprio campo di azione, anche basandosi su una rete di convenzioni condivise e sistematizzate. Grazie al polo digitale, il cervello sostituisce l’insieme di segni “cavallo” con l’informazione “mammifero erbivoro su quattro zampe”. Il polo connettivo, o analogico, sarà invece quello più adatto a scorgere le somiglianze e le affinità tra gli oggetti che si trovano nel mondo esterno a noi e all’interno della nostra psiche. È il polo delle corrispondenze, dell’ambiguità e dell’indistinzione, che ci fa avvertire il mondo come una rete di simpatie e di risonanze inspiegabili. È il più adatto a farci intuire il nostro mondo psichico nella sua interezza, cioè nel suo essere continuo, con i suoi aspetti misteriosi e informi. È il polo che, per seguire un esempio contenuto nell’Opera, faceva percepire ai ritualisti vedici che il cavallo ucciso durante un sacrificio era l’occhio del dio Prajāpati. A tutto ciò è necessario aggiungere che per Calasso “continuo” è sinonimo di “divino”. Il termine viene infatti usato spesso per descrivere un’immensità impossibile da definire secondo contorni precisi, alla quale diversi apparati rituali rendevano omaggio in forme diverse. Perciò il polo analogico del pensiero è anche quello che consente alla mente di ricongiungersi al continuo originario, alla grande mente dalla quale, secondo la mitologia vedica, discende. Queste due realtà della psiche sono per Calasso inseparabili e perennemente in azione. Le distingue, nel mondo contemporaneo, il loro prestigio: poiché il polo analogico non offre soluzioni ad alcun problema, ma semmai solleva una serie di problemi sempre nuovi, gli viene di gran lunga preferito il polo digitale, che invece regala l’illusione di controllo ed efficacia. Le implicazioni di un predominio della digitalità sull’analogia hanno per Calasso ricadute storiche precise, come vedremo nel prossimo capitolo. Vale però ora la pena soffermarsi sulla potenzialità della sostituzione: Quando la sostituzione si compie, l’atto è violento: non solo perché elimina – o rende comunque superfluo – ciò che viene sostituito, ma perché rivela che il regime della sostituzione alla fine prevale su quello della somiglianza. E addirittura può usarlo ai suoi fini. (CC, pp. 126-127) Una delle caratteristiche precipue dell’“innominabile attuale” è la concezione della conoscenza come strumento finalizzato a uno scopo pratico. Non a caso Calasso mette spesso l’accento su quella che Jean Baudrillard avrebbe definito la “configurazione operativa” del nostro tempo, di cui la digitalità è il “principio metafisico”.45 Il polo digitale è, cioè, quello che meglio si presta alla traduzione di conoscenze in procedure pratiche. L’importanza che l’informatica ha acquisito negli ultimi tre decenni in qualunque settore produttivo e scientifico ne è la prova. Tuttavia, proprio quando il suo predominio è massimo, il pensiero digitale rivela la sua vicinanza con il polo analogico: Il mondo si sta assoggettando a una procedura di codifica universale e onnilaterale. Ogni codifica è una sostituzione. Ma anche la codifica può essere sostituita. E magari da un “codice maligno”, come si usa dire nel gergo informatico. È questo il karman della digitalità. Chi di sostituzione ferisce di sostituzione può facilmente perire. (IA, p. 37) Grazie alle tecnologie che è stato in grado di sviluppare, il pensiero digitale può arrivare dunque, passaggio sostitutivo dopo passaggio sostitutivo, a costruire un’illusione di continuità talmente ben riuscita da far perdere di vista il punto di partenza reale. Il computer è programmato per compiere una serie di operazioni in forma occulta, cioè celando i vari passaggi all’osservazione del programmatore. La velocità con cui avvengono i processi di codifica è tale da dare l’illusione di un’immediatezza senza precedenti. Per Calasso, questa è una delle vie di riemersione del polo analogico, che al momento agisce nell’ombra. Nell’Innominabile attuale, lasciava intravedere alcune delle conseguenze di questa “età dell’inconsistenza” informatica: Finché un giorno, all’alba del mondo digitale, non si profilò un termine fascinoso: disintermediazione. Ora bastava digitare certe parole, in sequenza, e chiunque aveva l’impressione di agire in prima persona, senza ricorrere ai soliti fastidiosi intermediari. Se questo valeva per un viaggio o una prenotazione di albergo, perché non doveva valere anche in politica? È una domanda che ha obnubilato non pochi – e continua a farlo, quanto più la digitalità è pervasiva e la disintermediazione offre a ogni passo una facile ebbrezza. La quale, se osservata da vicino, si rivela fondata sull’odio per la mediazione. Che è fatale per il pensiero. Non c’è bisogno di rifarsi a Hegel per sapere che non solo il pensiero ma la percezione sussistono soltanto grazie alla mediazione, quindi attraverso continui aggiustamenti e compromessi, che sono l’opera stessa della mediazione. Anche il vagheggiamento della democrazia diretta non discende ormai da una riflessione politica, ma dall’infatuazione informatica. Che, deprezzando la mediazione, finisce anche per deprezzare l’immediatezza, raggiungibile soltanto dopo aver attraversato il reticolo delle mediazioni. (IA, p. 77) Questo è un altro tema su cui la visione del mondo contemporaneo viene contrapposta all’orizzonte vedico, dove era il polo analogico a godere di un predominio indiscusso. Già nel primo millennio a.C. la matematica era anche al servizio della tecnica, ma in modo inscindibile era legata e orientata dall’esperienza religiosa.46 I rapporti fra i due poli della mente erano dunque rovesciati rispetto all’attualità: Nelle silenziose pianure del passato, il Veda è con ogni probabilità l’area più vasta, più complessa e ramificata dove si sia vissuto concedendo la sovranità e il predominio a un solo polo della mente: quello analogico. Polo che agisce perennemente (che non può non agire) in qualsiasi essere, di qualsiasi tempo, allo stesso modo del suo corrispettivo, che è il polo digitale. Sotto il cui segno si trova a vivere oggi il mondo nella sua totalità – condizione sperimentale che non ha precedenti. (A, p. 420) È proprio in ragione di questa preferenza che il mondo vedico rimane il riferimento irrinunciabile per Calasso in materia di mente. Nel capitolo dell’Ardore in cui dà voce ai punti di partenza della sua esplorazione dello Śatapatha Brāhmaṇa, il “pensiero vedico” è definito il “tentativo più azzardato e consequenziale di ordinare la vita obbedendo esclusivamente alla modalità analogica” (A, p. 421). Illustrata la complessa dialettica fra digitalità e analogia, emerge con chiarezza che Calasso intende la vera conoscenza come qualcosa di eternamente inafferrabile, una sorta di fantasma del castello di Atlante. Intrinsecamente elusiva, la conoscenza non può che sfuggire a un approccio pragmatico e operativo, a cui si concede solo in una forma parziale e simulata. La verità non può lasciarsi imbrigliare per uno scopo, perciò, come apprendono sulla propria pelle i personaggi dei romanzi kafkiani: Una parte, una larga parte di ciò che è non deve essere accessibile alla conoscenza. Non è chiaro se ciò avvenga perché la conoscenza produrrebbe dei guasti o soltanto perché sarebbe, di là da un certo punto, inopportuna. Comunque, la conoscenza è la prima nemica. (K, p. 123) Restando nel solco della cultura vedica, è venuto il momento di analizzare la questione del linguaggio. In contrasto con tutta una linea filosofica che vede in esso l’essenza stessa del pensiero, in reciproca definizione e limitazione, Calasso crede nella non-identità di pensiero e parola, convinto che le possibilità della mente siano più vaste di quelle offerte dal solo linguaggio: L’immanifesto è molto più vasto del manifesto. L’invisibile del visibile. Così anche per il linguaggio. Noi tutti dobbiamo sapere, quando parliamo, che del linguaggio “tre parti, depositate nel segreto, sono immobili; la quarta parte è quella che usano gli uomini”. Soltanto perché la lingua proietta un’ombra ben più vasta di sé e inaccessibile la parola conserva e rinnova un tale incanto. (A, p. 406) La non-coincidenza di pensiero e linguaggio è uno dei capisaldi teorici dell’Opera che, se da un lato si collega alla contrapposizione fra polo analogico e polo digitale, dall’altro fa da contraltare alla potenza delle immagini che per Calasso sono la prima forma del pensiero. Letteratura assoluta: 5. Immagini mentali 5. Immagini mentali Io penso non in parole ma in immagini, in colori fluttuanti, forme ombreggiate. Vladimir Nabokov 5.1 Una lunga questione irrisolta 47 Ho già avuto modo di illustrare come negli scritti di Calasso la mente venga spesso rappresentata quale superficie liquida, sul modello di una scena della creazione contenuta nel Ṛg Veda in cui la materia mentale che precede la formazione dell’universo è descritta come indistinta distesa d’acqua. Questa visione fluida della mente ha importanti connessioni con la concezione calassiana del pensiero, e soprattutto con la modalità analogica del pensiero, quella che si mantiene in più stretto contatto con il continuo. Dalle acque della mente, come abbiamo visto, possono infatti emergere delle figure, e nell’emersione di tali immagini, in questi profili che si stagliano improvvisamente sul fluido mentale, Calasso vede una modalità primigenia del pensiero non ancora tradotto in parole. Non mi sembra di scarso rilievo, a riguardo, il fatto che uno dei primi scritti di Calasso, la sua tesi di laurea, vertesse sui geroglifici di Sir Thomas Browne, quindi su un linguaggio fatto di immagini. In un’intervista con Lila Azam zanganeh, lo stesso autore spiegava: I geroglifici – l’idea di un linguaggio fatto di immagini – sono connessi con tutto il mio lavoro. Per lungo tempo, questo linguaggio è stato considerato più importante di quello verbale. Alcuni scrittori o studiosi, come Thomas Browne, credevano che fossero un linguaggio segreto.48 La trasposizione in parole dei simulacri psichici è un passaggio secondario; la comparsa di un’immagine precede sempre, per Calasso, la sua resa in termini di linguaggio. La questione, di primissimo piano nell’Opera, è tutt’altro che semplice, indirizzata com’è alle fondamenta stesse del pensiero. Filosofi e scienziati si sono interrogati in ogni tempo sulla natura iconica del pensiero umano, senza tuttavia giungere a un punto. Cercherò qui di riassumere in maniera sintetica gli snodi principali di una lunga querelle, giusto per definire le coordinate entro cui va collocato il discorso calassiano. Generalmente ci si riferisce alle “immagini mentali” come a un’esperienza semipercettiva, che somiglia alla percezione sensoriale ma si presenta dentro di noi in assenza di un preciso stimolo esterno.49 A lungo la filosofia ha considerato le forme di rappresentazione mentale di tipo iconico come tratti essenziali dell’attività cognitiva; il pensiero di Platone e soprattutto quello di Aristotele hanno influenzato profondamente la tradizione occidentale e quella islamica in materia. Aristotele riteneva che le immagini mentali – i phantásmata, le “apparenze” della psiche – fossero essenziali al pensiero e che i significati della lingua derivassero da esse in quanto le parole che utilizziamo sono una decrittazione delle immagini interiori. All’immaginazione così intesa spettava dunque una preminenza assoluta fra le facoltà umane.50 Uno snodo essenziale della storia delle immagini mentali ha come protagonista René Descartes, personaggio, come abbiamo visto, fondamentale nell’Opera. Descartes vedeva nella ghiandola pineale, luogo di congiunzione fra res cogitans e res extensa, la sede deputata al processo immaginativo, lo schermo sul quale si imprimevano le immagini. Nel consueto tentativo di ricondurre al controllo soggettivo ogni forma di percezione, egli attribuiva loro una funzionalità precisa, quella di convogliare informazioni spazio-visive al centro di comando superiore. Sacrificando l’approfondimento sull’altare della sintesi, per inquadrare il problema solo nell’ottica dell’Opera, mi sposterei, con un balzo in avanti di parecchi secoli, agli inizi del Novecento. In questo periodo, gli studi della Scuola di Würzburg testimoniano un rinnovato interesse per la questione delle immagini mentali; si avvia in quella sede una polemica destinata a durare a lungo. Con una serie di esperimenti sui processi cognitivi, Oswald Külpe e i suoi collaboratori portano avanti la tesi del pensiero senza immagini: sostengono, cioè, che il pensiero sia fatto di “stati di coscienza” di natura non sensoriale e non immaginale. L’esperienza della Scuola di Würzburg crea un presupposto che appartiene a molti filosofi contemporanei: il pensiero va concepito solo in termini di linguaggio, ed è un errore ritenere che il linguaggio derivi da una forma di rappresentazione primigenia come le immagini mentali.51 Si mettono quindi in dubbio per la prima volta il senso dell’immaginazione a scopi cognitivi e l’esistenza stessa delle immagini mentali. Nella filosofia contemporanea le prospettive di ricerca in questo campo appaiono rovesciate rispetto agli albori della disciplina. Ludwig Wittgenstein, per esempio, per quanto affascinato dalla questione delle immagini mentali, era molto scettico riguardo al loro ruolo predominante nei processi cognitivi. Nello specifico, non riteneva che il linguaggio si innestasse sulle immagini mentali e che fosse un mezzo da esse derivato per esprimere la nostra vita interiore; al contrario, lo considerava il principale strumento del pensiero, e reputava che i significati celati dietro i significanti linguistici nascessero dall’uso che di quegli stessi significanti veniva fatto. La posizione di Wittgenstein segna un punto di non ritorno; dopo di lui, i pochi filosofi che, sulla scia del rinnovato interesse per il valore cognitivo delle immagini degli anni sessanta e settanta, cercano di difendere le teorie del pensiero e del significato basate sulle immagini mentali si ritrovano a nuotare controcorrente. Al contempo, durante la cosiddetta “rivoluzione cognitiva”, in psicologia si riaccende l’interesse per l’immaginazione, anche in conseguenza dell’accantonamento del comportamentismo primonovecentesco. Le immagini iniziano a essere frequentemente utilizzate anche in psicoterapia. All’interno del dibattito scientifico si assiste a uno scisma tra due fronti contrapposti, la cosiddetta disputa analogico-proposizionale: da una parte si schierano gli analogisti, che concepiscono le rappresentazioni mentali come un prodotto di natura iconico-fotografica; dall’altra i proposizionalisti, che le ritengono di natura linguistica. Entrambe le posizioni sono comunque quanto di più distante si possa concepire dalla visione della mente di Calasso. I due filoni utilizzano infatti un approccio, predominante negli anni settanta, di tipo funzionalista e computazionalista: un approccio che Calasso definirebbe digitale. Tanto l’ipotesi di Jerry Fodor che esista qualcosa come un codice innato della mente (un linguaggio particolare, non legato a un idioma, chiamato mentalese), quanto quella di Stephen Kosslyn, che ipotizza che le immagini mentali siano una sorta di figure digitalizzate generate da un programma di simulazione nel computer della mente,52 non possono essere accostate alla fisionomia psichica immaginata da Calasso. Dopo gli anni settanta, hanno preso piede anche approcci di tipo non-computazionale: negli ultimi decenni si sono sviluppate, per esempio, una corrente definita enactivism, che guarda ai processi mentali come risultati dell’interazione fra organismo intelligente e mondo esterno e considera le immagini mentali come parte di tale processo relazionale, e una connessionista, che guarda al funzionamento del cervello sulla base delle reti neurali. Nonostante il risvegliato interesse scientifico per le immagini mentali, non è stata intaccata la convinzione generale che esse non siano la forma originaria del pensiero e non precedano il linguaggio. In nessun modo le immagini sono tornate ad avere in filosofia della mente la preminenza che avevano avuto in passato: persiste dunque l’egemonia di un pensiero che assegna alle immagini mentali un ruolo minore, ausiliario, nei processi cognitivi. A tutt’oggi, anche se non mancano i tentativi di andare in altre direzioni, predomina la tesi secondo cui il fondamento del pensiero risiede nel linguaggio o comunque in forme della rappresentazione diverse da quella iconica (come il mentalese). 5.2 Il rapporto fra immagini e continuo Illustrato in maniera giocoforza rapsodica lo sfondo teorico su cui la questione si è mossa nei secoli, proverò ora a inquadrarla nei termini in cui Calasso la espone, ricorsivamente, nell’Opera, anche per mettere in luce come la sua concezione dell’immagine mentale sia gravida di conseguenze sulla sua poetica e, dunque, sulla fisionomia dei suoi libri. È evidente che Calasso vi si approcci secondo un punto di vista che non è quello dello scienziato o del filosofo cognitivista, e che questa materia sia fondamentale per la sua idea di pensiero, di conoscenza e di letteratura. La presenza di simili trattazioni all’interno del work in progress testimonia l’attitudine onnivora della letteratura assoluta, pronta a ingerire e rielaborare ogni tipo di discorso e di sapere. La creazione di immagini mentali mette in gioco per Calasso i due poli della mente: quello analogico, perché l’avvicendarsi di un’immagine all’altra è immediato, repentino, e procede per scarti logici, e quello digitale perché, anche se nel meccanismo decodificatorio l’immagine precede la parola, ha poi bisogno della stessa per concretizzarsi. Lo illustra una pagina della Rovina di Kasch, in cui compaiono nuovamente i due uccelli delle Upani ṣad ad allacciare il problema dell’immagine mentale a quello dell’autoriflessività. Per relazionarsi al mondo esterno, la mente è costretta a raccogliere stimoli, ad alimentarsi; ma al tempo stesso ha l’insidiosa capacità di sentirsi mentre recepisce quegli stessi stimoli. Così, l’attività percettiva legata ai sensi e quella semipercettiva dell’immaginazione sono eternamente compresenti: L’origine della sostituzione non è neppure nella facoltà di dare nomi (e con ciò di sostituirli alle cose), ma in quella, irriducibile e inglobante, di formare immagini mentali; entità invisibili, occasionali, impermanenti, stati della coscienza che si sovrappongono a ciò che è percepito – o anche gli si sostituiscono, cancellandolo. Qui si assiste alla biforcazione originaria della psiche, qui i due uccelli delle Upani ṣad scendono dal cielo per aggrapparsi allo stesso ramo: l’uccello che mangia è quello che, in qualsiasi momento, è costretto a percepire (alimentarsi), accogliendo stimoli. L’altro, l’uccello che lo guarda, perennemente sovrappone il proprio sguardo allo sguardo che l’altro uccello rivolge al mondo. (RK, p. 185) L’immagine mentale è la prima, labile, concrezione del pensiero sovraindividuale in una forma. Più che con la filosofia o con la scienza contemporanee, la concezione calassiana del funzionamento del pensiero trova affinità con dottrine religiose molto antiche. L’averroismo – che negava la totale autonomia dell’intelletto individuale e ipotizzava un’eterogenesi del pensiero – vedeva per esempio nelle immagini non “la semplice causa efficiente dell’intellezione, ma il luogo in cui l’intelletto trova la propria forma e la propria realizzazione”.53 Per Calasso, similmente, le immagini sono un avamposto del continuo; in loro la discontinua e limitata esperienza individuale trova testimonianza della commistione fra umano e divino. La mente è infatti il terreno di incontro fra l’uomo e qualcosa di oltreumano poiché le immagini sono manifestazioni, simulacri di un’alterità che sempre convive con l’individualità. Benché brulichino perennemente nelle tenebre della psiche, è come se l’uomo ne avesse percezione soltanto in uno stato di coscienza non medio – laddove la “medietà” è intesa in senso statistico (cfr. QG, p. 478). Così, la materia mentale continua a sfuggire a ogni definizione e si moltiplica in un’infinità di simulacri ingannatori. Il primo fra tutti è quello che fornisce alimento a una conoscenza di tipo digitale, è il come se utile a mettere ordine al caos e a creare l’irrinunciabile finzione sottesa alla conoscenza scientifica, secondo quanto scrive Calasso nella Rovina di Kasch: “Perché il pensiero ha bisogno delle ipostasi? Perché sa di racchiudere potenze che lo scavalcano. L’ipostasi è un atto di omaggio che il pensiero offre al regno delle immagini” (RK, p. 354). Nella contemporaneità – in un mondo “troppo esoterico”, secondo la definizione di Calasso – il potere delle immagini mentali è misconosciuto, ma continua ad agire in profondità. Al contempo, le immagini si moltiplicano su ogni superficie e, lungi dall’essere riconosciute come simulacri, vengono recepite come dati inerti e non indagate ulteriormente: L’immagine sullo schermo appare nell’età in cui le immagini mentali tendono a invadere le strade e a trasformarsi in percezioni brute, accettabili da qualsiasi empirista. (RK, p. 368) 5.3 Simulacri e letteratura La prima grande definizione del problema del simulacro è contenuta nelle Nozze di Cadmo e Armonia, con riferimento al più pericoloso fra tutti gli idoli: la bella Elena di Sparta, creatura emersa dall’uovo della Necessità: All’origine del simulacro è l’immagine mentale. Questo essere capriccioso e impalpabile replica il mondo e al tempo stesso lo assoggetta alla furia combinatoria, frustandone le forme in una proliferazione inesausta. Emana una forza prodigiosa, lo sgomento di fronte a ciò che si vede nell’invisibile. Ha tutti i caratteri dell’arbitrio e di ciò che nasce dal buio, dall’indistinto, come forse, un tempo, era nato il mondo. Ma questa volta il caos è la vasta tela tenebrosa dietro i nostri occhi, su cui si disegna la dissipazione fosfenica. Quel formarsi delle immagini si ripete in ogni istante, in ogni singolo. E non queste soltanto sono le sue stranezze. Quando il simulacro prende possesso della mente, quando comincia ad aggregarsi ad altre figure affini o nemiche, a poco a poco occupa lo spazio della mente in una concatenazione sempre più minuta. Ciò che si era presentato come la meraviglia stessa dell’apparizione, slegata da tutto, si connette ora, di simulacro in simulacro, a tutto. A un capo dell’immagine mentale è lo stupore per la forma, per la sua esistenza autosufficiente e sovrana. All’altro capo è lo stupore dinanzi alla catena dei nessi, che riproducono nella mente la necessità della materia. (NCA, p. 157) Nella nostra mente, dunque, si conserva un frammento del caos primordiale. Lì il proliferare delle immagini è incessante e alimenta il movimento analogico del pensiero, che è proprio uno slittare senza scopo di simulacro in simulacro. Questa è anche la ragione del nostro complesso rapporto con gli stimoli visivi, con le immagini del mondo esterno. Lo sgomento invade la mente di fronte alla perfezione dell’immagine, quando questa confligge con la sua stessa metamorfosi nella nostra testa, di connessione in connessione, in un’ininterrotta catena di nessi. Questa potenzialità infinita della mente, estremamente pericolosa, come vedremo a breve, è al centro degli interessi di Calasso. Nell’Impuro folle, il delirio del presidente Schreber è legato a doppio filo con il suo particolare rapporto con le immagini. In una scena centrale del libro, il presidente disegna quella che al lettore sembra la riproduzione di un occhio di mosca presa da un libro di scienze naturali: Schreber ci vede invece le natiche velate di una ballerina di can-can o i due corni delle divinità zoroastriane Ormuzd e Ariman. Il potere evocativo dell’immagine va ben al di là del bisogno tassonomico dell’uomo. Non a caso Schreber dichiara che il dio Ormuzd vuole tenerlo lontano dalla “pura pratica delle immagini, inscalfito camouflage” (IF, p. 86), quasi fosse una conoscenza privilegiata e segreta. Si spiega così l’interesse di Calasso per la storia delle arti figurative, emerso con maggiore evidenza in volumi come Il rosa Tiepolo o La Folie Baudelaire, ma già intuibile dall’ossessiva insistenza sulle immagini del suo primo libro. Se già in un saggio del 1990 Calasso dichiarava che solo gli illustratori sono in grado di rendere in maniera fedele la potenza dei simulacri contenuti nelle Metamorfosi di Ovidio (QG, p. 496), nella Folie Baudelaire parlerà della pittura come di una forma di conoscenza iniziatica: Fra le varie forme della conoscenza, la pittura era dunque la più remota e cifrata. Qualcosa di simile a una verità esoterica, protetta da un segreto che non si può tradire semplicemente perché non c’è modo di tradirlo. (FB, p. 212) Al centro del volume del 2008 è raccontato un sogno che Baudelaire aveva affidato a una lettera per l’amico Charles Asselineau del 1856.54 Il poeta si reca in piena notte in una casa di prostituzione per consegnare alla maîtresse un libro di poesie; si ritrova così in una galleria d’arte, alle cui pareti sono appesi strani quadri di ogni tipo. Quel “bordello-museo” è per Calasso l’immagine più icastica del mondo moderno, e lì Baudelaire capisce che se la realtà, come il sogno, parla “un linguaggio quasi geroglifico” ciò non è male: non è sensato, infatti, voler spiegare le immagini, “trafiggerle con la lama del significato”; esse vanno invece adorate come messaggere dell’Ignoto, e cioè, ancora una volta, di un divino concepito in maniera estremamente ampia (cfr. FB, p. 185). Il riconoscimento dell’impossibilità di spiegare l’immagine è alla base della caratteristica “idolatria” dei poeti di cui scrive Baudelaire,55 un elemento essenziale della letteratura assoluta. Gli scrittori sono infatti in grado, secondo Calasso, di veicolare quel portato misterioso e metamorfico delle immagini mentali nella forma chiusa e perfetta dell’opera letteraria. In K. l’essenza stessa della vera conoscenza e della letteratura viene ricondotta all’avvicendarsi delle immagini mentali: La conoscenza implica che venga evocata un’immagine. E dell’immagine va subito riconosciuto che “è soltanto un’immagine”. Che occorrerà sostituire, per andare oltre. E sarà allora con un’altra immagine. Il processo è inarrestabile. Non esiste immagine di cui non si possa dire “è soltanto un’immagine”. Ma anche non esiste conoscenza che non sia un’immagine. Questo circolo vizioso non ammette uscite ed è quasi la definizione più approssimata della letteratura. Per immagine. (K, p. 140) Qualsiasi tipo di teorizzazione sul pensiero che ignori la potenza delle immagini e il loro portato conoscitivo non riesce a comprendere, secondo Calasso, la natura di molti importantissimi fenomeni psichici. I grandi scrittori gli sembrano invece aver assimilato una lezione remota, propria dei compositori dei Brāhmaṇa, gli antichi commentari dei testi vedici. La loro prosa dà a Calasso una sensazione di vertigine e oscurità non perché usano il pensiero per immagini (senza il quale ogni pensiero sarebbe inerte). Ma perché lo usano incessantemente, con dedizione estrema, non arrestandosi dinanzi ad alcuna conseguenza, anzi mettendo in atto (nel gesto) ogni conseguenza. È questo l’intrattabile scandalo vedico, che provoca tante reazioni di ripulsa e timore. Rispetto alle immagini, l’atteggiamento occidentale oscilla fra la minimizzazione (x è solo un’immagine, perciò non vincolante) e la tentazione di prendere alla lettera la metafora (macchinazione originaria di varie e fondamentali patologie psichiche, innanzitutto paranoia e schizofrenia). (A, p. 203) Ecco perché, secondo Calasso, nell’“innominabile attuale” le immagini proliferano ma vengono fraintese. Qualsiasi tipo di sapere analogico viene piegato alle esigenze della digitalità, nella totale indifferenza verso la natura simulativa della nostra conoscenza. Ma qualsiasi forma di rappresentazione “deve essere intesa come una mediazione” (IA, p. 76) e tradisce, per chi sa vedere, l’ambiguità che le appartiene: O il mondo che si definisce moderno rinuncia a certe metafore (e questo implicherebbe il ridursi a una sorta di mutismo verso le immagini) – o deve accettare di trascinarsi dietro, insieme alle metafore, la rete indominabile di tutte le loro connessioni, che obbligano a precipitare molto lontano nel tempo, giungendo così a un certo stato delle cose del quale ci rimangono solo quelle metafore, come se avessero il potere di coprire la totalità dell’esistenza. (A, p. 311) Ci muoviamo sempre, con Calasso, in una prospettiva nietzscheana di simulazione, in cui il rapporto fra la verità e le sue mutevoli rappresentazioni è inestricabile e ambiguo. Per lui la più viva dimostrazione del ripresentarsi dell’uguale sta, come accennato, nella riproposizione di modelli mitici. Ed è proprio a quelle immagini che modellano le nostre azioni come un’eterna grammatica dei gesti che è ora il caso di volgerci. Letteratura assoluta: 6. Un vincolo magico 6. Un vincolo magico La poesia cresce sulla contraddizione, ma non la ricopre. Adam Zagajewskj 6.1 Le insidie del mito In un breve saggio intitolato Il terrore delle favole – uscito sul “Corriere della Sera” a due anni di distanza dalle Nozze di Cadmo e Armonia e inserito nei Quarantanove gradini –, Calasso espone in maniera sintetica e puntuale il suo pensiero sul mito, un perno fondamentale dell’Opera. Il suo punto di partenza è la celebre condanna platonica alla poesia contenuta nel X libro della Repubblica. Questo testo, che Calasso ritiene il più autorevole degli attacchi mai subiti dal mito, ha avuto per lui il merito indiscutibile di riconoscere, per primo e in maniera insuperata, l’appartenenza del mito al “terreno dell’apparenza, delle immagini, dei simulacri, degli eídola” (QG, p. 490). Il mito è infatti strettamente connesso alle immagini mentali ed è proprio questa sua caratteristica a suscitare il “terrore” a cui si fa riferimento nel titolo. La disapprovazione di Platone, sottolinea Calasso, non è rivolta ai poeti, ma a un “uomo capace di trasformarsi sapientemente in tutto”, cioè a un uomo che abbia confidenza con le arti della metamorfosi: Platone allude qui al trauma, alla spaccatura nella storia della conoscenza, che avviene quando, invece di dire: a si trasforma in b, si dice: a è b. La prima forma, necessariamente narrativa, è quella in cui si mostra la conoscenza ovunque incontriamo dei miti – e non vi è civiltà che non includa in sé una qualche conoscenza di questo tipo. Al contrario, la conoscenza predicativa (nella forma a è b) appare assai tardi, e soltanto in rari luoghi, uno dei quali è la Grecia arcaica. L’opposizione ultima sarebbe dunque questa: da una parte una conoscenza che oggi chiameremmo algoritmica […]; dall’altra una conoscenza metamorfica, tutta interna alla mente, dove il conoscere è un pathos che modifica il soggetto conoscente, un sapere che nasce dall’immagine, dall’eídolon, e culmina nell’immagine […]. Una conoscenza sospinta da una forza inesauribile che ha però la grazia di presentarsi come un artificio letterario: l’analogia. (QG, p. 491) Il mito è quindi innanzitutto un modo della conoscenza: appartiene di diritto al polo analogico, è una forma del pensiero che si risolve nelle immagini – le figure mitiche – e che non trova spiegazioni al di fuori delle immagini stesse. È “un conoscere il simulacro attraverso il simulacro” (QG, p. 490), e perciò non accetta di farsi intendere in altra maniera. Per citare nuovamente il Calvino delle Lezioni americane: Ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, restarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini. La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori.56 Anche per Calasso la spiegazione è la via meno produttiva per accostarsi al mito; del resto, quale che sia il nostro modo di porci nei suoi confronti, esso rimane, connaturato com’è alla struttura della nostra mente, lo sfondo eterno entro cui ci muoviamo: Quelle storie sono un paesaggio, sono il nostro paesaggio, ostili e invitanti simulacri che nessuno ha inventato, che continuiamo a incontrare, che aspettano da noi soltanto di essere riconosciuti. Così ora possiamo confessarci che cos’era, che cos’è quell’antico terrore che le favole continuano a incutere. Nulla è di diverso dal terrore che è il primo fra tutti: il terrore del mondo, il terrore di fronte alla sua muta, ingannevole, sopraffacente enigmaticità. Terrore di fronte a questo luogo della metamorfosi perenne, dell’epifania, che include innanzitutto la nostra mente, dove assistiamo senza tregua alla ridda dei simulacri. (QG, p. 497) Allo stesso modo in cui il sogno può essere compreso soltanto attraverso il sogno – consapevolezza che Calasso, nel Libro di tutti i libri, attribuisce al profeta Daniele (cfr. LTL, p. 199) –, il mito può essere compreso soltanto attraverso il mito. Siccome è una realtà in cui siamo immersi che aspetta di essere riconosciuta, qualsiasi tentativo di spiegarla ne oscura i significati. Più proficuo allora è per Calasso percepire l’inesausta vitalità delle storie mitiche e “risvegliarsi”, prendere coscienza del loro essere sempre presenti, come un repertorio di gesti sempre a disposizione nella nostra testa. È proprio quello che capita al personaggio di Armonia verso la fine delle Nozze: E improvvisamente capì il mito, capì che il mito è il precedente di ogni gesto, la fodera invisibile che lo accompagna. Non doveva temere l’incertezza che le si apriva davanti. In qualsiasi direzione si fosse mosso il suo sposo errante, una benda volteggiante del mito avrebbe avvolto la fanciulla Armonia. Per ciascun passo, l’orma era già segnata. (NCA, p. 428) 6.2 Il mito come metodo espositivo Come ha scritto Giorgio Manganelli recensendo il volume del 1988, “da sempre ci abitano i miti; non possiamo perderli senza perdere noi stessi”57; ecco perché le storie della mitologia continuano ad avvincerci: non possiamo fare a meno di perderci nella rete delle loro infinite varianti poiché quello stesso reticolato avviluppa strettamente il nostro encefalo: Eppure in quella stoffa tagliuzzata, in quelle storie monche degli dèi possiamo ancora avvolgerci. E dentro il mondo, come dentro la nostra mente, quella stoffa continua a tessersi. (NCA, p. 315) Del resto, ricorda Calasso, è lo stesso Platone, nel Fedone, a dimostrare un approccio al mito diametralmente opposto a quello della Repubblica, a definire, per il tramite di Socrate, bello e necessario il “rischio” di “incantare se stessi con tali cose [i miti]”.58 Per Calasso il nostro rapporto con un mito, il suo semplice ascolto, non può mai essere neutro in quanto produce sempre in noi un sortilegio bello e pericoloso, un rischio che dobbiamo correre “perché la conoscenza che ci viene incontro da questa via non sarebbe raggiungibile in altro modo” (QG, p. 494). Una simile concezione della mitologia chiarisce e giustifica non soltanto la proliferazione di racconti mitici che caratterizza l’Opera, ma anche e soprattutto la singolare attitudine mitografica – intesa anche come avversione per le trattazioni tradizionali sul mito – propria della prosa calassiana.59 Si motivano così anche l’assenza di una rigida impalcatura espositiva e l’amalgama di forma saggistica e narrazione, di invenzione e analisi di fatti concreti – tutti tratti che abbiamo visto contraddistinguere gli undici volumi dell’Opera. In un certo senso potremmo attribuire a Calasso il tentativo di applicare quello che Eliot definì il “metodo mitico”60: un modo che “sovverte il senso comune e le comuni concezioni della storia; frammenta l’ordine del quotidiano, facendo intravedere profondi crepacci di senso sotto la sua superficie”.61 Se c’è un aspetto essenziale del mito che affascina particolarmente Calasso è la sua modalità di esposizione degli argomenti, che rifugge le definizioni in sé conchiuse per dispiegare e intrecciare una sequenza di storie dalla vitalità infinita. Come scrivevano Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell’illuminismo, in un ideale controcanto con la massima di Salustio posta in epigrafe alle Nozze di Cadmo e Armonia, il mito “è sempre stato oscuro ed evidente al tempo stesso, e si è sempre distinto per la sua familiarità che lo esime dal lavoro del concetto”.62 Risulta quindi poco produttivo, nell’accostarsi all’Opera, utilizzare letture del mito in chiave strutturalista, allegorica e, men che meno, ideologica. Del resto, come scrivono Giovanni Leghissa ed Enrico Manera, qualsiasi studioso si ponga l’obiettivo di affrontare la questione mitologica prendendone le distanze, come uno scienziato vivisezionerebbe un corpo estraneo su un tavolo da laboratorio, è destinato a fallire perché muove da presupposti inconsistenti: La questione è metodologica: o la critica del mito si sa immersa in un universo di significati che, per ragioni antropologiche, non potrà mai esonerarsi dal mito, oppure essa si condannerà a desiderare sempre di nuovo l’attuazione di un rischiaramento che progressivamente liberi gli umani dal mito e precisamente questo desiderio, interamente mitico, ha sempre animato la critica delle ideologie, in tutte le versioni in cui essa si è presentata.63 6.3 Mito e letteratura Il discredito di cui è vittima la modalità analogica del pensiero nel mondo moderno ha secondo Calasso delle implicazioni significative sulla fisionomia della letteratura. Esautorato del suo potere conoscitivo, il mito si insinua in essa; la letteratura assoluta diventa anche un luogo di salvaguardia per quel particolare tipo di conoscenza metamorfica. Questo passaggio dal mito alla letteratura si può leggere in due modi: da un lato Calasso non sembra del tutto estraneo all’idea di Mircea Eliade per cui gli stessi miti greci “classici” sono già un “trionfo dell’opera letteraria” sulla credenza religiosa64; dall’altro, un termine come “credenza” si rivela assolutamente inadeguato a descrivere la mentalità mitica da lui concepita. Commentando il sopracitato passo del Fedone, Calasso scrive che il mito, “più che una credenza, è un vincolo magico che ci stringe. È una fattura che l’anima applica a se stessa” (NCA, p. 313). In un certo senso, dunque, nella trasposizione epica delle vicende divine ed eroiche Calasso sembra leggere una modalità di trasmissione quasi clandestina di un sapere che andrebbe altrimenti perduto. E non soltanto nel caso del mito greco; in Ka questa analisi si applica al Mah ābhārata: Ormai, nell’oscurarsi dei tempi, quando tutto si inverte e si rovescia, si sarebbe dovuto cominciare – e finire – con le storie di uno dei tanti dissidi dinastici, di una delle tante guerre che si erano svolte in un’area in fondo piccola, anche se a lungo battuta dagli dèi. Proprio quello sperpero di casi e di vicissitudini era l’involucro che aveva permesso di salvare il sapere precedente, che ormai non poteva sussistere più da solo. (Ka, pp. 361-362) La migrazione del materiale mitico nella letteratura sarebbe dunque andata di pari passo con la sua progressiva desacralizzazione. L’aspetto narrativo del mito avrebbe prevalso sulla sua valenza paradigmatica ai fini del culto, secondo una lettura condivisa anche da Jacob Burckhardt.65 D’altro canto, Calasso sembra credere al potere delle storie di significare di per sé, anche quando totalmente sceverate dal contesto rituale, quasi il rito vi si inserisse come un percorso tracciato nel paesaggio mentale – che è, giocoforza, anche mitico: Era come se d’improvviso tutti fossero stanchi di compiere gesti che hanno un significato. Volevano stare seduti, nell’erba o intorno a un mucchio di braci, ad ascoltare storie. Ed erano storie dove spesso si raccontavano e si descrivevano quegli stessi riti che gli ascoltatori stavano compiendo. Ma ora quei riti diventavano episodi all’interno di lunghe vicende sanguinose, pretesti per scontri e inganni. Le storie non erano più una pausa di respiro all’interno della sequenza rituale, ma il rito stesso diventava un passaggio all’interno delle storie, come poteva esserlo un duello o una notte amorosa. (Ka, pp. 360-361) Inoltre, la letteratura può essere un modo per attingere al mito in un’epoca tanto distante da quella che lo vide fiorente, come spiegava Calasso in un’intervista a Mario Baudino: [I miti] sono una via del conoscere: ma se non vengono vissuti, meglio lasciarli perdere. Non è obbligatorio occuparsi di queste cose. Ma possiamo avvicinarci a essi attraverso l’unica risorsa che abbiamo noi occidentali: la letteratura.66 Nella recensione alle Nozze di Cadmo e Armonia, Dario Del Corno parlava del mito come di uno strumento narrativo e interpretativo che può sopravvivere soltanto grazie a una “simbiosi di sapere e di arte”.67 In questa “simbiosi” possiamo rinvenire una perfetta sintesi di ciò che per Calasso è la letteratura assoluta. Con le sue innumerevoli varianti, il mito offre una variegata gamma su cui si modella ogni gesto umano, ed è una manifestazione dell’incessante movimento del pensiero. Nei romanzi, invece, il gesto si cristallizza in un unico segno, e il gioco infinito dei simulacri è costretto ad arrestarsi; questa è la differenza essenziale tra il mito e la letteratura: Le figure del mito vivono molte vite e molte morti, a differenza dei personaggi del romanzo, vincolati ogni volta a un solo gesto. Ma in ciascuna di queste vite e di queste morti sono compresenti tutte le altre, e risuonano. Possiamo dire di aver varcato la soglia del mito soltanto quando avvertiamo un’improvvisa coerenza fra incompatibili. Abbandonata a Nasso, Arianna fu trafitta da una freccia di Artemis, per ordine di Dioniso, testimone immobile; ovvero, Arianna si impiccò a Nasso, dopo essere stata abbandonata da Teseo; ovvero, incinta di Teseo e naufragata a Cipro, vi morì nelle doglie; ovvero, Arianna fu raggiunta a Nasso da Dioniso con il suo corteo e con lui celebrò nozze divine prima di ascendere al cielo, dove tuttora la vediamo fra le costellazioni settentrionali; ovvero, Arianna fu raggiunta da Dioniso a Nasso e da allora lo seguì nelle sue imprese, come un’amante e come un soldato: quando Dioniso attaccò Perseo nella terra di Argo, Arianna lo seguiva, armata, fra le schiere delle folli Baccanti, finché Perseo scosse nell’aria dinanzi a lei il volto micidiale di Medusa e Arianna fu pietrificata. Rimase una pietra in un campo. Nessuna donna, nessuna dea ebbe tante morti come Arianna. Quella pietra nell’Argolide, quella costellazione nel cielo, quell’impiccata, quella morta di parto, quella fanciulla dal seno trafitto: tutto questo è Arianna. (NCA, p. 37) C’è, infine, un aspetto fondamentale che riguarda il nostro rapportarci al mito, inteso non come racconto di imprese divine ma come capacità metamorfica della mente, attitudine al pensiero per immagini: è la sua pericolosità. Per Calasso il “terrore delle favole” di Platone ha un fondamento incrollabile in ciascuno di noi. Il pensiero analogico racchiude infatti in sé un potenziale distruttivo, che è massimizzato laddove manchi la consapevolezza della natura simulativa di qualsiasi indagine sul mondo. Poiché la nostra mente è continuamente sottoposta all’invasione dei simulacri, corre costantemente il rischio di inseguirne i profili e di perdersi nelle loro trame. È il mito stesso a fornirci un esempio di questa pericolosità. Nelle Nozze si fa riferimento al simulacro ligneo di Artemis taurica che Oreste ruba, su suggerimento di Apollo, per salvarsi dal tormento delle Erinni; il matricida lo utilizza durante la fuga per proteggersi dalla follia che sente incombere su di sé. Abbandonato in un canneto, esso vi giace per anni finché non viene ritrovato da due Spartani di sangue reale, Astrabaco e Alopeco, che, alla vista dello sguardo della statua, impazziscono, perché non sanno cosa stanno guardando. Emblematica la chiosa di Calasso alla vicenda: “Questo è il potere del simulacro, che guarisce soltanto chi lo conosce. Per gli altri, è una malattia” (NCA, p. 291 e QG, p. 497). In effetti, anche per quella linea della psicoanalisi che ha cercato, nel solco degli studi junghiani, di guardare alla psicopatologia con un approccio che facesse tesoro dell’eredità mitica, i deliri possono essere il risultato di un’errata lettura dei simulacri. 68 In una conferenza dedicata a questi temi, James Hillman commenta così l’esperienza, tanto cara a Calasso, della schizofrenia di Schreber: Alle rivelazioni va prestato ascolto solo con orecchio ermetico, mercuriale, intendendo i loro significati come finzioni, trasponendo la parola dello spirito in immagine poetica, un passo che il povero Schreber non poteva compiere a causa dell’assassinio dell’anima, perché era stato privato dell’eco psichica capace di mediare, e il messaggio era rimasto letterale.69 A tal riguardo, Hillman propone anche l’esempio di John Perceval che, riflettendo sulla natura del delirio che lo costrinse per tre anni in manicomio, scrisse: “Lo spirito parla poeticamente, ma l’uomo capisce letteralmente”.70 Secondo Hillman, tuttavia, lo spirito non parla poeticamente ma, più precisamente, in maniera noetica, cioè per illuminazioni e rivelazioni, in base a quelli che William James chiamava stati di coscienza.71 6.4 Una bussola per navigare la mente In conclusione, mi pare opportuno riprendere in breve gli snodi principali del percorso portato avanti fin qui. In primo luogo, per Calasso la mente non si identifica con la semplice attività neurale che si svolge nella scatola cranica di qualsiasi essere umano, ma corrisponde piuttosto all’essenza della divinità progenitrice Prajāpati che, smembrandosi, ha dato avvio all’universo. Dalla mitologia vedica Calasso trae, insieme a un’infinita varietà di immagini pregnanti, l’idea dell’onnipervasività della psiche e dell’assenza di confini tra soggetto e cosmo. Da questo presupposto parte la sua esplorazione delle possibilità della mente individuale: in primis, afferma con convinzione la necessità di distanziarsi da tutte le correnti scientifiche e filosofiche che, nel corso dei secoli, l’hanno vista come realtà irrelata al cosmo. Lontano da una visione del soggetto come entità a sé stante, Calasso individua, sulla scorta della tradizione vedica, un’ineludibile connessione tra anima universale e anima individuale. Nel soggetto ravvisa dunque una commistione fra una componente umana e una sovraumana che, in un senso molto ampio del termine, potremmo definire divina. L’aspetto della mente che maggiormente rivela la sua natura doppia è la capacità di avere coscienza di sé. Nell’atto stesso del pensarsi, il soggetto si scopre come altro e sperimenta l’autoriflessività di qualsiasi discorso che lo riguardi. Con l’Opera Calasso cerca anche di investigare i modi in cui il soggetto interagisce con il mondo e cerca di conoscerlo. Nelle sue riflessioni sulla natura della conoscenza fortissima è l’impronta del pensiero nietzscheano e di una concezione “teatrale”, cioè simulativa, dell’esperienza conoscitiva. In ogni indagine, secondo Calasso come secondo l’autore dello Zarathustra, è implicita una falsificazione del reale a vantaggio di verità parziali e riconducibili alla sfera del controllo individuale. Il soggetto stesso, concepito come materia cogitante e separata dal resto del mondo, è la prima necessaria falsificazione a cui la struttura della nostra mente ci costringe. Le operazioni che essa esegue si possono ricondurre alle attività dei due poli del pensiero: quello connettivo o analogico, che procede per subitanee illuminazioni e ci consente di cogliere affinità e somiglianze tra gli oggetti più distanti tra loro, sottoponendoci anche al rischio di precipitare nel regresso all’infinito; e quello sostitutivo o digitale, che ci permette di isolare alcuni elementi per costruire delle impalcature formali anche molto complesse entro cui operare con precisione. Il mondo contemporaneo sembra a Calasso essersi votato in maniera pressoché esclusiva alla digitalità e alle sue manifestazioni pratiche, con delle conseguenze che analizzerò in maniera più approfondita nella Terza parte. Ciononostante, i due poli della psiche non possono che lavorare fianco a fianco incessantemente; secondo Calasso, il discredito gettato sul polo analogico nella contemporaneità ha delle conseguenze importanti, che in parte costituiscono le premesse per la sua analisi della pratica sacrificale di cui tratterà la prossima sezione. Ho cercato da ultimo di illustrare il significato profondo delle immagini che nell’Opera sono connesse a una forma primigenia del pensiero, fatta di figure che emergono dall’indistinta distesa della psiche. In contrasto con l’orientamento maggioritario della filosofia della mente, che vede nelle immagini mentali un semplice epifenomeno e nel linguaggio la materia prima di cui si compone il pensiero,72 Calasso è convinto che nei processi cognitivi le immagini precedano la parola. A un tipo di conoscenza tutto dedito alle immagini appartiene il mito, che per Calasso è un sapere trasmesso in forma metamorfica, tramite il potere dei simulacri, e anche un metodo di esposizione di argomenti non spiegabili in modo sistematico. Se il cosmo intero discende dal sacrificio di Prajāpati che si è smembrato per farlo esistere, con ogni sua particella l’universo cercherà di replicare, in ogni momento, quell’atto fondativo. Tutto ciò che esiste deriva secondo Calasso da un gesto di violenza e dedizione sul quale, con i suoi undici volumi, non ha mai smesso di interrogarsi. Le pagine che seguono saranno perciò dedicate a un secondo snodo fondamentale dell’Opera: quello del sacrificio. Letteratura assoluta: 1. La storia sperimenta 1. La storia sperimenta Forse siamo generazioni sperimentali? Travasati da un recipiente all’altro, scossi in alambicchi, osservati non soltanto da occhi, e infine presi a uno a uno con le pinzette? Wisława Szymborska 1.1 Un tempo “privo di presagi” In un anno imprecisato durante il regno di Federico II di Prussia, la “mirabile struttura” dell’Ordine del Mondo subì una lacerazione, cui molte altre sarebbero seguite, “secondo il principio l’appétit vient en mangeant”. Si compivano spiritualia nequitiae in coelestibus, guerre di successione internecine, di là dal sole, infuriavano i Fratelli di Cassiopea, ogni suono era di complotto, ma il confuso spirito terrestre accolse gli sconvolgimenti senza riuscire a darne conto con chiarezza, da tempo ormai i prodigi tendevano a passare inosservati. (IF, p. 13) L’impuro folle si apre con questa immagine di un lacerato ordine cosmico, un concetto che ricorre in tutta l’Opera. La rottura di tale equilibrio, riconducibile al vedico ṛta (“ordine del mondo”), viene collocata “in un anno imprecisato” a ridosso della nascita della letteratura assoluta: il regno di Federico II di Prussia, al trono dal 1740 al 1787, appartiene infatti a un’era di passaggio che vede assestarsi alcune caratteristiche ineliminabili della modernità e del periodo che a essa farà seguito. In questo capitolo seguiremo Calasso nella sua esplorazione di tali fasi storiche, soffermandoci su alcune coordinate essenziali. Per quanto il tema attraversi l’intera Opera, mi limiterò a utilizzare come osservatorio privilegiato la prima parte, La rovina di Kasch, che contiene, in nuce, tutte le successive. Intervistato in occasione del cinquantesimo anniversario della sua casa editrice, lo stesso Calasso, infatti, sottolineava l’importanza basilare di quel primo volume: Se cerca una descrizione di ciò che ci circonda oggi, non la trova. Ne La rovina di Kasch (1983) usavo una formula, “l’innominabile attuale”: vale ancora di più oggi.1 Definire l’“innominabile attuale” è tutt’altro che semplice perché una delle sue caratteristiche precipue è proprio l’ineffabilità. Soltanto seguendo la lettura che Calasso ne fa, tuttavia, è possibile comprendere pienamente l’Opera e la caratterizzazione della letteratura assoluta, che è incastonata in questo tempo indescrivibile come una gemma preziosa. Tornando all’apertura dell’Impuro folle, laddove scrive che nel periodo in questione si compivano “nefandezze spirituali nei cieli” Calasso sta citando una delle lettere di san Paolo agli Efesini2 che verrà ripresa anche nel Libro di tutti i libri. In questa epistola Paolo esorta i fedeli ad armarsi contro le tenebrose potenze che abitano i cieli, presupponendo dunque l’esistenza di forze che si scontrano al di là del visibile. Nell’epoca in cui si svolge L’impuro folle, però, i prodigi tendono a “passare inosservati”; similmente, nella Rovina di Kasch Calasso definisce il moderno un tempo “ahnungslos”, vale a dire “privo di presagi”: Questa mirabile parola tedesca indica la condizione a cui la storia tortuosamente ha condotto l’Occidente. Nascere “privi di presagi”, senza ombre di colpa e di grazia, è l’originario status moderno, quell’inopinata pretesa di scaricarsi del mondo nascosta dietro il banco di una bottega, dietro il tavolo di un laboratorio, dietro una cattedra, dietro la cassa. (RK, p. 201) In primo luogo, dunque, il moderno viene presentato come un momento di chiusura netta nei confronti dell’alterità. L’invisibile, tutto ciò che sfugge al controllo razionale e costringe il soggetto a ipotizzare la propria compartecipazione con il Tutto, viene ignorato e tenuto a distanza. Nella Rovina di Kasch Calasso individua nella figura di Sigmund Freud, uno dei protagonisti dell’Impuro folle, un esempio calzante di un simile atteggiamento. Lo psichiatra diventa infatti l’emblema dello scienziato moderno, appartenente a un’epoca che ha perso il legame con il sacro,3 e con esso la capacità di percepire l’interconnessione tra Sé e Tutto. All’“ostinata irreligiosità” (LTL, p. 313) del padre della psicoanalisi è dedicata anche una parte consistente del Libro di tutti i libri, a riprova della compattezza di fondo dell’Opera. 1.2 Freud e il sentimento oceanico Nella Rovina di Kasch Calasso ripercorre le pagine del Perturbante (1919) in cui Freud si interroga sul significato di alcune ricorrenze di segni apparentemente casuali da cui la mente è angosciata e al tempo stesso attirata. Il ripresentarsi di situazioni in sé prive di un particolare significato ma inquietanti nel loro insieme instilla nella mente dell’osservatore il dubbio che quelle coincidenze abbiano un qualche senso nascosto. È Freud stesso a esemplificare: se nel corso di una giornata qualsiasi vedessimo ripresentarsi in più occasioni lo stesso numero, ci verrebbe spontaneo, in assenza di solide difese contro la superstizione, attribuire all’insistita insorgenza di quel numero un qualche significato misterioso.4 Lo spaesamento prodotto nel soggetto dalla ricorsività di talune circostanze sta anche alla base delle riflessioni, approfondite in Al di là del principio di piacere (1920), sulla “coazione a ripetere”, il fenomeno per cui un soggetto nevrotico tende inconsciamente a riproporre in modo ossessivo i propri traumi rimossi. Tale coazione a ripetere “fornisce a determinati aspetti della vita psichica un carattere demoniaco”.5 Fatti di questo tipo riguardano la vita di chiunque, quella di Freud in primis: e sono le sue stesse esperienze in materia che Freud inserisce, talvolta senza specificarlo, nel Perturbante.6 Freud tuttavia ritiene prioritario difendere la sua scienza dal temibile pericolo dell’ambiguità. E, prosegue Calasso, l’ambiguità più grande consisterebbe nell’ipotesi di una commistione, una promiscuità, fra la psiche e il mondo esterno. Restio ad accogliere o incapace di accettare una connessione tra questi due universi, pur sperimentandola in prima persona, Freud concepisce come perturbante “ogni significato che non abbiamo stabilito o prodotto noi” (RK, p. 245). L’irrompere del significato nella quotidianità rivela la latenza di un pensiero magico, primitivo, che si ritiene ampiamente superato. Se Freud spiegasse le coincidenze nei termini di una rete di significati che avvolge il cosmo, la sua scienza perderebbe di efficacia operativa; poiché tuttavia non può ignorarle, le descrive come situazioni ricercate e ricreate dall’inconscio soggettivo. Le circostanze perturbanti sarebbero dunque riconducibili alla pulsione di morte, cioè a un desiderio di ricongiungersi all’inorganico stato originario, la sola cosa che accomuna il soggetto e il mondo al di fuori di esso: Il sospetto più intollerabile, per Freud, è che fra il mondo esterno e la psiche vi sia una complicità: eppure la incontrò, nell’estuario dove le acque dell’inconscio e del mondo si mescolano. Non potendo ammettere che quella congiura implicasse un sovrappiù di significato, perché avrebbe scardinato tutta la sua costruzione, ammise che essa implicava soltanto la convergenza della natura e della psiche verso uno stesso punto: l’origine in quanto luogo dell’indifferenziato, della ripetizione insignificante, dove il significato – come ogni tensione – si annulla. (RK, pp. 245-246) Incapace di collocarsi in maniera organica all’interno della natura come una sua parte, l’uomo moderno si illude di poterla trattare come qualcosa di estraneo. Freud legge nei cicli naturali – la migrazione degli uccelli, il ruotare degli astri – la prova della tendenza di qualsiasi materia organica a ritornare allo stato inorganico che precede la vita. Questo sarebbe anche il solo punto di contatto fra soggetto e natura: la pulsione di morte, che nel Progetto per una psicologia scientifica (1895) Freud chiama “principio di costanza”, è il motore di ogni ripetizione, la manifestazione di un desiderio di ricongiungimento all’origine. Secondo Calasso Freud è costretto a giungere a simili conclusioni perché l’idea di una ripetizione dell’uguale estesa al mondo intero e di una natura come cosa viva, che partecipa con il soggetto a una complessità dinamica, sarebbe di ostacolo a una conoscenza verificabile, scientifica, del mondo. Freud teme insomma di cadere “nella palude nefanda abitata dall’Ouroboros” (RK, p. 254), simbolo per antonomasia dell’eterno ritorno. Una riflessione sulla paura ancestrale per la palude si trovava già nell’Impuro folle,7 a indicare il timore dell’uomo moderno per le acque acquitrinose e popolate di dèi della propria psiche. L’immagine di Freud che emerge dal volume del 1983 trova una perfetta corrispondenza nei racconti del discepolo-traditore Carl Gustav Jung. Nella sua autobiografia Ricordi, sogni, riflessioni, Jung racconta una conversazione avuta con Freud a proposito della sua teoria della sessualità, di cui riteneva necessario fare un “dogma”. Alla richiesta di Jung di motivare tale necessità, Freud rispondeva che bisognava farne un baluardo “contro la nera marea di fango […] dell’occultismo”.8 Jung commentava così la strana determinazione di Freud: Senza che allora lo capissi bene, avevo osservato in Freud l’insorgere di fattori religiosi inconsci. Evidentemente voleva che lo aiutassi a erigere una barriera comune contro tali minacciosi contenuti inconsci. 9 Calasso riflette sull’insorgenza delle pulsioni religiose inconsce di Sigmund Freud nel Libro di tutti i libri, in un capitolo dedicato alla sua ultima opera, L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1939). Si tratta di un testo controverso perché, scritto negli anni di trionfo del nazismo, priva gli Ebrei di due pilastri identitari, Mosè e il monoteismo, sostenendo che il primo fosse in realtà egizio e che il secondo fosse modellato sulla monolatria del faraone Ekhnaton. In qualche modo, insomma, il volume rischierebbe di prestare il destro alle teorie antisemite sulla “minorità” degli Ebrei. L’uomo Mosè e la religione monoteistica è al centro dell’interesse di Calasso per le sue molte reticenze e ripetizioni coatte: Freud sembra tornare insistentemente sugli stessi concetti e nella sua prosa si registrano tutti i sintomi della nevrosi ossessiva. È del resto lo stesso Freud ad ammettere una scissione nei confronti della propria opera, che avverte come parzialmente estranea da sé. Nel ripercorrere alcune sofferte pagine dell’ultraottantenne padre della psicoanalisi, Calasso affonda il coltello nella piaga: Impennata di orgoglio, a cui segue immediatamente una nuova autoaccusa e l’ammissione finale: “L’opera riesce come può e spesso si presenta all’autore come indipendente da lui, anzi estranea”. Ma appunto così, Freud ha appena dimostrato, si presenta anche ciò che è rimosso. E l’adiacenza delle affermazioni fa pensare che il Mosè, anzi “l’uomo Mosè”, potesse essere il rimosso di Freud stesso – ciò che con immensa fatica da decenni stava tentando di far riaffiorare, esattamente come il popolo ebraico, con immensa fatica e per molti secoli, si era sforzato di far riaffiorare il ricordo di Mosè, il padre che aveva ucciso. (LTL, p. 306) Vediamo dunque quale sarebbe, per Calasso, il rimosso che Freud sta facendo riaffiorare. Il punto di partenza del Mosè è una tesi che nessun biblista accredita: Mosè, un Egizio che avrebbe esportato il monoteismo presso gli Ebrei, sarebbe in seguito stato ucciso da parte del suo popolo. Dietro al divieto di entrare nella Terra promessa che Iahvè impone al suo profeta, la storia del Deuteronomio (3,24-28) celerebbe insomma, con un eufemismo, una verità ben più cruenta. E quale significato si nasconde, a sua volta, dietro questo omicidio? Se gli Ebrei non sono i pionieri del monoteismo, che è un lascito egizio, per Freud la loro specificità rispetto agli altri popoli si deve ricondurre al “progresso nella spiritualità”. Calasso esamina questo ideale a cui Freud dà corpo nell’ultima parte dell’opera, “di gran lunga la più debole” (LTL, p. 310). Tale progresso sarebbe riconducibile a due imposizioni che Mosè aveva trasmesso al popolo eletto: il rifiuto delle immagini e il rifiuto degli dèi. “Solo così si poteva finalmente stabilire,” scrive al riguardo Calasso, “una distanza di sicurezza – un vero cordone sanitario – rispetto al sacro” (LTL, p. 314), riducendo ogni spinta religiosa a un obbligo nei confronti dell’uomo Mosè e della comunità. Per Calasso la più grande rimozione evidenziata da L’uomo Mosè e la religione monoteistica è quella che Freud compie rispetto alla Bibbia nel suo insieme: non menziona mai la Bibbia dei patriarchi, ovvero la storia degli Ebrei prima della nascita di Mosè, riconducendo così il rapporto con la religione di un intero popolo esclusivamente al legame con un singolo uomo. Se Iahvè è un’entità leggendaria, priva di fondamento, a Mosè attribuisce invece un massimo di realtà come incarnazione storica del padre ucciso dall’orda descritto in Totem e tabù (1913). Gli Ebrei sarebbero insomma più avanzati degli altri popoli sul piano del progresso dello spirito per aver rimesso in atto l’uccisione del padre primordiale, Mosè. Compiendo questo assassinio avrebbero eliminato il sacro stesso, poiché il sacro si identifica, nelle parole di Freud, con “la prosecuzione della volontà del padre primigenio”.10 Con il Mosè Freud crea dunque un mito che racconta la definitiva rottura dell’umanità con il sacro, un mito che vale a dimostrare che la religione è un fatto squisitamente umano, che nulla ha a che vedere con il mantenimento di un rapporto con l’invisibile. L’opera serve a irrobustire i capisaldi della sua teoria, a fortificare la barriera contro la tanto temuta marea fangosa dell’occultismo. L’umanità intera è accomunata, come specie,11 dalla consapevolezza di aver ucciso il padre primordiale. Riproponendo questa uccisione in un momento successivo della storia dell’umanità, gli Ebrei hanno riattivato il ricordo della colpa primigenia e la necessità della sua rimozione rendendo così più evidente, vicino e immediato il rimosso dell’intera specie, e ciò può in parte spiegare l’odio di cui da sempre sono vittime: Così il Mosè diventava una storia di fondazione su una storia di fondazione: quanto di più approssimato a un mito possa produrre un’epoca inabile a produrre miti. E questa volta sarebbe stato un mito che raccontava la separazione definitiva dell’umanità dalla religione. Gli Ebrei erano stati il drappello di guastatori chiamati dalla storia a mettere in scena – a porre in atto, in senso psicoanalitico – quella vicenda. (LTL, p. 315) Il profilo del padre della psicoanalisi fin qui ricostruito da Calasso ricorda quello tratteggiato da Roberto Bazlen, uno dei suoi amici più intimi. In un saggio degli anni quaranta rimasto inedito fino alla pubblicazione dei suoi scritti, Bazlen, pur esaltando la genialità di Freud, ne evidenziava i limiti da “scienziato del diciannovesimo secolo”: Freud, curvo sul suo microscopio, scopre i bacilli dell’anima. E scopre l’anima. Ma è uno scienziato del diciannovesimo secolo, ed è convinto che l’enigma dell’anima si risolva vedendone i soli bacilli.12 Anche secondo Calasso Freud costruisce “la cosmogonia invalicabile del moderno” (RK, p. 247): descrive, cioè, il terrore che caratterizza l’uomo di scienza di fronte “all’origine non umana del significato” (RK, p. 247), un terrore che si traduce nel mancato riconoscimento di tutto ciò che può essere ricondotto a una sfera oltreumana. Nel Libro di tutti i libri Calasso indaga questa paura in riferimento al problema del “sentimento oceanico” con cui si apre Il disagio della civiltà (1930). La questione era stata sottoposta a Freud da Romain Rolland in una lettera in cui si diceva dispiaciuto che egli avesse ignorato, nell’Avvenire di un’illusione (1927), la spinta emotiva che sta alla base di ogni esperienza religiosa, e cioè “un sentimento di indissolubile legame, di stretta appartenenza al mondo esterno nel suo insieme”.13 Freud si dichiara totalmente estraneo a tale sentimento, con una negazione che è funzionale alla sua teoria: la psicoanalisi aveva appurato che un’entità apparentemente così sicura della propria autonomia e unitarietà come l’Io fosse in realtà mossa, al proprio interno, da un magma di forze che sfuggivano al controllo soggettivo. Tuttavia, perché non crollasse l’argine di scientificità della propria disciplina, Freud doveva assicurare che, verso l’esterno, l’Io mantenesse una netta linea di demarcazione. Riconoscere un contatto profondo tra le forze del cosmo e l’interiorità psichica avrebbe significato affondare nella palude. A tal proposito, nel Libro di tutti i libri Calasso riporta una frase che già nella Rovina di Kasch aveva indicato come “motto araldico” di Freud (RK, p. 258): “Dove era l’Es, deve subentrare l’Io. È un’opera di civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello zuiderzee”.14 È una sentenza che mette in luce la strenua illusione civilizzatrice della psicoanalisi. È necessario che l’Io bonifichi i territori dell’Es, imponendo un controllo sulle forze inconsce che assomiglia a quello imposto sulla natura attraverso gli strumenti della tecnica15: Freud apparteneva a coloro, ai non pochi, che si sono sottratti alla benedizione delle acque, l’ultima e suprema benedizione che Giacobbe aveva riservato a Giuseppe. Ma il sentimento oceanico, che dichiarava di ignorare, lo assediava, come traspare da innumerevoli tracce lasciate nei suoi scritti da questo ideale paziente, prodigo di sintomi. Ultima fra queste tracce è l’ultima frase che si legge nell’ultima pagina dell’ultimo volume dei Gesammelte Werke, frase isolata e postuma: “Mistica: l’oscura autopercezione del regno al di fuori dell’Io, dell’Es”. Qual è il soggetto che qui percepisce, anzi: che percepisce se stesso? Apparentemente è l’Es, quindi il territorio che l’Io avrebbe dovuto conquistare – prosciugare, bonificare, così come la civiltà aveva prosciugato lo zuiderzee. Ma così non era avvenuto, se l’Es rimaneva in grado non solo di percepire ma di autopercepirsi. (LTL, p. 339) 1.3 La nostalgia di un passato indefinito e perduto Se il mancato riconoscimento del divino è un tratto caratterizzante la nostra epoca, meno chiaro è quando cominci questa presa di distanza nei confronti del sacro. L’Opera è tempestata di episodi di incomprensione in cui gli uomini non riescono a scorgere il divino. Nelle Nozze di Cadmo e Armonia, il mito dell’empio Licaone diviene il modello di un approccio che contraddistingue a tutt’oggi il nostro rapporto con il sacro: Un giorno i figli di Licaone, re di Arcadia, invitarono a banchetto uno sconosciuto bracciante, nel quale si celava zeus. “Desiderando conoscere se stavano ospitando un dio vero, sacrificarono un bambino e mescolarono la sua carne a quella delle vittime sacre, pensando che la loro impresa sarebbe stata scoperta se il visitatore era un vero dio.” zeus, furente, rovesciò la tavola. E quella tavola era il piano dell’eclittica, che da allora rimase inclinata. Seguì un immane diluvio. Dopo quel banchetto, è raro che zeus compaia come Ospite Sconosciuto. (NCA, p. 69) Licaone non è in grado di vedere zeus, di percepirne la natura divina come un’evidenza, ha bisogno di una prova. Similmente, in un’epoca come la nostra “che non riesce più a essere né empia né devota” (NCA, p. 138), Calasso non rinviene una mancanza di fede ma, in un certo senso, di attenzione, dato che il divino per lui è qualcosa che chiede in prima istanza di essere riconosciuto. “Chi chiede un segno,” scrive infatti nel Libro di tutti i libri, “è colui che non sa riconoscere. E non saper riconoscere è la prima fra tutte le colpe, quella da cui tutte le altre discendono” (LTL, p. 86). Per questo motivo parlare di “credenze” è poco utile a chiarire la natura del nostro rapporto con il sacro: Rispetto agli dèi, a tutti gli dèi, la questione non sta nel credere ma nel riconoscere. Ci sono luoghi, momenti, esseri, incroci di elementi, che fanno dire, come a Ovidio: “Numen inest”, “Qui c’è un numen”, quella potenza che non ha bisogno di nomi, ma dà origine ai nomi. Il discrimine sta nel riconoscerla e accoglierla – o invece passarci accanto. (CC, p. 377) La propensione a scorgere il divino là dove è sempre stato, in primo luogo dunque nell’attività del nostro encefalo, è una questione che attraversa per intero l’opera di Calasso. Poiché la sua concezione del tempo non è lineare ma ciclica, i rapporti fra gli uomini e gli dèi alternano senza soluzione di continuità fasi di riconoscimento a fasi di distacco. Nel Cacciatore Celeste, per esempio, Aristotele diventa il rappresentante di un approccio “pienamente moderno” alle vicende divine: è dipinto come l’antesignano di un’epoca in cui la religione è uno strumento asservito ai bisogni del sociale: Già con Aristotele, uno degli ultimi allievi di Platone, tutto questo era finito. Nella sua Politica si parla del dio e degli dèi perché la religione fa parte della società, non perché la società debba aiutare a percepire il dio. (CC, p. 234) Tutta l’Opera è percorsa da questa propensione, propriamente moderna e però rintracciabile anche in epoche lontane, a volgersi all’indietro nella vaga nostalgia di un passato in cui dèi e uomini condividevano degli spazi. Emerge con chiarezza fin dalle prime pagine del Cacciatore Celeste, laddove si fa riferimento a una stagione della metamorfosi in cui non esistevano confini netti tra le cose. Si tratta, evidentemente, di un tempo psichico: a un momento di lacerazione nel ritmo della metamorfosi succede un suo ritirarsi nella caverna della mente (una metafora di ascendenza platonica che ritroviamo anche nella Letteratura e gli dèi): Il mutamento era continuo, come dopo avvenne soltanto nella caverna della mente. Cose, animali, uomini: distinzioni mai nette, sempre provvisorie. Quando una vasta parte dell’esistente si ritirò nell’invisibile, non per questo cessò di accadere. Ma diventò più facile pensare che non accadesse. (CC, p. 15) La sola certezza è che “una vasta parte dell’esistente” si nasconde ora soltanto nell’oscurità psichica; perciò anche l’incontro con il divino potrà avvenire solo lì, nell’invisibile. 1.4 Tempo ciclico e perdita di senso della storia Le riflessioni fatte finora presuppongono in varia misura una visione ciclica del tempo, intesa nell’ottica dell’eterno ritorno nietzscheano. Ogni considerazione di Calasso sull’attualità va interpretata alla luce di questa ascendenza: anche laddove il mondo contemporaneo venga tratteggiato come uno stato di perdita, questa condizione deve essere inserita all’interno di una temporalità non lineare. Gli avvenimenti non si possono dunque leggere in termini di progresso o regresso nella pura orizzontalità diacronica. Queste le parole con cui nel Cacciatore Celeste Calasso allude alla “caduta” del genere umano: Non è però una caduta graduale e lineare, come un giorno invece si immaginerà, in direzione opposta, il progresso. Anzi, è un percorso capriccioso, tortuoso e frastagliato. Non sempre prevale il deterioramento. (CC, p. 107) La rovina di Kasch è, fra i volumi dell’Opera, quello che approfondisce maggiormente le conseguenze dell’abbandono di un “pensiero della ripetizione” (RK, p. 253), cioè di una concezione ciclica del tempo, legata a un’attitudine rituale. Nel capitolo Il demone della ripetizione Calasso cita due scritti quasi coevi che, seppur in modo diverso, mettono in luce la ricorsività del tempo: Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte di Karl Marx e i Souvenirs di Alexis de Tocqueville. In entrambi, gli autori sembrano leggere negli avvenimenti del 1848 una riproposizione, perlopiù parodica, di un’epoca precedente. Ambedue i pensatori appartengono, tuttavia, a un’epoca che ha smesso di celebrare la ripetizione tramite pratiche collettive, che ha cessato i riti e non crede più alla possibilità di rinnovamento del mondo, e dell’umanità con esso; il capitalismo in ascesa, votato al diktat della produttività, guarda anzi con sospetto alla ripetizione. Il mondo borghese crede nel progresso, immagina di muoversi lungo una retta infinita, procede e divora tutto ciò che trova sulla propria strada; ha perduto il senso del riproporsi dell’eterno e ha bisogno di riconoscere solidità in altro: L’Occidente abbandona la ripetizione mitologica per imporsi una ripetizione diffusa nella materia, perché dubita non solo che tutto si ripeta in un certo modo, ma che il mondo stesso come fatto riesca a riprodursi. (RK, p. 252) Da un lato, le riflessioni di Marx e Tocqueville sembrano dar prova dell’eterna attualità delle considerazioni di Polibio sulla ciclicità delle forme di governo: il primo vede i suoi contemporanei evocare con angoscia gli spiriti del passato; al secondo sembra che “mettano in scena la Rivoluzione francese” più che continuarla. Dall’altro lato, però, la ruota gira, per gli uomini del loro tempo, fuori da qualsiasi binario di senso: La storia ha continuato a dargli ragione [a Polibio], come a tante altre, e ben più complesse, teorie cicliche, ma con beffarda magnanimità, perché alla fine quella legge – se proprio così la si deve chiamare – veniva a ribadire pomposamente l’insensatezza della storia, che si rivelava ancora maggiore svelato il suo meccanismo nascosto. Perché la storia abbia un senso inscalfibile occorre un telos, che annulli la storia stessa. (RK, p. 257) Priva di un télos che le dia senso, la storia si riduce infatti a una logorante alternanza di corsi e ricorsi, che schiaccia l’umanità come “il peso più grande” descritto da Nietzsche nella Gaia scienza.16 Un pensiero della ripetizione consentiva agli uomini del “mondo arcaico” di percepire il senso, il valore di ogni gesto: ogni azione si modellava su qualcosa di preesistente, si rimetteva a un ordine superiore; l’uomo moderno, invece, ha difficoltà a rapportarsi con questa idea. Quando ogni gesto è pensato come unico e transitorio, l’abisso del vuoto è pronto a spalancarsi di fronte alle azioni umane: è un problema esistenziale ben cristallizzato da Milan Kundera nell’Insostenibile leggerezza dell’essere: “Quello che avviene soltanto una volta è come se non fosse mai avvenuto”17; la Storia diventa un vuoto di senso se pensata quale flusso continuo di azioni che non lasciano il segno. Solo un pensiero della storia come ripetizione di modelli eterni, una storia “sacra”, può avere significato. Il protagonista della Rovina di Kasch, il camaleontico Talleyrand, nella duplice veste di rappresentante di un approccio “estetico” alla vita e di uomo del proprio tempo, è per Calasso un utile emblema dello stacco fra due fasi: Fra l’età ciclica, cerimoniale anche se non più rituale, in cui era nato e l’età sperimentale che lo circondava a ottant’anni, […] Talleyrand vide che la differenza non era solo in ciò che si produceva ma in ciò che si esauriva. (RK, p. 139) Talleyrand ha conosciuto un’epoca di passaggio, quella dell’ancien régime, in cui vuote cerimonie imitavano un mondo di rituali a cui nessuno riconosceva ormai valore: un’era “ciclica” in senso deteriore. L’età cerimoniale succede, evidentemente, a quella rituale, in cui una serie di pratiche garantiva il perpetuarsi dell’“ordine del mondo”. 1.5 Potere e legittimità Nella Rovina di Kasch si insiste molto sul crinale tra l’irreparabilità conclamata della rottura del patto con il divino e un’“epoca cerimoniale anche se non più rituale” in cui questa rottura era già avvenuta, ma in maniera latente. Tutta l’Opera sembra volta alla descrizione di tale strappo irreversibile: Nei saloni che avvolgevano morbidamente, dolcemente per un’ultima volta, il Congresso di Vienna, nelle conversazioni attirate nel vano di una finestra, subito trascritte dalle polizie segrete, non si trattava soltanto di intrighi galanti e di quello che poi i libri di storia avrebbero chiamato il nuovo equilibrio dell’Europa. Una questione si poneva, prima di ogni altra e dietro ogni altra: trasformare definitivamente il ṛta, quella articolazione fra cielo e terra che rende possibile la vita e le dà un ordine. (RK, p. 14) Nella Rovina Calasso indaga poi i cambiamenti che interessano i meccanismi di attribuzione del potere in un’epoca in cui si è persa irreversibilmente la nozione di ordine come ṛta, ovvero come prerogativa cosmica di natura extraumana. L’evoluzione del concetto di legittimità, uno degli aspetti centrali del moderno, è un argomento-chiave del libro del 1983, al cui interno troviamo, tra le altre, una riflessione sul rapporto tra potestas e auctoritas, ossia sul principio che regge le forme di governo. La questione ritorna, quasi quarant’anni più tardi, nel Libro di tutti i libri: vedere come viene indagata nel confronto con le Sacre Scritture aiuta a illuminare retrospettivamente la sua disamina nel contesto moderno. In modo particolare, Calasso sembra ritornare a un passaggio cruciale della Rovina, il brevissimo e allusivo capitoletto Arcana imperii (RK, pp. 82-83), che riporto di seguito per intero: In origine il potere era diffuso in un luogo, aura e miasma. Poi si raccolse in Melchisedec, sacerdote e re. Poi si raccolse in un re. Poi si divise fra un re e una legge. Poi si raccolse nella legge. Poi la legge si divise in molte regole. Poi le regole si diffusero in ogni luogo. Melchisedec comparirà nel Libro di tutti i libri in due pagine (pp. 147-148) che mettono in evidenza tutta l’enigmaticità di un personaggio che riunisce in sé la massima autorità politica e religiosa. A lui Abramo non può che inchinarsi e, secondo quanto narrato dalla Genesi, concedere “la decima di tutto”.18 Questa figura leggendaria rimanda, ancora una volta, a un perduto universo originario, in cui tutto, anche il potere, era indistinto, non manifesto; un tempo psichico che si perde nella notte della storia. Quasi in apertura, Il libro di tutti i libri mette però a fuoco un’altra figura, che segna un passaggio successivo nella scala che dal sovrano sacro porta alla sacralizzazione del diritto: Saul, il primo re di Israele. Saul non è un sacerdote, non ha il carisma né la vocazione della guida spirituale; diventa re per caso: avventuratosi fuori dalla propria tribù perché mandato dal padre a cercare un gruppo di asine smarrite, incontra il profeta Samuele, che gli indica il suo destino assegnandogli il pezzo migliore di un’offerta sacrificale. È un incontro fatale, ed è denso di significati, perché – scrive Calasso – “Iahvè era anche un allegorista” (LTL, p. 23). È infatti necessario notare come, fin dal modello biblico, questa elezione sia carica di ambiguità che riguardano il rapporto fra Dio e la neonata monarchia: se da un lato si racconta la designazione segreta per tramite di Samuele,19 che fa di Saul un prescelto, dall’altro si mette in luce come la richiesta di un re sembri equivalere a un’apostasia nei confronti di Iahvè,20 costretto ad acconsentire controvoglia alla domanda del suo popolo. Su tale aspetto Calasso insiste molto; in questo episodio la Scrittura rivela infatti l’inconciliabilità di fondo tra potere e volontà divina, un tratto che costituisce la debolezza ineliminabile di qualsiasi sovranità: Nei più disparati luoghi e tempi, la regalità fu vista con favore dagli dèi e considerata un tramite necessario verso di loro. Perciò fu detta sacra. Non così per Israele. Iahvè la accettò con disappunto, soltanto perché il popolo voleva essere “come tutte le nazioni”. (LTL, p. 30) Il difetto ineludibile di qualunque regalità starebbe per Calasso in quella necessità del popolo di darsi una guida, di abbassare il potere all’orizzonte della società, anche aggirando il volere divino. In questo fondamentale passaggio si svela la natura allegorica della storia di Saul: starà a indicare la prima incrinatura fra la società e il divino, una crepa che nei secoli successivi diverrà voragine. A tenere insieme le due parti prima dello strappo ci sono ancora però due elementi, cioè la sacra unzione che viene imposta a Saul da Samuele e la diretta designazione da parte di Iahvè, che assicurano alla sovranità delle fondamenta solide: L’elezione di Saul a re d’Israele fu rapidissima, una semplice estrazione a sorte. Ma il re poggiava sul vuoto. Allora Samuele “disse al popolo il diritto della regalità”. (LTL, p. 25) Alla fine del XIX secolo, invece, l’unzione divina è scomparsa da tempo e con essa l’unica vera e indiscutibile fonte di legittimità; al suo posto opera la convenzione, che “svuota la legittimità e ne veste gli abiti” (cfr. RK, p. 15): i riti sociali della nobiltà parigina si sono da tempo sostituiti a quelli sacrificali: Qualsiasi teoria occidentale della legittimità soffre di una mancanza: non conosce le acque dell’origine. (RK, p. 31) Senza quel bagno nelle “acque dell’origine”, sostiene Calasso, tutti i sovrani sono usurpatori; ogni equilibrio politico è giocoforza precario e quella precarietà è un altro dei tratti salienti del mondo moderno che si rispecchiano nella nostra condizione attuale. Tali considerazioni sui meccanismi del potere contengono un’eco delle riflessioni di Carl Schmitt sulle modalità di attribuzione del potere sovrano21; il problema si potrebbe illustrare con le parole di Roger Caillois: L’analisi dei fenomeni sociali dimostra che il potere appartiene necessariamente al dominio del sacro. Attingendo la sua autorità all’essenza stessa del fatto sociale, e manifestando il suo aspetto imperativo senza intermediari o perdita di energia, il potere dell’uno sugli altri istituisce tra gli esseri umani una relazione irriducibile alle pure forme del contratto.22 Come già chiarito, sarebbe poco proficuo interrogarsi sul preciso momento in cui questo stato di cose sia sancito in maniera definitiva. Come ha giustamente sottolineato Italo Calvino, nella Rovina di Kasch il discrimine fra il moderno e ciò che lo precede “non è storico ma metafisico” e in tal senso la datazione di questo momento di frattura “può oscillare tra la fine del paleolitico e gli inizi della Rivoluzione industriale”.23 Questa osservazione può tranquillamente estendersi a tutti i volumi successivi dell’Opera. Come più alto antonimo di questa concezione moderna, comunque, Calasso propone il mondo vedico. Può forse essere utile leggere le parole con cui egli stesso spiegava in che modo si fosse servito delle suggestioni vediche per rapportarsi al problema della legittimità: Trattando del capolavoro politico di Talleyrand, che è stato quello di inventare e di porre in atto un nuovo significato della parola “legittimità” – termine chiave al tempo del Congresso di Vienna come lo è tutt’oggi – ho voluto risalire all’origine della parola. E la mia ricerca non si è arrestata finché non sono giunto alla nozione del ṛta. Nessuna parola latina, nessuna parola greca poteva darmi altrettanto aiuto. Perché legittimità è solo un modo timido e moderno di riferirsi a qualcosa che deve essere al tempo stesso una legge e un ordine. L’unica parola capace di mescolare irreversibilmente questi due significati è appunto ṛta. Ma non è tutto. Uno dei più grandi indologi del secolo passato, Heinrich Lüders, passò alcuni decenni a elaborare un’enorme opera dal titolo Varuna, che alla fine lasciò incompiuta. […] Ora, uno dei punti più importanti del libro di Lüders è la sua analisi della parola ṛta, alla fine della quale egli perviene alla conclusione che il primo significato della parola non è “ordine” ma “verità”. Questa teoria di Lüders è stata, per un certo tempo, vivacemente discussa dagli indologi, ma ciò che oggi sembra la soluzione più plausibile è che sia Lüders sia taluni dei suoi oppositori fossero nel giusto, nel senso che la parola ṛta si riferisce a una cornice di pensiero entro la quale le nozioni di verità e di ordine semplicemente non potevano essere separate. Nel corso del tempo, come sappiamo, le due nozioni finirono per separarsi, dopodiché la parola ṛta divenne obsoleta e sostituita da due altre parole: satyá per “verità” e dharma per “legge”. A questo punto spero che cominciate ad avere un’impressione dello scenario che si sta presentando: risalendo da una parola moderna e tecnica come legittimità ci stiamo avvicinando a quella antichissima area in cui i significati legge, ordine e verità si uniscono in una singola parola sanscrita: ṛta. E il punto che mi preme sottolineare è che dovevo raggiungere quella zona oscura e fascinosa se volevo capire le origini della nostra nozione di legittimità. Non era dunque il capriccio o l’eccentricità di un Occidentale di oggi che mi spingevano a riferirmi a questa parola. Era semplicemente il fatto che i ṛsi erano andati più in là, su questa linea di pensiero, di chiunque altro. Perciò dobbiamo riferirci a loro, non semplicemente perché ci balocchiamo con riferimenti multiculturali, ma allo stesso modo in cui un matematico può trovarsi a usare certe equazioni che sono state scoperte centinaia di anni prima di lui e sotto cieli del tutto diversi dal suo.24 Con l’Opera, e in modo particolare con la sua prima parte, La rovina di Kasch, Calasso vuole indagare le conseguenze della scomparsa del ṛta dal nostro orizzonte ideale. Perso irrimediabilmente il legame fra legge, ordine e verità, il pregio maggiore di Talleyrand, personaggio quanto mai moderno, sarà allora quello di comprendere il valore funzionale della legittimità, e di provare a dargli corpo. Secondo Calasso, Talleyrand aveva cioè capito che “nella prima età in cui la trasmissione dell’investitura si era irreversibilmente interrotta […] la sacralità doveva diventare una finzione” (RK, p. 36): dopo la Rivoluzione francese erano infatti cadute anche le paratie formali che conferivano al potere una forma di indiscutibilità sacrale – mentre quelle sostanziali erano perdute da molto tempo; si era, cioè, messa in dubbio una volta per tutte la tradizione che aveva lungamente garantito il perdurare di uno status quo. Fino a prima il sovrano aveva retto, invece, grazie a un meccanismo che Calasso spiega così: Quando una sovranità sussiste da un certo tempo si suppone che la crudezza con cui ha affermato la sua forza sia già avvolta e coperta dalla douceur di una consuetudine, di un’accettazione prolungata, infine: di una tradizione. Così la tradizione non servirà più a rivendicare l’origine, ma a celarla. (RK, p. 31) Svelato questo arcanum imperii, occorrerà allora inventare dei princìpi su cui si possa fondare un ordine, o perlomeno una parvenza di ordine, e su questo Talleyrand sarà maestro indiscusso. D’altronde, il dubbio insinuante sulla liceità del potere è già inscritto nel suo albero genealogico, in cui compare quell’Aldeberto conte di Périgord che chiese a Ugo Capeto: “Chi ti ha fatto re?”. Come acutamente registrato da Calvino, la forza che nella Rovina di Kasch Calasso intravede e celebra nel conte di Périgord è quella della leggerezza: In un mondo che ha perduto la sacralità, questo vuol dirci Calasso, l’unico valore che si può riconoscere è la leggerezza. Talleyrand si salva perché si presenta come l’arcangelo della leggerezza su uno scenario di stragi: sia pure d’una leggerezza piuttosto programmatica, come i suoi calcoli mefistofelici, e piuttosto strascicata, come la sua gamba di zoppo. Meglio questa leggerezza che la gravità delle buone intenzioni, da sempre foriera di disastri.25 Nel palcoscenico della storia, Talleyrand incarna una figura priva di peso, un fine ricamatore della marginalità. Al suo opposto svetta la figura di Napoleone, “incarnazione storica del principio della volontà”, che si contrappone all’ecclesiastico per la “smania di fare gli avvenimenti” (RK, p. 67). L’arma segreta di Talleyrand è per Calasso la consapevolezza che, in un’epoca in cui ogni significato va negoziato perché manca il placet divino, è possibile intervenire nella storia solo attraverso piccoli colpi di pollice; “Talleyrand sa di poter usare la leggerezza perché le cose non hanno più un peso stabilito” (RK, p. 46). Soprattutto, a Talleyrand Calasso riconosce un’abilità non comune e indispensabile nel mondo contemporaneo: Ora, una delle ragioni per cui credo che Talleyrand fosse un mirabile uomo politico e diplomatico è appunto questa: egli fu colui che riuscì, durante il cruciale Congresso di Vienna, a dare un nuovo significato alla parola “legittimità”, significato all’interno del quale si poteva ancora cogliere una sottile risonanza del significato del ṛta (del quale, per altro, egli non poteva avere nessuna notizia dai testi).26 1.6 L’esoterismo coatto del mondo moderno Quello che ora interessa mettere a fuoco è in che cosa consista questo nuovo significato della legittimità, e quale meccanismo cognitivo Calasso ritenga in azione nell’operato di Talleyrand: Nella legittimità si intrecciano le due operazioni fondamentali che si compiono nella mente: l’analogia e la convenzione, rami che si biforcano da un solo tronco: la sostituzione. Per l’analogia, la legittimità unica è quella della investitura sacra, che discende per risonanze e simpatie lungo tutti i gradini dell’essere. Dove quella risonanza si estingue, nessuna legittimità è ammissibile. Per la convenzione, la legittimità è il primo esempio di quell’accordo arbitrario che permette di far funzionare ogni sorta di meccanismi, dal linguaggio sino alla società. Come sempre, la convenzione non si preoccupa in questo caso né di essenze né di sostanze, ma di funzionamenti – ed è pronta a barattare (essa, che è l’anima stessa della sostituzione) una forma con l’altra. (RK, pp. 31-32) Tale riflessione ci riporta nel cuore del tema essenziale della modernità come attitudine del pensiero; è questo, in definitiva, l’aspetto dell’“innominabile attuale” che Calasso maggiormente indaga. Come già chiarito, un tratto fondamentale del moderno Occidente sta nel voler espugnare la “psiche-senza-confini” – presupposto vedico per cui la mente ha in sé una scheggia dell’illimitato – e crearle un limite all’interno del quale muoversi e avere l’illusione del controllo; in altre parole, nel perdere di vista il legame tra manifesto e immanifesto, continuo e discontinuo. Nel moderno si registra infatti una spiccata predominanza del polo digitale, che rivela una capacità sempre maggiore di “avviluppare l’altro polo, di assorbirlo e naturalmente di utilizzarlo” (RK, p. 32). Il capitalismo viene definito “nome economico di un immane rivolgimento nel cervello, il predominio raggiunto dallo scambio, quindi dalla digitalità, su tutto” (RK, p. 320). Curiosamente, il precursore di questa supremazia del digitale sull’analogico viene rintracciato in Oriente: è il Buddha a diventare, nella Rovina di Kasch, l’ipostasi di un approccio moderno alla vita, il primo a tentare di aggirare la rete delle connessioni, a ignorarla deliberatamente (cfr. RK, p. 189). Su queste caratteristiche del monaco “risvegliato” Calasso riflette anche in Ka: Quel che un giorno sarebbe stato chiamato “il moderno” fu, almeno nella sua punta più nascosta e acuminata, un lascito del Buddha. Vedere nelle cose altrettanti aggregati e scomporli. E poi scomporre gli elementi scissi dagli aggregati, in quanto sono altri aggregati. E così oltre, nella vertigine. Una scolastica arida e feroce. Il gusto della ripetizione, come agente provocatore dell’insensatezza. La vocazione per la monotonia. Una totale incuranza di ogni divieto, di ogni autorità. Svuotare dall’interno ogni sostanza. (Ka, p. 424) Nel celebre discorso di Benares, il primo fatto in pubblico da Siddhārtha Gautama nel parco delle Gazzelle, Calasso individua moltissimi aspetti propriamente moderni. Innanzitutto, la tensione verso l’annullamento della coscienza; è come se la prescrizione del Buddha fosse lo svuotamento di ogni gesto, anche rituale, dai suoi significati. Buddha ha in un certo senso modellato il primo tentativo di osservare il gioco dei fantasmi mentali con distacco. Non perché non li riconoscesse, ma perché li riteneva dei pericolosi lacci che soffocano l’individuo ancorandolo al mondo; ha costituito così le premesse ideali per l’interruzione di ogni contatto della psiche individuale con il cosmo. La disciplina proposta da Buddha mira a svuotare di senso anche l’idea del Sé (ātman), che viene visto come una convenzione, una somma di aggregati percettivi a cui è attribuito un significato cumulativo. Calasso mette la negazione dell’ātman in rapporto alla visione odierna della psiche come ammasso di cellule funzionanti: Il tragico è azione unica e irreversibile. Per schivare il tragico, il Buddha diluì ogni azione in una serie di azioni, ogni vita in una serie di vite, ogni morte in una serie di morti. Di colpo, tutto perdeva consistenza. Ciò che si moltiplica si estenua. Simultanea a quel gesto fu la negazione epistemologica del Sé, ridotto a una serie di elementi sommabili e convenzionalmente unificabili. La convenzione, potenza suprema del moderno, si aprì la strada grazie a un monaco analitico, cauto e asciutto, che lasciava defluire l’energia dalle figure divine senza neppure darsi la pena di rimuoverle. (Ka, pp. 429-430) L’essenza del tragico sta nell’individuare, nella sofferenza dell’uomo, una porta d’accesso a una conoscenza superiore. La disciplina buddhista non può che “schivare il tragico”, ravvisando nel dolore un abbaglio causato da quanto nell’uomo è impermanente. Ovviamente, se l’attitudine mentale che sta alla base del discorso di Buddha può in qualche modo precorrere quella dell’Occidente moderno, essa vi risulta poi, nella pratica, rovesciata di segno, in forme tipicamente paradossali e degradate. Ciò che per Calasso distingue davvero l’epoca in cui viviamo, lontana da quell’attenzione che sola può accompagnare chi cammini sull’“ottuplice sentiero”, è la già citata Ahnungslosigkeit, la “mancanza di qualsiasi percezione delle potenze” (RK, p. 216). Nella Rovina di Kasch i padri putativi di questa ignoranza vengono individuati in “due mummie: quella di Lenin nel suo mausoleo e quella di Bentham a Londra, University College” (RK, p. 284). Al rivoluzionario russo Calasso attribuisce la grave colpa di avere perpetrato il mito delle “Buone cause”, cioè delle buone intenzioni foriere di disastri di cui parlava Calvino. Al teorico dell’utilitarismo dobbiamo invece l’individuazione del denaro come unità di misura del piacere e del dolore: la felicità degli uomini per la prima volta viene collocata in qualcosa che è tangibile ma al tempo stesso incorporeo come il denaro; qualcosa che non ha valore in sé, ma soltanto nella misura in cui si può scambiare per qualcosa d’altro, un veicolo della sostituzione. Nella nascita del liberismo Calasso vede infatti la sterzata della società verso un “esoterismo coatto” (RK, p. 193): si dà consistenza materica a qualcosa di puramente astratto; così l’essenza metafisica del denaro si nasconde definitivamente. Se ogni rituale presuppone un lato essoterico, cioè esteriore (il gesto dell’officiante), e uno esoterico, cioè nascosto (la consapevolezza del significato del gesto), dopo la fine del XVIII secolo “il mondo diventa troppo esoterico” (RK, p. 315): è in balìa di un’essenza psichica e non ne ha coscienza perché ne vede solo il lato tangibile, il fatto che il denaro si possa contare. È l’assenza di consapevolezza uno dei tratti fondamentali della personalità di Bentham che Calasso mette in luce: dalla biografia del filosofo redatta da John Stuart Mill trae l’immagine di un uomo completamente estraneo a qualsiasi turbamento psicofisico e dunque impermeabile alla potenza trasformatrice delle passioni: “Con Bentham, il bambino antiromantico, era nato un vero uomo nuovo: colui che nulla sa, tutto calcola e tutto, infine, risolve” (RK, p. 283). Il motore del mondo contemporaneo è il denaro, in cui Calasso vede la cristallizzazione del predominio della digitalità: Il denaro è il segno del rappresentare, il segno del predominio raggiunto dal sistema del rappresentare, quindi: della convenzione, della sostituzione, dello stare per, dell’intercambiabile – sul sistema del corrispondere, quindi: dell’analogia, del simbolo (nel senso misterico), della non discorsività, dell’associazione, dell’unicità. (RK, p. 312) Le conseguenze di questa svolta sono innumerevoli. In alcune pagine del volume dell’83, in cui appare evidente l’influenza della filosofia di Walter Benjamin, Calasso riflette sul fatto che, se il valore di scambio diventa potenza egemone, si entra definitivamente nell’era della quantità, in cui la qualità non trova posto: niente infatti viene considerato per il suo valore – il quale presuppone un prestigio e non è dotato di unità di misura – poiché di tutto si cerca solo il prezzo. Le merci devono sottomettersi ad alcuni imperativi ineludibili: essere quantificabili, distribuibili e divisibili, uniformi nelle singole parti e identiche in tutti gli esemplari. 1.7 Società sperimentale È necessario ora soffermarsi su un concetto di importanza primaria, che attraversa tutta l’Opera di Calasso a partire dall’Impuro folle: quello di “società sperimentale”. Innanzitutto è sperimentale quella società che opera in vista di scopi riconducibili esclusivamente al proprio interno, secondo quella “deviazione dei significati” che, come scrive nel Cacciatore Celeste, porta al “passaggio per cui la società diventa l’orizzonte ultimo della società stessa” (CC, p. 150). Questo è forse il tratto decisivo, il più importante fra tutti quelli che caratterizzano anche l’“innominabile attuale”: il sintagma stesso, in effetti, fa la sua prima comparsa nella Rovina di Kasch accanto a questa spiegazione: Fase sperimentale della storia, in cui tutto forma un corpo unico, in cui nulla è esterno alla società, in cui tutto agisce su tutto, come nel risonante cosmo primordiale. Suo fondamento empirico: il mercato mondiale, in quanto uscita senza ritorno dalla Borniertheit, dall’angustia locale. Il mercato mondiale reinventa una sorta di fato (come la post-storia in genere risveglia tutte le categorie arcaiche, che si applicano ora a una realtà invertita rispetto a quella entro cui erano nate). (RK, p. 318) Qui Calasso mette in luce innanzitutto come la società nell’“innominabile attuale” proponga una visione cosmica tradizionale, in una prospettiva per così dire olistica: tutto è perfettamente interconnesso nella grande rete del mercato; poiché tutto a partire dal moderno segue la cifra della parodia, infatti, il Cosmo è venuto a coincidere con il solo consesso umano. La società vuole farsi cosmo, diventare un tutto organico. L’“innominabile attuale” è il mondo in cui l’assunto di Émile Durkheim per cui “il religioso è il sociale” risulta autoevidente. Il saggio del 1912 Le forme elementari della vita religiosa risulta per Calasso una sorta di “libro guida”,27 che orienta il modo in cui la società sperimentale legge il fenomeno religioso. Il divino viene assorbito e digerito dal sociale, come uno strumento utile a soddisfare i suoi bisogni: In una società totalmente secolare come la Francia fine Ottocento, fra i suoi instituteurs gonfi di libero pensiero, avidi di abbattere le cappelle gotiche e di fondare la morale laica, doveva apparire l’illuminazione di Durkheim: il religioso è il sociale. Non prima, non altrove avrebbe potuto essere formulata, con quella sobrietà ultimativa, con quel sapore di École Normale, un assioma che implica il totale riassorbimento della nube divina nel Grande Animale di Platone e di Simone Weil. (RK, p. 204) Compare in queste righe della Rovina un’immagine particolarmente cara a Calasso, quella della società come “grande animale”, contenuta nella Repubblica di Platone28 e poi ripresa da Simone Weil.29 Nella modernità accade che tale organismo vivente assorba al suo interno “la nube divina”, secondo la procedura descritta dalla stessa Weil per cui “il sentimento sociale somiglia a tal punto al sentimento religioso da trarre in inganno”.30 In una conferenza tenuta a Stanford nel 2014, il cui testo è in parte rientrato nell’Innominabile attuale, Calasso identificava in questo fenomeno il tratto caratterizzante del Novecento, e vi si riferiva come “la superstizione della società”: Nel corso del Novecento si è cristallizzato un processo di enorme portata, che ha investito tutto ciò che passa sotto il nome di religioso. La società secolare, senza bisogno di proclami, è diventata ultimo quadro di riferimento per ogni significato, come se la sua forma corrispondesse alla fisiologia di qualsiasi comunità e il significato si dovesse cercare solo all’interno della società stessa. La quale può assumere le forme politiche ed economiche più divergenti, capitalistiche o socialistiche, democratiche o dittatoriali, protezioniste o liberiste, militari o settarie. Tutte da considerare, in ogni caso, quali mere varianti di un’unica entità: la società in sé. È come se l’immaginazione si fosse amputata, dopo millenni, della sua capacità di guardare oltre la società alla ricerca di qualcosa che dia significato a ciò che accade all’interno della società. (IA, pp. 24-25) In K., Calasso descriveva così l’avvento della società sperimentale: Il religioso o il sacro o il divino, per un oscuro processo di osmosi, sono stati assorbiti e occultati in un qualcosa di alieno, che non ha più bisogno di nominarli perché è autosufficiente e si appaga di essere descritto come società. Tutto il resto è, al massimo, un suo oggetto di studio e materiale da laboratorio – anche l’intera natura. (K, p. 33) Il risultato di tale processo è che la devozione, gli omaggi e i tributi che le società per secoli avevano riservato a entità altre vengono da un certo momento in avanti interamente rivolti alla società stessa: le regole che le comunità umane si danno per poter vivere in armonia sono tutte direzionate verso una sovrastruttura che viene riconosciuta come l’orizzonte supremo. Per il sociale, con il sociale e nel sociale; ogni sforzo viene teso alla salvaguardia di questa “superstizione”, e ciò comporta dei rischi secondari non trascurabili: La profanità, nel momento in cui si espande su tutto, assume in sé anche quei caratteri allucinatori, fantasmatici e deliranti che Durkheim aveva individuato nel fenomeno religioso in genere. (A, p. 442) Una conseguenza dell’impegno profuso a vantaggio della salute sociale è che talvolta, al fine di preservarla, si possono compiere atti ignobili. Non a caso i risultati più drammaticamente concreti di questa sperimentazione sulla società e per un preciso ideale di società vengono individuati, nella Rovina di Kasch, nella Germania di Hitler, nell’Urss di Stalin o nella Cambogia di Pol Pot. Risaliamo più indietro nel tempo: nell’Impuro folle, Daniel Gottlob Moritz Schreber (1808-1861), padre del presidente Schreber, è presentato come il prototipo dell’uomo che sposa una grande causa: di lui si racconta che diventò educatore perché voleva ardentemente il Bene; così, l’inventore di sadici strumenti di correzione ortopedica per raddrizzare le schiene di generazioni di bambini tedeschi “organizzò la sua famiglia come cellula sperimentale del nuovo corpo della società” (IF, p. 189), con conseguenze ben note sull’esistenza del figlio Daniel Paul. Mancando un principio superiore, ogni società elabora da sé (o facendosi guidare da un domatore, per tornare alla metafora platonica) il proprio ideale, e attiva delle procedure volte a soddisfarlo. Nelle Nozze di Cadmo e Armonia, Sparta e la sua paidéia sono il modello di una società autocentrata, elevata ad assoluto e perciò crudele: nella rigida linea di demarcazione fra chi sta dentro e chi sta fuori da quel consesso esclusivo che è la società, i Lacedemoni rovesciano e degradano il meccanismo dell’iniziazione mistica, in cui la differenza fra gli uomini è spostata su un piano trascendente – è interno al circolo chi ha visto, chi ha conosciuto – e attivano una modalità di rapporto con l’esterno che ricorda l’operato dei regimi totalitari: “Fu merito degli Spartiati aver riconosciuto per primi in quale misura l’ordine sociale sia fondato sull’odio – e soltanto sulla base dell’odio possa perdurare” (NCA, p. 287). Nell’Innominabile attuale Calasso approfondisce la sua lettura di Sparta come emblema della superstizione sociale: “Se dovessimo stabilire, con ovvio arbitrio e per pure esigenze drammaturgiche, un punto iniziale di tale processo, nessuna immagine sarebbe più acconcia di quella di Sparta” (IA, p. 26). Questa lettura della società lacedemone si nutre dell’opera di Jacob Burckhardt; Calasso cita un passo della sua Storia della civiltà greca, già commentato nelle Nozze, in cui lo studioso tedesco afferma: La potenza di Sparta sembra essere comparsa al mondo quasi soltanto per se stessa e per la propria affermazione, e suo pathos costante è stato l’asservimento dei popoli sottomessi e l’estensione del suo dominio, come fine a se stesso. (Citato in IA, p. 26; in NCA, p. 279) Il punto è sempre e comunque teleologico: “Le cause sono sempre più grezze dei riti. Sono altrettanti parvenus del significato,” scrive Calasso nell’Ardore (p. 431). Ciò si connette al concetto di ṛta e alla mancanza di articolazione fra le idee di “verità”, “ordine” e “legittimità” che contraddistingue il mondo moderno. Il capitolo della Rovina di Kasch intitolato Law and Order riflette sulle implicazioni di questa perdita e illustra la contrapposizione implicita nell’accostamento dei due concetti: se “legge” e “ordine” fossero la stessa cosa, questa espressione non avrebbe senso di esistere; essi sono invece due cose distinte, perché l’esigenza di una legge nasce dalla constatazione della mancanza di un ordine. Nel suo tratteggiare gli aspetti fondamentali del moderno, Calasso procede per coppie di opposti sempre riconducibili all’antinomia fra produrre e riprodurre, fra digitalità e analogia. La società sperimentale è quella che adotta in prevalenza il polo digitale del pensiero, e cerca di piegare alle esigenze del controllo, della produttività e dell’operatività le spinte del polo analogico. Essa è sperimentale proprio perché dedita alla continua verifica dei limiti, mai paga della propria efficienza. Nel capitolo Limiti della Rovina di Kasch, leggiamo: “Il passaggio dal mondo del canone a quello della convenzione si compie con il sostituirsi della ‘barriera’ al ‘limite sacro’” (RK, p. 285). Da una parte, l’uomo moderno celebra il limite: non crede sia possibile nemmeno pensare se non delimitando il campo d’indagine, nega l’interdipendenza degli oggetti e del soggetto, mettendo in discussione la loro stessa esistenza. Dall’altra parte, vede nel limite una barriera da superare, una meta a cui tendere per espandere i propri progressi. Il moderno è anche il momento della scomparsa, o negazione, del nefas, del “limite sacro”. I limiti sono fatti per essere superati. Calasso rilegge in questo senso l’opera di Marx, figura-chiave della sua trattazione sul tema: il capitale era per lui proprio un “incessante abbattimento di barriere” (RK, p. 286), ma il capitalismo presentava dei limiti, legati all’iniquità dei rapporti di produzione, che avrebbero a un certo punto ostacolato la crescita delle forze produttive. Tale ostacolo sarebbe stato superato da una rivoluzione sociale che avrebbe consentito la transizione a un modo di produzione più avanzato. In Marx Calasso trova dunque celebrata l’illusione di una produzione senza limiti; una produzione che coincide, peraltro, con l’autoaffermazione del soggetto, poiché per il filosofo tedesco la storia del lavoro umano è anche la storia della formazione della soggettività. Marx diventa, nella lettura calassiana, un amante del moderno “per la sua capacità di moltiplicarsi ed esaltarsi senza un piano, in ogni direzione” (RK, p. 291). Marx è per lui, al fondo, “più capitalista del capitale” nella concezione dello sviluppo: nella sua critica al sistema, infatti, Calasso coglie il desiderio non di distruggere la macchina della produzione, ma semmai di migliorarla affinché possa offrire risultati a una sezione più ampia della società. La sua visione è orientata a un futuro in cui l’umanità sarà finalmente libera di esprimersi al meglio delle proprie capacità, di prodursi al massimo grado. La storia è per lui un processo lineare di crescita e autoaffermazione della soggettività umana. La pecca di Marx sarebbe insomma quella di non essersi sottratto al grande mito della società sperimentale: Ci sono due aspetti di Marx di cui parlo. Uno è quello del potente esorcista, del demonologo del mondo delle merci, dell’evocatore della fantasmagoria industriale. Questo aspetto è sempre sconcertante. E in questo senso, Marx resterà un Grande Mistagogo, ed Esegeta del Moderno, come Baudelaire. Poi c’è l’altro aspetto: il Marx che vuol mettere in moto la sua sperimentazione (il comunismo) all’interno della società sperimentale. E allora ha bisogno di inventare quella immagine penosa e funesta dell’uomo nuovo, l’uomo “onnilaterale”, finalmente disalienato, di cui il nostro secolo ha avuto la disgrazia di subire l’esuberanza.31 In riferimento a uno dei suoi autori fondamentali, dunque, Calasso avverte il bisogno di fare una distinzione. Da un lato, Marx è il solo davvero capace di raccontare l’epocale trasformazione in atto nel XIX secolo e le conseguenze antropologiche della nascita del capitalismo e della forma mentis a esso soggiacente. Nel “mondo del canone, dominato dai riti” (RK, p. 292), l’uomo mirava a riprodurre un ordine superiore, che riconosceva nel cosmo. Nel moderno mondo dello scambio egemone, invece, non riconosce limiti né modelli, ed è privo di un fine che non sia l’espansione del proprio dominio sulla natura. Dall’altro lato, Marx – in particolar modo nei Grundrisse – è stregato dalle possibilità che questo eterno superamento dei limiti prospetta. Ha un atteggiamento ambiguo anche nei confronti della natura: da una parte considera la terra “un prolungamento del corpo dell’uomo”, dall’altra il suo “grande laboratorio”, “materiale di lavoro” (RK, p. 293. Calasso cita dall’edizione Dietz del 1974). Sono questi, segnala Calasso, i due approcci eternamente disponibili per il nostro pensiero: da un lato l’analogia (tutto è connesso), dall’altro la sostituzione (tutto è slegato e utilizzabile). E Marx, secondo Calasso, propende per il secondo polo: sogna che la voragine digitale sia infinita, sogna un mondo in cui la macchina del capitale raggiunga una perfezione che le consenta di produrre ad libitum. In virtù di questa utopia della forma assoluta, immagina uno “sviluppo universale degli individui”, l’uomo totale, che ha il “pieno dominio sulle forze della natura”, senza rendersi conto che l’uomo totale è qualcosa di mostruoso: La produzione, nome secolare di questo augusto, sacrale sviluppo dell’Umanità, suggerisce soltanto una via: trattare l’umanità stessa come “materiale umano”. Come si costituirà allora l’albeggiante uomo “onnilaterale”? Sarà una parodia dell’Anthropos. (RK, p. 299) 1.8 La separazione dalla natura e la questione della tecnica Per la società sperimentale, la natura è soltanto un insieme di materiali pronti a essere utilizzati; a questo aspetto, colto con acume da Marx, Calasso faceva riferimento anche in uno dei suoi primi scritti, un saggio pubblicato nel 1961 su “Paragone”, dove affermava che con Marx “si scopre l’aspetto vegetale della merce e l’artificialità della natura”.32 Il fatto che la natura venga considerata qualcosa di estraneo e irrelato rispetto al soggetto ci pone, ancora una volta, agli antipodi della concezione rituale, di cui il Veda è la massima manifestazione: Per l’uomo metropolitano, la natura è una variazione meteorologica e un certo numero di isole alberate disperse nel tessuto urbano. A parte questo, è materiale per produzione e scenario di svaghi. Per l’uomo vedico, natura era il luogo dove si manifestavano le potenze e dove avvenivano scambi fra le potenze. La società era un cauto tentativo di inserirsi fra quegli scambi, senza troppo turbarli e senza lasciarsene annientare. (A, p. 436) In questo come in altri casi, tuttavia, per Calasso non è possibile leggere l’evoluzione del rapporto fra uomo e natura in senso propriamente diacronico. Non esiste un percorso lineare che porta dai Veda alle centrali nucleari. L’uomo metropolitano non sembra molto distante, per esempio, dagli Ebrei che seguono Mosè nel deserto secondo la rappresentazione che ne dà Il libro di tutti i libri. Uno dei temi-chiave del volume del 2019 è l’antagonismo fra Iahvè e la natura. Questa ostilità, un tratto assolutamente moderno che Calasso scorge nel testo sacro, può essere cristallizzata in tre immagini cruciali: le Asherah, la primogenitura e il deserto. Le prime sono manufatti lignei in onore di una omonima divinità venerata da alcune popolazioni ugaritiche e cananee.33 Oltre alle sue stele votive e alle statuette, gli adoratori di Asherah erano soliti celebrare il culto di alcuni alberi, soprattutto da frutto, e per questo motivo il Deuteronomio 34 vieta di piantarne di qualsiasi tipo accanto agli altari di Iahvè: Congiunta alla detestazione delle Asherah, anche sotto forma di statuette, e delle stele piantate nel terreno, spiccava la condanna di Iahvè per gli alberi. Non si trattava soltanto di abolire le immagini fatte con le mani dagli uomini, ma certi elementi della natura, come fossero di per sé colpevoli. (LTL, p. 102) Nel Libro di tutti i libri Iahvè appare costantemente impegnato ad affermare il proprio potere monoteistico, in perenne lotta contro i culti di altre divinità che ne minacciano la signoria. La natura è in tal senso la sua più grande nemica: gli elementi naturali sono la prima cosa da cui gli uomini hanno sentito dipendere la loro sussistenza, la prima fonte della meraviglia, e dunque la prima immagine del sacro. Con la sua varietà di forme, la natura è insomma, per gli uomini, un perenne incentivo all’idolatria. Fra Iahvè e la natura, di cui Asherah è una rappresentante, c’è inoltre un conflitto di genere: se la natura è un idolo (“anzi, il primo idolo, un idolo amato”, cfr. LTL, p. 443), essa è per giunta un idolo femminile, la madre per antonomasia, che genera e sottrae la vita. Ogni sua rappresentazione andrà distrutta e il suo culto sarà proibito; eppure, ricorda Calasso, il re Salomone, “legato per amore a molte donne”, il solo a cui Iahvè abbia concesso “un cuore che capisce”, sarà un devoto di Asherah, e suo figlio, Roboam, ne accoglierà il culto nel Tempio. C’è poi un secondo elemento di ostilità verso la natura nonché di affermazione del potere assoluto di Iahvè: l’arbitrio con cui tratta la questione dei primogeniti. Il dio unico appare a Calasso come un sovvertitore della regola naturale per cui, tra i figli maschi, il primogenito è sempre il predestinato. Iahvè impone un criterio elettivo totalmente arbitrario, che scalza la primogenitura: i suoi prescelti infatti saranno spesso dei secondogeniti, come Isacco, o dei primogeniti “truccati”, come Giacobbe: Il primogenito era l’eletto naturale, come lo sono le primizie per il sacrificio. Ma Iahvè preferì l’eletto innaturale, il secondogenito o il figlio della seconda moglie: Isacco, Giacobbe, Giuseppe. Tutti figli di donne ritenute sterili. Era un altro segno del loro distacco dal corso della natura. Ma, quando si trattò di colpire il Faraone, volle che fosse ucciso il suo primogenito. L’Egitto era un altro nome della natura. (LTL, p. 231) In più occasioni, dunque, Iahvè manifesta il suo potere con una violenta modifica dell’assetto naturale: uccide tutti i primogeniti d’Egitto, fa in modo che tutti i primogeniti d’Israele siano circoncisi. La natura deve essere sottomessa al volere di Iahvè. Era stato così, ricorda Calasso, fin dal momento della Creazione, in cui il dio aveva lacerato l’Abisso primordiale, Tehom, separando le acque superiori da quelle inferiori.35 Le acque sono un altro elemento femminile contro cui Iahvè e il suo popolo dovranno sempre scontrarsi: “Il suo avversario erano le acque. Sin dal principio del mondo era stata la prima potenza avversa, che poteva sopraffare ogni inizio di ordine” (LTL, p. 238). Nel libro torneranno in varie forme: come Drago e Leviatano, o come principe Rachab. Saranno descritte come ciò che gli Ebrei “sempre avevano combattuto e schivato” (LTL, p. 472). Nemico delle acque, Iahvè predilige il deserto, ed è spesso in questo luogo inospitale che si manifesta ai suoi profeti. Lì incontra Mosè, e lì ordina a Mosè di guidare il popolo eletto, schiavo del faraone, per celebrare una festa in suo onore. Nel deserto poi consegnerà le tavole della Legge. Il deserto è per Calasso “il laboratorio dove per quarant’anni i figli di Israele condussero un esperimento su se stessi” (LTL, p. 251). In quella dimensione arida e priva di vita vegetale gli Ebrei vengono censiti; si costituiscono come una proto-società sperimentale, che deve innanzitutto separarsi dalla natura: “Lo svezzamento dei figli di Israele nel deserto fu uno svezzamento dalla natura” (LTL, p. 252). Per Calasso Iahvè è un dio asciutto; le acque sono invece legate all’Egitto: una connessione che si spiega solo in parte in virtù del rapporto simbiotico con il Nilo. Non dobbiamo infatti dimenticare che, nell’immaginario calassiano, le acque sono la primigenia immagine della mente, che è costituzionalmente politeista. Si instaura quindi una catena di analogie fra la natura, l’Egitto, le acque e il politeismo. Calasso si muove costantemente fra questi simulacri, che stanno sempre a indicare la stessa impalpabile sostanza divina. Nel Libro di tutti libri dà molto rilievo al fatto che alcuni personaggi biblici attraversino le acque “a piede asciutto”: succede a Elia quando passa le acque del Giordano, ma la scena ricalca ovviamente ciò che accadde agli Ebrei in fuga dall’Egitto attraverso il Mar Rosso. Già nella Rovina di Kasch questo episodio veniva messo in rapporto al prosciugamento dello zuiderzee, cioè all’impresa civilizzatrice che, secondo Freud, l’uomo moderno avrebbe dovuto compiere sulle acque della propria psiche. Nel volume dell’83, dopo aver citato l’Esodo,36 Calasso commentava: Ma quell’immagine, in quanto promessa di una totale civilizzazione della natura, persisterà a guidare una lunga discendenza: i sacerdoti asciutti dell’ebraismo, coloro che vogliono posare i piedi sulla pianura lavorata piuttosto che abbandonarsi alla fluidità equorea, coloro che vedono nel mare soltanto il sepolcro del Nemico. Quando la presenza di Jahvè si sarà oscurata, il dono divino diventerà il sogno di un’immensa bonifica, non più prodigio disceso dal cielo, ma faticosa conquista del soggetto. (RK, p. 258) Nello stesso libro, l’epiteto di “Ebreo asciutto” è così riservato al più grande teorizzatore della società sperimentale, Émile Durkheim: “Per lui,” scrive Calasso, “il mare non c’è, la società lo ha assorbito”. (RK, p. 204). Torniamo ora alla modernità. Quando parla della natura come materiale utilizzabile per la produzione e gli esperimenti, Calasso dimostra di aver letto e fatto suo – oltre a quello di Marx, Nietzsche e Benjamin – anche il pensiero dello Heidegger della Questione della tecnica. In quella riflessione del 1953 il filosofo tedesco si interrogava sulla natura di una particolare attitudine tecnologica, che guida nella contemporaneità il nostro modo di vedere e di comportarci nel mondo e verso il mondo. L’essenza metafisica della tecnica – giacché “l’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico”37 – risiede nel suo essere un disvelamento della verità. A differenza della tecnica nel mondo antico – il filosofo prende in considerazione la Grecia classica –, quella del mondo moderno non si traduce in un pro-durre, nel senso di “portare alla luce, svelare qualcosa di nascosto”, ma in un pro- vocare, cioè un richiedere alla natura qualcosa che possa essere estratto e accumulato. Anche l’uomo in quest’ottica può diventare “materiale umano” e ridursi alla stregua di un “fondo” di risorse da reimpiegare, nella logica imperante dello scambio. Un’attenta lettura di Marx dovrebbe servire, secondo Calasso, proprio a renderci accorti dell’inversione epocale che avviene nel nostro sistema di valori quando lo scambio economico è potenza egemone: Marx non ci soccorre per quelle sue grossolane, umanistiche, repellenti, tronfie, dopolavoristiche concezioni della società giusta, che dovrà venire, ma per la sua descrizione insostituibile della società della sostituzione, dello scambio, quale essa è – oggi, ora, ovunque, nella fissità della sua perenne espansione. (RK, p. 313) Nelle società capitaliste tutto viene considerato soltanto in termini di valore di scambio. Più precisamente, il mito del capitalismo è lo scambio uguale, la sostituzione infinita. Nel regno del canone, che si fonda sui riti e propende per il polo analogico, esiste la consapevolezza dell’impossibilità dello scambio uguale. Calasso cita a titolo di esempio un celebre rito dei nativi americani, quel potlatch studiato tra gli altri da Franz Boas,38 che prevede uno scambio di beni assolutamente squilibrato, che non può che essere giudicato folle da una specola utilitaristica. Il principio su cui si basa – il principio su cui si fondano tutti questi tipi di rituali – è che non sia possibile rendere ragione dell’esistenza all’interno della logica binaria dello scambio uguale. Se la vita di ciascuno si colloca infatti in un orizzonte di senso che lo trascende, l’esistenza andrà riconosciuta come la prima di una lunga serie di scambi ineguali con il cosmo. In un’ottica rituale, il primo e più importante scambio è quello fra interno ed esterno, cioè fra visibile e invisibile: l’uomo sa che la sua intera esistenza è strappata al dominio dell’invisibile, del continuo, e attua una serie di procedure per riparare questa situazione di difetto. C’è per Calasso uno strumento irrinunciabile per distillare l’essenza del moderno e capire cosa abbia determinato “l’innominabile attuale”: si tratta dell’opera di un pensatore da cui “il mondo di oggi discende, senza saperlo” (RK, p. 335). Si sta riferendo a Max Stirner, cui è dedicato il capitolo Il barbaro artificiale. L’apporto fondamentale del filosofo tedesco viene individuato nella sua capacità di raccontare, mediante uno stile sferzante, le aberrazioni della modernità, di mostrare come l’ideologia dell’“uomo totale”, che ha perso il legame con l’invisibile, possa tradursi facilmente in mostruosità. Con L’unico e la sua proprietà,39 Stirner avrebbe infatti portato alla luce uno dei più riusciti prodotti della società dello scambio egemone, una creatura che emerge dagli abissi delle grandi città industriali, ovvero “l’uomo del sottosuolo che saccheggia la metafisica” (RK, p. 338). Per Stirner Dio e l’umanità si identificano, e sono profondamente egoisti. La società non vede altro fine che se stessa, e sacrifica a questo scopo qualsiasi cosa, gettando gli uomini che si mettono al suo servizio “nel letamaio della storia”.40 Con la sua opera controversa e radicale, Stirner smaschera l’egoismo della società che pretende di essere dio a se stessa: Caduti gli dèi, non sono però cadute le ipostasi: allora il mondo finisce per darsi a quel goffo, sinistro corteo che Stirner aveva descritto: alla Ragione, alla Libertà, all’Umanità, alla Causa. Ma il risveglio da quelle ipostasi è amaro, più che da qualsiasi altra superstizione. (RK, p. 195) L’“unico” è l’individuo che considera tutto ciò che lo circonda una sua proprietà, perché ha posto se stesso come causa e come fine, in totale coerenza con i presupposti ideali del suo tempo, con la libertà che il pensiero moderno vede come essenza della soggettività, con il desiderio di esplorare tutte le potenzialità della vita. A emergere dalle pagine di Stirner è un “uomo totale” assolutamente inumano, è uno dei tanti Lumpen, fuori da ogni categoria, fuori dalla classe, e in quanto tale, ai fini dell’utilità sociale, ingestibile e pericoloso; è il senza morale che tramite Dostoevskij farà irruzione dal sottosuolo nella letteratura. Per questo, scrive Calasso, Marx ed Engels si impegnano a demolirlo nell’Ideologia tedesca: Stirner distrugge, mettendoli in ridicolo, i “Buoni Princìpi” su cui la causa rivoluzionaria si deve basare. Stirner è dunque innanzitutto un grande smascheratore; in quanto tale è il precursore occulto di ogni idea nietzscheana. Calasso riconosce in Stirner un anticipatore di Marx e di Nietzsche che, libero dalle paratie dell’educazione, mostra con inarrivabile sfrontatezza com’è, portato alle estreme conseguenze, l’individuo di un sistema fondato sullo scambio egemone. L’uomo che ha reciso il legame con il passato, che può produrre se stesso, non è libero ma abbandonato al vuoto, protagonista soltanto della propria autodistruzione. 1.9 Dal moderno all’“innominabile attuale” Nella sua Opera, e in modo particolare nella Rovina di Kasch, Calasso mette in luce, in sostanza, il sistema di pensiero dominante nel mondo moderno: un complesso altamente formalizzato, che cerca l’accumulo di potenza e si compiace dell’illusione di controllo data dagli strumenti logico-matematici; un sistema basato sull’assenza di presupposti (non considera tutto ciò che gli è esterno) e sulla convenzione. È un mondo non coerente ma funzionante, come dimostra il caso dell’aritmetica, che continua “a offrire i suoi servigi” (RK, p. 359) anche dopo le scoperte di Gödel sull’incompletezza dei sistemi. Quali sono, dunque, le caratteristiche fondamentali del mondo moderno che passano, potenziate, nell’“innominabile attuale”? Non è semplice sistematizzare un materiale eterogeneo come quello dell’Opera, che procede per analogie e illuminazioni subitanee, e percepisce la contraddizione come una forza creativa. Alla fine di questo lungo excursus sulle caratteristiche fondamentali del “moderno secondo Calasso”, perciò, molto rimane di celato e oscuro, a partire dal discrimine cronologico cui fa riferimento parlando di questa età del ferro. Del resto, è proprio nella sua ineffabilità che il nostro tempo si distingue dalle epoche precedenti: per questo motivo esso è innanzitutto “innominabile”, essenza proteiforme e sfuggente. È tuttavia possibile ricondurre il discorso ad alcune linee fondamentali, che saranno utili per capire come Calasso collochi, in un simile scenario, il ruolo della letteratura e dei suoi adepti. In primo luogo, il nostro risulta essere un mondo che rinuncia al sacro perché ingestibile e dannoso ai fini della società: Il sacro non viene visto. O terrorizzante o inavvertito. Ma lo stato in cui il sacro non viene percepito in quanto tale riproduce, all’inverso, la situazione del terrore originario. (RK, p. 203) Questa rinuncia deriva dall’incapacità del soggetto moderno di cogliere, attraverso la facoltà analogica del pensiero, le interconnessioni tra il Sé e il Tutto. Da lì proviene il senso di estraneità a una natura che vede solo ed esclusivamente nei termini di risorse sfruttabili. La società stessa cerca di costituirsi come un Tutto, non riconoscendo princìpi ordinatori esterni; in questo processo di secolarizzazione, tuttavia, non può che servirsi di modalità devozionali che, non più eterodirette, sono rivolte unicamente al suo interno: Superato un certo meridiano della storia, la scelta è fra una società secolare, che però continua a compiere atti di devozione (ma ormai rivolta a se stessa), e una società devota a qualcosa di divino, che però non sa più riconoscere. (CC, p. 151) Il moderno è dunque il tempo della “società sperimentale”, diventata dio a se stessa, senza modelli, significati e scopi al di fuori di sé; in questo, principalmente, differisce dalle epoche precedenti. Nelle sue propaggini contemporanee, che Calasso indaga in particolar modo con L’innominabile attuale, al suo servizio ci sono strumenti tecnologici sempre più sofisticati. Per loro tramite, le varie “tribù” del nostro tempo promettono addirittura ai propri adepti ciò che le religioni non hanno potuto che prospettare per la vita ultraterrena: l’eternità dell’esistenza, la cancellazione della morte. È questo il caso dei “transumanisti”: Con l’apparizione dei transumanisti, i secolaristi hanno svelato quella che da sempre era la loro mira: non accantonare il religioso, ma incorporarlo, usandolo ai propri fini. Era questo il loro piano occulto, che ora finalmente può diventare esplicito, grazie al soccorso della tecnologia. Prima mancavano i mezzi. (IA, p. 79) La tendenza della società a farsi autonoma e irrelata ha radici profonde e lontane nel tempo, come sembrano suggerire queste righe delle Nozze di Cadmo e Armonia: Solo con la hýbris greca, la società pretende per la prima volta di valere per se stessa. Nasce il Grande Animale, che Platone descrive. Da quella hýbris discendono tutte le altre abiure: è il segno del primo distacco dal resto, di chiusura in se stesso dell’umano quale schiera all’attacco. (NCA, p. 298) Le riflessioni di Platone sulla società come “grande animale” attraversano l’intera Opera. Nel Cacciatore Celeste viene messo in luce un problema cruciale, che Platone aveva colto: la società perfetta, per essere tale, dovrebbe agire come un unico grande organismo, sentire, vedere e volere all’unisono; ma questo accade solo “per gli dèi o i figli di dèi”.41 L’alternativa proposta nella Repubblica è quella messa in atto dagli Stati moderni in maniera apparentemente irreversibile, che prevede che la società diventi un unico grande animale, che agisce come un corpo solo; per fare qualsiasi cosa, deve essere guidata e ammansita da un domatore: Nel primo caso – la società perfetta – gli uomini non sembrano in grado di adeguarsi al modello, applicabile invece per “dèi e figli di dèi” (e i figli di dèi sono tutti scomparsi con la fine dell’età degli eroi); nell’altro caso – il “grande animale” – si tratta di un processo automatico, che si avvia ogni volta che “i molti” si aggregano: processo quindi inevitabile in qualsiasi società che abbia un minimo di coesione. Da cui consegue che quanto inevitabilmente accade in una società è il massimo male, mentre il massimo bene è ciò che comunque in una società non si riesce ad attuare. Ma la profonda malignità di ciò che è fa sì che quelle due immagini – del peggio e del meglio – siano terribilmente vicine. (CC, p. 241) Per tenersi coese, le moderne democrazie liberali si reggono su una serie di procedure, perlopiù di tipo burocratico e amministrativo, non indirizzate a un télos superiore; hanno in se stesse il proprio fine, che può essere di volta in volta ri-orientato secondo valori più o meno nobili, anche in base alle indicazioni di qualsivoglia capo carismatico. Da ciò deriva, secondo Calasso, la pericolosità insita in qualunque ordinamento sociale. Un altro fondamento della società è che, nell’era del predominio del digitale, tutto deve essere ricondotto a una funzione, tutto deve essere misurabile, controllabile e scambiabile. Tutto si muove e acquista significato in virtù di qualcosa – il denaro – che è stato determinato dall’uomo, ma ha la stessa inconsistenza di un principio e vive una vita autonoma dal suo creatore. Così, mentre l’umanità coltivava il sogno di esercitare il proprio potere su se stessa e sul mondo in maniera totale, la società si sostituiva al divino, cui aveva rinunciato, con conseguenze inaspettate: questa nuova società “subito si svelò essere non già una democrazia o una repubblica, […] ma una teocrazia sperimentale” (RK, p. 39). In definitiva, quindi, è possibile circoscrivere la questione fino ad arrivare a un nocciolo imprescindibile: “l’innominabile attuale” è il mondo che si è illuso di eliminare il sacro senza riuscirci, e lo ha inglobato in sé, anche nelle forme più pericolose. Dobbiamo dunque intenderci, secondo Calasso, sul significato da dare alla parola “secolarizzazione”, e riconoscere che essa non si traduce in un reale abbandono degli antichi contenuti teologici, ma piuttosto in un loro riassorbimento all’interno dei nuovi valori laici.42 Lo sguardo di Calasso torna sempre a volgersi allora verso un nebuloso passato, in cui la principale preoccupazione delle società era quella di consolidare e celebrare un patto di alleanza con il divino. Tale accordo silenzioso e sottaciuto si sostanziava in una pratica specifica: quella del sacrificio. Letteratura assoluta: 2. Residuo ed espulsione 2. Residuo ed espulsione La sostituzione della causalità mitologica con quella tecnologica elimina lo sgomento provato dall’uomo primitivo. Ma non ci sentiamo di asserire senz’altro che liberando l’uomo dalla visione mitologica lo si possa davvero aiutare a dare risposte adeguate agli enigmi dell’esistenza. Aby Warburg 2.1. Il sacrificio come unica realtà La questione forse più irrinunciabile per Calasso – quella che ricorre puntualmente in tutti i suoi scritti, dal primo articolo pubblicato in rivista al Libro di tutti i libri – è quella del sacrificio. Nell’opera di Roberto Calasso tutto può essere ricondotto al filo rosso sangue del sacrificio, che intreccia fra loro i diversi volumi e li rende coesi nella polimorfia. Se già nell’Impuro folle due personaggi-chiave come Sigmund Freud e Wilhelm Fliess venivano descritti come gli autori di un “delitto rituale” (IF, p. 77), è con la Rovina di Kasch che Calasso comincia ad approfondire l’argomento. Fin dal titolo, questo terremoto narrativo pone come suo ipocentro il tema del sacrificio. Si richiama infatti a una leggenda africana, raccolta in Atlantis di Leo Frobenius, che narra l’abbandono delle pratiche sacrificali da parte dell’antico regno di Naphta (o Kasch) e il crollo, di poco successivo, del regno stesso. La vicenda del regno di Kasch insegna che il sacrificio è la causa della rovina e che anche l’assenza del sacrificio è causa della rovina. Questa coppia di verità simultanee e contrapposte accenna a una verità singola e più oscura, che riposa nella quiete: la società è la rovina. (RK, p. 175) Ed è proprio l’indagine sul sacrificio a contenere e motivare l’incessante movimento centrifugo della Rovina di Kasch. Per utilizzare le parole con cui lo stesso Calasso commenterà la vicenda del regno di Naphta: “Sacrificio è il fine, sacrificio è il mezzo, sacrificio è ciò che si legge e ciò che permette di leggere. Questo è il cerchio vibrante dell’ordine antico” (RK, p. 173). Come ha notato Rolando Damiani, se lo scopo dichiarato dell’opera è quello di rincorrere la sfuggente genealogia del moderno, esso poteva realizzarsi soltanto riconducendo la straordinaria varietà di elementi in gioco a un nucleo essenziale, che non fosse neppure più un centro magnetico (la metropoli, l’Occidente, la cristianità), ma un significante universale, un comune denominatore capace di trattenere in sé la stessa oltranza dei moderni. 43 Tale nucleo coincide per Calasso con la dottrina del sacrificio: la leggenda di Naphta è dunque la “chiave di volta”44 che presenta al lettore, nel centro del volume, il suo argomento principale; è però importante sottolineare come tale argomento sia espresso già nell’incipit, con un intervento metanarrativo del “cerimoniere” Talleyrand: Parlo sulla soglia di questo libro perché sono stato l’ultimo che ha conosciuto le cerimonie. Parlo anche, come sempre, per ingannare. Non a me è dedicato questo libro, né ad alcun altro. Questo libro è dedicato al dedicare. (RK, p. 13) Nel suo essere “dedicato al dedicare”, infatti, La rovina di Kasch dichiara immediatamente il télos della sua trattazione “antistorica” – diretta cioè a disvelare criticamente la progressiva perdita di contatto con le pratiche del “fare sacro” della storia occidentale. Come è già stato notato,45 nella Rovina di Kasch Calasso sceglie di raccontare alcuni episodi della vita di Talleyrand che mostrano come il vescovo si possa ricondurre al sembiante della vittima sacrificale; ecco infatti come ne tratteggia il profilo: Talleyrand soffrirà atrocemente per la crudeltà, l’indifferenza e l’arbitrio che lo avvolgono in quanto singolo e lo fasciano nel suo ruolo giovanile di sacrificato (il primogenito zoppo va scartato e abbandonato perché non potrà mai raggiungere l’unica gloria, quella delle armi), ma non dirà mai una parola esplicita per rinnegare il meccanismo sacrificale. Anzi, il fondo della sua politica è un inchinarsi all’eredità sacrificale: unica verità, anche se insopportabile. (RK, p. 34) “In quanto singolo” Talleyrand esperisce uno degli aspetti fondamentali della pratica sacrificale: la frattura tra l’individuo-vittima e la collettività; una frattura riassunta nella frase di Caifa tratta dal Vangelo giovanneo, che Calasso riporta: “Expedit vobis ut unus moriatur homo pro populo, et non tota gens pereat”.46 Al meccanismo del capro espiatorio, su cui tornerò a breve, sono dedicate nella Rovina di Kasch approfondite riflessioni. C’è però un altro aspetto connesso a Talleyrand d’importanza maggiore: a distinguere il nostro cerimoniere è il suo “inchinarsi all’eredità sacrificale”, cioè il suo aver coscienza dell’impossibilità di staccarsi da questo possesso perenne, connaturato al genere umano. Ma in cosa esattamente risiede, secondo Calasso, l’essenza imperitura dell’atto sacrificale che il cerimoniere afferra? Il meccanismo sacrificale, abolito nella pratica nel mondo occidentale, continua ad agire a un livello profondo come unica insopportabile verità. Lungi dall’interpretarlo in base a una precisa funzione a vantaggio dell’ordine sociale, in un periodo delimitato di un tempo remoto, quindi, Calasso vi vede manifestata una costante dell’umanità. È dunque necessario spiegare in che cosa consista questa caratteristica atavica della natura umana. Potremmo cominciare utilizzando le parole di Walter Burkert: I riti sacrificali toccano le fondamenta dell’esistenza umana. Nell’ambivalenza fra ebbrezza del sangue e paura di uccidere, nella duplicità di vita e morte, essi contengono qualcosa di profondamente inquietante – possiamo dire forse: qualcosa di “tragico”?47 Nel già citato intervento tenuto nel 2014 alle Girard Lectures di Stanford, Calasso metteva in luce come la storia delle religioni e l’antropologia culturale si siano cautamente allontanate, negli ultimi decenni, da una teoria organica sul sacrificio, arrivando a negare l’utilità di un simile concetto-contenitore, colpevole di racchiudere al proprio interno esperienze rituali non comparabili fra loro.48 Per Calasso questa avversione rappresenta una perdita considerevole sul piano della comprensione e della conoscenza di alcuni fenomeni importantissimi: Così, in un colpo solo, e prendendo le mosse da studi pubblicati negli ultimi quarant’anni, si respinge una “categoria del pensiero” che era sopravvissuta per vari millenni, con una impressionante costanza di temi e di lessico, non soltanto nel mondo classico, ma – se vogliamo tornare a riferirci alle due tradizioni che fanno da pilastro allo studio di Hubert e Mauss – nei testi vedici e biblici. Lo scetticismo con cui parte del mondo accademico sembra ormai guardare al concetto di sacrificio è per Calasso lo specchio fedele della pressoché totale egemonia della “superstizione della società”: “Sacrificio è, per definizione,” scrive nell’Ardore, “ciò che non viene ammesso in società, ciò che appartiene per sempre a un’età tramontata” (A, p. 445). Sarebbe dunque la tendenza a ricondurre all’interno della società tutte le spinte e gli scopi dei suoi componenti a motivare la cecità di certi studiosi nei confronti delle pratiche sacrificali. Questo atteggiamento si allarga secondo Calasso a un piano più ampio, come spiega nel Cacciatore Celeste: Ogni mutamento nella qualità dei tempi è descrivibile come attenuazione o esaltazione del rapporto con il divino. Da quel punto discende il resto. Si può benissimo vivere senza dèi. È lo stato che corrisponde alla normalità, secondo i criteri ammessi dalla comunità scientifica. Gli dèi non vi sono ammessi, in quanto non verificabili. È un loro privilegio e una regola della loro etichetta. Se gli dèi fossero verificabili, non sarebbero più tali. Più difficile vivere senza il divino. Per i Greci gli dèi erano una apparizione recente, la loro epifania coincideva con le storie narrate dall’epos. Ma tò theîon, “il divino”? Il divino è perenne, in quanto è intessuto in tutto ciò che appare. All’interno di ciò che appare, è ciò che permette l’accesso a ciò che non appare. Quindi al mondo senza confini dell’invisibile. In Grecia, non pochi irrisero o deprecarono gli dèi, ma il divino rimaneva illeso, inattingibile. (CC, p. 375) Qui notiamo, una volta di più, come il termine “divino” venga utilizzato da Calasso in un senso molto ampio, privo di specifiche connotazioni confessionali. È divina, potremmo dire, la trama su cui si intrecciano le esistenze umane. A questa fibra di fondo dell’essere possono o meno essere rivolte delle attenzioni particolari, a seconda che la si riconosca o la si ignori. La tesi di Calasso è che da un certo momento in poi – un momento che è però “metafisicamente eterno”, per rifarci alla notazione di Calvino, ma che “con l’utile superstizione delle date” potremmo collocare nella metà del XVIII secolo – l’umanità ha gradualmente smesso di dedicare a qualcosa di oltreumano quelle attenzioni, con conseguenze significative. Da qui nasce il suo interesse per il sacrificio, cioè per quel rito che più di ogni altro rappresentava, nel mondo antico, la volontà dell’uomo di cercare una relazione con il divino. Ovviamente una questione complessa come quella sacrificale meriterebbe approfondimenti estesi, che esulano dai confini di questo studio. Mi limiterò dunque ad avvicinarmi al tema seguendo le suggestioni proposte da Calasso. Innanzitutto riassumiamo alcune delle posizioni che precedono quella “crisi delle Grandi Teorie” cui Calasso fa riferimento nella conferenza del 2014: oltre ai classici dei primordi, dai lavori di William Robertson Smith a quel transito obbligato della comparatistica di inizio Novecento che è Il ramo d’oro di James Frazer, passando per Marcel Mauss, andranno menzionati i lavori di Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant e del già citato Walter Burkert. Detienne e Vernant, che si concentrano soprattutto sull’antichità classica, riconducono le pratiche sacrificali a quelle culinarie, sottolineano l’importanza del rapporto fra riti e miti fondatori e offrono del sacrificio un’immagine tutto sommato pacifica e rassicurante.49 Burkert, al contrario, propone una visione oscura e violenta del sacrificio greco, senza mettere eufemisticamente in secondo piano l’aspetto cruento dell’uccisione. Su un versante diverso ragionano studiosi, altrettanto importanti per Calasso, come Durkheim, Freud e Girard, accostabili, nella grande diversità degli approcci disciplinari, per il comune intento di spiegare il sacrificio con la sua utilità alla fondazione o rifondazione del corpo sociale, come strumento di riscoperta di una coesione interna. Non vanno poi dimenticati quegli studiosi che vedono nel sacrificio un evento cosmogonico, come per esempio Carl Gustav Jung. Calasso, che sembra in ogni caso nutrirsi della lettura di tutti i sopracitati e di molti altri – imprescindibili per esempio gli studi sul sacrificio di Sylvain Lévi e Louis Renou –, avverte ancora una volta come massimamente affine la visione che del sacrificio ha offerto la ben più antica speculazione indiana. In modo particolare, Calasso tiene come riferimento costante il corpus dei Brāhmaṇa, trattati in prosa sul sacrificio composti fra X e VIII secolo a.C. Questi testi costituiscono per lui il punto di partenza obbligato per qualsiasi indagine sul sacrificio perché investigano con acutezza e precisione irripetibili i significati di questo rituale. Nella religiosità vedica, infatti, il sacrificio è il perno del culto – quello che Sylvain Lévi chiama “l’unica realtà”50 – e attorno a esso ruotano tutte le speculazioni. Calasso si è lungamente dedicato allo studio dello Śatapatha Brāhmaṇa, il “Brāhmaṇa dei cento cammini”, sterminata trattazione sui riti sacrificali risalente all’ VIII secolo a.C. L’ardore nasce infatti dal tentativo di chiosare questo testo, che ha la peculiarità di offrire “l’immagine di un mondo costituito soltanto dal religioso e apparentemente privo di curiosità e di interesse per tutto ciò che tale non sia” (A, p. 419). Caratteristico dei Brāhmaṇa è proprio il mettere al centro di ogni interesse le pratiche rituali, istituire una equivalenza fra l’ordine del cosmo e la perfezione del culto, e in modo particolare del rito sacrificale. Per la totale dedizione rivolta al gesto liturgico e per la capacità di sondarne i significati con pregnanza, Calasso ritiene che qualsiasi forma assunta dal sacrificio non sia che una riproposizione parziale della più vasta e complessa articolazione del sacrificio vedico, “unica costruzione speculativa capace di inglobare in sé la totalità del fenomeno”.51 Per questo motivo, nel corso della mia ricostruzione del tema nell’Opera dovrò tornare con una certa insistenza a riferirmi a immagini e concetti appartenenti a quella cultura, a partire dal fatto che per Calasso, così come per i veggenti vedici, la meccanica sacrificale è al fondo della nostra esistenza, inscritta nell’essere mortali: La forma del sacrificio è latente nell’esistenza del sangue: vita che si rinnova, ma per un certo tempo, costruzione ininterrotta e caduca. È vita, ma non potrà mai raggiungere la durata senza termine della trasparente linfa che circola negli dèi. (RK, p. 214) È dunque qualcosa che appartiene alla fisiologia dell’uomo e che rimanda al tempo stesso alla sua natura doppia, al suo essere meticciato con il divino in una sorta di ierogamia esistenziale: In quella che Plutarco chiamava la “fisiologia antica”, e definiva un “discorso sulla natura avviluppato in miti”, ierogamia e sacrificio sono i punti estremi della respirazione: l’aria inspirata si congiunge al sangue e lo nutre, rendendosi irriconoscibile nella mescolanza (ierogamia); l’aria espirata viene espulsa per sempre (sacrificio) e si mescola all’aria del mondo. Ma, anche nella massima distanza e tensione, quegli estremi si sovrapponevano. (NCA, p. 331) All’interno dell’Opera questa mescolanza trova nell’immagine vedica di Prajāpati smembrato nell’attimo cosmogonico una cristallizzazione perfetta. È quel primo sacrificio l’atto originario per eccellenza: per quanto negli inni vedici le storie dell’origine siano diverse e sfaccettate, tutte concordano sullo smembramento del Progenitore. Tutto ciò che esiste esiste dunque grazie a una perdita, a una rinuncia: la rinuncia alla completezza, all’autosufficienza e alla pienezza di una divinità che decide di manifestarsi privandosene. Sua è dunque la prima colpa: Smembrandosi per creare il mondo, Prajapati commette la colpa primordiale. Rompe qualcosa di perfettamente completo e chiuso in sé per manifestarsi. Infatti Rudra lo punisce, trafiggendolo. La colpa è dunque insita nella manifestazione (parola più adatta di creazione).52 In ambito brahmanico il sacrificio nasce come cerimonia modellata sull’autoimmolazione di Prajāpati e ha lo scopo di sanare quella lesione. Come spiega Charles Malamoud, sacrificare significa in primo luogo fare ammenda per quel primigenio sacrificio, che è al contempo il paradigma e la ragion d’essere di ogni cerimonia sacrificale.53 Anche in altri contesti religiosi la via del contatto con il divino è quella di una perdita: che si tratti di una vita umana, di un animale da allevamento o di un cibo particolare, il sacrificante e la sua comunità devono privarsi di qualcosa. Storici delle religioni, antropologi e sociologi hanno lungamente dibattuto sulla natura dell’offerta sacrificale nei diversi riti: è essa un dono? Un fattore di riparazione? Un vincolo che obbliga il divino alla reciprocità? Senza voler dirimere la questione in un senso specifico, Calasso mi sembra voler privilegiare la funzione fàtica del gesto, che aiuta ad avviare uno scambio con l’alterità: Il gesto più delicato per far intendere agli dèi cos’è l’irreversibile, piaga di tutti gli uomini, è la libagione: versare per terra un liquido nobile, perderlo per sempre. Era un gesto di omaggio: il riconoscimento della presenza e del privilegio di un invisibile. Ma si poteva anche intendere come un accenno di conversazione. Un modo per dire agli dèi: qualsiasi cosa facciamo, noi siamo questo liquido versato. (CC, p. 219) Privandosi di una risorsa preziosa per offrirla nella libagione, l’uomo sperimenta anche in maniera controllata e ridotta un fenomeno cruciale per la sua esistenza: l’irreversibilità. Mette così in scena una serie di eventi terribili a cui la sua vita lo sottoporrà: la scarsità di risorse, la perdita, la morte. Il sacrificio si rivela dunque uno strumento di autoconsapevolezza. Anche Walter Burkert gli attribuisce un simile potere, tale da renderlo l’azione per eccellenza: L’homo religiosus agisce e diventa conscio di sé in quanto homo necans. Compiere un atto sacrificale è “agire” tout court, rhézein, operari (da cui deriva il tedesco Opfer), una denominazione che tace eufemisticamente il contenuto di questo “agire”.54 2.2 La caccia e il sacrificio Per lo stesso Burkert la pratica sacrificale è inscritta nella storia evolutiva dell’uomo. È un atto talmente ancestrale da appartenere al momento del passaggio di un animale precedentemente frugifero (e saprofago) alla predazione. Calasso condivide questa idea e dedica moltissime pagine alla caccia, giungendo poi con l’ottavo tassello dell’Opera a trattarla in maniera più approfondita. Potremmo dire che Il Cacciatore Celeste ripercorre in modo autonomo e originale il sentiero tracciato da Burkert in Homo necans: se nel volume del 1972 lo studioso tedesco offriva un itinerario che dalla spiegazione “genetica” del rito sacrificale andava a investigare i suoi sviluppi nei contesti misterici, con Il Cacciatore Celeste Calasso parte dai primordi dell’ominizzazione per concludere con un Ritorno a Eleusi. Burkert comincia la sua esplorazione attraverso le pratiche sacrificali con uno sguardo all’attività in cui la specie umana si è impegnata per il più lungo tempo possibile – in una percentuale che lui ipotizza vada compresa tra il 95 e il 99 per cento del suo soggiorno sul pianeta –, cioè la caccia. In questo senso, “il passaggio alla caccia rappresenta piuttosto il mutamento ecologico decisivo intervenuto tra i restanti primati e l’uomo”. Secondo Burkert che, a differenza di Calasso, non considera il lungo periodo di transizione in cui Homo è stato animale saprofago, “si può addirittura definire l’uomo come lo hunting ape”.55 Questo dato di fatto porta con sé una miriade di conseguenze su un piano esistenziale. Partendo da simili presupposti, Calasso muove la sua indagine sulla caccia, sottolineando in primo luogo che il passaggio alla predazione rappresenta per la specie umana uno straordinario rivolgimento di approccio mentale. L’uomo sceglie infatti di comportarsi come un grande animale, di imitare i suoi predatori e di sovvertire un naturale stato di cose: A questo punto, con l’imitazione e la fabbricazione di strumenti, erano stati compiuti i due passi decisivi che tutto il resto della storia avrebbe provato a elaborare, sino a oggi: la mimesi e la tecnica. Se si guarda indietro, il dissestamento prodotto dal primo passo – quello della mimesi, per cui gli uomini decisero di imitare, fra tutti gli esseri, appunto quelli dai quali venivano spesso uccisi – è incomparabilmente più radicale e sconvolgente rispetto a ogni passo successivo. Una risposta a quello sconvolgimento fu il sacrificio, nelle sue svariate forme. (A, p. 74) Nelle due operazioni implicate nel passaggio a questo nuovo status di cacciatore – l’imitazione del comportamento dei grandi animali e lo sviluppo di tecniche di fabbricazione delle armi per competere con le loro zanne – sono racchiuse le principali ragioni che generano lo scompenso iniziale, la rottura di un equilibrio cosmico, di cui l’uomo si sentirà sempre colpevole. Per questo motivo avvertirà il bisogno di dedicare a un’entità superiore il frutto di quel sovvertimento, dell’uccisione. Si spiega così lo stretto legame fra caccia e sacrificio, a proposito del quale, nell’Ardore, Calasso ricorda: “La caccia è lo sfondo del sacrificio. Il sacrificio è una risposta alla caccia: è una colpa che si sovrappone alla colpa della caccia” (A, p. 378). In effetti, anche Burkert, proseguendo su una pista di ricerca parimenti battuta da Karl Meuli, sottolinea come l’intreccio di caccia e sacrificio sia profondo e derivi perlomeno dal periodo di Neanderthal, al quale risalgono alcune testimonianze di inumazioni di orsi.56 Nell’immaginario dei Veda, quel momento di strappo nell’armonia del creato è rappresentato dalla fuga di Prajāpati che, in forma di antilope, fugge dalle frecce di Rudra. La loro storia si cristallizza poi nella costellazione di M ṛga (che noi chiamiamo Orione, il “Cacciatore Celeste”, appunto); Calasso la commenta così: “Ciò che rimane è scritto nel cielo – e lì perennemente la freccia raggiunge l’antilope. Sotto quell’immagine noi viviamo, testimoni della fuga e della ferita” (A, p. 379). Anche nella Bibbia si trova l’immagine di un cacciatore: è Nimrod, enigmatica figura di cui nella Genesi si danno poche informazioni: è “potente sulla terra” e “valente cacciatore davanti a Iahvè”.57 Nel Libro di tutti i libri è messo in diretta relazione con Rudra e Orione (LTL, p. 394). Tutte queste figure rappresentano il momento in cui l’uomo si arroga improvvisamente il diritto di uccidere degli esseri per natura più forti. Sarà dunque portato a leggere nell’abbattimento della preda un atto di appropriazione indebita nei confronti del divino e, per buona parte del suo soggiorno sulla terra, sentirà il bisogno di redimersi da tale affronto con un’offerta alla stessa divinità vilipesa. Questa è una delle radici di quella che Calasso definisce “attitudine sacrificale”, che verrà a un certo punto della storia (anzi, della preistoria) istituzionalizzata: Anche Homo uccide e macella. Tuttavia, in una certa zona remota, non precisabile, del tempo e nei luoghi più disparati, si è dedicato a uccidere e macellare rivolgendo certi gesti e certe parole a entità non visibili. E ricominciando a farlo, a intervalli regolari. Era una gloria e una colpa, intrecciate. (CC, p. 123) 2.3 Il sovrappiù Una delle principali ragioni della vocazione cerimoniale dell’uomo, connessa al suo nutrirsi di animali uccisi, risiede nel riconoscimento di essere in difetto rispetto all’esistenza. Come Calasso spiega in Ka, i teologi vedici pensavano che ogni uomo nascesse con un quadruplice debito (ṛṇa): “Verso gli dèi, verso i ṛṣi, verso gli antenati, verso gli altri uomini” (Ka, p. 421), al punto tale che nello Śatapatha Brāhmaṇa si dice che il debito non soltanto grava sull’uomo, ma lo definisce.58 Il sacrificio è dunque anche un modo per ripagare i debiti che si hanno nei confronti degli dèi. A questo carico di obbligazioni si aggiunge la necessità di sanare la primigenia mancanza, quella verso la divinità che ci ha fatti esistere: All’origine della visione sacrificale è il riconoscimento di un debito contratto verso l’ignoto e di un dono che va rivolto all’ignoto. Nessuna epistemologia può intaccare questa visione. Il concetto le passa accanto, senza urtarla. (A, p. 312) Secondo Calasso “le pratiche sacrificali hanno tutte un’aria di famiglia” (A, p. 424) – a dispetto della negazione epistemologica del concetto di sacrificio che appartiene all’antropologia contemporanea –, perché il principio metafisico che le guida è questo senso di difetto primordiale. A tale premessa segue una questione cruciale, che ritorna con insistenza nell’Opera, quella del “sovrappiù”: Il sovrappiù è l’eccedenza della natura rispetto alla cultura, quella parte di natura che la cultura si trova a dover giocare, consumare, distruggere, dedicare. Nel trattare quell’eccedenza, ogni cultura disegna la propria fisionomia. (RK, pp. 194-195) Per quanto si sforzi di imporre un proprio ordine al mondo naturale, ogni cultura deve scontrarsi con la natura entropica del mondo, con il fatto, cioè, che non esista stasi. Non si accorda infatti al concetto di ṛta l’idea di un ordine che non contenga in sé il suo contrario: il termine ha una radice indoeuropea ar-, che appartiene alla stessa costellazione di termini del greco armonía; a tal proposito è interessante ricordare, con Agamben, che l’ideale del Cosmo sia anche in altre culture una composizione, e implichi “l’idea di una lacerazione che è, insieme, una sutura, di una tensione che è, insieme, un’articolazione, di una differenza che è, insieme, unità”.59 La vita è fatta dunque di dispersione e squilibrio, la ridondanza è “il modo di manifestarsi del cosmo” (NCA, p. 370) ed esiste un di più, un surplus, che va perso. Un tempo gli uomini pensavano fosse giusto avere il culto di questo sovrappiù, e dedicarlo a qualcosa di superiore, divino. Nel Cacciatore Celeste leggiamo: Essenziale nell’atto della libagione non è tanto l’offerta di qualcosa a una divinità che non ne ha bisogno, quanto la volontaria dispersione di qualcosa di esistente. […] Dèi crudeli e metafisici, chiedono a ciascuno degli umani non solo di accettare la propria impermanenza, ma di celebrarla con gesti appropriati e festosi. (CC, p. 394) Il sacrificio è dunque anche una forma di esaltazione e di adorazione per quell’eccedenza che è la vita; un’eccedenza che deve essere consacrata all’entità a cui è dovuta perché, come avvertono Le nozze di Cadmo e Armonia, “il perfetto attira su di sé la morte, perché non c’è pienezza senza sovrabbondanza, e ciò che sovrabbonda è l’eccedenza che il sacrificio rivendica a sé” (NCA, p. 132). Quasi trent’anni dopo, nel Cacciatore Celeste, la questione si ripropone in queste righe, che motivano l’esigenza di una reiterazione delle cerimonie: C’è un punto – misterioso, tremendo – in cui si incrociano l’uccisione e il divino. Certi culti circoscrivono quel punto, lo elaborano, lo commentano. Ma non lo esauriscono. Perciò i riti vanno ripetuti. (CC, p. 366) Per Calasso i riti sacrificali spiegano dunque un assunto fondamentale: “La vita, se vuole perpetuarsi, esige che si colga qualcosa” (RK, p. 178). Essi danno rilievo al fatto che “qualsiasi ordine, biologico e sociale” sia “fondato su un’espulsione, su una quantità di energia bruciata, perché l’ordine deve essere più piccolo della materia che ordina” (RK, p. 195). La materia espulsa rappresenta proprio quel “sovrappiù”, che potremmo altresì chiamare “residuo”. Per la metafisica indiana il residuo è il motore di tutto, di ogni gesto60: i ritualisti si interrogano sul fatto che ogni azione, dal mangiare al respirare, produca uno scarto, e molti passaggi dell’Ardore e di Ka sono per questo incentrati sulla “dottrina del residuo”.61 Nato dalla rottura di un equilibrio pieno e perfetto, per il Veda l’universo è costretto a reggersi su un delicato gioco di espulsione. La dottrina del residuo è correlata al sacrificio, in primo luogo perché si fonda sul presupposto che qualsiasi sacrificio produce dei resti materiali ed è un processo di “riordino” incompleto: “Qualcosa rimane sempre fuori; anzi, deve rimanere fuori perché, se fosse incluso nell’ordine, lo dissesterebbe dall’interno” (A, p. 259), e questo è il motivo per cui i riti vanno continuamente ripetuti. In secondo luogo, perché nella tradizione indiana c’è una complessa disciplina della gestione dello scarto alimentare che distingue in maniera netta ciò che non può essere mangiato perché impuro da ciò che è talmente puro da esser degno del rito sacrificale. Calasso si immerge in questa speculazione, di cui i testi brahmanici ci danno testimonianza, riconnettendola al passato di saprofagia della nostra specie, come se gli autori dei Brāhmaṇa avessero colto le zone d’ombra della storia evolutiva del genere umano e le avessero elaborate in maniera originale. Anche in questo caso, la trattatistica vedica sembra arrivare a livelli di speculazione più elevati di tanti saggi scientifici o filosofici successivi: “Poneva sempre questioni cruciali, di fronte alle quali il pensiero di ascendenza illuministica si mostra goffo e sprovveduto” (A, p. 419). 2.4 Ordine, Legge, diritto La speculazione vedica sul tema del residuo giunge dunque, secondo Calasso, a insuperati vertici concettuali, sapendo render conto con esattezza del fatto che l’esistenza sia costituita di scarti, di discontinuità, ma vada al contempo rapportata con il fondamento ultimo delle cose, che non può che essere continuo. A ciò si connette un’idea essenziale, che appartiene più in generale alla visione religiosa del mondo: il rapporto fra il continuo primordiale e il discreto delle sue manifestazioni non si esaurisce nel momento della creazione, ma fra i due poli del visibile e dell’invisibile c’è un contatto costante, una relazione da mantenere viva. A questa consapevolezza fa da corollario la convinzione che il divino, che è il continuo, abbia bisogno di confrontarsi con il discreto, il discontinuo, l’umano. Se nell’Impuro folle Calasso individuava la “debolezza” di Dio, “il ‘tallone d’Achille’ nell’Ordine del Mondo”, nella sua “attrazione per il vivente” (IF, p. 15), in Ka spiega come qualsiasi operazione rituale produca degli scarti, perché è soltanto nello scarto che il continuo trova manifestata nel mondo fisico, che è discontinuo, la prova della sua esistenza: Giunsero a una conclusione: l’eliminazione del residuo si può dare solo nel discontinuo. Mentre il continuo sfugge sempre. Il discontinuo poggia, naviga sul continuo. Attraverso il residuo, il continuo obbliga a ricordare la sua esistenza. Il discontinuo non riesce mai, per quanto sottilmente si scomponga, a sovrapporsi al continuo. (Ka, p. 432) La fonte inesauribile di tale consapevolezza è nella volta celeste, che è al contempo l’immagine più vivida del continuo e il mistero che in misura maggiore l’uomo ha cercato di sondare e imbrigliare con gli strumenti del discontinuo: Sin dalle origini il pensiero, osservando il cielo e la sua indominabile molteplicità di forme, ha tentato innanzitutto di isolarvi un kósmos, un piccolo ordine di forme, rispetto a tutte le possibilità altre che non vi rientrano – e che esemplarmente sono rappresentate dalla Via Lattea, luogo celeste dove non è possibile separare i singoli elementi che lo compongono. Non ci sono dèi, non c’è un dio se non collegati a quelle parole che indicano un ordine. E il divino stesso da quelle parole è inscindibile. Ciò che alla fine si è inteso sotto il nome di scienza non è che l’ultimo tentativo di articolare quell’ordine che già era stato indicato sotto molti nomi. Tutti inesauribili, tutti alla fine provvisori e inconclusi. Tutti indispensabili perché una qualche forma di vita prosegua. (LTL, pp. 348-349) Guardando quella porzione di cielo che è possibile abbracciare a occhio nudo, l’uomo ha sempre avvertito un senso di appartenenza a qualcosa che lo sovrastava, il cui ordine gli sfuggiva. Ha provato in vari modi a carpirlo, o a costruirsene uno, scandagliando il mistero celeste alla ricerca di forme definite. Per Calasso, che si pone nel solco della gnoseologia di Nietzsche, “nessun ordine è completo; nessun ordine regna; nessun ordine regge. Ma tutto accade come se l’ordine reggesse. La simulazione è un elemento indispensabile di ogni ordine” (LTL, p. 347). Nella provvisorietà di qualsiasi ordine, Calasso distingue fra quelli che oscurano il mistero della connessione fra visibile e invisibile e quelli che non lo fanno. I riti non erano altro che uno strumento per “pensare” il legame fra continuo e discontinuo, per rendere omaggio, collettivamente, a ciò che li tiene uniti e collocarsi all’interno di quell’ordine superiore e misterioso. “Cancelliamo i nomi degli dèi, i miti fondatori, i precetti rituali,” scriveva Calasso nelle pagine centrali della Rovina di Kasch, “che cosa rimane del sacrificio? La discrepanza fra il discontinuo e il continuo, fra numeri razionali e numeri reali – e il riconoscimento che continuo e discontinuo devono rimanere legati” (RK, p. 275). Abbandonati i riti, a quali strumenti ricorrerà l’umanità per soddisfare la propria irrinunciabile esigenza di ordine? In assenza dei riti, subentrano i precetti della legge. Che però sono prevalentemente negativi: non prescrivono più ciò che occorre fare, ma ciò che è vietato fare. L’ordine allora dovrebbe sussistere da solo. Ma appunto in quel momento rivela la sua incompletezza e fragilità. (LTL, p. 348) Implicita in queste pagine è la differenza fra Legge e diritto, che è al cuore della Rovina di Kasch. Nel lungo capitolo Law and Order del volume dell’83, Calasso rifletteva sul divario fra una concezione del mondo che ipotizza un ordine cosmico superiore (ṛta) e una che, presupponendo esista solo ciò che si vede, immagina l’ordine come qualcosa che le società hanno il dovere di darsi da sole, attraverso regole e procedure. Nel Libro di tutti i libri torna a ragionare su questa contrapposizione: il sacrificio è definito “un atto necessario, a cui non si poteva sfuggire” (p. 213) per chi vuole seguire la Torah, la Legge, “l’entità suprema e onnipresente, di là dalla quale nulla era ammissibile” (LTL, p. 279). Tale entità è messa, fin dalle prime pagine, in antitesi con la legge degli uomini: La parola decisiva contro il sacrificio, quella che segna una cesura rispetto a ogni precedente epoca e concezione sacrificale, fu detta da Gesù citando Osea: “Se sapeste che cosa è: Voglio la misericordia e non il sacrificio, mai avreste condannato innocenti”. Era costume di Gesù presentare la novità sconvolgente come brevissima aggiunta a una citazione dalla Scrittura. In questo caso, già colpiva il fatto di isolare quelle parole di Osea, che prefigurano un rifiuto radicale del sacrificio, come se un ordine della “misericordia” potesse sostituirsi all’ordine del sacrificio. Ma ciò che scuote ancor più sono le parole che seguono: “Mai avreste condannato innocenti”. Nessuno si era mai azzardato a parlare in modo così diretto della eventuale innocenza delle vittime sacrificali. (LTL, p. 34) Il passo del Vangelo di Matteo62 in cui Gesù, difendendo i suoi discepoli dalle accuse dei Farisei, cita un versetto di Osea,63 viene preso da Calasso a emblema di un conflitto fra due differenti ordini di valori: da un lato l’“ordine della misericordia”, quello dei valori socialmente condivisi, che aiutano a preservare l’armonia fra gli uomini; dall’altro, “l’ordine del sacrificio”, estraneo alle logiche comunitarie, che si cura di salvaguardare l’armonia cosmica. Questi due sistemi di pensiero possono convivere: le buone pratiche sociali, sulle quali interviene il diritto positivo, servono al funzionamento delle comunità; le buone pratiche rituali, che sottostanno alla Legge, servono a mantenere vivo il contatto con l’“invisibile”. Nell’affermazione di Gesù, però, questi due ordini vengono a collidere; quel richiamo all’“innocenza” delle vittime sacrificali è per Calasso il segno di una sovrapposizione fra due piani diversi: Questo poteva avvenire soltanto se il linguaggio giuridico (la condanna, l’innocenza) si sovrapponeva totalmente al linguaggio sacrificale (l’offerta, l’uccisione). E, se ciò avveniva, le conseguenze sarebbero state incalcolabili – e si sarebbero propagate nel tempo in cerchi concentrici, senza fine. (LTL, p. 35) C’è stato un tempo in cui le due visioni non si escludevano a vicenda, gli uomini elaboravano strategie per preservare un equilibrio che tenesse conto di entrambi i piani, considerando prioritario il primo. Da un certo momento in poi hanno smesso di farlo. Nel mondo moderno il processo è senza dubbio compiuto, e il sacrificio è concepito soltanto come una barbara usanza del passato, proibita da ogni legge; nel mondo dell’Antico Testamento, c’era invece una Legge che stava al di sopra di qualsiasi diritto. Per questo, l’accordo fra Iahvè e Israele non era un semplice contratto, ma una promessa sancita nel sangue: Per i moderni, il patto è una intesa formale, che richiede un testo e due firme. Ma fra Iahvè e Israele, a partire da Abramo, esigeva la presenza di sangue versato. I contraenti dovevano tagliare in due una vittima immolata e passare fra quelle metà di un corpo sanguinante. Non c’era patto se non preceduto da sacrificio cruento. (LTL, p. 150) Quando Gesù fa riferimento all’innocenza delle vittime, insomma, sposta la questione da un piano metafisico a uno giuridico. Ma il diritto manca di efficacia, secondo Calasso, nell’elaborare il problema della colpa: la vittima innocente del diritto, che è l’imputato del processo giuridico, vede provenire la sua condanna da un sistema che pone la colpa al di fuori di esso. Nella visione sacrificale, invece, la colpa è riconosciuta come interna al sistema, propria della vita stessa, perché l’esistenza proviene dalla rottura di una perfezione primigenia: Con l’avvento della legge, la colpa, che appartiene al sacrificio, e in primo luogo al sacrificante, si sposta fin dall’inizio soltanto sulla vittima: non la si chiamerà più vittima, ma colpevole. […] Fra l’Edipo re e i Vangeli il sacrificio ha compiuto la sua trasformazione in processo. Ormai è la legge a stabilire la scelta della vittima. Ma il processo pienamente efficace, in quanto liberatorio dal sacro, è soltanto quello in cui si condanna l’innocente. (RK, p. 202) L’esistenza umana è concepita da Calasso come una parentesi di grazia, momentanea licenza sempre revocabile. Questa debolezza intrinseca ha un risvolto tangibile e molto evidente: qualsiasi azione compia, l’uomo è costretto a consumare il mondo e a creare scarti. Dall’inspirazione all’escrezione, tutto in lui è fisiologicamente votato all’erosione e alla dispersione dell’esistente. Questa forma di dipendenza dal mondo – e dunque dalla propria forza generatrice – è legata in primo luogo alla sua necessità di nutrirsi: La colpa primordiale è il gesto che fa scomparire l’esistente: il gesto di chi mangia. Obbligatoria e inestinguibile è la colpa. E, poiché gli uomini non sopravvivono se non mangiano, la colpa è per loro intessuta alla fisiologia e continuamente si rinnova. (NCA, p. 34) In linea con questa riflessione è il commento al sopracitato passo di Matteo del Libro di tutti i libri. Quale significato attribuisce Calasso alla frase di Gesù “Ora io vi dico che c’è qui qualcosa di più grande del Tempio”?64 Il “qui”, hic, della frase è il punto più arduo. Non significava soltanto “qui sulla terra”, ma “in questa storia”: una storia dove si trattava di persone che hanno fame e mangiano. L’atto di mangiare si connetteva evidentemente alla colpa in modo indissolubile, si trattasse di “esattori e peccatori” o di discepoli che camminano nei campi e colgono spighe, perché hanno fame. Per risalire alle origini della colpa, occorreva passare dall’atto del mangiare. Un atto che debordava dalla Legge e implicava che la Legge non fosse tutto. Mangiare significava innanzitutto la nostra ineluttabile dipendenza dal mondo, a cui si deve attingere in ogni momento, con ogni respiro, se la vita vuole durare. È questo lo hic “più grande del Tempio”, il terreno su cui ogni Tempio doveva poggiare. (LTL, p. 386) Le parole di Gesù sono insidiose, da una parte perché minano alla base l’autorità di chi rappresenta la Legge, dall’altra perché mostrano l’ambiguità del rapporto fra la Legge e il diritto. Nella visione sacrificale, la colpa si pone su un piano completamente diverso rispetto alla responsabilità: è qualcosa che riguarda il genere umano, si incarna per un certo momento in un soggetto, la vittima, ma non gli appartiene come una scelta; dunque, non c’è contraddizione fra condanna e innocenza. Se la legge degli uomini può ambire al massimo a condannare il male come atto volontario, il sacrificio dovrebbe servire invece a portare alla luce l’onnipervasività del male, far scoprire il “male metafisico” (cfr. A, p. 71) a cui appartiene per il semplice fatto di esistere – di essere parte dello smembramento di un’integrità perfetta – e di nutrirsi – di continuare a creare squilibri per sopravvivere. Se si pensa al sacrificio come rivisitazione dell’atto cosmogonico, il riconoscimento dell’interscambiabilità tra sacrificante e vittima è fondamentale: il gruppo di uomini deve fingersi un tutto perfetto e indifferenziato e rinunciare a una parte di sé che lo rappresenti come tale. Nella Rovina di Kasch Calasso fa riferimento, a titolo d’esempio, ad alcuni riti druidici per cui la comunità mangia una torta suddivisa in parti uguali, e la vittima è quella a cui capita una fetta segnata dal carbone. È evidente, in queste riflessioni, l’influenza degli studi di René Girard,65 verso il quale Calasso dimostra un atteggiamento ambivalente: da una parte gli riconosce di aver dato il nome al meccanismo di espulsione perennemente agente del “capro espiatorio”, dall’altra lo accusa di aver sottomesso la sua spiegazione del fenomeno ai dettami della moderna “religione del sociale”: Applica con rigore (forse per primo) l’assioma di Durkheim, che egli definisce “la più grande intuizione antropologica del nostro tempo”. Di fatto, la nube del religioso avvolge nei singoli punti il nesso sociale: ma per Girard è come se da quei punti venisse sprigionata. […] Con la sua ipotesi, Girard può spiegare la ciclicità del tempo, non la sua irreversibilità; può spiegare l’assassinio, non la morte; può spiegare il conflitto dei desideri mimetici, non l’essenza del desiderio. Rovesciamo allora l’assioma, diciamo: il sociale è il religioso. (RK, p. 210) Il problema è insomma che Girard “intende il sacrificio come puro fatto sociale, dove il divino è solo una facciata di comodo” (A, p. 430), piegandosi in qualche modo alla “superstizione sociale”. Nel capitolo dell’Ardore in cui denuncia più esplicitamente i suoi presupposti teorici sul sacrificio, Antecedenti e conseguenti, Calasso confronta le ipotesi di Girard sul tema con quelle di un suo stesso importante oggetto di studi, i Brāhmaṇa. La tesi sul sacrificio di Girard è che ogni società per sopravvivere abbia bisogno di convogliare la propria violenza interna su una vittima, in una forma istituzionalizzata e controllata. I ritualisti vedici pensavano che il mondo fosse fondato sul sacrificio come processo di eliminazione delle energie in eccesso e che quelle energie andassero dedicate a qualcosa di oltreumano. Le due visioni convergono sul fatto che questi processi elaborino una colpa, ma la interpretano diversamente: per Girard essa è propria della società che decide di mettere a morte un innocente, per i Brāhmaṇa appartiene alla natura di qualsiasi azione, perché con qualsiasi atto si bruciano delle eccedenze, e in ogni eliminazione di sovrappiù c’è un’uccisione (cfr. A, p. 434). Su alcuni punti, tuttavia, Calasso e Girard concordano, per esempio sul fatto che il sacrificio fosse anche un modo per convogliare nella perfezione di determinate procedure rituali un potenziale di violenza e tensioni che caratterizza l’umanità posta di fronte al problema del rapporto irresolubile fra la vita e la morte. Anche lo studioso francese attribuisce all’abbandono dei riti un potenziale di violenza indiscriminata, sebbene per motivi diversi da quelli individuati da Calasso: per lui il problema sta nel bisogno della società di calmierare la propria violenza interna a spese di un capro espiatorio, per Calasso nel mancato riconoscimento della natura dispersiva di qualsiasi esistenza e nel vuoto che si spalanca in assenza di gesti che diano senso a quella dispersione. Un aspetto fondamentale del sacrificio che Girard mette in luce in sintonia con Calasso è la doppiezza del sacro, che include in sé un quid di violenza, di terribilità – il fatto insomma che “quando la vittima è immolata, appartiene al sacro; è il sacro stesso che si lascia espellere o si espelle nella sua persona”.66 La sua ambiguità programmatica è un tratto caratteristico del sacrificio: come ha scritto Burkert, “sacrificante e vittima sono in rapporto l’uno con l’altro, fino a divenire quasi una cosa sola. Nella misura in cui la vita si afferma, essa presuppone la morte”.67 Questa componente – che lo studioso tedesco analizzava attraverso la forma medio-passiva indoeuropea thyesthai, “sacrificare per proprio interesse” ma anche “essere sacrificato” – trova una perfetta corrispondenza nel sistema sacrificale vedico, in cui sacrificante e vittima sono considerati la stessa cosa. Torna così in primo piano un problema fondamentale che riguarda la struttura stessa del pensiero: i riti sacrificali mettono all’opera il meccanismo della sostituzione. Anzi, come spiega Cristiano Grottanelli, la sostituzione è “un principio operativo in tutti i sistemi sacrificali noti”,68 e in particolare in quello indiano, in cui la vittima è il sacrificante stesso. Più in generale, si può dire con Girard che “il pensiero religioso concepisce tutti i partecipanti al giuoco della violenza, gli attivi come i passivi, quali doppi gli uni degli altri”.69 Perciò, secondo Calasso, il sacrificio restituisce all’uomo quell’ebbrezza della sostituzione che appartenne ai primi cacciatori i quali, sovvertendo la catena alimentare diventando predatori, scoprirono l’intercambiabilità dell’uccisione e sperimentarono la potenza che corrisponde a qualsiasi processo sostitutivo. Al tempo stesso, essendo una forma di celebrazione dell’invisibile, il sacrificio è un modo per restituire alla divinità il principio della sostituzione, per riconoscere a una potenza più grande il fatto di essere solo momentaneamente graziati. L’offerta è un ringraziamento rivolto a chi ha il potere di accettare la sostituzione: La sostituzione doveva essere un dono di Iahvè, non un’invenzione degli uomini. Se Abramo fosse stato capace di sostituire Isacco con un ariete, se Abramo avesse contato sul fatto che l’angelo lo fermasse, da quel momento tutto avrebbe potuto essere sostituito con tutto. E nessuno avrebbe pensato diversamente, perché la sostituzione era una compagna costante della mente, a cominciare dalla parola, che sulla sostituzione si fonda. (LTL, p. 164) Essendo una forma di sostituzione rituale, in cui i due termini della sostituzione rimangono sempre in evidenza (anche nelle sue fasi più tarde: la particola consacrata è il corpo di Cristo), il sacrificio concede di dare senso al vortice delle equivalenze, mantenendo un equilibrio dinamico fra i due poli del cervello. Questo, come più volte ribadito, non avviene nel mondo moderno: Sostituzione, scambio, valore: altrettanti cardini su cui ruota il mondo che si è definito moderno. La loro origine è nelle pratiche sacrificali – e nella metafisica sacrificale. Non c’è sacrificio che non implichi uno scambio; non c’è sacrificio che non ammetta la sostituzione; e non c’è sacrificio che non abbia al suo centro un valore. Che cosa accade, però, quando il sacrificio non è più ammesso, come il mondo moderno è fiero di annunciare? Dove sarà finito? Fra le superstizioni? Ma come giustificare che le tre categorie (sostituzione, scambio, valore), delle quali nessuno oserebbe dire che sono superstizioni, siano nate e si siano formate all’interno di una stessa superstizione? (A, p. 433) 2.5 Il rinunciante Uno dei capisaldi dell’Opera è che il meccanismo sacrificale, nelle modalità e nei significati che abbiamo fin qui vagliato, sia tuttora operativo. Appartenendo alla stessa fisiologia dell’uomo, esso non può in alcun modo essere evitato; tuttavia, in un mondo ormai votato a una laica religione del sociale, sarà costretto a prendere strade diverse e sotterranee. Un aspetto fondamentale che il mondo vedico aveva capito ed elaborato in una complessa metafisica era proprio l’impossibilità di uscire dal meccanismo sacrificale, ovvero di sfuggire alla natura del mondo come continuo produttore di “resti”. D’altro canto, nella trattatistica vedica si prevedono delle vie d’uscita dal sacrificio: una, a cui sono dedicate molte pagine dell’Opera, era diventare sanny āsin, “rinunciante”, ovvero un asceta che abbandona la società civile e si ritira nella foresta. Si tratta però, come spiega Charles Malamoud, di una via interna al sacrificio stesso: [Il rinunciante] esce dal mondo degli uomini per affrancarsi dalle azioni, e dall’azione per eccellenza, il sacrificio. Il suo scopo, com’è noto, non è la ricompensa per le buone azioni, il cielo o una buona rinascita. Il suo scopo è la liberazione, mok ṣa: esaurire definitivamente le conseguenze delle azioni passate, e uscire dal ciclo delle rinascite. Ma è impossibile sfuggire realmente al sacrificio: si può soltanto cambiare posizione rispetto a esso, invertire (sovvertire?) il senso dei rapporti che esso istituisce. La complessa cerimonia che segna l’ingresso nella “rinuncia” consiste nel lasciare che i fuochi sacrificali si spengano, dopo avervi fatto bruciare, come ultima oblazione, ultimo combustibile, i vari utensili del sacrificio. I fuochi tuttavia non vengono aboliti: sono interiorizzati, inalati, li si fa “risalire” in sé (sam āropaṇa) e, da quel momento, la persona stessa del rinunciante è a un tempo la sede e la materia di una combustione, di un’oblazione permanente su quella fiamma interiore che è il Veda.70 La seconda via, anch’essa interna al sacrificio, è quella a cui passarono di fatto i ritualisti vedici, che si spinsero tanto in là nella speculazione sul rito che trascesero il sacrificio stesso, introiettandolo. Come spiega Heesterman: “Il culto sacrificale del fuoco fu interiorizzato per diventare l’accudimento ritualistico del sé trascendente del sacrificante”.71 Istituirono un’equivalenza fra il corpo del Progenitore e l’ātman del sacrificante: essendo Prajāpati anche la mente, la pratica sacrificale aveva di per sé una enorme valenza psichica; si arrivò a stabilire che l’individuo dovesse imparare a far proprio quel perenne sacrificio mentale. Fu secondo Heesterman “una visione nuova e interamente differente dell’uomo e del suo sé. Essa comportò la ‘scoperta’ dell’ātman”.72 Sostanzialmente, per interiorizzare il rituale il fedele doveva avere “la piena consapevolezza delle equivalenze, che sollevano ‘colui che così conosce’ al di sopra dell’alternanza della vita e della morte”.73 Ciò portò alla già citata dottrina upaniṣadica dell’identificazione di ātman e brahman. Il buddhismo invece cercò di estinguere il fuoco sacrificale “mettendo in luce, al tempo stesso, l’impermanenza, e dunque l’irrilevanza, del sé”.74 Questa, come accennato, è la via che seguirà il moderno Occidente, ma in forma sviante. 2.6 La sopravvivenza del sacrificio nel mondo contemporaneo Percorso questo tortuoso cammino fra i significati che il sacrificio assume nell’Opera, mi sembra opportuno rivisitarne alcuni degli snodi principali. Il sacrificio è per Calasso innanzitutto un rito che serve a rendere ragione del carattere discreto dell’esistenza, causato dalla rottura di una pienezza primigenia e perpetuato dalla necessità dei viventi di nutrirsi. È un mezzo di comunicazione con il divino, con quel continuo che ci avvolge. Che il rituale venga celebrato o meno, rimane il fatto che tale meccanismo di dispersione sia inscritto nella natura stessa; del resto, nella nostra mente abbiamo continue manifestazioni della commistione fra continuo e discontinuo. Di ciò il mondo moderno sembra non avere consapevolezza, perché preferisce pensare alla psiche come a un terreno di forze pacificate in virtù di una spinta soggettiva piuttosto che da qualcosa – un ordine al tempo stesso estraneo e interno – che su di essa agisce. Il sacrificio non è dunque un modo per controllare impulsi di aggressione altrimenti distruttivi, ma un mezzo per dare senso, al costo di una perdita, ai bandhu, quelle interconnessioni tra limitato e illimitato che gli uomini non possono non percepire perché, ne siano consapevoli o meno, il loro pensiero ha anche una base analogica; per questo l’abbandono di simili rituali in virtù di una presunta capacità di controllo sociale ha conseguenze pericolose. Il punto è che il mondo contemporaneo vuole negare la necessità di un rapporto, di una comunicazione, con il continuo, con l’invisibile. Per Calasso ci sono due modi di interpretare il sacrificio: leggerlo come un’istituzione sociale che serve a controllare alcune spinte interne (il che ne farebbe una pratica crudele e deprecabile) oppure vedervi una forma di metafisica (che può essere accettata o confutata). Seguendo le suggestioni offerte dalla tradizione vedica, Calasso interpreta il sacrificio esattamente nei termini di una metafisica, che rende ragione dello stato di precarietà esistenziale dell’uomo e modella il suo rapporto con il residuo. In questo, è molto più efficace dell’atteggiamento scientifico: Secondo quali criteri si possono confrontare due ordini? Due ordini possono essere paragonati come due sistemi formali. O altrimenti possono essere paragonati in rapporto a come dispongono di sovrappiù e residuo. In quale misura i due confronti divergono? Nel primo caso: si valuta la diversa ampiezza, funzionalità, efficacia dell’ordine, la sua capacità di mantenersi integro. Non molto di più si può dire. Attribuire un significato a un sistema formale sarebbe arbitrario. Nel secondo caso: si è costretti ad attribuire un significato all’ordine, si è costretti a valutarlo. Ma in rapporto a che cosa? Ci dovrebbe essere allora un ordine di riferimento che permette di attribuire significato e qualità a tutti gli ordini. Ma questo ordine non c’è. O almeno: questa è la condizione in cui i moderni sono giunti a trovarsi, questa è la situazione in cui sono tenuti a pensare. (A, p. 265) In che cosa si trasforma, nell’“innominabile attuale”, l’attitudine sacrificale dell’uomo? Essa, che è anche e soprattutto un’essenza psichica, tende a nascondersi. La vedremo dunque all’opera, mimetizzata, nelle pratiche scientifiche di ricerca, che rendono il mondo un gigantesco altare sacrificale a cielo aperto: L’esperimento è un sacrificio da cui sia stata espunta la colpa. La piramide sacrificale, dove il sangue ha intriso le calde pietre dell’altare, diventa un vasto mattatoio, si estende orizzontalmente in un angolo qualsiasi della città. (RK, p. 179) La società tecnocratica trova così un modo nuovo di impiegare il “sovrappiù”, quel disavanzo che caratterizza la vita stessa – e l’aspetto più significativo è, secondo Calasso, che non si rende nemmeno conto di farlo; con gli strumenti della scienza, lo dedicherà alle sue nuove divinità: la società stessa o la pura casualità statistica: “Nella tecnica, la parte maledetta, la parte del fuoco è diventata l’immensa dissipazione sperimentale, dedicata al dio ignoto che è il dio dell’ignoto” (RK, p. 179). Questo “esoterismo coatto” ha conseguenze enormi: Il sacrificio mira anche a conquistare dalla divinità il permesso di usare il mondo. La prima conseguenza dell’oblio del sacrificio sarà allora che il mondo verrà usato senza ritegno, senza limite, senza una parte dedicata all’altro. […] Come in origine la divinità non poteva che sacrificare se stessa, perché null’altro esisteva, così ora il mondo sacrifica, sotto altri nomi, sé a se stesso, perché la divinità è dileguata. (RK, p. 182) Ecco il paradosso che Calasso scopre nell’approccio razionalista-digitale: se il sacrificio è assente “dalla linea epistemologica che discende da Kant al circolo di Vienna, passando per la formalizzazione dei sistemi” (RK, p. 191) che vede nella conoscenza una protesi al servizio della scienza, questa stessa finisce poi per diventare mero strumento, una “protesi” (RK, p. 200) della tecnica che, come un dio avido e senza volto, richiede i suoi tributi dai laboratori, luoghi in cui si uccide per uno scopo tutto interno all’orizzonte sociale. Alle permanenti dinamiche sacrificali corrisponde un atteggiamento diametralmente opposto nelle coscienze: Al posto delle procedure sacrificali agiscono le condizioni di laboratorio. Ma il significato del comportamento rituale è capovolto: i gesti sacrificali miravano a trattare, maneggiare con cautela, il sacro; le procedure di laboratorio tendono a espungerlo. (RK, p. 210) Tuttavia, il Novecento vedrà anche, nel cuore dell’Occidente, la vendetta del continuo sul discontinuo, con le teorie dell’incompletezza e le altre scoperte che costringono il mondo scientifico a riflettere sul proprio operare: Proprio all’interno di quel severo apparato epistemologico, devoto a Ockham e persecutore di ogni superfluità, sarebbe affiorata ancora una volta la dualità originaria del soggetto: quando si cominciò a parlare, negli ultimi anni del secolo XIX, dei paradossi della teoria degli insiemi cominciava a distinguersi un’altra linea, quella che avrebbe condotto a Gödel e di lì si sarebbe diramata in ogni direzione: segno […] di una ormai provata insufficienza di ogni discorso che non includesse un discorso su se stesso. E proprio in questo, nella dualità fra un discorso che ha un referente e quello che ha se stesso come referente, riapparivano i due uccelli delle Upani ṣad. (RK, p. 200) “Perché studiare oggi il sacrificio?” è l’interrogativo con cui Calasso, a ventisette anni di distanza dalla Rovina di Kasch, chiude L’ardore: L’invincibile imbarazzo che accompagna chiunque si accosti alla questione del sacrificio è soltanto un sintomo della persistenza di quel nodo, che sembra diventare ogni volta più inestricabile appena qualcuno si azzarda a scioglierlo. E soprattutto rimane un nodo invisibile ai più. Già il solo atto di percepirlo provocherebbe un radicale mutamento. (A, p. 446) Il sacrificio va insomma studiato perché costituisce un nodo irresolubile, perché continua a parlarci, a distanza di secoli dalla scomparsa degli ultimi riti in cui qualcosa veniva distrutto o ucciso in una sequenza di atti formalizzati dedicati a entità invisibili. Nell’Ardore Calasso invita a riflettere sulla persistenza della stessa parola “sacrificio” nelle conversazioni odierne: Sono scomparse le pratiche del sacrificio. Ma la parola continua a essere usata – e tutti sembrano capirla subito, pur non essendo antropologi. All’estremo opposto, nell’India vedica il sacrificio era come la respirazione. Quindi un fenomeno che continua a sussistere anche se inconsapevole, anzi è una condizione implicita nella nostra vita stessa, sempre e ovunque. (A, p. 425) Nell’età contemporanea il lessico sacrificale è utilizzato con frequenza, seppure con significati diversi, soprattutto con riferimento alle rinunce che il singolo deve fare per il bene della comunità, a testimonianza, secondo Calasso, di quell’irreversibile mutamento antropologico per cui il divino è diventato il sociale. Per questo, secondo lui, non è possibile parlare di religione nel XXI secolo: la collettività (e, al suo interno, anche le cosiddette autorità religiose) non ricerca un rapporto costante con l’invisibile. Nel XXI secolo, di religioso non rimane la traccia, perché non si mira a stabilire un qualche rapporto con l’invisibile, non si riconoscono potenze estranee all’ordine sociale. Anche nelle frange integraliste delle religioni monoteiste, si usano i nomi dei santi “per imporre o sostenere un certo ordine dei costumi” (A, p. 419). Se, come si legge ancora nell’Ardore, “sacrificio ha assunto in sé un significato psicologico e sociologico” (A, p. 444), ciò dipende dal fatto che la società ha continuato a sacralizzare, in modo inconsapevole, ogni aspetto che ne garantisce la sopravvivenza, ma attribuisce la propria sopravvivenza a fattori puramente materiali. 75 Abbandonati i riti e ignorato il divino, “si è formata una potente miscela fra procedure tecniche e ignoranza delle potenze, che ha impresso il suo carattere sulla vita comune” (A, p. 432). La società può anche ignorare il pensiero sacrificale e quella particolare visione del mondo, ma il mondo rimane una “officina sacrificale” fondata sullo scambio di energie: È ciò che avviene per ogni respiro. E ugualmente per l’alimentazione e l’escrezione. Interpretare lo scambio fisiologico come sacrificio è il passo decisivo, da cui tutto il resto dipende. Ed è un passo che, ridotto alla sua forma più elementare, implica soltanto che fra ogni interno e ogni esterno vi sia un rapporto, una comunicazione che può caricarsi di senso – e dei sensi più diversi, sino all’esaltazione ipersignificante del Veda. (A, p. 426) Il sacrificio non è soltanto un’istituzione sociale che ha lo scopo di convogliare gli istinti violenti della collettività a proprio vantaggio, ma “un modo con cui la comunità tenta di mimetizzarsi nel funzionamento della natura”,76 cioè di riprodurre, in una forma ben definita, un meccanismo che è di per sé sempre attivo. Nella Rovina di Kasch Calasso scrive: La storia si compendia anche in questo: che per un lungo periodo gli uomini uccisero altri esseri dedicandoli a un invisibile, e da un certo punto in poi uccisero senza dedicare il gesto a nessuno. Dimenticarono? ritennero inutile quel gesto di omaggio? lo condannarono come ripugnante? Tutte queste ragioni in qualche modo agirono. Poi rimase la pura uccisione. (RK, p. 177) Questo passaggio si spiega con una frase di Lévi che Calasso ritiene illuminante: “La forza del sacrificio, una volta scatenata, agisce ciecamente”.77 Nelle Nozze di Cadmo e Armonia, l’assassinio di Ifigenia diventa l’emblema di una trasformazione di quella potenza cieca, rivolta non al divino ma a vantaggio di un gruppo umano: Ma questo è l’oltraggioso enigma: si scopre a questo punto che il sacrificio come fatto sociale è altrettanto efficace del sacrificio come fatto cosmico. Cade ogni tensione celeste. Rimane un’ignara fanciulla da sgozzare davanti a un esercito pungolato dalla voluttà di navigare verso il sangue (è Afrodite che li spinge, non Ares). E quell’assassinio si rivela molto utile, è il primo pro patria mori, che si distacca da ogni altro e ne svilisce ogni altro, come il discorso di Pericle sulla democrazia svilisce migliaia di discorsi successivi sullo stesso tema. Prima ancora che gli Achei levassero le vele verso Troia, si era compiuta, sul corpo di Ifigenia, una radicale secolarizzazione del sacrificio. (NCA, p. 130) Con un procedimento analogico ormai noto, in Ka Calasso individua un simile slittamento dal sacrificio alla guerra nella vicenda dello scontro fra i Pāṇḍava e i Kaurava raccontato dal Mah ābhārata. Nell’“innominabile attuale” la trasformazione delle istanze sacrificali in violenza incontrollata è ormai pienamente avvenuta: Nel secolo ventunesimo le stragi hanno sostituito i sacrifici. Punteggiano il corso del tempo, di un tempo informe, convulsivo, così come le cerimonie sacre punteggiavano il corso circolare del calendario. L’officiante può immolarsi con le sue vittime; o altrimenti può tenersi distante, quando lo concede un telecomando. La strage può essere un atto finale, conclusivo; o può essere un elemento di una serie. Il fondamento rimane uguale. Rispetto a ogni altro atto – politico, bellico, diplomatico, sedizioso –, la strage offre una certezza: la garanzia dell’efficacia. È l’unico atto indubitabilmente efficace, in mezzo a innumerevoli altri atti di cui si può dubitare. È l’ancoraggio sicuro del significato. (CC, p. 283) Se la guerra si appropria del lessico sacrificale – con i nomi degli dèi a indicare missili e armi (Apollo, Saturno, Agni) –, la forma che essa stessa assume si modella sul terribile esempio della devotio, tipologia sacrificale romana per cui un qualsiasi cittadino (il comandante in primis, ma non solo, come ci informa Tito Livio) si immolava per ottenere la salvezza dell’esercito: La devotio riunisce in sé le due possibilità estreme del sacrificio, le più devastanti: il sacrificio di colui che ha il carisma del potere e la sostituzione di una vittima umana con un’altra vittima umana, una qualsiasi vittima umana. Oggi l’unica forma di sacrificio universalmente visibile sugli schermi, con cadenza semiquotidiana, è quest’ultima variante della devotio. (A, p. 439) Ma torniamo al nostro punto di partenza: al centro della Rovina di Kasch c’è il racconto africano che narra lo splendore e la scomparsa di un regno, quello di Naphta, fondato su un rigido ordine sacrificale. Un enigmatico cantastorie, Far-li-mas, ne sconvolge l’equilibrio distraendo con la bellezza dei suoi racconti i sacerdoti del villaggio, che hanno il compito di indicare il momento propizio per svolgere il rituale sacrificio del re. Il sovrano e il cantastorie (deputato a morire con lui) sfuggono così alla condanna. Il rito sacrificale cade in disuso. Successivamente, il regno verrà invaso dai nemici e distrutto; soltanto i racconti di Far-li-mas sopravvivranno. Ci sono due motivi principali che rendono questa storia una chiave di volta dell’intero volume e che sintetizzano due aspetti fondamentali dell’Opera calassiana. Da un lato, essa pone al centro il problema della coscienza: il cantastorie Far-li-mas agisce per amore della bella Sali, la sorella del re predestinato al sacrificio; Sali è l’unica nell’auditorio che ascolta le favole di Far-li-mas senza cedere al loro potere ipnotico e addormentarsi: Sali e Far-li-mas vincono i sacerdoti perché rimangono svegli, lui raccontando, lei ascoltando. Tutto si sposta nel puro atto della coscienza. Nell’ordine antico del sacrificio il palo a cui si legava la vittima esisteva nella mente e nel mondo. E non era ammesso distinguerli. Ora tutto torna a essere invisibile: l’offerta sacrificale è il racconto. […] Il sacrificio si riassorbe nella veglia perfetta. (RK, p. 172) Un secondo aspetto, più gravido di conseguenze ai fini del nostro discorso, riguarda quel passaggio dall’offerta sacrificale al racconto stesso. Calasso vuole da una parte, come ha scritto Calvino, dirci che al tempo ciclico dei riti sacrificali è succeduto il tempo spezzato del racconto, della narrazione profana78; dall’altra parte, presentarci una precisa idea del “fare letterario”, intrinsecamente connessa, nell’era che abbandona per sempre i riti, al “fare sacro”, al sacrificio: Far-li-mas e Sali sono elementi del sacrificio che sconfiggono altri elementi del sacrificio. Spostano i pesi e gli accenti. Sciolgono in modo inaudito il groviglio di comunione ed espulsione, di ierogamia e sacrificio. Perché il racconto riesca a soppiantare il sacrificio cruento deve contenere in sé qualcosa di non meno potente del soma, della misteriosa sostanza del sacrificio vedico. (RK, p. 170) Letteratura assoluta: 3. L’arte come ultimo vestigio sacrificale 3. L’arte come ultimo vestigio sacrificale Eppure amo il mio tempo perché è il tempo in cui tutto vien meno ed è forse, proprio per questo, il vero tempo della fiaba. Cristina Campo 3.1 Dai riti alle storie “Dell’epoca di Naphta nulla rimase se non i racconti di Far-li-mas, che egli aveva portato con sé dalla terra di là dal mare orientale” (RK, p. 165). Con queste parole, nella Rovina di Kasch, Calasso conclude la sua ricostruzione della leggenda africana raccolta da Frobenius, portandoci al cuore della questione che vorrei ora trattare. Al termine di questo percorso nell’“innominabile attuale” sarà possibile avvicinarci con maggiore cognizione al suo frutto più prezioso, la letteratura assoluta. Le storie raccontate da Far-li-mas, con il loro potere psicotropo, rivelano l’essenza rituale della letteratura. Rappresentano perfettamente, cioè, un’idea espressa con chiarezza nella Letteratura e gli dèi: una volta crollata la fortezza del sacro, spetterà alla letteratura – a un certo tipo di letteratura, beninteso – il compito di evocare le potenze divine. “Shahrazad, Far-li-mas: le storie allontanano la morte, ma non la sospendono. Sospendono invece la condanna a morte” (RK, p. 169). Ai racconti, dunque, vengono riconosciute capacità proprie del rito sacrificale: quella di rielaborare la colpa che appartiene al genere umano – e in questo senso di “sospendere la condanna a morte”, diluendola in un discorso, rendendo manifesti i legami fra continuo e discontinuo – e quella di “allontanare la morte” – secondo l’ambivalenza tipica del sacrificio che, attraverso una somministrazione controllata della morte ai danni della vittima, respinge la possibilità di una rovina che travolga tutto e tutti indistintamente. “Nel raccontare c’è qualcosa che profondamente si oppone alla condanna,” leggiamo ancora nel libro dell’83, “che travalica il suo lato coattivo, sfugge al coltello che si abbassa” (RK, p. 175). I racconti di Far-li-mas portano l’uditorio, come solo il rito sa fare, in una dimensione altra, consentendogli di travalicare la contingenza e di scoprire qualcosa di essenziale. Le storie possono offrire alla mente una momentanea via d’uscita dalla prigione del corpo, un antidoto alla sua dipendenza dal tempo lineare; nella nube avvolgente del racconto, dove i piani temporali si mescolano e sono tutti compresenti, la mente riconosce la propria natura illimitata, la sua appartenenza al continuo.79 Per questo motivo, allora, “la rovina di Kasch è l’origine della letteratura” (RK, p. 176). Il racconto serve a mostrare che “con Far-li-mas si entra in un altro regno: il regno della parola, dopo quello del sangue” (RK, p. 174). Decreterà, in altri termini, l’ingresso nel regno della parola imbevuta del sangue della vittima, della letteratura come ultimo vestigio sacrificale. Trentasei anni dopo, nel Libro di tutti i libri, Calasso riflette su questo passaggio attraverso l’allegoria del Deuteronomio. Il testo che contiene la Legge viene scritto da Mosè e consegnato ai Leviti prima che il profeta sia costretto a fermarsi sulla riva orientale del Giordano come intimatogli da Iahvè. Dopo aver declamato la Legge al suo popolo, Mosè lo asperge con il sangue80: Ma non era la fine: “Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo. Disse: ‘Ecco il sangue dell’Alleanza che Iahvè ha concluso con voi secondo tutte queste parole!’”. Evidentemente il libro, da solo, non bastava. E anche il sangue, da solo. Forse era bastato in un’altra epoca, ora non più. Ora occorreva il libro. Ma il libro non poteva sconnettersi dal sangue. Occorreva che il sangue lo precedesse e lo seguisse. (LTL, p. 275) Fra il libro e il sangue esiste dunque un legame indissolubile: quando il rito perde di efficacia (e il sangue, da solo, non basta più), è il libro a doverne ereditare il significato. Il Deuteronomio è legato a un episodio altrettanto emblematico, contenuto nel secondo libro dei Re. Vi si racconta che durante il regno di Giosia, nel Tempio di Iahvè ormai in rovina, venne ritrovato il “Libro della Legge”,81 cioè, secondo la tradizione, nient’altro che il Deuteronomio. Grazie a questo rinvenimento per mano del sacerdote Chilchia (Hilqiyahu) e alla lettura del testo da parte dello scriba Safan (Shafan), Giosia riuscirà a riportare il Tempio al suo splendore e a rimettere sulla retta via il popolo deviato dai culti idolatrici.82 Questo passaggio rappresenta per Calasso “la scena originaria della lettura. Che avviene quando il libro è già stato abbandonato, semisepolto fra i detriti della Casa di Iahvè” (LTL, p. 129). Calasso vi vede infatti racchiuso il mistero del rapporto fra libro e culto: Più dei proclami sull’unicità di Iahvè, più delle esecrazioni degli “sporchi idoli”, ciò che dà il senso di una differenza invalicabile fra Gerusalemme e i suoi molti, turbolenti vicini è la lettura, il potere dirimente che aveva la lettura di un testo. Che in questo caso fu il Deuteronomio, ricapitolazione di tutta la Legge di Mosè. E Deuteronomio, in ebraico, è debarim, “parole”. Sin dall’inizio, “essere ebreo significò essere bookish”, ha osservato Simon Schama. L’atto di leggere non faceva parte della teologia. Ne era il presupposto. Su questo si sarebbe fondata tutta la Bibbia. (LTL, p. 129) In queste righe Calasso sembra guardare alle Scritture dalla prospettiva della tradizione cabbalistica, che individua nella lettura il presupposto della teologia.83 La Kabbalah prevede infatti il culto, l’adorazione mistica, delle Scritture, per investigarne significati nascosti.84 È senza dubbio per la sua capacità di celare nelle pieghe del testo dei significati profondi che, come vedremo, la letteratura assoluta può ambire a sostituirsi al sacrificio. Già nella parte centrale della Rovina il legame fra rito e letteratura veniva esplicitato in questi termini: Nel suo fondo esoterico, il sacrificio può cedere soltanto al racconto, che lo vince nell’ordalia. Il racconto è l’esoterico dell’esoterico, il segreto del segreto: insegna a vivere fuori del ciclo, nella sospensione hascischina della parola. (RK, p. 170) Al racconto è attribuita una componente di segretezza che vince il sacrificio nel suo lato esoterico: la letteratura cela dunque in sé un immenso portato conoscitivo. Nelle pagine che seguono vedremo in quali modi Calasso vi attribuisca alcune caratteristiche fondamentali del rito: l’essere una forma di conoscenza e un’esperienza trasformativa; il rielaborare una colpa ancestrale; il mettere in contatto con l’invisibile; il mantenere un legame con l’offerta di sangue. A tal proposito, potremmo prendere spunto da una riflessione di Maurice Blanchot, un autore che ha dedicato la propria opera a riflettere sulla letteratura come un fatto misterioso e “paradossale”, mettendone in luce i risvolti esistenziali più profondi. In un saggio del 1969, riflettendo sulla Bibbia come “modello supremo del libro”, evidenziava l’inestricabile legame fra il divino e la parola scritta: Il libro è essenzialmente teologico. È il motivo per cui la prima manifestazione del teologico (e tra l’altro la sola che non cessi di dispiegarsi) poteva essere solo in forma di libro. In un certo senso Dio resta Dio (diventa divino) solo parlando attraverso il libro.85 3.2 La letteratura e i Misteri È evidente che l’espressione “innominabile attuale” si presti a una doppia interpretazione. Da un lato, può far riferimento alla natura ineffabile del contemporaneo, all’ambiguità del suo essere “troppo esoterico”, un mondo che affonda le radici nella modernità transitoria, fuggitiva e contingente di cui parlava Baudelaire. Dall’altro lato, viene spontaneo domandarsi se non sia possibile leggere in questa designazione un giudizio di valore: dobbiamo quindi desumere che la valutazione di Calasso sulla modernità sia di pesante condanna? Per quanto inevitabilmente accarezzi la mente del lettore, ritengo che l’ipotesi vada esclusa, perlomeno in termini generali: Nasce il moderno quando gli occhi che guardano il mondo vi scorgono “questo caos e questa confusione mostruosa” ma non si allarmano troppo, anzi li esalta subito la prospettiva di inventare una strategia di movimento all’interno di quel caos, un gioco nuovo rispetto al quale tutti i precedenti sembreranno ciceroniani. È uno sguardo di cui solo i mistici sono capaci (Pascal fu il primo fra loro). (RK, p. 61) Del resto, nel concludere la più volte citata conferenza sulla “superstizione della società”, Calasso suggeriva ci fosse un modo per non arrendersi al disinteresse contemporaneo per l’“invisibile”: Se l’essenziale non è il credere ma il conoscere, come presuppone ogni gnosi, si tratterà di aprirsi una via nell’oscurità, usando ogni mezzo, in una sorta di incessante bricolage della conoscenza, senza avere alcuna certezza su un punto d’inizio e senza neppure figurarsi un punto d’arrivo. È questa la condizione, insieme misera ed esaltante, in cui si trova a vivere chi oggi non appartiene ad alcuna confessione ma al tempo stesso si rifiuta di accettare la religione – o, più precisamente, superstizione – della società. È una via difficile, senza nome, senza punti di riferimento che non siano cifrati e strettamente personali. Ma è anche una via dove si incontra il soccorso imprevisto di voci affini, come in una costellazione clandestina. Non credo che di più ci si possa attendere, nella frazione temporale in cui ci troviamo a vivere. Eppure, se guardiamo bene, è moltissimo. Ed è un grande gioco, che non pochi hanno praticato, nei secoli, senza dichiararlo, e oggi non può che avere l’impudenza di mostrarsi in piena luce. C’è un tipo di approccio, dunque, che sembra consentire una qualche forma di salvezza: è un “grande gioco” e un atteggiamento interiore “di cui solo i mistici sono capaci”. Nel mondo contemporaneo “privo di presagi”, le dimenticate potenze del culto, trasformate in pure essenze psichiche, esercitano un potere occulto. Si distaccano dall’indistinto, allora, tutti coloro che sono in grado di percepirle e di orientarsi nella rete delle analogie, delle “corrispondenze” baudelairiane, esercitando quello che Gottfried Benn chiamava “sguardo sommario”. Di nuovo, possiamo vedere nel Talleyrand della Rovina un rappresentante di questa predisposizione, considerato il suo religioso rispetto delle Forme, uniche custodi, nel mondo dell’esoterismo coatto, delle regole del grande gioco: Eredità talleyrandiana: nell’ultimo colpo di pollice dato alle cose, nella virgola che decide il senso […], nell’impronta a volte quasi inavvertibile che lo stile lascia là dove passa, nella convinzione che ci sia concesso, in genere, di fare poco, e quel poco sia dovuto, se mai, a labili doni come l’orecchio, il senso del kairòs, la leggerezza, l’agilità nel fendere le acque della metamorfosi. (RK, p. 66) Quei “labili doni”, in definitiva, sembrano appartenere soprattutto alle opere letterarie che Calasso predilige: quelle che, a partire dal Romanticismo, hanno fatto della letteratura una galassia nuova e inesplorata. Come già accennato, nella visione del mondo di Calasso divino e conoscenza sono intrecciati, e c’è una parte della seconda che, per la stessa costituzione del nostro modo di pensare, rimane inattingibile. In Ka la natura simulativa, e dunque parziale, di ogni nostra conoscenza viene descritta come una condizione necessaria al corso del mondo, che soltanto pochi possono fugacemente eludere: Questa è la ragione pratica per cui una parte dell’insegnamento rimane segreta: impedire che il corso del mondo venga paralizzato dalla conoscenza; lasciare che alla conoscenza accedano soltanto coloro i quali, anche quando dalla conoscenza vengono attraversati, permettono al mondo di proseguire il suo corso. (Ka, p. 180) L’ambiguità di ogni conoscenza vera confonde l’uomo fino a paralizzarlo: per vivere nel mondo, egli necessita di riduzioni concettuali spendibili all’atto pratico. D’altro canto, questo tipo di sapere non soddisfa il suo bisogno di senso e lascia aperte molte questioni esistenziali. È questo l’aspetto più drammatico della modernità, che è stato in vari modi indagato e interpretato da pensatori come Walter Benjamin, Ludwig Wittgenstein o Martin Heidegger. È una diretta conseguenza del trionfo del soggetto come entità autonoma e irrelata: con la sua volontà di dominio sul mondo, e la conseguente reificazione della natura per scopi pratici, l’umanità ha finito per reificare se stessa. Nell’Opera ampio spazio viene dato ai tentativi che, nel corso dei secoli, l’umanità ha messo in atto per indagare la dimensione celata della verità. Tanti sono in particolare i riferimenti a un’esperienza che univa fede, conoscenza, segretezza ed esclusività: i Misteri eleusini. I Misteri investigavano, proprio come il sacrificio, il complesso legame fra la vita e la morte – o meglio, con le parole di Burkert, il fatto che “la vita ha acquisito una dimensione di morte, che certo significa anche una dimensione vitale della morte”.86 L’ultimo capitolo del Cacciatore Celeste è interamente dedicato a questa particolare manifestazione del culto greco, della quale si dice che offrisse a chi vi si accostava un tipo di conoscenza che non si può possedere come un pensiero né applicare come una formula (cfr. CC, p. 439). I Misteri, spiega Calasso, espiano le colpe intrinsecamente legate all’esistenza, in primis quelle divine. L’iniziato a Eleusi tentava di sperimentare ed eternare uno stato di perfezione che nella vita umana si presenta solo con la morte. Innumerevoli sono le suggestioni che si possono trarre dalla simbologia misterica. Innanzitutto, questi riti provano a spiegare la necessità di eliminare qualcosa per perpetuare l’esistenza: così come Core deve inabissarsi nell’Ade per rinascere stagionalmente, l’uomo per vivere è costretto a confrontarsi con il tempo che macina i suoi giorni. I Misteri sono inoltre una manifestazione di ierogamia, di commistione fra umanità e divino. Avvolti nel silenzio per la reticenza degli scrittori antichi – secondo Esiodo i Misteri si celebrano perché gli dèi tengono la vita nascosta ai mortali –,87 rivelano moltissime caratteristiche comuni alla letteratura assoluta. Innanzitutto sono legati a doppio filo con l’ebbrezza e gli stati alterati della psiche, giacché l’attributo principale di Demetra è il papavero da cui si ricava l’oppio. Rappresentano inoltre per chi vi partecipa una condizione eccezionale, in cui si subisce l’ignoto88 e si sperimenta su di sé il terribile pericolo della conoscenza. Sono, infine, una forma di religiosità estranea al concetto di virtù socialmente inteso: secondo le fonti, infatti, non è grazie a meriti particolari che si ottiene l’iniziazione, ma per imperscrutabili criteri altri; come la letteratura e la Grazia, dunque, i Misteri sono amoralmente svincolati dall’obbedienza al Vero e al Buono. Si aggiunga a questo che, come ricorda ancora Il Cacciatore Celeste, Pausania allude nella sua Descrizione della Grecia al fatto che la lettura degli scritti orfici sia paragonabile alla partecipazione ai Misteri. Questa equivalenza fra lettura e presenza al rito inaugura in un certo senso una prassi di “iniziazione attraverso il libro” che sarà propria dell’esperienza degli Orti Oricellari di Marsilio Ficino nella Firenze quattrocentesca (cfr. CC, p. 436).89 Del resto, anche in ambito vedico era contemplato un rituale che faceva della semplice lettura il perno della liturgia: Nell’immensa costruzione del sacrificio vedico troviamo all’apice, in quanto sacrificio mille e mille volte più efficace di ogni altro, il “japayajna”: chi lo compie è immobile e silenzioso, non distrugge nulla. Ma nella sua mente suonano le parole del Veda. Quell’uomo sta leggendo la sua mente. Pronuncia a se stesso le parole che gli sono state trasmesse. È l’archetipo del leggere. Le inesauribili, minuziose prescrizioni del sacrificio vedico si sono scolorite nel tempo. Di certe parole rituali è ormai dubbio il significato, certi oggetti non sono congetturabili. Ma intatta è rimasta la punta acuminata: la lettura. Su un essere che legge e ricorda silenziosamente le parole lette, su una catena di questi esseri che leggono si regge ancora il mondo, in silenzio.90 La letteratura può, dunque, assumere in sé la potenza e l’esclusività di una conoscenza misterica. Infine, un tratto essenziale che avvicina l’esperienza misterica alla letteratura assoluta è la sua “apostasia dalla società”. Anche i Misteri infatti, sebbene celebrati in forme collettive, erano pratiche a-sociali, cioè prive di scopi aggregativi del corpus cittadino, al punto che potevano parteciparvi anche i non cittadini, come le donne e gli schiavi: Eleusi non era un passaggio rituale da uno stadio all’altro nella vita della società. Era l’uscita dalla società verso ciò che sta prima e che sta dopo la società stessa. Neppure nella loro piena decadenza i Misteri di Eleusi divennero parte di una religione di Stato. È questo lo spartiacque. I Misteri non sono mai stati al servizio di una società, ma erano la via per andare al di là della società. (CC, p. 430) 3.3 Emanciparsi dal pericolo della verità Mai come nell’epoca in cui stiamo vivendo la Forma e lo Stile si sono imposti, secondo Calasso, come unici valori credibili, in contrasto con le Buone Cause a cui la società preferisce dedicarsi. Cosa c’è di più vuoto, di più superficiale, della letteratura, che è capace di dire tutto e il contrario di tutto, rispettosa della sola necessità formale? Ebbene, utilizzando le parole di Milan Kundera, “nell’arte, la forma è sempre più di una forma”.91 Nella sua assoluta superfluità, scevra di ogni utilità sociale, la letteratura è la sola capace di raccogliere una significativa parte della nostra essenza, rendendo manifesta l’azione incessante di quel polo analogico che, nascostamente, ci governa. La forma delle forme sarà il crocevia in cui si incontreranno tutte le nuove istanze del moderno. Nel moderno, inoltre, la letteratura può accogliere in sé tutte le sapienze a cui il mondo non è più interessato, portando avanti le più radicali interrogazioni sul senso dell’esistenza. Soltanto quando viene riconosciuta come la più inutile delle forme, essa si prepara a diventare la più alta, quasi un’“approssimazione alla clavis universalis”, per utilizzare l’espressione con cui Calasso definisce la letteratura in un suo intervento per il cinquantenario di Adelphi.92 Il riferimento è a quegli esperimenti cinque-seicenteschi attraverso i quali le arti della retorica tentavano, mediante l’accumulo di schemi tassonomici, di cogliere le strutture portanti della realtà.93 In un certo senso, l’idea di letteratura che Calasso propugna come editore e cerca di realizzare con i suoi libri si configura infatti come una chiave interpretativa del Tutto. Questo e niente di meno dovrà essere la letteratura assoluta. Nella Rovina di Kasch leggiamo che “sviluppando il gusto, il Settecento francese imprigiona e sminuisce il senso della letteratura” (RK, p. 120), assegnandole un ruolo marginale. Ma l’inutilità, nel mondo dell’efficienza a ogni costo, è un valore. La profondità va sempre nascosta in superficie: Gusto è ora contrassegno dell’iniziazione: si applica a tutto e a nulla in particolare, è un sigillo dell’esistenza, la sostituzione definitiva di una sapienza che è di buon gusto non ricordare neppure. (RK, p. 121) Apparentemente innocua, la letteratura si appresta a diventare l’unica forza realmente sovversiva, in virtù del suo rifiuto di ogni utilità pratica, di ogni imperativo morale, di ogni limite. Nell’era dell’iper-specializzazione, della conoscenza finalizzata all’utile, il peccato della letteratura e dei suoi adepti sarà quello di voler abbracciare ogni campo del sapere senza uno scopo: Mentre si avvia tortuosamente a diventare assoluta, la letteratura si incontra con il satanismo in una comune passione, in un peccato che solo i più grandi fra i teologi hanno saputo accogliere fra i più gravi: la curiosità. Immagine dello scrittore diventa allora il Satana di Milton quando, “giunto nel paradiso terrestre, volò subito sull’albero della vita, l’albero più alto del giardino, e vi si posò, simile a un cormorano, senza cercare affatto di riconquistarsi la vita, anzi servendosi dell’albero soltanto per spingere lo sguardo più in là, for prospect”. (RK, p. 125) Fin dalla Rovina di Kasch Calasso parla della migrazione del sacro – di un divino in forma neutra – dalla sostanza dei riti alla pura forma letteraria. Nella letteratura assoluta trionfa un pensiero metamorfico, in cui non è possibile distinguere tra fas e nefas: “La parola più degradata e la parola perfetta si apprestavano a mescolare le loro acque, come in certi riti gnostici” (RK, p. 126). Tale mescolanza trova modo di esprimersi più adeguatamente nelle forme narrative, quasi che il pensiero non possa manifestarsi compiutamente nelle tradizionali opere filosofiche, troppo spesso dedite a sterili concettualizzazioni della realtà. Le opere letterarie sono dunque il miglior modo per esprimere una porzione della verità, senza volerla affermare in forme perentorie, attraverso concetti, ma trascinandola come detriti nella corrente del racconto. A questo sembra alludere un enigmatico frammento della Rovina di Kasch: “‘Che cosa può fare ora il pensiero?’ disse il Maestro. ‘Nascondersi,’ rispose. E scomparve” (RK, p. 408). È un’immagine che sembra riecheggiare un passo della Premessa gnoselogica di Walter Benjamin alla sua tesi sul dramma barocco tedesco. Benjamin sottolinea come la verità non sia un disvelamento del mistero, bensì una rivelazione che lo esalta.94 Benjamin pensava che, per sua natura, la verità sfuggisse ai tentativi di rappresentazione diretta e che costituisse “la morte dell’intenzione”, qualcosa che dunque si negava alla volontà di dominarla. In questa sfasatura tra la verità e la volontà – che è anche alla base dell’esperienza dell’eroe tragico, il quale si ritrova suo malgrado a scontrarsi con una verità che, quando cercata, sembrava inafferrabile – risiede la specificità della letteratura. Michel Foucault faceva notare a tal proposito che lo scrittore, un po’ come il folle nella letteratura medievale e rinascimentale, è un individuo che racconta una verità senza dominarla volontariamente.95 Come il folle, anche lo scrittore è, a partire dal XIX secolo, un escluso dalla società, perché il fare letterario è estraneo al sistema socioeconomico della circolazione e formazione dei valori, alieno alle logiche dello scambio. Dal XIX secolo in avanti, la letteratura tenta di esistere per se stessa, attraverso una sperimentazione sulle proprie forme, fino ai limiti della rottura della comunicazione (pensiamo alle esperienze delle avanguardie primonovecentesche). “La scrittura successiva al XIX secolo esiste manifestamente per se stessa,” scrive Foucault, “e, se necessario, esisterebbe indipendentemente da ogni consumo, da ogni lettore.”96 In questa sua natura di attività verticale, la letteratura svela un punto di contatto con la sacra follia, come vedremo meglio nella Quarta parte. Una simile concezione del fare letterario è in parte ereditata dal pensiero nietzscheano e dalla lezione del Decadentismo europeo, con il loro processo di emancipazione dell’estetico dalla morale comune. In parte è, per Calasso, appannaggio delle due grandi tradizioni che più da vicino ha studiato e ammirato: da un lato, naturalmente, quella brahmanica: Per i ritualisti vedici, tutto era composizione, opera. Anche lo splendore di Indra (in quanto è anche il sole) non era tale in origine: “Così come ora tutto il resto è oscuro, così egli era allora”. Fu soltanto quando gli dèi composero le loro “forme favorite e potenze desiderabili” che Indra cominciò a splendere. Mai era stato riconosciuto tanto potere alla pura composizione: di forme, di gesti, parole. Questa è l’eredità clandestina che il rito – attraverso tortuosi passaggi e intenso oblio – ha consegnato all’arte. (A, p. 154) Dall’altro lato, l’eredità greca, vista in chiave di perfetto equilibrio tra una forma limpida e apollinea e una materia bruciante e dionisiaca. A proposito della Repubblica di Platone, Calasso sottolinea come nel poeta si riconosca il retaggio sciamanico (CC, p. 256). Questo è il lascito più importante della grecità: I Greci evasero dal sacro verso il perfetto, confidando nella sovranità dell’estetico. Fu un’evasione brevissima, che si mantenne finché durò la tensione tra il sacro e il perfetto, finché il sacro e il perfetto riuscirono a convivere senza diminuirsi. Ma nessun’altra tribù l’ave va tentata. (NCA, p. 133) I prodromi di un riassorbimento del sacro nel Bello, insomma, vengono ricercati in un passato estremamente lontano, le cui conseguenze sono tuttavia presenti. Se l’“innominabile attuale” è il regno della ragione predicativa, del soggetto che, ponendosi al centro dell’universo, ne ignora le dinamiche analogiche e predilige un tipo di pensiero per cui “a è b”, la letteratura, che è giocoforza il regno della ragione narrativa, cioè metamorfica, per cui “a si trasforma in b” (QG, p. 491), sarà al suo interno un’isola misteriosa, una potenza che contrasta ed elude il sistema dominante. Theodor Adorno scrisse: “arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità”97; faceva eco a Nietzsche, che dichiarò nei Frammenti postumi: “Abbiamo l’arte per non perire a causa della verità”.98 Calasso ne trae il leitmotiv della sua opera, e al contempo una condizione imprescindibile della letteratura, e dell’arte in generale: le sole vie di accesso alla verità che non schiaccino e non lascino annichiliti dalla conoscenza. L’arte serve a rappresentare quell’incertezza radicale sul fondamento ultimo delle cose che le altre forme della conoscenza non possono accettare, perché manderebbe in crisi il loro sistema. Si tratta di una vertiginosa ambiguità di cui la sapienza dei ritualisti si dimostrava consapevole. Attraverso gli strumenti formali, dunque, l’arte spalanca delle finestre sull’abisso, con una leggerezza che consente all’opera di non sprofondare.99 Se già nell’Impuro folle Calasso ipotizzava che Dio trovasse contatto con “certi nervi sovraeccitati di profeti, veggenti e poeti” (cfr. IF, p. 15), con La rovina di Kasch pone le basi per un’impresa che porterà avanti con i volumi successivi: dare sostanza a un’idea di letteratura come depositaria di verità che il mondo contemporaneo sceglie di accantonare e che nessuna scienza afferra. Come scrive Milan Kundera: “L’arte, ispirata dalla risata di Dio […], disfa, nel corso della notte, la trama che teologi, filosofi, scienziati, hanno tessuto durante il giorno”.100 3.4 Port-Royal e la sua congrega di solitari La rovina di Kasch contiene una cristallizzazione del ruolo della letteratura e degli scrittori nella società contemporanea: è il racconto dell’esperienza dell’abbazia di Port-Royal, in cui Calasso vede rappresentata la nascita dei primi, pericolosi, fermenti moderni. Fondato nell’inospitale valle della Chevreuse all’inizio del XIII secolo, il monastero cistercense di Port-Royal diviene presto un’abbazia. Dopo un periodo di progressiva decadenza dei costumi, agli inizi del XVII secolo essa viene affidata alla badessa Jacqueline Arnauld (mère Angélique), che si impegna a riportare in vigore l’antica regola. Attorno a questa istituzione si muoveranno alcune delle figure più importanti del pensiero seicentesco. Nel 1635, la direzione spirituale del monastero passa all’abate di Saint-Cyran, fidato amico di Giansenio. Negli anni successivi, alcuni uomini della società civile decideranno di ritirarsi a vivere nei pressi del monastero: i “solitari” di Port-Royal condurranno una vita di studio e preghiera completamente estraniati dal mondo circostante. Fra di loro, Antoine Arnauld, Pierre Nicole e Blaise Pascal. Gli accoliti di Port-Royal sono pericolosi perché, lontani dal polo operativo del mondo, rivolti in preghiera alla ricerca di verità più alte, sono irrimediabilmente impossibili da gestire, da piegare alle cause socialmente utili. Non a caso sono invisi non soltanto ai gesuiti e al papato, che li taccia di eresia, ma anche a Luigi XIV. L’avversione delle massime autorità del tempo determinerà la fine della loro esperienza, e nel 1710 l’abbazia di Port-Royal des Champs verrà rasa al suolo. Nelle figure dei “solitari”, già ritratti nella monumentale opera di Sainte-Beuve, Calasso riconosce alcune caratteristiche proprie degli scrittori della letteratura assoluta: disinteressati alle vicende della realtà e al tempo stesso pienamente calati in essa, i religiosi e i pensatori vicini a Giansenio rappresentano un perfetto modello di estraneità all’ordine sociale. A dimostrare il valore allegorico di Port-Royal basterebbero queste parole del personaggio finzionale di Christine Briquet, che Calasso rappresenta mentre si reca all’abbazia “infatuata di una certa aristocrazia della devozione” per capire cosa sia la Grazia: Ecco appunto che ti riconoscevamo là dove meno avremmo voluto incontrarti, nel gioco subdolo delle forme e nello scambio delle sembianze! Fu per noi un grave momento – e si può dire che allora si produsse la prima silenziosa incrinatura di Port-Royal-des-Champs. (RK, p. 154) 3.5 L’immolazione dello scrittore Nella convinzione che nel moderno “ogni conoscenza è fisiognomica” (cfr. RK, p. 17), cioè pura forma, esteriorità, Calasso vede la letteratura come conoscenza suprema, cavo infinito che tutto contiene, con lo stile come suggello e indicatore della sua origine rituale: Sfuggire alla “menzogna di essere verità” è anche uno sfuggire alla verità stessa, alla soffocazione. Da questo l’ostilità irriducibile dell’arte verso ogni ordine sociale, che incorpora ogni volta una pretesa di verità. Nell’arte parla la voce della vittima sfuggita in extremis, e per sempre, all’uccisione, quando già il rito aveva fatto rifluire in essa tutto il sacro. L’arte è leggera perché vaga nella foresta. Ora l’altare è vuoto. (RK, p. 204) La letteratura che prende l’avvio nel XIX secolo non nasconde quindi i suoi rapporti con il rito sacrificale. Se l’opera si sostituisce al gesto rituale, sarà l’esistenza stessa del suo autore a consacrarsi come offerta all’invisibile: La letteratura non ha neppure bisogno di parlare del sacrificio: in una certa sua forma – la letteratura assoluta (genealogia della décadence: Baudelaire, Mallarmé, Benn; o Flaubert, Proust) – la scrittura assume i tratti dell’offerta sacrificale, che implica una qualche distruzione dell’autore. (RK, p. 216) Nelle loro creazioni ardite e a-sociali, gli artisti di questo periodo riescono parallelamente a cogliere le linee essenziali del proprio tempo e ad alienarsene, non si sottomettono ai dettami operativi, e corrono così ogni pericolo: censura, povertà, squilibrio. Sono uomini che, secondo la definizione di Apollinaire, “vogliono diventare inumani”101 perché non possono sottostare ai parametri di umanità che il mondo dello scambio egemone propone. Lo scrittore completamente dedito alla propria opera è costretto a vivere in una solitudine estrema: ogni suo sforzo è rivolto a qualcosa che non ha valore al di fuori di sé e che, come spiegava Blanchot, non può mai essere completato. Questo è il motivo che spinge l’artista a una “eterna ripresa”102: non potendo mai essere soddisfatto della propria opera, continuerà a produrne altre, alla perenne ricerca di una perfezione che non può afferrare. Allo stesso modo, con Calasso, potremmo ricordare che l’irraggiungibile meta del gesto perfetto spinge i sacerdoti a riproporre infinitamente gli stessi rituali. Si istituisce così un parallelismo: la vita degli artisti diventa un immenso altare sacrificale, le loro opere delle offerte continue a un dio ignoto e lontano. La possibilità che si spalanca di fronte alla letteratura moderna di essere un vettore di trasformazione, per l’autore, al pari del sacrificio, è in qualche modo inscritta nelle nostre radici culturali, perché connessa alla pratica misterica, come sottolinea Giorgio Agamben: L’idea che nel lavorare a un’opera d’arte possa essere in questione una trasformazione dell’autore – cioè, in ultima analisi, la sua vita – sarebbe risultata con ogni probabilità incomprensibile per un antico. Il mondo classico conosceva tuttavia un luogo – Eleusi – in cui gli iniziati al mistero assistevano a una sorta di pantomima teatrale, dalla cui visione (l’epopsia) uscivano trasformati e più felici. La catarsi, la purificazione delle passioni che provavano, secondo Aristotele, gli spettatori di una tragedia conteneva forse una debole eco dell’esperienza eleusina.103 3.6 Dal sacro al libro e ritorno Se nel mondo dell’“esoterismo coatto” la sola via di comunicazione fra visibile e invisibile resta quella analogica, come l’Opera ribadisce a più riprese, la letteratura sarà l’arte più adatta a rendere manifesti quelli che i ritualisti vedici chiamavano bandhu, cioè quei nessi che “collegano i fenomeni più disparati per affinità, somiglianza e analogia” (A, p. 422). L’analogia illumina lo sfondo mentale su cui gli dèi possono continuare a rappresentare le loro storie. Come già chiarito, la sostituzione è indispensabile al sacrificio; ebbene, le stesse società fondate sull’equilibrio sacrificale avevano stabilito che l’opera letteraria potesse sostituire il rito. In uno scolio a Pindaro si dice che il poeta, arrivato nel santuario di Delfi, sentendosi chiedere cosa avesse portato in offerta, avesse risposto: “Un peana”.104Il Cacciatore Celeste riporta invece un passo di Aristotele in cui il racconto viene paragonato a un rito purificatorio (katharmós): Aristotele propose che un’uccisione – per assassinio, sacrificio o suicidio – potesse essere purificata dal racconto dell’uccisione stessa. Era soltanto una variante all’interno di un katharmós. Variante carica di conseguenze. (CC, p. 148) Nell’Opera si puntualizza a più riprese il fatto che gli inni del Veda siano essi stessi il Veda, cioè la più alta conoscenza. Questi testi sono, per così dire, gli antesignani della letteratura assoluta, che accoglie in sé tutte le sapienze, ed è adatta a inglobare il pensiero che sfugge alle campiture troppo rigide e aggira le aporie dei libri di filosofia: Il pensiero: disperdetelo, fatene scempio, perché torni a ricordare la sua esistenza furtiva e letale. Letteratura, quante incresciose funzioni ti furono attribuite, come a donna inattendibile, avida di vestiti, lo potrai ospitare, ogni tanto, quell’essere che non frequenta più i testi di filosofia e ancora è muto negli algoritmi? (RK, p. 401) Insomma, nella modernità i più alti concetti, le più lungimiranti visioni del mondo, le filosofie più raffinate devono nascondersi sotto le spoglie dei testi letterari, latori di un pensiero erratico e clandestino. Le opere letterarie si caricheranno improvvisamente di significati sapienziali, come nella tradizione degli inni vedici, in cui “leggere era l’atto che assorbiva ogni altro, anche i gesti liturgici” (RK, p. 414). Dall’epoca di Baudelaire l’attività letteraria si sottrae alle esigenze della “società sperimentale”, caricandosi di significati antichi e al contempo nuovi. Lo scrittore della letteratura assoluta è l’uomo del sottosuolo, privo di qualità, l’eterno estraneo; e sarà sempre una vittima sacrificale, in quanto veicolo di espulsione di un “sovrappiù” di cui il corpo sociale non percepisce nemmeno l’esistenza: Lo scrittore appartiene ai Lumpen dal momento in cui dichiara l’art pour l’art: risposta insolente, un falsetto incrinato, a un’esautorazione: non ha più una sua funzione, a Corte, perciò rifiuto di ogni funzione. (RK, p. 364) Lo scrittore assoluto sarà il cantore più accorato, il “cronista abbacinato” (RK, p. 30) della Modernità: estraneo alle logiche comuni e inattuale, ma anche attento e immerso in profondità nella propria epoca, capace di coglierne ogni sfumatura. A tal riguardo, la parte antologica dell’Innominabile attuale dimostra che gli scrittori sono spesso i soli a tenere saldo il polso del proprio tempo, registrandone con straordinario anticipo le caratteristiche essenziali. È questo, per esempio, il caso di Céline, che in una lettera del 1933, di cui Calasso riporta uno stralcio, sembra aver colto il processo in atto di divinizzazione della società: L’orrore che si stava profilando, il nuovo orrore, non era soltanto quello totalitario – termine eufemistico, delimitazione provvisoria. L’orrore non era soltanto una certa forma di società, ma la società stessa, in quanto finalmente si riconosceva autosufficiente, sovrana e divoratrice sotto qualsiasi forma. Di Hitler e di Stalin un giorno ci si sarebbe sbarazzati, non però della società. Céline, che non pensava ma intuiva, e subito oscurava quello che aveva appena intuito, lo scrisse a Élie Faure: “Di fatto siamo tutti assolutamente dipendenti dalla nostra Società. È lei che decide il nostro destino”. Per una volta, aveva anche usato una maiuscola. (IA, p. 99) Tutti gli autori che appartengono alla galassia della letteratura assoluta si distinguono in virtù della loro capacità di intuire alcune verità essenziali. Nel Cacciatore Celeste al romanzo si attribuisce per esempio la facoltà di elaborare la colpa primordiale del passaggio alla predazione, prerogativa del sacrificio. Si individua così un inquietante contenuto inconscio nella propensione a creare storie, connesso al mistero della convivenza, lunga circa trentamila anni, fra Homo sapiens e il suo parente filogeneticamente più prossimo, Neanderthalensis: Sapiens lo vide sparire. O lo fece sparire. In tutti e due i casi, la storia dei suoi rapporti con i Neanderthal è l’immane, non scritto romanzo nero che sta dietro a tutti i romanzi. (CC, p. 171) Scomparsa la fiducia nei riti, spetta alla letteratura collocare in un orizzonte di senso i grandi enigmi dell’esistenza. Si leggano a tal proposito anche queste righe su Baudelaire: A differenza degli illuministi, Baudelaire sapeva che la natura era portatrice innanzitutto della colpa, seguita dal corteo di tutti i mali. Ma ciò non bastava a toglierle una patina di splendore, che molti equivocavano, considerandola segno di innocenza. (FB, p. 80) Kafka su tutti ha dimostrato che il romanzo si presta a raccontare le colpe inesprimibili e incomprensibili che riguardano la specie, le colpe originarie, come se il suo status di scrittore gli avesse dato una chiave di accesso a una conoscenza esclusiva. In K., Calasso sottolinea soprattutto come la sua opera, ispirata e perfetta a livello formale, consenta al lettore di vedere accorciata, per un breve tratto, la distanza fra il visibile e l’invisibile: Ciò che distingue Il processo e Il Castello è che, dalla prima all’ultima riga, si svolgono sulla soglia del mondo ulteriore che si sospetta implicito in questo mondo. Mai quella soglia era stata una linea altrettanto sottile, che si incontra ovunque. Mai quei due mondi si erano tanto avvicinati, sino a dare l’impressione terrorizzante di combaciare. Di quel mondo ulteriore non sappiamo dire con sicurezza se sia buono o malvagio, celeste o infernale. L’unica evidenza è qualcosa che si impone e ci avvolge. (K, p. 22) Si accede così a una sfera della conoscenza che Calasso sembra voler accerchiare, volume dopo volume, con l’Opera; è il territorio che Nietzsche chiamava dell’Artistik, un sapere “che appartiene più al funambolo che al professore di filosofia”: È l’area estrema della décadence, il luogo rapinoso dove sono nascosti tutti i tesori del moderno, l’ebbrezza del nichilismo, siamo anche molto vicini a Nietzsche, perché è proprio questo che Nietzsche ha voluto vivere fino all’esaurimento dentro di sé. (QG, p. 28) Così, nella decima parte dell’Opera, dedicata al libro sacro della civiltà occidentale, la riflessione non poteva che partire dalla sacralità del libro in sé. Il volume si apre infatti con l’immagine della scrittura della Torah in un universo ancora immanifesto, “novecentosettantaquattro generazioni prima che il mondo venisse creato” (LTL, p. 15). Anche il Libro partecipa quindi a uno stato di perfezione originaria che di lì a poco si sfalderà per consentire l’esistenza del mondo. Di questa colpa primigenia tutte le scritture serberanno il ricordo. C’è infine, nel Libro di tutti i libri, un personaggio che ha il compito di rappresentare antonomasticamente la scrittura. È il re Salomone, un “sommo sapiente” (LTL, p. 64). La sua connotazione è esplicita: “Come suo padre, fu un re-scrittore” (LTL, p. 74); a lui sono del resto attribuiti una sezione dei Proverbi, il Cantico dei Cantici, l’Ecclesiaste, la Sapienza e gli Atti di Salomone, una delle fonti perdute del libro dei Re. Com’è noto, Salomone chiede e ottiene da Iahvè di avere un cuore intelligente,105 o, secondo la bella traduzione che Calasso mutua dalla versione francese di Édouard Paul Dhorme, “un cuore che capisce”. Questa è un’altra caratteristica che fa di Salomone il paradigma dello scrittore. Grazie a questo dono di Iahvè gli è concesso di essere attraversato dalla conoscenza senza rimanerne paralizzato. La sua intelligenza viene definita dalla Vulgata una latitudo cordis: quest’immagine descrive, secondo Calasso, la natura liquida e impalpabile di una sapienza che “include il continuo e il discreto” (LTL, p. 74). A Salomone, inoltre, Iahvè ha concesso in sovrappiù: oltre alla sapienza che diventerà il suo emblema, gli sono state attribuite le fortune che non ha richiesto, una ricchezza e una gloria senza pari. “Senza quel sovrappiù, da una parte e dall’altra,” commenta Calasso, “[…] non era concesso stabilire rapporti costanti ed efficaci con l’invisibile” (LTL, p. 74). Salomone sperimenta quindi su di sé la natura di quel residuo, di quello scarto che garantisce il passaggio dal discontinuo al continuo. Calasso sottolinea poi il fatto che la sapienza di Salomone fosse superiore a quella degli Egizi. Anche in questo caso sembra abbracciare una tradizione di lettura del testo sacro in linea con quella dei dotti rinascimentali come Pico della Mirandola, Marsilio Ficino o, in seguito, Giordano Bruno, che veneravano la prisca Aegyptiorum Sapientia come una forma di sapere antichissima, precedente a quella dei patriarchi, e ricercavano la salvezza dell’anima attraverso la conoscenza e la comunione mistica con il divino. Il legame di Salomone con l’Egitto passa attraverso il suo rapporto esclusivo con la natura: è il solo che, come dice ancora il primo libro dei Re, parla degli alberi e degli animali106: “Per la prima volta nella storia degli Ebrei la natura vegetale venne nominata per se stessa” (LTL, p. 77). In secondo luogo, fra le sue moltissime donne c’era la figlia del faraone d’Egitto. Questo suo rapporto intimo con la natura e con le donne non può che fare di Salomone un idolatra: un terzo aspetto “egizio”, che il libro dei Re mette in diretta relazione con le sue molte amanti,107 sarà infatti il suo culto di divinità come Asherah o Astoreth. Salomone è l’unico, rileva Calasso, a cui la Bibbia conceda di “non essere del tutto con Iahvè”. L’unico a cui Iahvè permetta di sperimentare una pluralità divina, che altro non è, per Calasso, che la matrice di una conoscenza più ampia di quella normalmente concessa agli uomini. Per queste ragioni Salomone è il più adatto a realizzare l’impresa che suo padre David aveva pianificato per tutta la vita senza poterla portare a termine: la costruzione del Tempio di Gerusalemme. Per la sua edificazione Salomone fa arrivare i materiali più pregiati dai regni vicini e assegna il progetto a un vero artista, Hiram Abif di Tiro. Grazie a questa speciale cura del dettaglio, che è l’ennesima manifestazione della sua profonda sapienza, Salomone può donare al suo popolo qualcosa che ci appare come l’orizzonte a cui tende la letteratura assoluta: Il dono di Salomone alla sua gente: l’estetico, qualcosa di sovrano ma di una sovranità che sino ad allora non era stata riconosciuta, anzi, considerata con diffidenza. (LTL, p. 76) L’estetico, spiega Calasso, è tutto ciò al cui apparire si avverte una sensazione fisica di sopraffazione ed esaltazione. Nell’immagine del Tempio di Salomone dobbiamo scorgere l’indicazione di un ideale letterario. Allo stesso modo in cui ogni opera degli scrittori che ama gli appare come un frammento in sé perfetto di quella galassia che è la letteratura assoluta, ogni dettaglio che Salomone ha predisposto nel suo palazzo si rivela alla regina di Saba come esempio di una grande, abbagliante, perfezione. Nel riconoscimento di quella forza che si sprigiona attraverso ciò che si mostra c’è il legame più stringente fra l’opera d’arte e l’esperienza mistica del divino: Tutto ciò che appariva, in qualsiasi forma, era l’estetico. Quando la regina di Saba ebbe verificato ogni particolare, “le mancò il fiato”. Così agisce, così deve agire l’estetico. E, se mancano quei momenti che tolgono il fiato davanti a qualcosa che appare, tutto il resto è monco, anche per chi segue il cammino di Iahvè. (LTL, pp. 84-85) Letteratura assoluta: 1. Rapiti dalle Ninfe 1. Rapiti dalle Ninfe Bisogna essere stupidi e meschini come il mondo moderno che lei odia perché è falso per confondere il fanatismo sacro con una forma qualsiasi di demenza o di insania. Dr. Ferdière, io non sono affatto sociale, e riguardo alla Società sono quello che si chiama un Ribelle. Antonin Artaud 1.1 Inganni apollinei “Il primo essere a cui Apollo parlò sulla terra fu una Ninfa. Si chiamava Telfusa e subito ingannò il dio” (FVN, p. 11). Nel solco di un inganno comincia La follia che viene dalle Ninfe, un testo scritto da Calasso per una lezione tenuta al Collège de France di Parigi nel 1992 e pubblicato in Italia soltanto tredici anni dopo. Calasso vi espone alcuni temi centrali dell’Opera, come la natura dell’ispirazione poetica e della conoscenza. Lo fa attraverso l’utilizzo di un simbolo, secondo un modus operandi che gli appartiene: emblemi della conoscenza e dell’ispirazione saranno le Ninfe, figure semidivine da sempre al centro dei suoi interessi – fanno la loro prima comparsa nell’Impuro folle (cfr. IF, p. 94). La follia che viene dalle Ninfe si apre con un intervento mitografico: sulla scorta dell’inno omerico ad Apollo, Calasso racconta di come il dio riuscì a ottenere, con un atto di sopraffazione, il potere divinatorio; la vicenda sarà poi ripresa nella Letteratura e gli dèi. A presiedere al “luogo intatto” che Apollo cercava per fondarvi il proprio culto era la Ninfa Telfusa che, per nulla intenzionata a cedergli il passo, lo persuade a muoversi verso una zona impervia alle pendici del Parnaso. Lì Apollo scopre Delfi, dove uccide la draghessa Pitone, un essere femminile nell’inno omerico e in altre tradizioni, e si impossessa della sua “fonte dalle belle acque”. Quindi ritorna da Telfusa, fa cadere un enorme masso sulla sua fonte fluente, vi fonda un altare a se stesso e le ruba il nome. Tutta la prima parte della Follia che viene dalle Ninfe è dedicata al tratteggio del delicato equilibrio tra Apollo e, appunto, le Ninfe: In tutti i rapporti fra Apollo e le Ninfe – rapporti tortuosi, di attrazione, persecuzione e fuga […] – rimarrà questo sottinteso: che Apollo è stato il primo usurpatore di un sapere che non gli apparteneva, un sapere liquido, fluido, al quale il dio imporrà il suo metro. (FVN, pp. 13-14) Furono le Ninfe a insegnare ad Apollo a tendere l’arco. Sempre delle Ninfe, le Thriai del Parnaso, tre fanciulle alate, lo iniziarono all’arte della mantica. Tuttavia, si racconta nell’inno omerico a Hermes, Apollo le affidò senza troppe cerimonie al dio messaggero. Ma del legame tra le Thriai e Apollo rimane memoria perché esse sono con ogni probabilità una variante antica delle Muse, le tre fanciulle dell’Elicona. Ed era una Ninfa anche Pitone, che prima di Apollo aveva praticato l’arte divinatoria a Delfi. Secondo Plutarco, ci fu anche un tempo in cui la sovranità in quella zona era divisa tra Apollo e Dioniso: era l’epoca in cui zeus – minacciato dalla profezia di Themis per cui un suo figlio più potente l’avrebbe spodestato – aveva spartito fra loro il suo potere. In un’epoca ancora precedente, invece, quando zeus era al massimo della sua potenza, “regnava la metamorfosi come statuto normale della manifestazione” (FVN, p. 16). 1.2 Nell’occhio del drago Riesce difficile, dopo qualche pagina, intuire dove il racconto di Calasso, condotto nel solco degli scrittori antichi, voglia portare il lettore. Perso nella rapsodia di figure mitiche, questi si sentirà a un tratto travolto dalla pura forza delle immagini. È proprio lo scopo che l’esperto mitografo vuole ottenere: a questo punto, infatti, potrà insinuare nella trama della narrazione il colore del saggio, e inserire le proprie considerazioni, rivelando l’argomento che, in maniera tutt’altro che esplicita e sistematica, vuole trattare. Inizia con il precisare che il potere metamorfico di zeus, rimbalzato fra queste figure divine, finisce con il migrare nella mente, diventa conoscenza: E quella conoscenza metamorfica si sarebbe addensata in un luogo, che era insieme una fonte, un serpente e una Ninfa. Che questi tre esseri fossero tre modalità nell’apparire di un essere solo è ciò che, attraverso tracce sparse con avarizia nei testi e nelle immagini, ci viene intimato per secoli – e ancora oggi. (FVN, p. 16) Ecco spiegato il tema centrale della Follia che viene dalle Ninfe che è, innanzitutto, un saggio sulla natura della conoscenza. Di un tipo preciso di conoscenza, cioè quella che appartiene al polo analogico del pensiero e, come un magma infuocato, si reimmette nel gran mare della letteratura assoluta. È un sapere che, per varie ragioni, potremmo definire tragico, in primis perché, nietzscheanamente, si regge sul delicato equilibro tra apollineo e dionisiaco. Leggiamo infatti in quali termini la questione veniva posta già nelle Nozze di Cadmo e Armonia, in cui il profilo della Ninfa riaffiorava in più di un’occasione: Apollo non riesce a possedere la Ninfa, e forse neppure lo vuole. Dietro la Ninfa, cerca la corona di alloro che gli rimane in mano quando si dissolve il corpo di Dafne: vuole la rappresentazione. Dioniso non può mai venire rifiutato e sfuggito dalla Ninfa, perché la Ninfa è parte di lui stesso. […] La Ninfa è la possessione, nymphóleptos è chi delira catturato dalle Ninfe. Apollo non possiede le Ninfe, non possiede la possessione, ma la educa, la governa. Le Muse erano fanciulle selvagge dell’Elicona. Fu Apollo a farle migrare sulla montagna di fronte, il Parnaso; fu lui a educarle ai doni che fecero di quelle fanciulle selvagge le Muse, quindi le donne che invadevano la mente, ma imponendo ciascuna le leggi di un’arte. (NCA, p. 174) Pitone, che Apollo uccide incamerandone lo sguardo, è un’altra figura dell’autoriflessività dell’indagine conoscitiva. Calasso lo dimostra spiegando – sulla scorta degli studi di Joseph Eddy Fontenrose e di un’opera di Norman Douglas1 – il legame, innanzitutto etimologico, tra la sorgente e il drago. La parola drákon deriva infatti da dérkomai, l’“avere vista acutissima”: il drago è quindi originariamente un occhio che scruta, un’immagine che dovrebbe risultare familiare per la concezione calassiana della coscienza. In virtù dell’ormai noto “lampo analogico”, Calasso connette drago e fonte, ricordando che in ebraico ayin significa al tempo stesso “occhio” e “sorgente”. Il drago protegge la fonte, che è dunque anche il suo occhio. Drago, fonte e occhio sono una cosa sola. Chi guarda nel centro dell’occhio, così come chi si specchia in una sorgente, vede infatti il proprio riflesso. A tal proposito, Calasso scrive: La voce del soggetto che conosce è sempre una voce doppia, la voce della phrónesis che controlla ma anche una parola che accoglie in sé un dio, éntheos, parola che, con lo stesso carattere abrupto, prima si impone, poi ci abbandona. E quella voce doppia è tale perché corrisponde a uno sguardo doppio, lo sguardo che osserva e lo sguardo che contempla colui che osserva, l’occhio di Apollo e l’occhio di Pitone celato in lui, la Ninfa che sgorga nell’invisibile. (FVN, p. 18) Attraverso questa simbologia, pertanto, il soggetto protagonista del processo cognitivo vede riconosciuta la propria duplicità: potremmo dire, per usare un’immagine ricorrente, che torna a stagliarsi il profilo dei due uccelli del Ṛg Veda. Anche le Ninfe hanno natura doppia, perché, ci ricorda Calasso, nascono insieme alle Erinni, implacabili vendicatrici. Apollo, dio del metro che separa e unisce, è quindi anche colui che riesce a gestire l’equilibrio tra la massima grazia e la massima forza devastatrice. Le Ninfe, sue ancelle, sono anche dette Sphragitides, da sphragís, “sigillo”. Esse sono anche “sigillate”, perciò “misteriose”. Di tale delicato equilibrio la letteratura custodisce il segreto; Calasso lo metterà in rilievo, molti anni dopo, nel Cacciatore Celeste: A vederle [le Ninfe], ricordavano le più belle fra le donne o le dee. Ma il loro elemento non era umano né celeste. Questa tribù onnipresente, ondivaga, multiforme, eppure sempre uguale, era la nube demonica avvolgente, la pluralità delle forze e delle figure che mediano fra gli estremi. Era il liquido mentale che tiene insieme tutto ciò che accade. Cumatilis, “simile alle onde”, veniva definito il loro colore. Erano la materia di cui si compongono le storie. (CC, p. 58) 1.3 Simulacri pericolosi La maggior parte degli studiosi moderni non riconosce potere divinatorio alle Ninfe, associandole in maniera generica alla fertilità: una categoria piuttosto vuota, secondo Calasso, a cui è possibile ricondurre un vasto ed eterogeneo insieme di divinità del mondo antico. Le figure di Ninfa che Calasso ha in mente, invece, non hanno nulla delle rassicuranti custodi della fertilità. È piuttosto nel reame del Terribile – nel senso ambivalente del deinòs greco, che ne preserva intatta la componente meravigliosa – che va cercata l’essenza di queste creature. A interessare Calasso sono le Ninfe che rendono nymphóleptoi, cioè “presi”, “catturati dalle Ninfe”. Il saggio del ’92 si rivela così importantissimo per avvicinare un tema che attraversa l’intera Opera calassiana: quello della possessione. Nelle Nozze di Cadmo e Armonia Calasso vi dedicava simili riflessioni: Ma quando qualcosa di indefinito e possente scuote la mente e le fibre, fa tremare la gabbia di ossa, quando la stessa persona, fino a un attimo prima torpida e agnostica, si sente squassata dal riso e dalla smania omicida o dallo struggimento amoroso o dalla allucinazione della forma, o si scopre irrorata dal pianto, allora il Greco riconosce di non essere solo. C’è qualcuno accanto a lui, ed è un dio. Ora la persona non ha più quella tranquilla nettezza che percepiva negli stati mediocri dell’esistenza, ma quella nettezza è migrata nel compagno divino: fulgido e disegnato sul cielo è il dio, nebuloso e travolto è colui che lo ha evocato. (NCA, pp. 274-275) La possessione che viene dalle Ninfe è peculiare, e Calasso ritiene opportuno vagliare i testi antichi che ne danno testimonianza per capire in che cosa si differenzi dalle altre. Cita innanzitutto l’Etica a Eudemo, in cui Aristotele parla dei cinque modi concessi all’uomo per raggiungere la felicità. Menziona a tal riguardo i nymphóleptoi e i theóleptoi, individui che vengono presi da una particolare “ebbrezza” e sperimentano una felicità che si distingue da tutte le altre per il suo carattere improvviso e dirompente. Il passo di Aristotele ha secondo Calasso il pregio di mostrarci la differenza radicale fra la concezione moderna della possessione e quella antica. I moderni, infatti, hanno perso a tal punto familiarità con il fenomeno che sono totalmente ignari dei tratti di assoluta normalità che esso può assumere; nelle parole del Cacciatore Celeste, in cui il tema è ripreso e approfondito: La possessione è qualcosa che interviene regolarmente nella vita cosciente – e non potrebbe essere altrimenti, perché ogni attimo della coscienza è diviso almeno in due e ospita qualcosa di ulteriore rispetto a “ciò che si chiama ‘noi stessi’”. (CC, p. 135) Chiaramente tale lettura del fenomeno è connessa alla particolare concezione calassiana della mente come dimora visitata da presenze estranee al soggetto che chiedono di essere riconosciute. Per i contemporanei di Omero, come ricorda Calasso nella Follia che viene dalle Ninfe, la possessione era una forma della conoscenza primaria, naturale, scontata: Tutta la psicologia omerica […] è attraversata da un capo all’altro dalla possessione, se possessione è in primo luogo il riconoscimento che la nostra vita mentale è abitata da potenze che la sovrastano e sfuggono a ogni controllo, ma possono avere nomi, forme, profili. Con queste potenze abbiamo a che fare in ogni istante, sono esse che ci trasformano e in cui noi ci trasformiamo. (FVN, pp. 27-28) Ogni passione, insomma, era per i Greci la prova dell’agire di un dio. Ed era al contempo un modo della conoscenza, una conoscenza metamorfica. “Certo,” commenta Calasso, “non già di una conoscenza che rimane disponibile come un algoritmo. Ma una conoscenza che è un páthos, come Aristotele definì l’esperienza misterica” (FVN, p. 28). Se l’Opera è anche un’indagine sulle modalità del conoscere umano, la possessione si dimostra a pieno titolo una delle sue forme essenziali. Si tratta di una modalità sconvolgente, come qualsiasi tipo di rapporto ierogamico: Theóleptos e theóplektos, l’essere “presi” dal dio e l’essere “colpiti” dal dio, le due modalità fondamentali della possessione, corrispondono ai due modi delle epifanie erotiche di zeus: il ratto e lo stupro. (FVN, p. 29) Come già accennato, c’è nella psiche una forte componente erotica, che si riverbera nelle dinamiche della possessione: la penetrazione del divino nell’umano viene simbolicamente messa in rapporto con lo stupro anche per la violenta, dirompente intensità dell’impatto emotivo che suscita. Nelle Nozze questo tratto veniva ricondotto a un riferimento obbligato della trattazione sulla fenomenologia amorosa, il Platone del Simposio, per il quale soltanto l’amante è “colmo del dio”.2 Vent’anni dopo, Calasso espliciterà nella Folie Baudelaire la valenza letteraria di tali considerazioni: “Scrivere è ciò che, come l’eros, fa oscillare e rende porose le paratie dell’io” (FB, p. 21). Il simbolo della possessione, ci ricorda nella Follia che viene dalle Ninfe, è secondo Pindaro uno strano giocattolo donato da Afrodite a Giasone per conquistare Medea, una specie di trottola a cui è legato un uccello che si dimena. Il regalo di un amante, dunque. Il volatile è a sua volta una Ninfa, Iynx, trasformata da Hera in uccello “che scuote le natiche”: È forse questa la prima immagine in cui troviamo saldate la fatalità e la fatuità. Il nome delle eredi delle Ninfe deriva dai Fata, le tre Parche, e da certe oscure divinità dette Fatuae, nome che si riferisce al fari profetico prima di dare origine, in francese e in italiano, alla parola “fatuità”. Nella ruota a cui il torcicollo viene saldato riconosciamo la ruota di Issione, il cerchio ineludibile della necessità, mentre nei guizzi di Iynx i Greci percepivano un gesto della fatuità erotica, noto a tutti i music-hall. E li saldarono insieme, come dovremmo saldarli noi per risalire all’origine delle Ninfe. (FVN, p. 30) Torniamo però alla sorgente: è la natura acquatica delle Ninfe, infatti, a racchiudere il mistero del loro rapporto inscindibile con la possessione. Porfirio scrive nel De antro Nympharum che le Ninfe diedero in dono ad Apollo le “acque mentali”3; esse sono, in primo luogo, un contenuto psichico, un’immagine mentale. A suffragio di questa tesi Calasso riporta un passo di Festo, l’unico ad accennare, nel suo De verborum significatu, a come si diventa nymphóleptos: delira chi vede l’immagine della Ninfa emergere dall’acqua: Il delirio suscitato dalle Ninfe nasce dunque dall’acqua e da un corpo che ne emerge, così come l’immagine mentale affiora dal continuo della coscienza. (FVN, p. 32) All’apparizione delle fanciulle divine si associa tradizionalmente uno splendore conturbante, come quello che si offre agli Argonauti nel Carme 64 di Catullo alla visione delle Nereidi che emergono dal mare. Le Ninfe sono innanzitutto delle immagini di folgorante bellezza. Come segnalato, tuttavia, è la loro natura “terribile” ad affascinare maggiormente Calasso. Cita infatti Teocrito, che riporta la storia di Hylas, bellissimo giovane che viene attirato e poi affogato dalle Ninfe stesse. Tale vicenda ritorna nella Letteratura e gli dèi: Nýmphe significa “fanciulla pronta alle nozze” e “polla d’acqua”. I due significati sono ciascuno la guaina dell’altro. Avvicinarsi a una Ninfa significa essere presi, posseduti da qualcosa, immergersi in un elemento morbido e mobile che può rivelarsi, con pari probabilità, esaltante o funesto. […] Nulla è più terribile, nulla è più prezioso, del sapere che viene dalle Ninfe. (LD, p. 36) Già nelle Nozze, del resto, veniva celebrata l’eterna alternanza fra la meraviglia e la devastazione del soggetto – ciò che, insomma, sta alla base dell’assunto junghiano per cui gli dèi sono diventati malattie: Ciò che per noi è infermità, per loro [i Greci] è “infatuazione divina” (át ē). Sapevano che quell’invadenza dell’invisibile portava con sé, spesso, la rovina: tanto che, col tempo, át ē passò a significare “rovina”. Ma sapevano anche, e Sofocle lo disse, che “nulla si avvicina di grandioso alla vita mortale senza l’át ē”. (NCA, p. 114) Il rapporto fra át ē e poesia è stretto al punto da rendere gli scrittori degli individui socialmente pericolosi: secondo il Socrate della Repubblica platonica, il mito porta il poeta che lo narra a diventare “un gó ēs, uno ‘stregone’, esattamente come il dio che egli canta”. Dietro la condanna di Platone si nasconde, secondo Calasso, il timore della conoscenza metamorfica, cioè della “sapienza di chi tratta i simulacri trasformandosi in essi” (QG, p. 491). Sopraffatto dalla manía ispiratrice, il poeta corre infatti il rischio più grande: quello di confondere il vero con i suoi eídola, perdendosi nel brulicante abisso delle immagini mentali. Tuttavia, l’affrontare il rischio sembra essere per Calasso un’abilità imprescindibile dello scrittore di letteratura assoluta, la via che lo conduce alla ricompensa più grande. Utilizza a titolo d’esempio Socrate stesso, che nel Fedone e nel Fedro dimostra nei riguardi della mitologia un atteggiamento radicalmente opposto. Lo evidenzia in particolar modo il Fedro, che Platone scrive dopo i sessant’anni, fra il 368 e il 363 a.C.,4 un dialogo in cui si individua una relazione strettissima tra filosofia ed Eros. Se nel Fedone Socrate dichiarava che è bello “incantare se stessi” con l’incanto prodotto dai miti, nel Fedro si dice addirittura colpevole nei confronti di Eros e della mitologia, per aver “errato sulla natura del simulacro” (FVN, p. 35), non riconoscendo come valida una forma di conoscenza che procede per immagini. I numi tutelari di questo sapere sono proprio le Ninfe, e a loro Socrate dedica una preghiera.5 Spiegherà al suo interlocutore che “i beni più grandi ci provengono da una manía che ci viene concessa per dono divino”,6 e che “la manía che proviene da un dio è migliore della temperanza che proviene dagli uomini”.7 Come a smentire quanto paventato nella Repubblica, dunque, Platone rivela che l’unico modo per non soccombere alla manía, l’unica via di guarigione dal delirio, è il delirio stesso. Calasso legge questa testimonianza come unaq forma di ossequio all’oracolo pronunciato da Apollo per Telefo: “Colui che ha ferito, guarirà”. Il Fedro va quindi letto, secondo lui, come la testimonianza “della guarigione offerta alle Ninfe e dalle Ninfe che hanno catturato Socrate nel loro delirio” (FVN, p. 37). L’importante precetto delfico sopramenzionato, che conferma la lettura del sapere che viene dalle Ninfe come un sapere tragico – nel senso del tò páthei máthos eschileo – non può che riportare alla mente l’incipit del Patmos di Hölderlin: Vicino e difficile da afferrare il dio. Ma dove è il pericolo, cresce anche ciò che salva.8 1.4 Dalla clinica universale alla letteratura Ritorniamo in questo modo a parlare di letteratura assoluta e, estraniandoci per un attimo dal “vincolo magico”9 del mito nel quale Calasso ci aveva costretti con i suoi racconti, riconosciamo nella Follia che viene dalle Ninfe un’ideale poetica calassiana. Ci accorgiamo infatti che, nell’immagine della Ninfa, Calasso riesce a condensare alcuni degli aspetti più importanti della letteratura assoluta, e che in questo breve saggio è possibile vedere la sinopia della Letteratura e gli dèi. Quali sono, allora, gli assunti fondamentali in materia di ispirazione? Partendo dal presupposto che la storia è per lui nietzscheanamente agitata dal “demone della ripetizione”, e che tutti gli stati e i comportamenti umani sono preordinati in rapporto a un precedente mitico, Calasso cerca di indagare, negli autori che predilige, l’impatto di quella che Aby Warburg chiamava “onda mnemica”. Si chiede dunque in che rapporto essi siano con le immagini mentali che attraversano la storia cariche dei significati simbolici che vi si sono stratificati nel tempo; più questo contatto sarà profondo e sconvolgente, più la letteratura vedrà soddisfatta la sua natura sacrificale. Si è appurato che gli dèi sono, per Calasso, elementi del paesaggio psichico: essi dunque “si manifestano innanzitutto come eventi mentali” (LD, p. 141). Abbiamo più volte sottolineato, inoltre, come gli scrittori siano per lui individui particolarmente ricettivi e capaci di veicolare, tramite l’opera letteraria, un simile portato. La fascinazione di Calasso per l’universo celato nella nostra scatola cranica si accompagna a una sfiducia nei confronti dell’operato delle scienze dure come la medicina e la neurobiologia, colpevoli di fraintenderne molti tratti essenziali. Questo discorso si applica perfettamente al tema della possessione: Per capire la possessione, occorre innanzitutto sottrarla al suo ambiente psicopatologico e parapsicologico, dove è stata rinchiusa da chi la temeva come un’altra via della conoscenza (e questo per secoli, con tenacia e spirito persecutorio). (CC, p. 135) Plotino, non a caso definito “l’inventore dell’interiorità”, sapeva per esempio che le conseguenze devastanti dell’entusiasmo divino potevano essere evitate da una quieta contemplazione del proprio mondo interiore, dal placido riconoscimento delle forze in gioco: “Così chi è posseduto da un dio, da Apollo o da qualche Musa, contempla il dio dentro se stesso, appena ha la forza di guardare il dio dentro se stesso”. Non occorrono convulsioni né smanie. Non aiutano protocolli psichiatrici. Basta che uno “abbia la forza di guardare il dio dentro se stesso”. Singolare corteo. Chi guarda non viene travolto e assorbito in qualcosa di esterno che lo sopraffà, ma accoglie in sé e riconosce come proprio qualcosa che è il dio stesso. (CC, p. 316) Sebbene una componente divina partecipi costitutivamente della natura umana, soltanto al di fuori dello stato medio dell’essere essa può mettersi in contatto con l’uomo: come leggiamo nell’Ardore, “soltanto nell’ebbrezza dèi e uomini possono comunicare” (A, p. 413). Nelle Nozze di Cadmo e Armonia, il divino è infatti descritto come ciò che maggiormente si discosta dall’illusione dell’autocontrollo: Se dovessimo definire, per una vecchia coazione, che cos’è stato il dio per i Greci, potremmo dire, usando il rasoio di Occam: tutto ciò che ci allontana dalla sensazione media del vivere. “Insieme a un dio sempre si piange e si ride,” leggiamo nell’Aiace. La vita come pura continuità vegetativa, sguardo opaco che si posa sul mondo, sicurezza di essere se stessi, pur non sapendo ciò che si è: tutto questo non ha bisogno del dio. Qui opera lo spontaneo ateismo dell’homme naturel. (NCA, p. 274) Di tutt’altra natura sarà invece il sentire del grande scrittore: ateo o credente, egli avvertirà sempre, in qualche modo, una vicinanza con l’invisibile, che lo renderà particolarmente abile nello scandaglio delle profondità psichiche. È questo il caso di Kafka, un uomo che “viveva tutto come simbolo. Non per scelta, semmai per condanna” (K, p. 135), e scriveva, in una lettera riportata in K.: Un merito indiscutibile della medicina sta nell’aver introdotto, al posto del concetto di possessione, il consolante concetto di nevrastenia, il che ha comunque reso più difficile la guarigione, e inoltre ha lasciato aperta la questione se siano la debolezza e la malattia a suscitare la possessione o se invece la debolezza e la malattia non siano esse stesse già uno stadio della possessione, la preparazione dell’uomo a diventare un letto di riposo e di piacere per gli spiriti impuri. (K, pp. 137-138) In poche, lucidissime righe, messe fra parentesi in una missiva in cui racconta a un amico i propri dissidi interiori, Kafka riassume perfettamente una questione cara a Calasso fin dal suo primo libro: la trasformazione che investe, nel mondo moderno, la lettura di molti fenomeni psichici, che la medicina non esita a etichettare frettolosamente come patologie senza fornire alcun tipo di interpretazione al loro significato esistenziale. Per comprendere appieno la posizione di Calasso è utile dare uno sguardo alle ricerche di chi, in campo specialistico, ha affrontato la psicopatologia in modi a lui affini, provando a riflettere concretamente sull’assunto junghiano per cui “gli dèi sono diventati malattie”. In un saggio Sulla paranoia del 1985, per esempio, James Hillman si interroga sul significato da attribuire a certi tipi di deliri in cui i pazienti, che avevano lasciato testimonianze scritte del loro periodo di “insania”, dichiaravano di aver esperito un profondo contatto con il divino. All’inizio del suo intervento, scritto per un Colloquio di “Eranos”, Hillman riprende gli studi di William James, che definisce “atteggiamento religioso dell’anima” la convinzione “che esiste un ordine invisibile e che il nostro bene supremo è l’adattamento armonico a esso”.10 Secondo Hillman, soltanto guardando alle manifestazioni psicopatologiche con un approccio di questo tipo possiamo capire il senso di casi come quello di Schreber: È nella paranoia, in questo stile di comportamento e in questo tipo di personalità, che noi troviamo sinceri tentativi di adattamento all’ordine invisibile, vite vissute nell’intento di armonizzarsi con la verità rivelata, alle quali […] va accordata la definizione di vite vissute religiosamente.11 Nella sua conferenza Hillman prende in considerazione tre celebri casi di paranoia a sfondo religioso: il predicatore americano Anton Boisen, l’ufficiale britannico John Perceval e il più volte citato Daniel Paul Schreber. Basandosi sulle loro testimonianze, contemporanee o posteriori ai ricoveri negli ospedali psichiatrici, Hillman individua l’origine dei loro deliri nella comune tendenza a prendere alla lettera i messaggi che asserivano di ricevere da figure divine. Hillman sceglie di partire dall’assunto che non esiste e non possa esistere differenza tra delirio e autentica rivelazione,12 poiché, similmente a Calasso, concepisce il divino come qualcosa che per sua natura è nascosto e può rivelarsi soltanto nella mente. Tale manifestazione dell’invisibile avverrà per forza di cose in maniera noetica, cioè per illuminazioni e fulminee rivelazioni. Questa forma immediata di comunicazione non può che essere recepita in modi al tempo stesso letterali e deliranti, e passare attraverso quelli che William James chiamava “stati di coscienza”.13 Secondo Hillman, i tipi di deliri che manifestano “un contenuto e uno stile religiosi” hanno, di fatto, una matrice religiosa. Sono deliri “fenomenologicamente teogeni”: Hanno origine in Dio. Non sono deliri soltanto mentali, sono deliri noetici. Li possiamo attribuire non soltanto alle invisibili psicodinamiche della mente umana (l’inconscio), ma anche alle dinamiche dell’ordine invisibile. Non c’è bisogno che Rilke perda i suoi angeli, perché il reparto psichiatrico è anche luogo di epifanie; le rigorose discipline affrontate là dentro sono anche discipline dello spirito, la clausura è anche una scuola di teologia.14 Il tratto condiviso delle esperienze di deliri sopracitate è l’incapacità dei loro protagonisti di rapportarsi alle immagini e alle manifestazioni dell’Alterità che li tormentano con occhio e orecchio mercuriali – in ossequio a Hermes, dio della rivelazione –, cioè “intendendo i loro significati come finzioni, trasponendo la parola dello spirito in immagine poetica”.15 In tutti e tre i casi, inoltre, la cura è consistita, secondo le parole di Boisen, nell’“andare fedelmente a fondo del delirio stesso”,16 cioè nell’accettare quello stato mentale e viverlo pienamente, imparando, con fatica e leggerezza al contempo, “a giocare a bricconate col Briccone, usando l’immaginazione per curare l’immaginazione”.17 L’approccio suggerito da Hillman ricorda da vicino il precetto apollineo menzionato nella Follia che viene dalle Ninfe e sembra un viatico per lo scrittore di letteratura assoluta. 1.5 Aby Warburg e la Ninfa del Ghirlandaio Potremmo a questo punto definire la Ninfa – considerando la particolare forma di metamorfosi che l’uomo può esperire per suo tramite – come una terra di mezzo tra il divino e l’umano, un luogo mentale in cui certe immagini eterne appaiono, accendendo la variegatezza dei colori emotivi. Lì si trova un sapere che precede tutti gli altri; rubato però da Apollo, dio dell’ordine e del metro, esso potrà venire espresso soltanto attraverso il medium di una forma perfetta, come la letteratura assoluta può dimostrare. Nymphóleptos è chi si trova in uno stato della mente – pericoloso, perché può portare alla follia – in cui si vedono emergere, dal flusso continuo della coscienza, alcune immagini. Tradotte in parole, esse manterranno l’inconfondibile colore di quelle visioni. L’ispirazione letteraria è quindi per Calasso di natura divina, semplicemente perché tutte le potenze del culto, dimenticate, rimangono come substrato incancellabile nella mente umana. Con l’archetipo della Ninfa, i Greci hanno consegnato all’Occidente una perfetta cristallizzazione della potenza delle immagini mentali: [L’immagine] è la perenne Anadiomene – come i Greci seppero percepire gloriosamente: più di altri, con più nettezza di altri. Fosse anche soltanto per questo motivo, sarebbe ora di tornare a parlare dell’unicità dei Greci. […] Se oggi si dovesse tentare di avvicinarsi di nuovo a definire quella unicità, non sarebbe neppure al lógos, immancabilmente succedente al mýthos come nei passi di una quadriglia, che si vorrebbe ricorrere, se non altro per il tedio e la prevedibilità che da quella concezione emanano. Rimarrebbe l’immagine, l’eídolon, l’ágalma, il simulacro.18 C’è un’interconnessione inscindibile tra la parola scritta e l’immagine mentale, la visione – in senso anche mistico – con cui lo scrittore intrattiene un dialogo, spesso sconvolgente. Leggiamo a tal proposito queste righe che, nell’Impuro folle, stanno a commento di un passaggio della Gaia scienza di Nietzsche sugli “stati d’animo elevati”: Miopi veggenti, creduli poeti! Vi contentavate di poco! Con voi l’inganno divino era sempre sicuro di trovare fedeli servitori. Somigliavate a messaggeri balbettanti, scelti per un’occasione e poi abbandonati alla consueta sordità umana, timorosi e già umiliati nella gratitudine per aver avuto quel rapido contatto. (IF, p. 32) Fin dall’esordio narrativo del 1974, dunque, Calasso si dimostra affascinato dalle strette connessioni fra pazzia e scrittura. Non stupisce allora che, in una dissertazione condotta nel solco dell’“unicità dei Greci” come la Follia che viene dalle Ninfe, si inserisca quale esempio moderno di ninfolessia un grande critico – e nymphóleptos dichiarato – come Aby Warburg. Ninfa infatti è anche una delle Pathosformeln, la numero 46, di Mnemosyne, il grande “atlante dei simulacri” (FVN, p. 40) a cui lo studioso tedesco lavorò fino alla fine dei suoi giorni.19 Lo sguardo che Warburg rivolge al “mondo delle forme costituito da valori espressivi già coniati”20 con cui ogni artista è obbligato a confrontarsi ricorda da vicino quello di Calasso. Così come lo storico dell’arte si interrogava sul ripresentarsi, nell’arte rinascimentale, di alcune immagini archetipiche di divinità del passato, Calasso mira a rinvenire nella letteratura moderna la traccia di sapienze antiche che sono state dimenticate. Nella Follia che viene dalle Ninfe, pertanto, Warburg e Mnemosyne vengono chiamati in causa. Tuttavia, più che all’atlante, Calasso fa riferimento a una corrispondenza fittizia tra il critico e l’amico André Jolles a proposito di una figura ritratta dal Ghirlandaio nella Nascita di san Giovanni Battista.21 Si tratta di una fanciulla “di grande bellezza, dalle vesti ondeggianti e dal passo lieve, fluente e fremente” (FVN, p. 39), un’immagine di Ninfa che, direttamente dall’antichità pagana cui appartiene, viene a sconvolgere l’equilibrio della mente di Warburg non meno del rassicurante interno fiorentino in cui è inserita nell’affresco. Warburg rimane turbato dalla vividezza delle immagini di Ninfe che ritrova in Botticelli e in molti altri artisti del periodo; sempre più, soprattutto, lo ossessiona la “variante sinistra e terrorizzante” di quelle figure incantevoli, quella che Warburg chiamava la “cacciatrice di teste”, la Salomè, la Menade: “Sapeva infatti,” scrive Calasso, “che la sua testa poteva essere da un momento all’altro rapita dalle Ninfe e rimanere prigioniera della follia” (FVN, pp. 40-41). Questo, com’è noto, accade. Nel 1918 l’equilibrio psichico di Aby Warburg ha un crollo definitivo; dal 1921 al 1924 vive rinchiuso in una clinica per schizoidi a Kreuzlingen.22 Proprio lì, come un moderno Socrate, pronuncia il suo “katharmós”, un “rito purificatorio” in onore delle Ninfe. Per dimostrare la sua guarigione, infatti, chiede e ottiene di poter leggere, di fronte a una platea di medici e di compagni internati, la Lecture on Serpent Ritual.23 Il tema della conferenza – per la quale utilizza i materiali di un viaggio in New Mexico di trent’anni prima – è il serpente, protagonista di un rituale dei nativi Moki in cui funge da tramite con il mondo dei morti. Così, scrive Calasso, “il serpente, la più immediata immagine del male, diventa il salvatore” (FVN, p. 43). Con un formidabile stratagemma, dunque, Calasso utilizza Warburg, suo riferimento imprescindibile per il tema della sopravvivenza della paganità, anche come il simbolo della funzione salvifica della scrittura. “Dove è il pericolo, cresce / anche ciò che salva”, infatti, è il precetto fondamentale dell’ideale altissimo della letteratura che Calasso tratteggia. Lo scrittore, che una certa sensibilità a forze superiori rende estraneo e incompreso alla società utilitaristica, non può che persistere nell’“ebbrezza” che lo agita internamente, arrivando talvolta alla consunzione di sé, ma trovando in questa ostinazione la sola “strategia di movimento” all’interno del caos dell’indifferenziato attuale: Contrariamente all’illusione moderna, le forze psichiche sono frammenti degli dèi, non già gli dèi frammenti delle forze psichiche. E, quando a queste soltanto essi vengono ricondotti, poiché non hanno più un’esistenza riconosciuta nei simulacri di una comunità o almeno in un canone di immagini, l’urto può essere violento, intrattabile se non con il lessico degradante della patologia. È appunto quello il momento in cui la letteratura può diventare stratagemma efficace per far sfuggire gli dèi alla clinica universale e reimmetterli nel mondo, disperdendoli sulla sua superficie, dove hanno sempre soggiornato. (LD, pp. 141-142) Il prodotto di questo “sacrificio” dei nymphóleptoi sarà dunque, per chi è in grado di scorgerlo, un “reimmettere gli dèi nel mondo”, portandoli al sicuro nei soli nascondigli possibili: gli artifici retorici, i bei simulacri della letteratura. Nabokov scriveva in Lolita che “la ninfolessia è una scienza esatta”.24 Nella sua conferenza, Calasso non esita a commentare: “Tale scienza esatta era quella che aveva da sempre praticato, ancor più che l’entomologia: la letteratura” (LD, p. 38). Ecco spiegato il senso del parlare di Ninfe in un’epoca in cui si è perduta la nozione di un’equivalenza ovvia al tempo dei Greci, quella fra entusiasmo divino e perfezione formale: sarà utile a spiegare, attraverso il mito, il mito fondativo di Calasso, quello della forma: Qual è il mito della forma? […] La Grecia può solo offrirci le Muse, che non sono tanto figure della forma, quanto delicati accenni alla potenza da cui ogni forma promana: la possessione, quella conoscenza spartita a Delfi tra Dioniso e Apollo, che presuppone la mente come cavità, costantemente invasa da dèi e da voci. Le Muse, che sono innanzitutto delle Ninfe rangées, sovraintendono a che le forme prendano possesso di noi e ci facciano parlare secondo una regola che è più o meno occulta. (LD, p. 128) Letteratura assoluta: 2. La foresta e il serpente[25] 2. La foresta e il serpente25 Perché il bello è solo l’inizio del tremendo, che sopportiamo appena. Rainer Maria Rilke In questo capitolo vorrei ripercorrere alcuni luoghi dell’Opera con la guida di due immagini, la foresta e il serpente, entrambe dotate di un significativo portato simbolico e, come vedremo, legate a doppio filo con l’ideale letterario di Calasso. Ambedue ricorrono, talvolta con le loro varianti – la palude, la selva e il bosco per la foresta; il drago, l’Uroboro, l’Ofiuco, il bastone di Asclepio e il caduceo di Hermes per il serpente –, in tutti i libri calassiani e sono riconducibili a suggestioni analoghe. La foresta compare nell’Impuro folle nella sua versione umida e insalubre, la palude. Mi sembra che queste due realtà naturali possano essere riportate al medesimo universo concettuale: sono spazi di natura indomita, non coltivata e non coltivabile, perciò estranea agli scopi della società. Sono accostabili come esempi di vegetazione minacciosa perché selvaggia e al contempo protettiva perché avvolgente. Questa natura inospitale, intricata e densa è una perfetta immagine della psiche nei suoi recessi più misteriosi. Non a caso, come già accennato, nel volume del ’74 vi si fa riferimento per la paura che essa incute a Freud, paura in cui Calasso vede manifestata l’incapacità di andare al fondo delle sue stesse intuizioni. Il personaggio di Freud, interrogato da Schreber sulle ragioni del proprio terrore, risponde così: Solo in quanto cadavere avevo potuto traversare illeso la palude – certo, la riconobbi, allora, signor Presidente, lei era la zingara seduta sulla palude, e intorno quegli altri squatters: un’immensa nostalgia mi traversò di sbieco in quel momento, l’eterno femminino, la passione immortale, ma sapevo che non avrei potuto fermarmi e che mi aspettava la tomba etrusca sulla montagna. I templi non possono essere che nelle paludi o sulle acropoli. (IF, p. 75) La risposta si rifà al passaggio dell’Interpretazione dei sogni in cui il padre della psicoanalisi riporta una propria angosciante esperienza onirica ambientata in una palude26; nella rivisitazione di Calasso, che cita alcuni passi del libro, il Presidente diventa uno degli abitanti della zona attraversata da Freud nel sogno. Un primo elemento, evidente già nella fonte, è la connotazione della palude come luogo del femminino, dunque dell’origine; allo stesso modo, nell’analisi del caso clinico di Dora, la foresta è associata ai genitali femminili, e a questa sfera sono ricondotte anche le Ninfe.27 Piena di significati è soprattutto quella frase finale che sottolinea la destinazione sacrale della palude, luogo speculare all’acropoli: se quest’ultima è lo spazio dell’esperienza religiosa vissuta all’interno di una società che ha un solido impianto rituale, la palude sarà luogo dell’esperienza religiosa vissuta in solitudine al di fuori del contesto comunitario – ciò che, nella visione vedica, è la foresta per il sanny āsin, il rinunciante. Nella Rovina di Kasch, proprio il capitolo titolato La dottrina della foresta ci riporta all’interno dell’orizzonte del Veda, per il quale le foreste sono ara ṇya, l’altrove della dottrina segreta: gli Āraṇyaka, i “libri delle selve”, sono la parte esoterica dei Brāhmaṇa, destinati a una lettura anacoretica nei boschi: “Contenendo insegnamenti segreti e pericolosi per chi non era iniziato, dovevano essere studiati fuori dai centri urbani, lontano dalla comunità”.28 Rifacendosi a questo quadro di pensiero, Calasso scrive: “Il mondo delle origini era soffocante, troppo denso, vischioso, fondo di palude cosmica” (RK, p. 221). Questo luogo dell’indifferenziato, spiega poi, si chiamava Varuṇa: era al tempo stesso un immenso serpente arrotolato e colui che puntellò il paludoso indifferenziato perché si articolasse in quell’ordine cosmico (ṛta) che permette la vita in tutte le sue manifestazioni. Questo processo metafisico è per Calasso lo sfondo di ogni storia, divina e umana. Palude e serpente si ritrovano dunque uniti nel momento cosmogonico. Il difficile rapporto di Freud con la palude viene chiamato in causa anche nella Rovina di Kasch, in relazione all’incapacità dello psichiatra austriaco di andare al fondo di certe sue intuizioni sul rapporto fra microcosmo e macrocosmo. Come già sottolineato, il solo elemento di contatto fra individuo e natura viene individuato da Freud nella comune “pulsione di morte”. Anche il passaggio citato dell’Impuro folle vuole mettere in luce questa sua rassicurante convinzione (“Solo in quanto cadavere avevo potuto traversare illeso la palude”), rafforzando l’idea di uno studioso che cerca di preservare la stabilità del proprio impianto concettuale; nelle parole della Rovina: Il sospetto più intollerabile, per Freud, è che fra il mondo esterno e la psiche vi sia una complicità: eppure la incontrò, nell’estuario dove le acque dell’inconscio e del mondo si mescolano. (RK, p. 244) Accettare una compenetrazione fra soggetto e mondo esterno significherebbe per Freud cadere “nella palude nefanda abitata dall’Ouroboros” (RK, p. 254). Alla palude si associa quindi una particolare immagine di rettile attorcigliato attorno al cosmo, l’Uroboro. Questo simbolo dell’eternità e dell’eterno ritorno rappresenta un tipo di pensiero abissale che il moderno uomo di scienza, di cui Freud è il prototipo, non è in grado di accettare. La foresta è, dunque, uno spazio di natura che non si presta a essere sfruttato né come serbatoio di materiali utilizzabili dalla società tecnocratica e logocentrica, né come sfondo paesaggistico in cui l’uomo può trovare svago. Ma la foresta, come si legge in Ka, è anche “l’esoterico” (Ka, p. 235), è il luogo di un sapere segreto, iniziatico. Non a caso nella foresta si apre il Mah ābhārata e nella foresta sono ambientate tutte le conversazioni dei Pur āṇa: la selva è luogo d’elezione per l’apprendimento di un sapere: Era la via della foresta. E “foresta”, da sempre, non significava soltanto il luogo che circonda – fino a dove? – il luogo degli uomini, ma la dottrina segreta. Per capire il mondo degli uomini, come anche tutti gli altri mondi, il punto di osservazione doveva essere in quel regno aspro, folto, dove risuonavano solo voci di animali. Questo era il luogo metafisico. Nella foresta chi pensa è abbandonato a se stesso, lì raggiunge il fondo altrimenti velato dal brusio umano, lì torna a somigliare all’animale selvaggio, che è la massima approssimazione al puro pensiero. (Ka, pp. 410-411) La foresta intesa come spazio fisico, naturale, è il luogo in cui si ritirano i rinuncianti per condurre un’esistenza contemplativa fuori dalla società. Di loro nell’Innominabile attuale Calasso scrive: “Quando la foresta non c’è più, circolano nelle strade di tutti, ma da una certa luce dei loro occhi si coglie che non appartengono” (IA, p. 69). Sono estranei alla vita sociale come lo zarathustra di Nietzsche, che si rifugia nella foresta dopo aver tentato, invano, di portare il proprio messaggio agli abitanti della città. L’uscita dal mondo del sanny āsin era l’ultimo passaggio di una naturale evoluzione del sacrificio vedico, che giungeva alfine ad annullarsi, nella speculazione più tarda, pur mantenendo salda una visione sacrificale del cosmo. L’individuo moderno è invece visto, fin dalla Rovina di Kasch, come una sorta di versione degradata del rinunciante, rientrato nel mondo ignorando i passaggi evolutivi precedenti. L’Homo saecularis non rinuncia infatti al solo involucro formale del sacrificio, ma gli nega la sua importanza, per così dire, esistenziale; nega, cioè, che l’individuo sia all’interno del cosmo, soggetto a un delicato equilibrio di consumo e dispersione, e che ogni surplus vada dedicato alle potenze che reggono il tutto. Perciò, dismessi i riti, utilizzerà il mondo (e la natura) “con una spregiudicatezza e un disprezzo senza pari” (RK, p. 232). Al contempo, come dimostra l’episodio di Freud e come Calasso spiega nella Folie Baudelaire, la foresta è l’inconscio, è la nostra mente folta, intricata e popolata di strane presenze. “Il mondo di Kafka è una foresta primordiale” si legge in K., e il riferimento è chiaramente diretto al suo universo psichico “troppo pieno di suoni e apparizioni” (K, p. 15). Nel volume del 2002, un lungo capitolo dedicato al rapporto di Kafka con i demoni che tormentano la sua psiche riporta un’annotazione dello scrittore: Penetro nella foresta, non trovo nulla e presto, per debolezza, mi affretto a uscirne; spesso, quando abbandono la foresta, odo o credo di udire lo sferragliare delle armi di quel combattimento. Forse gli sguardi dei combattenti mi cercano attraverso l’oscurità della foresta, ma io so di loro soltanto ben poco, e quel poco è ingannevole. Il brano viene così commentato da Calasso: Se la foresta, l’ara ṇya, è il luogo del sapere esoterico, i combattenti sono come dei ṛṣi che osservano il mondo attraverso l’intrico oscuro dei rami invece che dall’alto degli astri dell’Orsa Maggiore. Chi si avventura nella foresta si sente inseguito dal loro sguardo, ma non gli è dato vederli. E quanto si racconta su di loro è ormai molto dubbio. Si è perso il ricordo dei nomi, dei caratteri. (K, p. 143) La foresta rappresenta dunque un interiore spazio di incontro con quel divino, con quell’invisibile, che è la trama segreta di tutto l’esistente. Un intreccio a cui siamo avvinti al pari di ogni altra creatura, e di cui la selva ci dà una testimonianza simbolica. Nella Folie Baudelaire si legge che il poeta distingueva sempre fra due modi di intendere la natura: uno era quello delle Correspondances, quello di una natura sacra e segreta “della cui presenza i più neanche si accorgono” (FB, p. 33); l’altro quello che il XIX secolo esaltava in forma di idillio, il paesaggio naturale come mero sfondo. Un lettore eccezionale di Baudelaire come Walter Benjamin non accettava tale distinzione, che vedeva come una stortura, quella che Adorno avrebbe definito “concatenazione dell’accecamento”. Secondo Calasso, ciò avveniva perché Benjamin, gravato da un’eredità illuministica, era in qualche modo spaventato dall’“abisso del mito”. In virtù della sua sensibilità unica, non poteva che scorgere nella natura un riflesso delle proprie immagini mentali; contro di loro, tuttavia, avrebbe voluto opporre la forza di una razionalità che chiarifica e distingue. Capiva che la foresta di Baudelaire è l’immagine della materia bruta (così già la concepiva Aristotele), che precede le forme del lógos e si anima nelle figure del mito, e ne era al contempo attratto e turbato: Come un bambino che canta nel buio, Benjamin scrisse allora che proprio in quella zona occorreva “penetrare con l’ascia della ragione, e senza guardare a destra o a sinistra, per non cadere vittima dell’orrore, che attira dal profondo della foresta”. Quella esplorazione non si concluse mai – e a poco sarebbe servita qualsiasi “ascia affilata” contro quella che Benjamin definiva “la sterpaglia del delirio e del mito”. (FB, p. 34) Nel Cacciatore Celeste Calasso ritorna sul portato simbolico della natura selvaggia come luogo dell’indistinto originario, precedente e contrapposto a ogni società umana: Non nella pólis o nel villaggio o nel palazzo si giocava la partita con ciò che precedeva ogni pólis, ogni villaggio, ogni palazzo. Sarà chiamato natura, un giorno, quel precedente. Ma all’inizio si presentava soltanto come foresta, come luogo non addomesticato, intatto. E lì si svolgeva una vita parallela a quella della comunità. (CC, p. 63) La natura selvaggia della foresta è ricca di immagini – di piante, di animali – ed è perciò una continua istigazione al politeismo: l’uomo è portato a sbalordirsi di fronte a quella ricchezza di apparenze e a riconoscerla come piena di dèi. Per questo motivo il Libro di tutti i libri mette l’accento sul fatto che nel libro dei Numeri Iahvè imponga al suo popolo un ritiro di tre giorni nel deserto. Il distacco dalla natura significa in primo luogo, per Calasso, il distanziarsi degli Ebrei dalla venerazione che gli Egizi nutrivano nei confronti delle proprie divinità zoomorfe: Doveva essere una prima prova di separazione da tutto, un esercizio per abrogare ogni natura proliferante, per dimenticare le immani acque nilotiche e soprattutto quegli animali ovunque venerati e incombenti in ogni angolo dell’Egitto. Lo svezzamento dei figli di Israele nel deserto fu uno svezzamento dalla natura. (LTL, p. 252) La foresta appartiene al passato ancestrale, all’eternità del mito in quanto sfondo immaginale in cui si compie la grande frattura tra individuo e cosmo, tra uomo e natura; è lì infatti che comincia l’attività del cacciatore: Se nel mito avviene tutto ciò che poi si ripete nella storia, la nascita del singolo avvenne in una foresta, quando vi apparve il cacciatore. Fu lui per la prima volta l’essere autosufficiente, che non ha bisogno di dialogare se non con la sua arte. È quello il primo profilo solitario, distaccato da ogni tribù, che ci viene incontro nella natura. Sul fondo: animali e piante. (CC, p. 64) Accettare l’idea di una compartecipazione profonda con la natura pone l’uomo in difficoltà, costringendolo a confrontarsi con quel momento della propria storia evolutiva in cui ha voluto prendere il sopravvento sull’animale imitandolo e ha rotto un equilibrio universale trasformandosi in predatore. Gravato dalla sua colpa originaria, l’uomo ha il costante bisogno di differenziarsi, di sentire l’animale come altro da sé, di annullare quella precedente comunione. Calasso istituisce un’equivalenza tra il cacciatore di una società tradizionale e il moderno Homo saecularis: affrontare la foresta significa per entrambi fronteggiare la colpa originaria, avventurarsi in un luogo – fisico o mentale, o fisico e mentale – in cui non si è mai soli, sentirsi sperduti e circondati: Difficile era uscire dalla caccia. Come il corpo della donna sull’uomo, la foresta lasciava una traccia odorosa sul cacciatore. Perciò alcuni masticavano scorze di ontano, altrimenti li avrebbe contaminati la malattia della foresta. […] Chiunque abbia varcato o continui a varcare il confine con l’invisibile – anche e soprattutto se l’invisibile stesso non è riconosciuto come tale – vivrà nello stato di chi, in ogni momento, si aspetta di essere attaccato. E sa benissimo da dove viene l’attacco – anche se talvolta è il solo a saperlo. (CC, p. 34) La foresta è quindi uno stato della coscienza, un luogo a cui può avere accesso soltanto chi accetta il rischio di smarrirsi nelle proprie intricate vegetazioni interiori. Nella Rovina di Kasch Calasso profilava così il pensiero di Giansenio: “Anche se intorno a lui tutto era indifferente radura, si figurava sempre in una foresta incantata, dove ogni oggetto ne cela un altro, più vero” (RK, p. 147). La foresta è perciò anche una scelta esistenziale, talvolta consapevole, talvolta quasi obbligata. Nell’India antica vi si rifugiava chi intraprendeva un percorso di solitudine e vita contemplativa, ponendosi al di fuori della società; nell’orizzonte rituale del tempo, la sua posizione aveva un senso, un ruolo riconosciuto. Nel mondo secolare contemporaneo, da un certo punto di vista, siamo tutti rinuncianti. A livello globale, infatti, siamo usciti dal vincolo liturgico del sacrificio. Crediamo di esserne totalmente estranei, ma rimaniamo tuttavia legati, secondo Calasso, al nodo esistenziale che il sacrificio rappresenta. Chi è, allora, il vero odierno rinunciante? Chi è il nuovo anacoreta, slegato da ogni vincolo sociale e al contempo consapevole, in qualche forma, della necessità di fare i conti col residuo? Questa la risposta esplicita dell’Ardore: A chi può riconnettersi la sua figura, a qualche millennio di distanza? A tutti coloro che agiscono spinti da una potente pressione – spesso non amano chiamarla un dovere, ma certo è qualcosa che sentono di dovere a qualcuno, il quale poi è un ignoto. Sono gli artisti, sono quelli che studiano – e nella pratica della loro arte, del loro studio trovano l’origine e la fine di ciò che fanno. Sono Flaubert, che ruggisce nella solitudine della sua stanza a Croisset. Senza domandarsi per quale motivo e a quale scopo. Ma assorto nell’elaborare un ardore – il tapas – in una forma. (A, p. 282) La foresta è un luogo in cui l’anima si inoltra piena di timore, perché è il posto dell’ignoto. Nell’Innominabile attuale si parla dell’“inclinazione a esporsi allo shock dell’ignoto” come di “una sensazione segreta e preziosa, che dice molto sulla qualità di una persona”, e di “un rudimento arcaico” ineliminabile. Ebbene, sono proprio gli scrittori – una “magra setta”, come li definisce Calasso – coloro che non rinunciano ad avventurarvisi, consapevoli del bene che vi possono trovare: Sanno che è una sensazione non sostituibile e preliminare a ogni connessione con il passato. Quella sensazione è come la prima fase di un rito iniziatico, che si svolge nelle tenebre e nel silenzio. Ma è indispensabile per stabilire un rapporto con l’ignoto. (IA, p. 88) Tornando indietro nel tempo, all’avvio dell’Opera, troviamo un’immagine perfettamente coerente. Nella Rovina di Kasch infatti la foresta è abitata da coloro che, non cedendo alla dittatura dell’Io, adorano le “forze abrupte” che governano il soggetto: È cresciuta una foresta spessa, cupa, venefica – mortale per tutti i sognatori che si sono assopiti entro la sua vasta ombra. Bosco di morte, simile a quel lugubre recinto di mirti e cipressi nominato da Virgilio (Secreti celant calles…), tortuoso soggiorno dei suicidi, dove in silenzio, con occhio silvestre, molti nostri cari sprofondarono, fissando con disprezzo, come Didone, il prudente Enea, che non citava l’Io, ma lo aveva fasciato in un sicuro fagotto […]. Chi era portato a quella vita fu dedito sin dall’inizio al discontinuo, nemico di ogni aequalitas, osservatore (adoratore?) di forze abrupte, incapaci di un lungo respiro che involge ogni parte. (RK, pp. 400-401) Nel volume dell’83, inoltre, si esplicita chiaramente che la foresta, dalla Romantik in avanti – perciò a partire dalla nascita della letteratura assoluta – è il luogo in cui si assolve la sola funzione sacrificale ancora concessa, quella che investe l’artista29: In mancanza di un rito, di un ordine, sussiste solo il ruolo della vittima, che vaga nella foresta, selvaggina di Rudra, in attesa delle sue frecce mortali. È la consunzione di Novalis, di Keats. Per Hölderlin, Rudra è Apollo, che lo colpisce a Bordeaux. Quando lo scrittore diventa ufficialmente maudit, con Rimbaud – è già ora di cambiare: è ora di vendere armi a Harar. La vittima scopre con tristezza che il mondo le ha già preparato una arcaica nicchia. È ora di tornare nella foresta. In città si sarà anonimi, poco visibili, si scriveranno lettere commerciali in inglese, si siederà al caffè dopo le ore di ufficio: la foresta è il baule di Pessoa, folto di nomi. (RK, p. 217) Anche il serpente è intrinsecamente legato alla letteratura: il celebre episodio del libro della Genesi basta a dimostrare la sua capacità di dare avvio alle storie. Tradizionalmente a questo animale sono stati attribuiti i tratti più disparati: nel mondo cristiano si va dall’astuzia malevola testimoniata dal primo libro del Pentateuco alla cautela raccomandata da Gesù nel Vangelo di Matteo (“Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe”)30; se ci si volge all’orizzonte greco, si passa dall’onniscienza riconosciutagli dagli gnostici, che lo credevano autore della gnosi divina (rappresentata da Fanes con un nimbo attorno), al risveglio dinamico delle forze del caduceo di Hermes, o al potere salvifico del bastone di Asclepio. Il serpente può insomma essere considerato animale simbolico per eccellenza. Non stupisce allora che l’Opera, in cui tanto spazio è dato alla riflessione sui modi della sostituzione, faccia largo uso di questa immagine. Un simbolo, secondo l’autore della Rovina di Kasch, insegna l’interpenetrazione, la sovrapposizione indissolubile delle cose: simbolo è un fantasma che entra in un altro fantasma, vi si mescola, vi si dissolve, evade. Il simbolo trascina dietro di sé, aurea catena, tutto ciò che ha attraversato. (RK, p. 273) Interessante è il fatto che, oltre a riempire di serpenti la sua Opera, Calasso si riferisca al rettile per indicare la propria impresa editoriale. In un saggio pubblicato in Cento lettere a uno sconosciuto, infatti, troviamo uno spunto fondamentale per capire la concezione di Adelphi: “Che cos’è una casa editrice se non un lungo serpente di pagine?” (CLS, p. 20 e IE, p. 94). Il serpente è qui un’immagine di continuità ideale: il nesso è con la sua caratteristica epidermide, composta da squame diverse che formano un solo tessuto; allo stesso modo, Adelphi, pur nella variegatezza della propria offerta editoriale, è per Calasso una sola pelle, un tutto organico. Avviene insomma per l’universo calassiano quello che lo stesso scrittore riscontrava nell’opera di Giambattista Tiepolo: “Ovunque ci si volga, si ritroverà quel serpente. Ed è l’unica specie di universalità accertabile: estetica, enigmatica” (RT, p. 237). In un’intervista televisiva, sottolineando la rilevanza dell’animale all’interno della propria opera, Calasso invitava a leggerlo come un emissario del continuo.31 Dava in tal modo un’indicazione importante, una sorta di memento: è necessario vedere nella serpe un segno del continuo nel discreto. La presenza dell’animale deve obbligare a guardare alle manifestazioni del discreto in una prospettiva cosmica. Il serpente è infatti collegato a una serie di immagini cosmogoniche: oltre a quella di Varuṇa, nell’Opera compare quella, importante per la tradizione gnostica, della copula fra Tempo-senza-vecchiaia e Ananke. Nelle Nozze di Cadmo e Armonia si narra di come le due divinità, unendosi sotto forma di serpenti, generarono in un intreccio Fanes, il Protogonos.32 In questa narrazione, il serpente è in primo luogo un distaccamento del continuo. Di nuovo, come nel caso della foresta o della palude, ci troviamo di fronte un’immagine dell’origine come indifferenziato. Il serpente è la prima articolazione che spezza l’equilibrio originario per consentire l’esistenza. È l’immagine di una frattura, di una necessaria lacerazione del continuo. Animale metamorfico per antonomasia grazie alla sua capacità di mutare pelle, rappresenta idealmente il passaggio da uno stato all’altro, la transizione da un modo all’altro dell’essere. Nel continuo che è il cosmo primordiale, il serpente è l’esistenza come manifestazione (Fanes, da phaínomai), e dunque anche una rottura in ciò che era nascosto. Nel discontinuo, che è il mondo successivo alla manifestazione originaria, il serpente è un ricordo del continuo. Le Nozze raccontano di come zeus, che aveva inghiottito Fanes per diventare signore degli dèi, violenterà la madre Rea Demetra sotto forma di un serpente, riproponendo con lei l’intreccio di Tempo-senza-vecchiaia e Ananke: Ma perché, per stuprare la madre, il dio volle formare proprio quel nodo [il nodo eracleotico]? In quel momento, zeus ricordava qualcosa e voleva ripeterlo. Come gli uomini, un giorno, in ogni loro gesto si sarebbero ricordati di un precedente divino, così zeus ricordò quegli dèi prima degli dèi che aveva potuto contemplare quando inghiottì Fanes e le sue potenze. (NCA, p. 232) Lo stesso nodo si ritrova sul caduceo di Hermes, a ricordare come sia delicato e incerto quell’equilibrio fra il bene e il male che il serpente, in quanto rappresentante del continuo nel discontinuo, racchiude. Nella Folie Baudelaire Fanes ritorna, nei panni dell’essere mostruoso che il poeta incontra in sogno nell’enigmatico bordello-museo. Il solitario abitante della casa di appuntamenti viene paragonato da Calasso a un’antica statua custodita a Mérida. Se la modernità non è più in grado di trattare con il continuo, quel suo rappresentante dalla coda serpentina non può che vivere prigioniero in un museo, reso innocuo dalla propria collocazione ai margini della società: Nell’epoca del “Siècle”, che dura tuttora, Fanes continua a esistere, ma gli viene negato l’onore di essere una statua. Ora è qualcuno che “ha vissuto”, un freak esposto accanto alle immagini di altri freaks, un “mostro nato nella casa” (di prostituzione) da cui probabilmente non è mai uscito. Non è più colui che regge il mondo, ma qualcuno che il mondo tiene imprigionato nella parte più remota di se stesso. (FB, p. 188) Il serpente è legato anche a numerosi eventi teogonici, e il suo tornare ciclicamente nelle storie divine è insieme una prova della ricorsività del tempo, agitato dal “demone della ripetizione”: da zeus e Rea Demetra in forma di serpenti nasce Persefone; accoppiandosi in forma di serpente a Persefone zeus dà vita a Dioniso zagreo; unendosi allo stesso modo con Semele genera Dioniso: Da serpente a serpente, il mondo continuava a propagarsi nelle sue ere. Ogni volta che zeus si trasformava in serpente, la freccia del tempo si volgeva all’indietro, conficcandosi nell’origine. Allora il mondo sembrava sospendere il respiro, perché diventasse avvertibile quel movimento retrogrado che segna il passaggio da un’èra all’altra. Così avvenne quando dalla copula di zeus serpente con Rea Demetra trasformata in serpente venne generata Persefone, la “fanciulla di cui non si può dire il nome”, la fanciulla unica a cui zeus avrebbe trasmesso il segreto del serpente. (NCA, p. 233) Le nozze di Cadmo e Armonia, libro dedicato alle cose “che sono sempre”, non può che traboccare di serpenti. I rettili tornano infatti di capitolo in capitolo a segnare snodi importanti della personale teogonia calassiana: Cadmo uccide il serpente di Ares; Afrodite dona ad Armonia una collana dalla forma serpentina; Cadmo e Armonia, andandosene su un carro nella scena finale del libro, intrecciano i loro capelli come serpenti. Questi sono poi vicini a un’altra figura centrale nel volume: Persefone o, alla latina, Proserpina: “Probabilmente derivato da una variante italica che gioca sopra il significato della parola, è certamente un nome vicino al sanscrito prasarpin ī, ‘colei che striscia al di sotto’, e che allude al carattere serpentino di questa figura legata agli inferi”.33 Essendo legato a Demetra e Persefone, il serpente è connesso ai Misteri eleusini, la cui importanza per l’Opera è stata chiarita in precedenza. Nelle Nozze, il serpente appare spesso contrapposto al toro, un altro animale caro a zeus e connesso al narrare – pensiamo alle storie delle pitture parietali –, all’indomabilità ferina, mostruosa – guardiamo al Minotauro – e all’odio di Apollo – che inviò Teseo a uccidere il mostro cretese, mentre lui stesso uccise Pitone –, ma anche legato alla terra e al fuoco (sotto forma di offerta sacrificale), laddove il serpente appartiene alle acque: “Il cosmo pulsa fra serpente e toro” (NCA, p. 235). Immagini della serpe compaiono già nell’Impuro folle: sia per il tramite della figlia di Tiresia, Manto, fanciulla dai capelli serpentini che si intrattiene a parlare con Schreber,34 sia, più significativamente, con la menzione del mito di Apollo e Pitone. In uno dei monologhi che costellano il volume del ’74, infatti, il Presidente parla di “Apollo l’Obliquo […] geloso della pigra draghessa arrotolata a Delfi, che sapeva i segni del futuro” (IF, p. 110). La storia della sopraffazione di Apollo su Pitone è dunque così radicata nell’immaginario calassiano da riaffiorare con costanza nei luoghi più disparati della sua produzione, fin dal primo libro. Abbiamo visto come questo mito venga utilizzato nella Letteratura e gli dèi e nella Follia che viene dalle Ninfe. È perciò evidente che il serpente, animale che si insinua strisciando in ogni anfratto, sia legato alle Ninfe, e dunque alla possessione e all’entusiasmo divino. Nella storia dell’Apollo Telfusio, è l’animale a subire una violenza, a sottomettersi alla brutalità con cui il divino si può manifestare. Il serpente è associato alle acque, alle sorgenti, e legato alle immagini che dalle acque affiorano, come le Ninfe (Pitone in primis) e, in generale, con tutti i fantasmi mentali. È quindi l’ennesimo rappresentante della continua produzione di immagini a cui è sottoposto il nostro cervello: In tutte le storie, risalendo indietro, molto indietro, fino a quel punto in cui scompare ogni orizzonte, si trova un serpente, l’albero e l’acqua. O è un serpente che copre con le sue spire una sorgente. O è un grumo, un nodo vagante sulle acque, un cuscino circolare che accoglie un corpo divino e scivola fra le onde. O è un serpente attorcigliato attorno a un tronco che cresce dall’acqua. Tutto questo si può anche incontrare rovesciando lo sguardo verso l’interno, come già facevano alcuni secondo la Ka ṭha Upaniṣad (“un certo sapiente che cercava l’immortalità ha guardato dentro di sé, rovesciando i globi degli occhi”). Il serpente è attorcigliato al tronco da cui cola l’essenza, il rasa, così come la Dea Ritorta, Devī Kuṇḍalinī, avvolge con le sue spire per tre volte e mezzo la su ṣumnā, rivolo verticale che attraversa il meru, la spina dorsale, ma anche il monte Meru, e sbocca sotto la volta del cranio o del cosmo, dove Śiva attende sul suo trono di loto che scocchi il risveglio. (Ka, pp. 389-390) Anche la serpe è quindi un abitante della nostra psiche, è legata alle pozze d’acqua delle Ninfe e alle immagini mentali. Secondo la tradizione indiana, un serpente, Kuṇḍalinī, riposa dentro al nostro corpo, e avvinto alla nostra spina dorsale arriva al nostro encefalo: è l’estraneo dentro di noi, quello che ci guarda raccogliere gli stimoli dal mondo esterno. La storia di Apollo e Pitone dimostra che il sapere metamorfico delle Ninfe, il sapere della mantica, può essere piegato ai voleri di un dio che non ha familiarità con le acque e con le sorgenti, ma sa costringere le Ninfe al proprio volere: Apollo, dio dell’ordine e del metro, deve uccidere il serpente per potersi appropriare di quel tipo di conoscenza. Nelle Nozze, la storia di Apollo e Pitone è definita “il modello nell’uccidere mostri”. In Ka, viene raffrontata al mito più antico di Indra e Vṛtra. Indra uccise infatti, trafiggendolo, Vṛtra (dalla radice vṛ = costringere, avvolgere), un serpente costrittore che racchiudeva le acque; Apollo è dunque un “cugino occidentale” di Indra che “scoccò la freccia su Pitone arrotolato come Vṛtra sulla montagna di Delfi” (Ka, p. 288). L’uccisione di Vṛtra comportò anche la liberazione di Soma, che nella tradizione vedica era un re e al tempo stesso una sostanza inebriante tenuta a guardia da una Ninfa-serpente. Il serpente è un essere mostruoso con cui l’eroe, umano o divino, deve scontrarsi: è un pericolo che, affrontato, conduce a una ricompensa di portata superiore. Per questo motivo, nella Rovina di Kasch, l’assassinio di Indra è definito “l’archetipo di ogni uccisione del drago” (RK, p. 222), cioè di ogni incontro fra un eroe e un mostro. Nel Cacciatore Celeste, del resto, Pitone non è che “l’ultimo sopravvissuto di un’epoca di mostri” (CC, p. 214). Un’epoca mitica, dai labili confini, nella quale ogni contrasto era mosso da una necessità superiore; un tempo nel quale ogni duello era una metamorfosi che lasciava indelebile traccia del mostro sull’eroe: della Sfinge su Edipo, del Minotauro su Teseo: Per vedere il labirinto da fuori, e ucciderlo nella figura del Minotauro, occorre averlo percorso sino al suo centro, che è la bocca da cui si esce nello spazio delle cose isolate, separate, disposte in un’articolazione precaria: lo spazio dove il sacrificio deve incessantemente tessere un’area di connessione, fra vuoto e vuoto. Il pericolo dell’eroe che al tempo stesso uccide e nasce è di perdere il contatto con la sua vittima cosmica, con il suo nemico, che è però fonte di ogni potere: con le acque. (RK, p. 223) Di tale complesso bilanciamento di forze il serpente è il perfetto rappresentante. Considerato pressoché in ogni cultura un essere ambivalente, esso simboleggia il continuo. Ogni volta che appare ci costringe a tornare idealmente a quello stato primordiale, indefinito e inarticolato, da cui si è staccato per dar vita al tutto. L’umanità vive nel discontinuo, nell’articolazione; della grande rete, dei bandhu che connettono tutto con tutto, la mente può cogliere soltanto piccoli lacerti, illuminare solo modeste porzioni della realtà. Pur appartenendo al continuo, infatti, essa ha bisogno di operare nel discreto. Il serpente è un’immagine di straordinaria potenza che le ricorda da dove proviene: Tanto più ci si addentra, nella Grecia antica, in storie di serpenti, tanto più vana – e inapplicabile – risulta l’usuale spartizione fra benigno e maligno – il serpente ovviamente la travalica – anzi è l’emblema di ciò che travalica in genere quell’opposizione. Il serpente è la potenza, nel suo stato indifferenziato e inarticolato. O almeno: in quello stato che appare indifferenziato e inarticolato al nostro occhio, quando gli si avvicina e lo scopre, nell’incertezza e nel terrore. Come perenne memento di quello stato, il serpente si insinua in ogni storia e su ogni corpo. Divino è ciò che non ha perso il contatto con il serpente. Che può anche ucciderlo o condannarlo, ma lo riconosce. E talvolta può usarlo come alleato e come complice. (RT, p. 183) Il divino, che è il continuo e l’invisibile, è in vario modo legato al serpente. Nel Rosa Tiepolo Calasso fa riferimento alla serpe della Genesi e nota come, in base alle sue indicazioni, Eva osservi per la prima volta il frutto dell’albero della conoscenza e scopra come esso sia “buono da mangiare e gradito agli occhi”.35 Argomenta dunque che ci sia una strettissima connessione fra la bestia “più astuta” e l’atto del guardare: C’è dunque un nesso strettissimo fra l’atto del guardare e l’animale che “è il più accorto fra tutti gli animali dei campi”. Ovunque si tratti di immagini, si incontra il serpente. O il ricordo del serpente. (RT, p. 190) Il motivo per cui Giambattista Tiepolo ha voluto riempire le proprie opere di serpenti, allora, è una forma di obbedienza, consapevole o meno, alla sua iconolatria; la sola forma di sottomissione a cui, per Calasso, deve adeguarsi un artista moderno. Alle immagini si connette del resto un altro celebre episodio biblico legato al serpente, ricordato anche nella Follia che viene dalle Ninfe e nel Libro di tutti i libri. Il passo ha per protagonista Mosè, che nel libro dei Numeri si ritrova ad attraversare il deserto alla guida del suo popolo, sempre più stanco e denutrito. Gli Israeliti iniziano a disperare delle possibilità di sopravvivere, e si lamentano con Mosè dei piani di Dio. Questi, adirato, invia contro di loro dei serpenti, che iniziano a colpirli facendone morire tanti. Gli Israeliti corrono allora a invocare la pietà di Dio tramite Mosè; al profeta Iahvè ordina di brandire un’asta con in cima un serpente di bronzo, dicendo a chiunque fosse stato morso di guardarlo; chi lo avesse fatto sarebbe stato salvato: Il gesto di Mosè, quando brandì un serpente di bronzo e intimò agli Ebrei mormoranti di guardarlo – il gesto di Mosè fu la scoperta che il male può essere guarito dalla sua immagine. Anzi, che il male può essere guarito soltanto dalla contemplazione della sua immagine. Intorno, non c’era altro che sabbia e serpenti nascosti nella sabbia. Eppure Mosè ordinò a tutti di contemplare un oggetto assai simile agli amuleti che proliferavano in Egitto. Ma da dove usciva? Non c’era una fucina, non c’erano metalli. Eppure l’intimazione agì. Era una delle scoperte capitali che si possono fare. E questa volta una scoperta muta. Non incisa su tavole, non affidata a un testo. Era la scoperta dell’immagine, del suo potere risanatore. Fa parte dei supremi paradossi ebraici che quella scoperta fosse dovuta a colui che sarebbe stato ricordato e celebrato come il nemico delle immagini. (RT, p. 191) Nella sua più recente traversata biblica, Calasso riporta un altro episodio che vede al centro il serpente bronzeo di Mosè: si tratta del racconto, contenuto nel secondo libro dei Re, della sua distruzione da parte di Ezechia. Serbato per lungo tempo come oggetto di venerazione all’interno del Tempio di Salomone, il serpente viene fatto a pezzi come un qualsiasi idolo metallico. In questa immagine si cristallizza l’ambiguità imperitura di questo simbolo potente, che Iahvè aveva utilizzato per enunciare, nelle parole di Calasso, “una dottrina estrema” (LTL, p. 269): [La] questione del serpente di bronzo andava ben oltre Ezechia e investiva tutta la storia degli Ebrei. Finché un giorno Gesù, parlando a Nicodemo, disse queste parole, che ci sono giunte soltanto attraverso Giovanni: “E così come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così si deve innalzare il Figlio dell’Uomo, perché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna”. Era una nuova affermazione, trasposta, della salvezza attraverso l’immagine. Ma se il serpente di bronzo veniva fatto a pezzi come uno qualsiasi degli “sporchi idoli”, nulla rimaneva da contemplare come annuncio di salvezza. (LTL, p. 270) Per questo motivo, un’opera “esoterica” come quella di Giambattista Tiepolo si rivela piena di misteriose apparizioni di serpenti. Soltanto lui poteva, secondo Calasso, indicare la strada che, nel secolo della Ragione, un artista deve seguire per arrivare all’unico tipo di rivelazione concesso agli uomini secolari, quello della Forma: Lì, all’insaputa di tutti e fissato soltanto da una punta metallica vibrante e febbrile, avrebbe continuato a rinnovarsi un antico patto, a stringersi in un nodo che era il “nodus et copula mundi” secondo la formula di Ficino. Nodo assimilabile a quello che formavano i serpenti attorcigliati ad aste di legno, guardiani fedeli del luogo. (RT, p. 104) Possiamo scorgere lo stesso nodo all’interno della nostra mente, che al continuo originario appartiene, ma soltanto per fugaci illuminazioni. Questa è per Calasso la missione, quanto mai eroica, della letteratura nel mondo moderno: cercare il contatto con quello stato primordiale e darne testimonianza, entrando negli anfratti più misteriosi e pericolosi della psiche, con l’aiuto dell’arco di Apollo e del suo rigore formale. Con queste sole armi lo scrittore potrà uccidere il serpente per impossessarsi del suo sapere; oppure, più umanamente, potrà guardarlo, raccontarlo, e sperare nella salvezza. Letteratura assoluta: 3. Una scienza esatta 3. Una scienza esatta Diventai grande tra le braccia degli dèi. Friedrich Hölderlin Nella trattazione di Calasso sul potere delle Ninfe dobbiamo leggere il tentativo di redigere una poetica valida per la proteiforme modernità, in cui trova le sue radici la letteratura assoluta. Per la costruzione di questo particolare “mito personale”, Calasso ha senza dubbio avuto in mente alcuni autori-modello. Molti di questi appartengono al periodo storico, grossomodo circoscrivibile al XIX secolo, in cui si è individuata la nascita di questa galassia misteriosa. Tuttavia, come più volte ribadito, la fisionomia acquisita dalla letteratura rimane la stessa ai giorni nostri. Uno dei suoi rappresentanti più significativi è uno scrittore novecentesco, al quale credo vada imputata anche la singolare definizione; mi riferisco a Gottfried Benn, del quale, nei Quarantanove gradini, Calasso scrive: Nessuno dei pochi grandi prosatori del dopoguerra ha saputo nominare con tale precisione l’innominabile attuale, solo il vecchio Benn, che sulla nuova età si è appena affacciato, ha riconosciuto quello che già aveva visto, ha sbarrato le finestre e ha continuato a tracciare i suoi arabeschi, estraneo fra gli estranei, fino alla morte, Berlino 1956. (QG, p. 194) La stessa espressione si trova in uno studio degli anni settanta di Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy sul Romanticismo tedesco, ma utilizzata in un senso molto diverso.36 L’ideale che ne fa Calasso dovrebbe piuttosto essere ricondotto ai saggi di Benn, in cui si parla di “prosa assoluta”. Calasso appare infatti estremamente affascinato da questa dicitura, che riflette tutta l’immediatezza del processo di ispirazione, suffragando l’ipotesi di una natura “divina” della stessa. Come si riconosce, precisamente, la prosa assoluta? Il criterio è uno solo, e Benn l’ha enunciato in gran fretta: “Per colui che si sforza di dare espressione al proprio interno, l’arte non è qualcosa di pertinente alle scienze umane, ma qualcosa di fisico come le impronte digitali”. (QG, p. 477) A dimostrazione dell’affinità tra le diverse scaglie del serpente adelphiano, si noti, di passaggio, che questa affermazione appare straordinariamente simile a quella di Marina Cvetaeva che Guido Ceronetti pone in epigrafe al proprio saggio introduttivo per la raccolta degli scritti di Cristina Campo: “…l’anima, che per l’uomo comune / è il vertice della spiritualità, / per l’uomo spirituale è quasi carne”.37 La forza ispiratrice sembra dunque provenire dal corpo dello scrittore come un fenomeno obbligato, necessario. Nella visione di Calasso, a distinguere l’attività dello scrittore “assoluto” è una sorta di destino tragico, che lo equipara agli eroi del mito. Non a caso nelle Nozze di Cadmo e Armonia parla in termini equivalenti di Giasone e di Nietzsche, sottolineando che per loro non esiste “il lieto fine delle favole”. A caratterizzare lo statuto dell’eroe tragico, com’è noto, è l’obbligata sottomissione al “giogo della necessità”: “La sua parte è scritta prima di lui, l’impresa gli preesiste: non è mai scelta, ma gli viene incontro, come un alto flutto” (NCA, p. 372). Non stupisce, allora, che Calasso faccia riferimento a Benn nell’articolo in cui – a vent’anni di distanza dalla pubblicazione delle Nozze – illustra i motivi della sua inesauribile fascinazione per il mito. Utilizzando la terminologia dello scrittore tedesco, spiega uno degli elementi essenziali della letteratura assoluta, e cioè la capacità di esercitare uno “sguardo sommario”, abilità che contraddistingue i suoi “autori inevitabili” (FB, p. 56). Riprendiamo quel passaggio che riassume il significato dell’idea di possessione: Ma, di là dalla prosa, ciò a cui Benn accennava era un certo modo di trattare i fantasmi – e di lasciarsene invadere. Tutto sta nel giungere al punto in cui “ardono le immagini”. Occorre una sorta di rabdomanzia estetica, un silenzioso acrobatismo psichico. Ma perché Benn usava l’aggettivo “sommario”? Non solo per accennare alla rapidità e cursorietà del gesto, ma perché quello sguardo ha qualche somiglianza con un giudizio sommario: scarta i passaggi, toglie via i secoli, le filologie, le categorizzazioni. Rimangono solo i profili: di figure, di oggetti.38 In quello “scartare i passaggi” riconosciamo anche uno dei tratti distintivi della prosa calassiana, che in queste pagine abbiamo visto procedere tramite le folgorazioni del “lampo analogico”. Leggiamo, a tal proposito, un brano della Folie Baudelaire in cui, descrivendo il modus cogitandi di Diderot, Calasso sembra parlare di se stesso: Diderot non aveva propriamente un pensiero, ma la capacità di far zampillare il pensiero. Bastava dargli una frase, un interrogativo. Da lì, se si abbandonava al suo rapinoso automatismo, Diderot poteva arrivare ovunque. E, nel tragitto, scoprire molte cose. Ma non si fermava. Quasi non sapeva quel che scopriva. Perché era solo un passaggio, un aggancio fra tanti. […] I Salons sono puro movimento: non solo si passa da un quadro all’altro incessantemente, ma si entra nei quadri, se ne esce – e talvolta ci si perde. (FB, p. 19) Anche l’Opera può essere definita “puro movimento”. Come Diderot, Calasso lascia che il pensiero vaghi di passaggio in passaggio, entrando nei quadri più diversi e facendo nel tragitto moltissime scoperte. Sebbene la direzione in cui tale pensiero si muove sia senz’altro centrifuga, esiste al tempo stesso un centro gravitazionale molto potente verso il quale ogni sforzo di Calasso mi sembra convergere: quello della letteratura assoluta. Propongo ora di rimetterne a fuoco la definizione, alla luce delle considerazioni delle pagine precedenti. L’“innominabile attuale”, il nostro mondo secolarizzato e dimentico di ogni forma rituale, non può essere considerato un mondo privo di dèi. Sebbene non esista più un culto istituzionalizzato a garantire loro uno spazio preciso, benché non ci siano più dei simulacri collettivamente riconosciuti per individuarli, gli dèi, secondo Calasso, continuano ad agire, turbando il delicato equilibrio della psiche. Ridotti quindi alla primigenia natura di pure essenze mentali, essi hanno visto la propria potenza accresciuta nonostante – o, meglio, in virtù di – questa diminutio. Tale progressivo disconoscimento della loro presenza ha radici lontane nel tempo, ma è un dato di fatto generalizzato dopo la fine del XVIII secolo. Un importante obiettivo a cui i volumi dell’Opera sembrano tendere mi pare molto simile allo scopo che Calasso individuava, sottaciuto, nell’opera di Baudelaire: parlare della modernità senza la pretesa di riuscire a definirla in maniera univoca, distillandone solo l’essenza. Questa particolare “essenza” moderna – una fantasmagoria, che assumerà nel XIX secolo dei tratti che perdurano nell’attualità – ha innanzitutto le sembianze di un immane rivolgimento delle coscienze, originato dalla sostituzione del Sociale al Divino. Questo riorientarsi dell’orizzonte teleologico ha avuto come conseguenza quella che Jean Baudrillard definiva la “configurazione operativa” del nostro tempo, di cui la digitalità è il “principio metafisico”.39 Il mondo intero diventa insomma una infinita riserva di materiali che il soggetto può misurare, registrare, manipolare, utilizzare, attraverso strumenti sempre più sofisticati: A ciò che è (qualsiasi cosa esso sia) si sostituisce la società di coloro che vivono e parlano, digitando e digitalizzando all’interno di ciò che è, qualsiasi cosa essi dicano. Al Liber Mundi si sostituisce il “libro unico del mondo”, accessibile soltanto sullo schermo. Quanto al mondo, è cancellato, superfluo, nella sua muta, refrattaria estraneità. (IE, p. 47) In questo complesso, indefinibile mondo moderno, Calasso vede affermarsi, come conseguenza imprevista e inevitabile, un nuovo tipo di letteratura, lontana da tutti i significati che aveva assunto nelle epoche precedenti. Essa sarà, appunto, letteratura “assoluta”, e cioè, in prima istanza, “sciolta”, slegata da qualsiasi bardatura sociale. In un mondo in cui imperversa il dogma dell’utile, la letteratura farà di quello che Calasso individua come “nervo della teologia omerica” il suo motto sottinteso: “Nella piena inutilità il massimo splendore” (NCA, p. 380). L’emancipazione dell’estetico da ogni forma di obbedienza ai “Buoni Principi” è però soltanto un primo elemento. Nell’assoluta autoreferenzialità della forma si nasconde qualcosa di più importante: La letteratura che celebra se stessa, e soltanto se stessa, che ha tagliato ogni ormeggio, dipende capillarmente da quella oscurità psichica, da quella caverna muta dove a tratti lo stile fosforeggia come un fuoco fatuo. (QG, p. 479) Proprio in virtù dell’ars gratia artis, con l’implicito antagonismo al sociale che la letteratura così rivela, alcuni scrittori si assicureranno un intenso rapporto con quel divino che dai più non viene riconosciuto, e si cela all’interno della mente: È come se, quando le maglie della società hanno cominciato a infittirsi, sino a ricoprire l’intera volta celeste, e al tempo stesso la società ha sempre più chiaramente preteso un culto di sé, si fosse anche avviato il reclutamento di una setta di refrattari, taluni silenziosi altri facinorosi, tutti inscalfibili nel loro rifiuto. E non certo perché dovessero rimanere fedeli ad altri culti. Ma perché li abitava una percezione della divinità così intensa da non aver neppure bisogno di darsi un nome e così precisa da imporre innanzitutto di rifuggire quella sua velenosa contraffazione che il Grande Animale della società – secondo la definizione platonica – stava perfezionando con zelo e tremenda potenza. (LD, pp. 143-144) Questa particolare percezione della divinità fa di questi scrittori degli inconsapevoli officianti della più antica forma di contatto con gli dèi, il sacrificio: Se la natura nasce intrisa di colpa, il privilegio dell’uomo non potrà essere quello di introdurre la colpa nel mondo, ma soltanto di elaborarla. Di darle forma – e questa era già una prima definizione della letteratura. (FB, p. 34) È letteratura assoluta, insomma, quella che serba traccia della sua funzione sacrificale, quella in cui si intuiscono il riconoscimento della ridondanza quale caratteristica ineludibile della vita e lo sforzo dedicatorio quale omaggio a potenze al tempo stesso esterne e interne all’uomo: Non c’è sacrificio senza residuo, e il mondo stesso è un residuo. Perciò occorre che i libri esistano. Ma occorre anche ricordare che, se il sacrificio fosse riuscito a non lasciare un residuo, i libri non ci sarebbero mai stati. (IE, p. 17) L’ideale di scrittore che Calasso ha in mente, che ha avuto innumerevoli manifestazioni dal Romanticismo in avanti, è ascrivibile alla categoria del nymphóleptos, di colui che si abbandona all’ordalia dei “colori emotivi”, vincendo il timore delle conseguenze estreme a cui un simile banchetto divino nella sua psiche può portare: Orate sine intermissione: il precetto paolino, che sarebbe diventato il fondamento della preghiera esicastica, si trasforma con Baudelaire in un’altra formula: “Dovete inebriarvi senza tregua”. (FB, p. 59) L’ebbrezza, così come concepita da Calasso, non è che una forma più piena, più profonda, di coscienza. Poiché la facoltà di esercitare la possessione si divide equamente tra la signoria di Dioniso e quella di Apollo e delle Ninfe, l’esperienza immaginifica, dispersa e metamorfica che avviene nella mente nasce per essere raccontata secondo le forme regolari del dio del metro. Per un paradosso che appare perfettamente sensato in un mondo “troppo esoterico”, insomma, spetta all’arte, alla forma più alta di superficialità e superfluità, esprimere e preservare quanto di più profondo e imprescindibile appartenga all’uomo: E invece siamo criminali, leggeri, dissolventi, anche un po’ antifemminili, pardon, anzi neutri, nell’origine – l’unico argomento su cui biologicamente abbiamo qualcosa da dire è lo stile. Dal cosmo alla cosmesi va la freccia del destino occidentale – regalo questo tema alle meditazioni domenicali dei nostri cattedratici. (IF, pp. 116-117) Non è un’idea nuova, ovviamente. Il culto del Bello, della forma, era già stato celebrato, nei secoli precedenti, da sacerdoti più zelanti di Calasso. Eppure, credo ci sia dell’originalità nella costruzione dell’Opera. Si manifesta, in quest’esaltazione dello stile così affine, per certi versi, all’estetismo tardo-ottocentesco, un’istanza quasi sovversiva rispetto alla contemporaneità. Calasso sembra dare testimonianza di una religiosità inattuale in tempi di pragmatismo oltranzista e bigotta sfiducia in qualsiasi forma di alterità. Calasso non è l’unico, ma è certo un raro esempio, oggi, di fede smisurata nel valore dello stile, una caratteristica irrinunciabile della letteratura di cui già Cristina Campo scriveva: “La prima immagine che si presenti è questa: una virtù polare grazie alla quale il sentimento della vita sia nello stesso tempo rarefatto e intensificato”.40 Ogni religione, come è noto, si fonda sui propri libri. Ebbene, anche questa sua forma eccezionale, questa “religione dello stile” che di libri si compone, ha bisogno di una precettistica. È quello che Calasso sembra offrire con la sua Opera. Un insieme, certo mai prescrittivo, piuttosto descrittivo, di verità rivelate e mai univoche. Quella che Calasso celebra è la natura metamorfica della realtà, che elude il principio di non contraddizione. Per questo motivo si dice interessato a una forma della fede che si coniuga con la conoscenza, come compendiato dal termine sanscrito śraddhā. Lo afferma nell’Impronta dell’editore: [Śraddhā] significa “fiducia nell’efficacia dei gesti rituali”. E qui occorre una glossa: “gesto rituale”, per i veggenti vedici, significava innanzitutto “gesto mentale”. (IE, p. 70) Alla luce di queste riflessioni è possibile scorgere una componente religiosa nella fenomenologia della letteratura assoluta a cui l’Opera di Calasso dà corpo: Il religioso, inteso in questa accezione dei suoi due termini indispensabili – conoscenza e fede (la śraddhā) – investe ogni angolo della nostra esperienza, poiché in ogni angolo della nostra esperienza noi siamo in contatto con cose che sfuggono al controllo del nostro io – e proprio nell’ambito di ciò che è al di là del nostro controllo si trova quel che per noi è più importante ed essenziale. (IE, pp. 72-73) Non è un caso che nello stesso saggio si legga un’affermazione che dà suffragio all’idea della “religione delle lettere” e si riallaccia, al contempo, alle riflessioni sulla Letteratura e gli dèi con cui questo percorso ha avuto inizio: “La mistica è una scienza esatta” (IE, p. 68). Parafrasando Nabokov, Calasso istituisce così un’equivalenza perfetta tra ninfolessia, mistica e letteratura. Un’equipollenza di cui non è possibile stupirsi, una volta compenetrati nel sistema di pensiero calassiano, alla base del quale c’è la fede nel superamento dell’incomunicabilità tipica dell’esperienza contemplativa attraverso il medium letterario. Uno storico delle religioni come Dario Sabbatucci spiega che “l’azione rituale in senso mistico doveva trasformare l’uomo, renderlo simile agli dèi, in modo che, al posto della comunicazione, si realizzasse una comunione”.41 Nella visione di Calasso, tuttavia, la comunione con il divino è il presupposto, perché il soggetto può sperimentarla nella normalità della sua mente, se riesce a risvegliare la propria coscienza a tale scopo. La letteratura, unica rimasta fra le azioni rituali, sarà pertanto il mezzo con cui rendere manifesta questa singolarissima, eterna, condizione: La letteratura non è mai cosa di un soggetto singolo. Gli attori sono per lo meno tre: la mano che scrive, la voce che parla, il dio che sorveglia e impone. […] Potremmo chiamarli l’Io, il Sé e il Divino. Fra questi tre esseri avviene un continuo processo di triangolazione. Ogni frase, ogni forma, sono variazioni all’interno di quel campo di forze. Da ciò l’ambiguità della letteratura. Perché il punto di vista si sposta incessantemente fra quegli estremi senza avvertircene. […] Ogni vibrazione della parola presuppone qualcosa di violento, un palaiòn pénthos, un “antico lutto”. Un assassinio? Un sacrificio? Non è chiaro, ma la parola non finirà mai di raccontarlo. (LD, p. 159) Con il difficile obiettivo di rendere giustizia a questo “continuo processo di triangolazione”, dunque, Calasso ha dato corpo alla sua massiccia creatura letteraria. Nel tratteggiare il profilo della letteratura assoluta ha creato un idolo a cui egli stesso non smette di rendere omaggio, e al quale, nel contempo, ci invita a rivolgerci, con occhi fiduciosi, mentre il destino occidentale prosegue la sua traiettoria inesorabile, dal cosmo alla cosmesi. Letteratura assoluta: Colophon © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione digitale 2021 da prima edizione in “Campi del sapere” febbraio 2021 ISBN ebook: 9788858842102 In copertina: Tullio Pericoli, "Roberto Calasso", 1993, acquerello e china su carta, cm 38x28. Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Letteratura assoluta: Copertina Letteratura assoluta: Premessa Premessa Attualità e inattualità dell’opera di Calasso Per cominciare a raccontare questa storia, che dura da più di quarant’anni ed è ancora in corso, vorrei partire da un episodio rivelatore seppur apparentemente marginale. Nel 1991, quando esce per Adelphi la sua raccolta di saggi e articoli I quarantanove gradini, Roberto Calasso, all’epoca cinquantenne, è già una figura di rilievo nel panorama culturale italiano. Entrato a far parte della casa editrice dei “libri unici”1 di Luciano Foà e Roberto Bazlen fin dagli esordi, ha svolto un ruolo di primo piano nella sua crescita, arrivando in breve tempo a reggerne le fila: direttore editoriale nel 1971, consigliere delegato dal 1990, ne diventerà presidente nel 1999. All’attività editoriale Calasso affianca quella di critico e scrittore. Per Adelphi ha curato e tradotto Il racconto del pellegrino di sant’Ignazio di Loyola (1966), Ecce Homo di Friedrich Nietzsche (1969), Detti e contraddetti di Karl Kraus (1972); ha redatto postfazioni a Jakob von Gunten di Robert Walser (1972), a Memorie di un malato di nervi di Daniel Paul Schreber (1974), a Mine-Haha di Frank Wedekind (1975) e a L’unico e la sua proprietà di Max Stirner (1979). Al delirio allucinatorio del presidente Schreber ha dedicato il suo primo romanzo, L’impuro folle del 1974. Sono poi usciti La rovina di Kasch (1983) e Le nozze di Cadmo e Armonia (1988), pannelli di un’impresa letteraria più ampia che proseguirà nei decenni successivi. Le sue prime opere hanno suscitato la curiosità di critici d’eccezione come Italo Calvino o Giorgio Manganelli. Le nozze di Cadmo e Armonia ha ottenuto uno straordinario successo di mercato, andando quasi subito in traduzione in più di venti paesi. Nel recensirlo, il premio Nobel Iosif Brodskij si è detto rammaricato di non esserne l’autore.2 Calasso è dunque uno scrittore affermato quando, all’uscita dei Quarantanove gradini, si trova imprevedibilmente al centro di una polemica che per qualche settimana anima il supplemento culturale della “Stampa”, “Tuttolibri”. La querelle nasce da una recensione dal titolo eloquente: Nella torre di Calasso. A scriverla è l’allora direttore di Rai 3 Angelo Guglielmi, ex membro del Gruppo 63 e critico militante per diverse testate: dopo essersi dilungato sui meriti di Calasso, sul rigore e l’eleganza della sua scrittura, Guglielmi conclude il pezzo con l’impressione che la raccolta, pur “straordinaria”, risulti “deludente” per la mancanza di attenzione alle specificità del presente e di indicazioni utili a fare “scelte per l’oggi”.3 Calasso sarebbe insomma un autore distante dalla realtà, che celebra la fine della storia trincerato nella sua torre di inattualità e malcelato snobismo. Rispondono a Guglielmi, sul numero successivo, Carlo Fruttero e Franco Lucentini, prendendo le parti di Calasso: rimproverargli di non unirsi al coro degli autori che occupano i salotti televisivi sbandierando opinioni su temi scottanti sarebbe secondo loro un errore prospettico pari a “giudicare Madame Bovary dal punto di vista di Homais”.4 La distanza di Calasso dalle questioni in voga nel dibattito pubblico è per loro una saggia presa di posizione per chiunque voglia riflettere sul presente con lucidità. Allo stesso tempo, “La Ditta” trae dal libro di Calasso una diagnosi nefasta: la testimonianza di un declino ormai conclamato della civiltà occidentale, in cui “non c’è più niente da dire, da pensare, da argomentare, da proporre”.5 A questo punto la polemica divampa e la questione sull’attualità della scrittura – e su cosa essa significhi – si allarga e viene rivolta a tanti altri autori italiani, da Vincenzo Consolo a Sebastiano Vassalli, da Lalla Romano a Ferdinando Camon.6 Le ultime battute sono affidate dalla redazione di “Tuttolibri” a Sergio Quinzio e Gianni Vattimo, che si schierano su fronti opposti. Il primo parteggia per Calasso: giunti al tramonto della civiltà, scrive, l’unica strada per la salvezza è l’esercizio di un’intelligenza critica aspra e tagliente.7 Vattimo lo accusa invece di nutrire astiosa diffidenza verso la cultura accademica e di massa con un “nichilismo passivo” proprio dei “filistei della cultura”.8 Dopo cinque numeri a lui dedicati, Calasso interviene sulla questione rispondendo alle critiche. La prima cosa che gli preme sottolineare è che non gli sembra di aver ignorato il presente, avendo dedicato i suoi saggi ai “fondamenti della bottiglia di Coca-Cola” e a Heidegger, alla guerra e alla bêtise che imperversa nel mondo. In secondo luogo, riprende le osservazioni di Guglielmi secondo cui il suo lavoro di scrittore si era sottratto all’esigenza, fondamentale per la letteratura, di aiutare la società a superare i momenti di crisi.9 In punta di fioretto, Calasso sottolinea come una simile concezione possa appartenere soltanto a chi non abbia alcun tipo di rapporto con la letteratura stessa. Sente quindi l’urgenza di fare delle precisazioni: Non ritengo e non affermerei mai che “la letteratura occidentale, anzi, la cultura occidentale, è finita” (Fruttero&Lucentini). Non ritengo che “il presente” sia caratterizzato dalla “insopportabilità” (Guglielmi) – o almeno non più di quanto lo era per il contadino di Esiodo, che già faceva una vita dura e non godeva neppure dei conforti della televisione. Non penso che non ci sia più “niente da dire, da pensare, da argomentare, da proporre” (Fruttero&Lucentini), tant’è che passo la vita a pubblicare libri di altri e miei. […] Infine, sarò eternamente grato a Fruttero&Lucentini, i quali, pur attribuendomi taluni pensieri in cui non mi riconosco, hanno formulato la lode più alta a cui potessi aspirare, paragonandomi a un elettricista che sa “districare il groviglio di fili multicolori” in un vecchio impianto elettrico. Saper collegare i fili di quel vecchio impianto elettrico che è la nostra mente mi sembra l’unica ambizione che si possa legittimamente attribuire alla letteratura, la quale, per il resto, come tutte le cose essenziali della vita, non ha funzione – e tanto meno quella di fornire “un conforto a fare scelte per l’oggi” (Guglielmi) –, ma si appaga del capire ciò che è, rivelando ciò che è in una forma.10 Oltre a riportarci a un tempo in cui le polemiche sul senso della letteratura riuscivano ad animare le pagine delle riviste di vasta circolazione, la vicenda è utile a mettere in luce una delle caratteristiche fondamentali della fortuna di Calasso: il fatto che la sua opera accenda facilmente contrasti. Ad alcuni essa si presenta come fuga o colpevole elusione delle questioni più brucianti del presente, ad altri al contrario come affilato strumento per interpretarlo nella sua complessità. Una certa doppiezza sembra del resto caratteristica ineliminabile dell’opera di Calasso, che appare fatta per sottrarsi – nella scelta dei modi espositivi, degli argomenti, degli autori di riferimento – alle letture univoche. La sua stessa ascrizione a un preciso genere letterario è tutt’altro che scontata. Entrambe le posizioni critiche manifestate per I quarantanove gradini possono dunque risultare, per certi versi, più che comprensibili. La questione riguarda in un modo o nell’altro tutti gli scritti di Calasso. Nei Quarantanove gradini si manifesta uno dei tratti più significativi della sua scrittura, cioè l’avversione per le trattazioni sistematiche, per i testi che offrono spiegazioni o, peggio ancora, soluzioni a problemi di qualsiasi tipo. Qualunque tema affronti, Calasso lo legge attraverso il prisma delle sue possibili interpretazioni, senza dichiarare in maniera esplicita quale onda abbia deciso di seguire e per quale scopo. Nella rivendicazione tra il piccato e l’ironico che chiude la diatriba su “Tuttolibri”, Calasso offre al lettore molti spunti di riflessione in tal senso. In primo luogo, mette in chiaro come per lui la letteratura rappresenti soprattutto il tentativo di penetrare i segreti di quel territorio in larga parte ignoto che è la mente umana. Poi esplicita l’idea che attribuire alla letteratura qualsiasi funzione sarebbe un errore, perché essa ne è priva “come tutte le cose essenziali della vita”. Con questo libro ho cercato di seguire la traccia che Calasso affida con noncuranza alla sua replica e di rendere ragione dell’enigmatica complessità della sua opera. L’ho attraversata tenendo presenti due coordinate: il suo rapporto ambiguo con il presente e la sua idea di letteratura come strumento che illumina gli intrecci della mente. Nel ricostruire il percorso che Calasso ha fin qui portato avanti – un percorso che ancora continua, mentre scrivo queste pagine – ho voluto portarne alla luce alcuni snodi cruciali facendo ricorso anche al confronto con le opere di altri autori, contemporanei e non. Spero così di aver messo a fuoco lo spazio che Calasso occupa nel grande arazzo della letteratura, la sua attualità ma anche la sua inattualità, cioè il suo porsi “contro il tempo e, speriamo, a vantaggio di un tempo a venire”.11 Orientarsi nell’Opera Oltre alle opere già citate, Calasso ha pubblicato, sempre presso Adelphi, le raccolte di saggi La letteratura e gli dèi (2001), La follia che viene dalle Ninfe (2005), L’impronta dell’editore (2013) e Come ordinare una biblioteca (2020). Nel 2003 è uscita una selezione dei suoi risvolti dal titolo Cento lettere a uno sconosciuto. Soprattutto, Calasso è l’autore di una serie di volumi che fanno parte di quella che lui stesso ha definito la sua Opera. Questa singolare composizione, che è l’oggetto della mia ricerca, prende l’avvio nel 1983 con La rovina di Kasch e consta, a oggi, di undici volumi: ai primi due pannelli seguono infatti Ka (1996), K. (2002), Il rosa Tiepolo (2006), La Folie Baudelaire (2008), L’ardore (2010), Il Cacciatore Celeste (2016), L’innominabile attuale (2017), Il libro di tutti i libri (2019) e La Tavoletta dei Destini (2020). Anche se le pubblicazioni di Calasso non sono certo passate inosservate, ricevendo anzi apprezzamenti importanti – Guido Ceronetti, Giorgio Manganelli, Salman Rushdie, fra i tanti –, finora non sono state oggetto di particolari attenzioni da parte della critica accademica.12 Gli studi monografici dedicati all’Opera sono pochi e incompleti.13 Questo libro è una mappatura, quanto più possibile esaustiva, di quella vasta messe di testi che Calasso ha indicato come parti di una sola Opera. Sono convinta che soltanto uno sguardo d’insieme possa rendere giustizia della fitta interconnessione di temi, personaggi e idee che caratterizza i suoi volumi. Per questa ragione ho scelto un approccio sincronico, senza perdere di vista i casi nei quali una certa idea abbia avuto sviluppi significativi nel tempo o si sia in qualche modo modificata nel passaggio da un libro all’altro. Ho insomma cercato di mettere in luce le nervature dell’Opera calassiana che sono coperte da un fitto fogliame o nascoste da altri materiali. In generale, fin dai suoi esordi il pensiero di Calasso si esprime con un movimento centrifugo capace di mantenere al contempo un solido nucleo interno, da cui tutte le spinte si dipartono. Nel saggio su Nietzsche del 1969, Calasso accennava a “quel pensiero unico che è proprio soltanto dei grandi pensatori, gli altri di pensieri ne hanno tanti”.14 Mi sembra che questa formula, da lui riferita al dispiegarsi delle grandi filosofie dell’Occidente, si possa applicare alle sue stesse creazioni. Intravedo in questa dichiarazione d’amore per il “pensiero unico”, che si manifesta sotto molte vesti ma rimane fedele a se stesso, un riflesso della fascinazione di Calasso per le ossessioni, per le immagini infestanti che agitano la psiche di tanti artisti da lui amati. La mia ricerca vuole essere un tentativo di fissare sulla pagina alcune delle immagini che imperversano nell’Opera perché risulti più chiaro ed evidente il loro gioco di scambi. Il forte nucleo attorno al quale gravitano gli undici volumi corrisponde, secondo me, a una precisa idea di letteratura. La scrittura di Calasso è guidata dalla fiducia nelle infinite possibilità che la letteratura come esperienza totale offre a chi la pratica. Calasso prova a raccontare i modi e i tempi in cui la letteratura ha rivelato un’ambizione onnicomprensiva, una volontà di occuparsi di qualunque cosa. Nei suoi scritti non poteva che parlare di tutto, nella convinzione che non esista argomento di cui non sia possibile fare letteratura. La vastità della materia trattata, che spazia tra i più diversi campi del sapere, e la scrittura che avanza per analogie e intuizioni non presentano al lettore un percorso unitario immediatamente riconoscibile. Perciò, la prima delle quattro parti di questo libro vuol rendere ragione del legame fra gli undici volumi. Partendo dalle dichiarazioni che Calasso ha rilasciato nel corso degli anni, ho cercato di vedere nella sua Opera un affresco del passaggio dalla multiforme modernità all’ancora più indefinibile mondo contemporaneo, icasticamente definito da Calasso “innominabile attuale”. Tutte le riflessioni su questa nostra “età dell’inconsistenza”15 acquisiscono un senso più profondo se accostate a quelle sul ruolo che, in questo scenario metamorfico, assume la letteratura. Le raccolte di articoli e saggi brevi si rivelano strumenti utilissimi per una visione d’insieme: ci aiutano a comprendere l’ideale letterario che Calasso costruisce e al quale egli stesso ha dato il nome di “letteratura assoluta”. Per circoscrivere questo concetto, che appare così sfuggente, bisogna ripercorrere il volume di saggi La letteratura e gli dèi, che Calasso dedica per intero alla delineazione delle sue caratteristiche. Considerato il carattere unitario dell’Opera, è impossibile non notare quanto essa sia variegata. L’Opera di Calasso si presenta infatti come un vero e proprio ventaglio di forme, in cui taglio saggistico e narrativo, citazione dotta e invenzione romanzesca si intrecciano in un groviglio non ascrivibile a un determinato genere letterario. Nella Prima parte ho dedicato ampio spazio anche ai repertori di immagini che Calasso seleziona con cura come apparato dei propri volumi: lungi dall’avere un valore puramente esornativo, questi spunti iconografici contribuiscono come e più del testo stesso alla costruzione di senso dell’Opera. Ho infine ricostruito il rapporto di Calasso con le proprie fonti e il suo singolare approccio alla storia e alla storiografia. La Seconda parte è dedicata al macro-tema della mente, uno dei più ricorrenti nell’Opera. Il tentativo è quello di individuare, all’interno della vasta rete di motivi e ricerche che Calasso intesse sull’argomento, alcuni snodi cruciali, come il mistero della conoscenza o la coscienza, fenomeno indecifrabile e massimamente letterario che nell’Opera trova ampio spazio. L’indagine su due figure fondamentali del mito, Edipo e la Sfinge, è servita a far luce su alcune convinzioni di Calasso in merito alla natura simulativa del nostro conoscere, ossia al fatto che il soggetto di un qualsiasi processo conoscitivo si affida alle proprie rappresentazioni parziali della realtà illudendosi di poterla abbracciare nella sua interezza. Un importante capitolo di questa sezione analizza le modalità con cui la mente esplora il mondo e lo interpreta, cioè il dualismo fra analogico e digitale, uno dei cardini di tutta la costruzione calassiana. L’approfondimento sui modi della conoscenza conduce infine a una riflessione sul mito e sui suoi significati nell’Opera. La Terza parte affronta il grande tema del sacrificio, prima seguendo il filo delle riflessioni di Calasso sulle metamorfosi del sacro nel mondo moderno e contemporaneo, poi esaminando le ragioni di questo interesse per i riti e illustrando alcuni dei tanti significati che il sacrificio può assumere. Dalle considerazioni di Calasso su questo particolare gesto liturgico si possono desumere alcuni elementi centrali della sua estetica: esiste per lui un legame molto stretto fra l’abbandono dei riti e la fisionomia della letteratura moderna. L’ultima parte propone un’interpretazione globale della complessa architettura dell’Opera. Ho provato a ricostruire la poetica calassiana usando come punto di partenza il saggio del 1992 La follia che viene dalle Ninfe, incentrato sui temi della possessione e della manía divina. Ho quindi esplorato i significati di due immagini che compaiono ricorsivamente nei libri di Calasso, quella della foresta e quella del serpente, che sembrano esprimere con pari intensità alcune caratteristiche della letteratura assoluta. Per finire, non potevo esimermi dal mettere in rilievo la componente religiosa che contraddistingue l’idea di letteratura assoluta. È una religiosità, beninteso, che non ha nulla di confessionale. Come spero di mostrare nelle ultime pagine di questo lavoro, si tratta piuttosto di una professione di fedeltà a un’idea, altissima, dello stile. C’è in Calasso la convinzione che la letteratura sia una forma suprema di conoscenza, un valore, uno spazio mentale di comunione e compartecipazione con qualcosa che ci appartiene ma al tempo stesso ci sopravanza. In questa convinzione risiedono il senso profondo dell’Opera di Calasso e il fascino che essa esercita sul lettore. Letteratura assoluta: Tavola delle abbreviazioni Tavola delle abbreviazioni IF L’impuro folle, Adelphi, Milano 1974. RK La rovina di Kasch, Adelphi, Milano 1983. NCA Le nozze di Cadmo e Armonia, nuova edizione accresciuta e illustrata, Adelphi, Milano 1991. QG I quarantanove gradini, Adelphi, Milano 1991. Ka Ka, Adelphi, Milano 1996. LD La letteratura e gli dèi, Adelphi, Milano 2001. CLS Cento lettere a uno sconosciuto, Adelphi, Milano 2003. FVN La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi, Milano 2005. K K., nuova edizione accresciuta e illustrata, Adelphi, Milano 2005. RT Il rosa Tiepolo, Adelphi, Milano 2006. FB La Folie Baudelaire, Adelphi, Milano 2008. NCA2009 Le nozze di Cadmo e Armonia, edizione illustrata fuori collana, Adelphi, Milano 2009. A L’ardore, Adelphi, Milano 2010. FB2012 La Folie Baudelaire, edizione illustrata fuori collana, Adelphi, Milano 2012. IE L’impronta dell’editore, Adelphi, Milano 2013. CC Il Cacciatore Celeste, Adelphi, Milano 2016. IA L’innominabile attuale, Adelphi, Milano 2017. LTL Il libro di tutti i libri, Adelphi, Milano 2019. TD La Tavoletta dei Destini, Adelphi, Milano 2020. Letteratura assoluta: LETTERATURA ASSOLUTA LETTERATURA ASSOLUTA Letteratura assoluta: Note Note Premessa 1 Cfr. Roberto Calasso, L’impronta dell’editore, Adelphi, Milano 2013, pp. 13-76. 2 Iosif Brodskij, Dei nascosti nella folla, in “la Repubblica”, 11 aprile 1993. 3 Cfr. Angelo Guglielmi, Nella torre di Calasso, in “Tuttolibri”, XVI, 775, novembre 1991. 4 Cfr. Carlo Fruttero e Franco Lucentini, Calasso a Rai3?, in “Tuttolibri”, XVI, 776, novembre 1991. 5 Ibid. 6 Cfr. Mirella Serri, Scrittore, sei attuale?, in “Tuttolibri”, XVI, 778, novembre 1991. 7 Sergio Quinzio, Non abbiamo più guide per essere attuali, in “Tuttolibri”, XVI, 779, dicembre 1991. 8 Gianni Vattimo, Si confonde nichilismo con nostalgia, in “Tuttolibri”, XVI, 779, dicembre 1991. 9 R. Calasso, Aut Kraus aut Coca-Cola, in “Tuttolibri”, XVI, 781, dicembre 1991. 10 Ibid. 11 Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia. Considerazioni inattuali I-III, tr. it. di Mazzino Montinari e Sossio Giametta, in Id., Opere, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. III, t. 1, Adelphi, Milano 1972, p. 261. 12 La letteratura sullo scrittore delle Nozze di Cadmo e Armonia si limita alle recensioni uscite sui principali quotidiani o a saggi di breve respiro, come quello di Maria Di Salvatore, pubblicato nel 2010: Maria Di Salvatore, Letteratura e storia ne “La rovina di Kasch” di Roberto Calasso, in “Italica”, vol. 87, 4, inverno 2010, pp. 637-645. 13 Le monografie attualmente pubblicate su Calasso sono due: Valentino Cecchetti, Roberto Calasso, Cadmo, Firenze 2006; e Bruno Cumbo, L’opera in corso di Roberto Calasso, Aracne, Ariccia 2015. Consultabile in rete è la tesi dottorale inedita: Lara Fiorani, Deconstructing Mythology: A reading of “Le nozze di Cadmo e Armonia”, UCL 2009, consultabile all’indirizzo http://discovery.ucl.ac.uk/18522/ (visitato il 9 dicembre 2017). 14 R. Calasso, I quarantanove gradini, Adelphi, Milano 1991, p. 26. 15 Cfr. Id., L’innominabile attuale, Adelphi, Milano 2017, p. 14. Prima parte Il libro unico e la letteratura assoluta 1 Roberto Calasso, Baudelaire, il riso viene dal diavolo, in “Corriere della Sera”, 10 dicembre 2012. 2 George Steiner, Una certa idea di Europa, tr. it. di Oliviero Ponte Di Pino, Garzanti, Milano 2010. 3 Carlotta Niccolini, Calasso: “La Parigi di Baudelaire esiste ancora”, in “Corriere della Sera”, 1 marzo 2009. 4 Il titolo del capitolo è Sul gusto. Cfr. RK, p. 120. 5 Charles Baudelaire, La scuola pagana, in Id., Saggi critici, a cura di Cinzia Bigliosi, Pendragon, Bologna 2014, pp. 28-33, in particolare p. 30. 6 Ivi, p. 31. 7 Ivi, p. 32. 8 Cfr. Italo Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano 1993. Si veda in particolare la quarta lezione, Visibilità, pp. 89-110. 9 Ezra Pound, Guide to Kulchur, New Direction, New York 1970, p. 299. 10 Martin Heidegger, La poesia di Hölderlin, a cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann, tr. it. di Leonardo Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p. 77. 11 Cfr. Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, nota introduttiva di Giorgio Colli, versione di Sossio Giametta, Adelphi, Milano 2007, pp. 151-156. 12 Friedrich Hölderlin, Pane e vino. A Heinse (prima stesura), in Id., Poesie scelte, a cura di Susanna Mati, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 175-189, v. 112. 13 Giorgio Manganelli, Letteratura come menzogna, Adelphi, Milano 1985, p. 219. 14 Gottfried Benn, Lo smalto sul nulla, tr. it. di Luciano zagari, Adelphi, Milano 1992, p. 277. 15 Cfr. Stéphane Mallarmé, La musica e le lettere, tr. it. di Valerio Magrelli, in Id., Poesia e prosa, tr. it. di Massimo Cescon, Maurizio Cucchi, Valerio Magrelli, Cosimo Ortesta, Giuseppe Pontiggia, Giancarlo Quiriconi e Giovanni Raboni, Guanda, Milano 1982, pp. 415-459. 16 Walter Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, tr. it. di Claudio Colaiacomo, Renato Solmi, Anna Marietti Solmi, Antonella Moscati, Giorgio Agamben, Einaudi, Torino 1982, p. 82. 17 Ibid. 18 Similmente si veda in G. Benn, op. cit., p. 279: “La forma è appunto la poesia”. 19 Traduzione di Roberto Calasso: LD, p. 118. 20 L’espressione è qui utilizzata nell’accezione di Charles Mauron, Dalle metafore ossessive al mito personale, tr. it. di Mario Picchi, Garzanti, Milano 1976. 21 A tal proposito rimando anche alla lettura di James Hillman, La vana fuga dagli dèi, tr. it. di Adriana Bottini, Adelphi, Milano 1991. La conformazione della mente umana e le sue possibilità di espressione sono uno degli argomenti essenziali dell’Opera e vi ho dedicato la Seconda parte di questo libro. 22 F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Id., Opere, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. III, t. 2, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e scritti dal 1870 al 1873, versione di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1973, pp. 353-372, in particolare p. 361. 23 Cfr. Lila Azam zanganeh, Roberto Calasso, The Art of Fiction No. 217, in “The Paris Review”, 102, autunno 2012, pp. 109-142. 24 Benedetto Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1964, p. 263. 25 Rolando Damiani, La letteratura esiste da sola, in “Il Gazzettino”, 28 febbraio 2001. 26 G. Benn, op. cit., p. 33. 27 Larry Shiner, L’invenzione dell’arte, tr. it. di Nicola Prinetti, Einaudi, Torino 2010, p. 253. 28 Ibid. 29 Cfr. Heinrich Heine, La Germania. La scuola romantica. Per la storia della religione e della filosofia in Germania, tr. it. di Paolo Chiarini, Laterza, Bari 1972, pp. 84-85. 30 Cfr. FB, p. 58: “Era la prima età dei ‘prostituti dell’intelligenza’, come definiva se stesso il creolo Privat d’Anglemont, sotto il nome del quale, proteggendosi con un equivoco scudo, Baudelaire avrebbe pubblicato alcune delle sue prime poesie”. 31 G. Benn, op. cit., p. 272. 32 A tal proposito si veda il capitolo dedicato ai “libri unici” in IE, pp. 13-76. 33 Calasso cita da Théophile Gautier, Souvenirs romantiques, Garnier, Paris 1929, p. 267. 34 Critico nei confronti dell’opera calassiana è, per esempio, Alfonso Berardinelli, che dedica al direttore di Adelphi un lungo paragrafo nel suo Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione, Quodlibet, Macerata 2007, pp. 185-223, in particolare pp. 216-223. L’accusa di snobismo è venuta anche da altri fronti: cfr. per esempio Simone Regazzoni, Così, nel nome di Nietzsche, l’Italia scoprì lo snobismo editoriale, in “la Repubblica”, 19 settembre 2003; Gianni Vattimo, Snob, apocalittico, ma terribilmente attuale, in “l’Espresso”, 10 ottobre 2002. 35 A. Berardinelli, Cactus, L’Ancora, Napoli 2001, pp. 46-47. 36 A tal proposito si veda la dichiarazione rilasciata a Lila Azam zanganeh: “Tutti i miei libri hanno a che fare con la possessione. Ebbrezza, rapimento, è una parola connessa alla possessione. In greco la parola è manía, follia. Per Platone era la via principale alla conoscenza. Per noi è diventata la strada principale per il manicomio. Perciò vedi che da Schreber alla Folie Baudelaire, il tema attraversa la mia opera. Anche nel mio ultimo libro, L’ardore, naturalmente. I Veda avevano sviluppato le più affascinanti e complesse teorie e riti sul soma, una misteriosa pianta che provocava il rapimento”: L. Azam zanganeh, art. cit., p. 126 (traduzione mia). 37 G. Benn, op. cit., p. 298. 38 Dichiarazione contenuta nella già citata intervista di L. Azam zanganeh, art. cit., p. 127 (traduzione mia). 39 Calasso ha più volte definito le pubblicazioni di Adelphi come scaglie di un unico grande serpente (cfr. IE, p. 13). Sull’argomento tornerò nella Quarta parte, cap. 2. 40 Si vedano, per esempio, le motivazioni del conferimento della laurea honoris causa in Lingue e letterature moderne dell’Università di Perugia, consultabili online al sito http://www.unipg.it/files/pagine/274/libretto_calasso_x_rettore.pdf (visitato il 20 maggio 2020). Va in questo senso anche il commento di una critica americana: Andrea Lee, Roberto Calasso’s Encyclopedic Mind at Play, in “The New Yorker”, 13 dicembre 2012. Salman Rushdie, infine, ha definito Calasso “straordinario talento transculturale”, “monumento vivente al valore delle peregrinazioni interculturali”, a dimostrazione dell’apprezzamento della sua opera editoriale, ma anche della vastità sterminata di ambiti del sapere di cui i suoi volumi si occupano. Cfr. Salman Rushdie, Ecco gli scrittori che mi hanno influenzato, in “la Repubblica”, 10 marzo 1999. 41 Antonio Gnoli, Veda, il potere dell’invisibile, in “la Repubblica”, 13 ottobre 2010. 42 Così lo definisce l’autore stesso in Così sarà il mio Baudelaire, in “Corriere della Sera”, 13 marzo 2008. 43 I. Calvino, Roberto Calasso, “La rovina di Kasch”, in Id., Saggi, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 1995, pp. 1016-1022, in particolare p. 1016. 44 Ibid. 45 R. Calasso, Lì dove è nato l’Oriente c’è il segreto di noi moderni, in “la Repubblica”, 19 febbraio 2002. 46 Valentino Cecchetti, Roberto Calasso, Cadmo, Firenze 2006, p. 99. 47 La storia è contenuta in Atlantis; è stata poi raccolta in un volume adelphiano a cui rimando: Leo Frobenius, La leggenda della rovina di Kasch (Napht), in Id., Fiabe del Kordofan, tr. it. di Umberto Colla, Adelphi, Milano 1997, pp. 23-34. 48 Le osservazioni di seguito riportate sulle Nozze di Cadmo e Armonia devono molto alla lettura di Robert Shorrock, The Artful Mythographer: Roberto Calasso and “The Marriage of Cadmus and Harmony”, in “Arion”, III serie, vol. 11, 2, autunno 2003, pp. 83-99. 49 Ivi, p. 92. 50 Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia, tr. it. di Vanda Tedeschi, vol. I, Gli dèi, Garzanti, Milano 1976. 51 Allo stesso modo ritengo che la possibilità di studiare scientificamente il mito sia piuttosto lontana dalla forma mentis calassiana. Sull’argomento, cfr. Seconda parte, cap. 6. 52 Cfr. quanto dichiarato nella già citata intervista di L. Azam zanganeh, art. cit., p. 136: “Se vuoi trovare qualche barlume su due parole fondamentali come coscienza e mente, devi cercare in questi testi” (traduzione mia). 53 Cfr. R. Calasso, Figli di un dio indiano, in “l’Espresso”, 3 ottobre 1996. 54 Così Calasso in IE, p. 15: “Se, in parallelo all’idea di libro unico, si dovesse parlare di un autore unico per il Novecento, un nome si imporrebbe subito: quello di Kafka”. 55 Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987, pp. 98-99. 56 “Oh questi Greci! Loro sì sapevano vivere; per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie, all’increspatura, alla scorza, adorare l’apparenza, credere a forme, suoni, parole, all’intero Olimpo dell’apparenza! Questi Greci erano superficiali – per profondità! E non facciamo appunto ritorno a essi, noi temerari dello spirito, noi che ci siamo arrampicati sul più alto e rischioso culmine del pensiero contemporaneo, noi che di lassù abbiamo rivolto gli sguardi in basso? Non siamo esattamente in questo – dei Greci? Adoratori delle forme, dei suoni, delle parole? Appunto perciò… artisti?”. F. Nietzsche, La gaia scienza e Frammenti postumi (1881-1882), a cura di Ferruccio Masini e Mazzino Montinari, in Id., Opere, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. V, t. 2, con la collaborazione di Sossio Giametta e Maria L. Pampaloni, Adelphi, Milano 1965, pp. 19-20. 57 Cfr. L. Azam zanganeh, art. cit., p. 130. 58 Di questa opinione è Pietro Citati, come si evince da Id., Il mondo che vedeva Baudelaire, in “Corriere della Sera”, 30 ottobre 2008. 59 L’immagine è contenuta anche in RK, p. 185 e Ka, p. 262. 60 Tale era anche per Platone: cfr. Repubblica 432b e Fedro 66a-c. 61 Cfr. RK, pp. 191; pp. 276-278. 62 Cfr. RK, pp. 257-258; il riferimento al Mar Rosso è in RK, pp. 204 e 258; quello a Giobbe è in RK, p. 214. 63 Cfr. Gianfranco Ravasi, E la Bibbia si fece storia, in “Il Sole 24 Ore”, 24 novembre 2019. 64 “Così, libro dopo libro, il libro di tutti i libri potrebbe mostrarci che ci è stato dato perché tentiamo di entrarvi come in un secondo mondo e lì ci smarriamo, ci illuminiamo e ci perfezioniamo”: è una citazione dal West-östlicher Divan goethiano che Calasso sceglie come epigrafe al testo, ma vale per lui anche come strategia di lettura: lo afferma in LTL, p. 94. 65 Cfr. R. Calasso, La Bibbia secondo il signor Ka, in “Robinson – la Repubblica”, 19 ottobre 2019. 66 La citazione è tratta dall’edizione tedesca delle opere di Kafka: Franz Kafka, Briefe 1902-1924, in Gesammelte Werke, a cura di Max Brod, S. Fischer, Frankfurt a.M. 1958, p. 334 (Lettera di F. Kafka a R. Klopstock del giugno 1921). 67 Il riferimento scritturale è a 1Re 8,27. 68 Mario Bortolotto, Dove sono finiti i princìpi dell’89? Come leggere gli enigmi filosofici di Calasso, in “L’Europeo”, 28 maggio 1983. Dello stesso avviso è lo scrittore americano André Aciman, che descrive il volume dell’83 come “un libro difficile, digressivo, arcano, estenuante, apparentemente privo di senso, forse completamente privo di senso, racconto sconclusionato che gira vertiginosamente su se stesso fatto di frammenti sparpagliati cuciti insieme a innumerevoli citazioni e fait divers”; cfr. André Aciman, The Writer In His Labyrinth, in “The New Republic”, 26 giugno 1995 (traduzione mia). 69 V. Cecchetti, op. cit., p. 223. 70 Cfr. L. Azam zanganeh, art. cit., p. 127. 71 Cfr. R. Calasso, Nota sui lettori di Schreber, in Daniel Paul Schreber, Memorie di un malato di nervi, tr. it. di Federico Scardanelli e Sabina de Waal, Adelphi, Milano 1974. Ora in QG, pp. 207-242. Sulla vicenda editoriale: Elisabetta Rasy, Calasso: dov’è la forza dei libri, in “La Stampa”, 21 maggio 1992. 72 Lucette Finas, Un roman qui raconte la véritable histoire du Président Schreber, in “La Quinzaine Littéraire”, 16-31 maggio 1976 (traduzione mia). 73 “Mi sono stabilita in Sion” è una citazione da Sir 24,10. 74 Lc 9,58. 75 Edoardo Sanguineti, Cauto omaggio a Debenedetti, in “Aut-Aut”, VI, 31, gennaio 1956, pp. 61-68, poi in Id., Tra liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano 1961, pp. 183-193. 76 L. Azam zanganeh, art. cit., p. 127; ma cfr. anche R. Calasso, Figli di un dio indiano, cit. 77 L. Azam zanganeh, art. cit., p. 130. 78 F. Nietzsche, Lettere a Erwin Rohde, tr. it. di Mazzino Montinari, Boringhieri, Torino 1959, pp. 265-266. 79 Cfr. E. Rasy, Calasso: dov’è la forza dei libri, cit. 80 Wendy Doniger, The Ancient Postmoderns, in “The New Republic”, 7 dicembre 1998. La stessa immagine si ritrova nello Supar ṇādhyāya. 81 Alberto Manguel, Mnemonic waves, in “Times Literary Supplement”, 13 settembre 2002 (traduzione mia). 82 Il significato delle immagini all’interno dei volumi, sia come apparato paratestuale sia nel testo vero e proprio, è tale da meritare un approfondimento specifico, che riservo al prossimo capitolo. 83 Pietro Citati, Un libro che divora i libri e la storia, in “Corriere della Sera”, 13 maggio 1983. 84 La citazione è di Léon Bloy (da L’âme de Napoléon). 85 Cfr. W. Doniger, The Ancient Postmoderns, cit.: “Riesce anche a inserire nella narrazione l’autoconsapevolezza del testo, proprio come facevano le sue fonti indiane” (traduzione mia). 86 A. Manguel, Mnemonic waves, cit. 87 Cfr. per Buddha, per esempio, RK, p. 189; Ka, pp. 424-425. Sull’argomento tornerò nella Terza parte. 88 Cfr. CC, p. 201. 89 Cfr. RK, p. 13. 90 Michael McDonald, Sacred egoist, consultabile in rete: http://www.drb.ie/essays/sacred-egoist (visitato il 20 maggio 2020). A. Aciman, The Writer In His Labyrinth, cit.: “Con Calasso, non si sa mai se si ha a che fare con rottami intellettuali o con gemme preziose recuperate da una qualche scoperta archeologica. E lo stesso problema si ha con il suo libro. Mescola Filosofia Orientale e Occidentale con la maliziosa e semplificativa agilità di uno che viaggia dalla prima antichità alla tarda modernità senza nemmeno regolare il proprio orologio”; o Emma Hogan, La Folie Baudelaire by Roberto Calasso, in “Financial Times”, 16 novembre 2012: “La sua descrizione del sogno di Baudelaire si può applicare anche al suo stile critico: ‘C’è qualcosa di altamente erudito e folle al contempo in tutto ciò’” (traduzioni mie). 91 Sunil Khilnani, The First Syllable, in “The New York Times Book Review”, 8 novembre 1998 (traduzione mia). 92 R. Calasso, La Bibbia secondo il signor Ka, cit. 93 I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 53. 94 John T. Kirby, Secrets of the Muses Retold, The University of Chicago Press, London 2000, p. 106. 95 S. Rushdie, In defense of the novel, yet again, in “The New Yorker”, 24 giugno-1 luglio 1996 (traduzione mia). 96 La forte componente aforistica della scrittura calassiana non è passata inosservata: cfr. P. Citati, Un libro che divora i libri e la storia, cit. 97 Mario Andrea Rigoni, Autoritratto di un aforista, in Teoria e storia dell’aforisma, a cura di Gino Ruozzi, Mondadori, Milano 2004, pp. 145-148, in particolare pp. 146-147. 98 Parte di questo capitolo è stata pubblicata, in una versione rimaneggiata, in un articolo dal titolo Immagini e iconolatria nell’“opera in corso” di Roberto Calasso, in “Ermeneutica letteraria”, XVI, 2020, pp. 67-75. 99 Michele Smargiassi, Tiepolo, nuvole e serpenti, in “la Repubblica”, 18 maggio 2007. 100 Cfr. Ṛg Veda X. 129. 101 A. Gnoli, Quando il mito creò l’immagine. Le nuove “nozze” di Calasso, in “l’Espresso”, 13 ottobre 2009. 102 Cfr. I. Calvino, Visibilità, in Id., Lezioni americane, cit., pp. 89-110. 103 A. Gnoli, Quando il mito creò l’immagine, cit. 104 RT, p. 22. La citazione di Manganelli viene da un articolo uscito su “L’Espresso colore” del 26 settembre 1971. 105 Cfr. Ch. Baudelaire, Lettere, vol. I, a cura di Guido Neri, traduzioni di Michele Canosa, Nicola Muschitiello, Aldo Pasquali, Gabriella Passalacqua, Laura Xella, Cappelli, Bologna 1980, p. 482. 106 P. Citati, Il mondo che vedeva Baudelaire, cit. 107 R. Damiani, Fra le strade di Parigi per decifrare il mistero-Baudelaire, in “Il Gazzettino”, 5 novembre 2008. 108 I disegni di K. sono tratti da: Franz Kafka, Einmal ein grosser Zeichner. Franz Kafka als bildener Künstler, a cura di Niels Bokhove e Marijke van Dorst, Vitalis, Praga 2006. 109 Pierluigi Pietricola, Il mitico Tiepolo di Calasso. Un esempio di ecfrasi “à rebours”, in “Ut pictura poesis”. Intersezioni di Arte e Letteratura, a cura di Pietro Taravacci ed Enrica Cancelliere, Università degli Studi di Trento, Dipartimento di Lettere e Filosofia, Trento 2016, pp. 299-310, in particolare p. 309. 110 Cfr. Hugo von Hofmannsthal, Il libro degli amici, tr. it. di Gabriella Bemporad, Adelphi, Milano 1980, p. 56. 111 Ai suoi miti cinematografici ha dedicato un paio di articoli. Cfr. Il teatro di posa della mente in FV, pp. 51-64 e Il guanto di Gilda, pp. 65-70. 112 Cfr. Ch. Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo: razzi, igiene, titoli e spunti per romanzi e racconti, a cura di Diana Grange Fiori, Adelphi, Milano 1983, p. 71. 113 Ivi, p. 11. 114 Cfr. Giorgio Agamben, Ninfe, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 115 Marc Fumaroli, “Le Rose Tiepolo”, de Roberto Calasso: dernier bal des dieux dans la Venise du XVIII e siècle, in “Le Monde”, 22 ottobre 2009. 116 Pierluigi Panza, L’enigma Tiepolo, in “Corriere della Sera”, 25 febbraio 2007. 117 Lo ha notato già Maria Di Salvatore, Letteratura e storia ne “La rovina di Kasch” di Calasso, in “Italica”, vol. 87, 4, inverno 2010, pp. 637-645, in particolare p. 637. 118 Guido Ceronetti, Fra le rovine di Casch [sic]. Gnosi e storia nell’ultimo libro di Calasso, in “La Stampa”, 11 agosto 1983. 119 Richard Cobb, Reazioni alla Rivoluzione francese, tr. it. di Bruno Focosi, Adelphi, Milano 1990. 120 Cfr. ivi, pp. 15-17. 121 Ivi, p. 13. 122 Ivi, p. 5. 123 Ivi, p. 17. 124 Cfr. M. Di Salvatore, art. cit., p. 637. 125 Charles-Augustin de Sainte-Beuve, Port-Royal, a cura di Mario Richter, 2 voll., Einaudi, Torino 2011. 126 F. Nietzsche, Idilli di Messina, in La Gaia Scienza…, cit., pp. 201-202. 127 Id., Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, tr. it. di Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1968, p. 192. 128 Cfr. Lara Fiorani, Deconstructing Mythology: A reading of “Le nozze di Cadmo e Armonia”, Doctoral Thesis, UCL 2009, p. 133. Consultabile online: http://discovery.ucl.ac.uk/18522/ (visitato il 20 maggio 2020). 129 Cfr. Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 86. Citazione tratta da Andrew Ross (a cura di), Universal Abandon? The Politics of Postmodernism, University of Minnesota Press, Minneapolis 1988, p. 6. 130 R. Ceserani, op. cit., p. 88. 131 Cfr. sull’argomento: Roberto Esposito, Anacronismi, in “Filosofia politica”, fasc. 1, aprile 2017, pp. 13-24. 132 Ivi, p. 14. 133 Ivi, pp. 22-23. La citazione è tratta da F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, tr. it. di Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1972, p. 261. 134 Cfr. R. Esposito, Anacronismi, cit., p. 21, ma soprattutto Georges Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, tr. it. di Stefano Chiodi, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Seconda parte Fra la mente e l’universo 1 Così almeno la intende Calasso. Cfr. Roberto Calasso, Figli di un dio indiano, in “l’Espresso”, 3 ottobre 1996. 2 Cfr. Stella Pende, Amori e guerre al tempo di Shiva, in “Panorama”, 3 ottobre 1996. 3 Stephanie W. Jamison, Joel P. Brereton (a cura di), The Rigveda. The Earliest Religious Poetry of India, vol. III, Oxford University Press, New York 2014, pp. 1608-1609 (traduzione mia). 4 Giuliano Boccali, Stefano Piano e Saverio Siani, Le letterature dell’India, Utet, Torino 2000, p. 54. 5 Cfr. Anthony Kenny, The Metaphysics of Mind, Oxford University Press, New York 1989, p. VII; Pietro Perconti, Coscienza, il Mulino, Bologna 2011, p. 65. 6 Citato in QG, p. 38. Cfr. Friedrich Nietzsche, Idilli di Messina, La gaia scienza e Frammenti postumi (1881-1882), in Id., Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, con la collaborazione di S. Giametta e M.L. Pampaloni, Adelphi, Milano 1965. Frammento [184], autunno 1880. 7 Cfr. QG, p. 35. 8 Plotino, Enneadi, a cura di Giovanni Reale, tr. it. di Roberto Radice, Mondadori, Milano 2008, p. 1074. 9 Émile Bréhier, La filosofia di Plotino, tr. it. di M. Miglioli, Celuc, Milano 1976. 10 Guido Ceronetti, Fra le rovine di Casch [sic]. Gnosi e storia nell’ultimo libro di Calasso, in “La Stampa”, 11 agosto 1983. 11 Cfr. Henri-Charles Puech, Plotino e gli Gnostici, in Id., Sulle tracce della Gnosi, a cura di Francesco zambon, Adelphi, Milano 1985, pp. 115-143. Giuliano Chiapparini, Anticosmismo e precosmismo negli gnostikoi del II e III secolo. A proposito del paradigma ermeneutico di H. Jonas, in “Annali di scienze religiose”, 9 (2004), pp. 325-371. 12 Cfr. Plotino, op. cit., p. 1072. 13 Aldo Magris, Plotino, Mursia, Milano 1986. 14 Cfr. Emanuele Coccia, La trasparenza delle immagini. Averroè e l’averroismo, Mondadori, Milano 2005, p. 144. 15 Simone Weil, La persona e il sacro, a cura di Maria Concetta Sala, Adelphi, Milano 2012, p. 17. 16 E. Coccia, op. cit., p. 156. 17 Ivi, p. 167. 18 Cfr. Prima parte, cap. 2; per un approfondimento della questione, cfr. Quarta parte, cap. 1. 19 G. Boccali, S. Piano e S. Siani, op. cit., p. 8. 20 Cfr. Friedrich Hölderlin, Note all’“Edipo” e all’“Antigone”, in Id., Scritti di estetica, a cura di Riccardo Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 139. 21 Cfr. F. Nietzsche, Idilli di Messina, La gaia scienza e Frammenti postumi, cit. 22 F. Hölderlin, op. cit., p. 140. 23 Cfr. Giorgio Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 2011, p. 160. 24 Cfr. ibid. 25 Ivi, p. 163. 26 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, nota introduttiva di Giorgio Colli, versione di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 1968 e 1977. 27 Umberto Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1984, p. 52. 28 Ivi, p. 54. 29 Ivi, p. 53. 30 U. Eco, Sulla letteratura, Bompiani, Milano 2002, p. 159. 31 Cfr. U. Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, cit., pp. 229-231. 32 U. Eco, Sulla letteratura, cit., p. 159. 33 Ivi, p. 168. 34 Ivi, p. 169. 35 Ibid. 36 Cfr. U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990. 37 Ivi, p. 326. 38 Ivi, p. 327. 39 Cfr. Michel Foucault, Le parole e le cose, tr. it. di Emilio Panaitescu, Rizzoli, Milano 2020, p. 327. 40 Cfr. Enzo Turolla, Il naturalista e la macchina di Dioniso, in “Lettere italiane”, vol. 19, n. 4, ottobre-dicembre 1967, pp. 476-483, in particolare p. 480. 41 Paolo Virno, E così via all’infinito. Logica e antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 13. 42 Cfr. la puntata di Eco della storia: http://www.raiscuola.rai.it/articoli/eco-della-storia-incontra-roberto-calasso/33951/default.aspx (visitato il 20 maggio 2020). 43 Ernst Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale, tr. it. di Alessandro Dal Lago e Pier Aldo Rovatti, Feltrinelli, Milano 1983, p. 303. 44 Paolo zellini, Passeggiata con i numeri sulla soglia del mistero, in “la Repubblica”, 2 aprile 2017. 45 Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, tr. it. di Girolamo Mancuso, Feltrinelli, Milano 2015, p. 69. 46 P. zellini, La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini, Adelphi, Milano 2016. 47 Questo capitolo riprende in parte un articolo che ho pubblicato su “Ermeneutica Letteraria”: cfr. Elena Sbrojavacca, Immagini e iconolatria nell’“opera in corso” di Roberto Calasso, in “Ermeneutica Letteraria”, XVI, 2020, pp. 67-75. 48 Cfr. Lila Azam zanganeh, Roberto Calasso, The Art of Fiction, in “The Paris Review”, 102, autunno 2012, pp. 109-142, in particolare p. 116. 49 Questa breve ricognizione deve molto al saggio di Nigel J.T. Thomas, Mental Imagery, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, consultabile all’indirizzo http//:plato.standford.edu/archives/sum2016/entries/mental-imagery (visitato il 20 maggio 2020). 50 Ivi, p. 17. 51 Cfr. ivi, p. 33. 52 Ivi, p. 53. 53 Ivi, p. 149. 54 Sullo stesso sogno ha scritto Michel Butor, Una storia straordinaria. Saggio su un sogno di Baudelaire, tr. it. di Salvatore Stefanoni, SE, Milano 2014. 55 Cfr. Charles Baudelaire, Lettere, a cura di Guido Neri, tr. it. di Michele Canosa, Nicola Muschitiello, Aldo Pasquali, Gabriella Passalacqua, Laura Xella, Cappelli, Bologna 1980, vol. I, p. 482. 56 Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 1993, pp. 8-9. 57 Giorgio Manganelli, Quanto sei lenta Sparta, in “il Messaggero”, 24 ottobre 1988. 58 La traduzione è di Calasso; cfr. Platone, Fedone, 114d. 59 Cfr. Prima parte, capp. 2 e 3. 60 Thomas Stearns Eliot, Ulysses, Order, and Myth, in Id., Selected Prose of T.S. Eliot, a cura di Frank Kermode, Faber and Faber, London 1975, pp. 175-178. 61 Fabio Dei, Il mito in Frazer e nelle poetiche del modernismo, in Giovanni Leghissa ed Enrico Manera (a cura di), Filosofie del mito nel Novecento, Carocci, Roma 2015, pp. 71-80, in particolare p. 78. 62 Max Horkheimer e Theodor Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, p. 6. 63 G. Leghissa ed E. Manera (a cura di), op. cit., p. 28. 64 Mircea Eliade, Mito e realtà, tr. it. di Giovanni Cantoni, Borla, Roma 1993, p. 191. 65 Sul riuso del materiale mitico nella tradizione europea, cfr. Davide Susanetti, Favole antiche. Mito greco e tradizione letteraria europea, Carocci, Roma 2005. 66 Mario Baudino, Calasso. In India con gli dèi, in “La Stampa”, 27 settembre 1996. 67 Dario Del Corno, Com’erano inquieti quegli Olimpici, in “Corriere della Sera”, 16 novembre 1988. 68 Cfr. James Hillman, La vana fuga dagli Dei, tr. it. di Adriana Bottini, Adelphi, Milano 1995, p. 93. 69 Ivi, p. 58. 70 Ivi, p. 28. 71 Ivi, p. 65. Cfr., per una trattazione approfondita, la Quarta parte. 72 Cfr. Stefano Marucci (a cura di), Immagini mentali. Teorie e processi, NIS, Roma 1995. Terza parte Dal cosmo alla cosmesi 1 Pier Luigi Vercesi, Borges recitava alla luna, Simenon si fidava di Fellini e Vienna tornò capitale. Così l’Italia capì che la cultura aveva ancora molto da scoprire, in “Sette”, n. 50, 13 dicembre 2013, pp. 36-42. 2 Ef 6,12. 3 Utilizzo e utilizzerò sempre questo termine nel senso più ampio possibile, come ciò che è “connesso con la presenza o con le manifestazioni della divinità”. Questa è una delle prime definizioni del termine secondo il GDLI: cfr. Salvatore Battaglia e Giorgio Bárberi Squarotti (a cura di), Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino 1961-2017. Nella Rovina di Kasch Freud viene descritto come qualcuno che “aveva la peculiarità di ricapitolare in ciascuno dei suoi tremori tutta la cronaca occidentale” (RK, p. 242). 4 Cfr. Sigmund Freud, Il perturbante, in Id., L’Io e l’Es e altri scritti. 1917-1923, in Id., Opere complete, a cura di Cesare L. Musatti, vol. 9, Bollati Boringhieri, Milano 1989, pp. 77-118, p. 99: “Chi non fosse solidamente corazzato contro le tentazioni della superstizione si sentirebbe incline ad attribuire a questo ostinato ritorno del medesimo numero un significato misterioso, a vedervi magari un segno dell’età che gli sarà consentito di raggiungere”. 5 Ibid. 6 La già citata ricorrenza di un numero, e in particolar modo del numero 62, è per esempio il frutto di una reale ossessione di Freud, che era convinto di dover morire sulla soglia dei sessantadue anni. 7 Cfr. IF, p. 76. Anche l’episodio dell’Impuro folle riprende lo spunto di un racconto junghiano: “A Brema capitò l’incidente dello svenimento di Freud, del quale si è tanto discusso. Fu indirettamente provocato da me, per il mio interesse per i ‘cadaveri delle paludi’. Sapevo che in certe regioni della Germania settentrionale si trovavano questi cosiddetti ‘cadaveri delle paludi’: sono corpi di uomini preistorici che, o annegarono nelle paludi, o vi furono seppelliti. L’acqua degli acquitrini nella quale giacciono i corpi contiene acidi dell’humus, che consumano le ossa e nello stesso tempo conciano la pelle, sì che questa e i capelli sono conservati perfettamente. Sostanzialmente si tratta di un processo di mummificazione naturale, nel corso del quale i corpi sono schiacciati sino ad appiattirsi sotto il peso della torba. Tali resti vengono occasionalmente ritrovati da scavatori di torba nello Holstein, in Danimarca e in Svezia. Avendo letto di questi cadaveri di palude, me ne ricordai quando eravamo a Brema ma, essendo un poco frastornato, li confusi con le mummie delle cantine di piombo della città. Questo mio interesse diede sui nervi a Freud. Più volte mi chiese: ‘Perché ci tenete tanto a questi cadaveri?’. Si arrabbiò esageratamente, e a tavola, mentre conversavamo sull’argomento, improvvisamente svenne. In seguito mi disse di essere convinto che tutto questo chiacchierare di cadaveri significava che io avevo desideri di morte nei suoi riguardi. Fui più che sbalordito dalla sua interpretazione: ero allarmato specialmente per l’intensità delle sue fantasie, tanto forti che potevano, come era evidente, causargli uno svenimento”: Carl Gustav Jung, Sogni, ricordi, riflessioni. Raccolti ed editi da Aniela Jaffé, tr. it. di Guido Russo, Rizzoli, Milano 2014, pp. 197-198. 8 Ivi, p. 191. 9 Ibid. 10 S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica. Tre saggi (1934-1938), in Id., L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti. 1930-1938, in Id., Opere complete, cit., vol. 11, pp. 330-455, in particolare p. 439. 11 Calasso mette peraltro in rilievo il fatto che Freud dichiari di aver preso l’immagine dell’orda primordiale da Darwin, e in particolare dal suo L’origine dell’uomo e la selezione sessuale; nell’opera di Darwin, tuttavia, tale riferimento è assente. Cfr. LTL, pp. 326-328. 12 Roberto Bazlen, Scritti, a cura di Roberto Calasso, Adelphi, Milano 1984, p. 260. 13 S. Freud, Il disagio della civiltà, in Id., Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti: 1924-1929, in Id., Opere complete, cit., vol. 10, 1978, pp. 553-630, in particolare p. 558. 14 Cfr. RK, p. 258 e LTL, p. 313. La citazione è tratta da S. Freud, Introduzione alla psicanalisi (nuova serie di lezioni), in Id., L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti, cit., pp. 115-284, in particolare p. 190. 15 Fra XIX e XX secolo, gli olandesi avviarono un grande progetto per la creazione di polder, prosciugando, attraverso la costruzione di dighe e sistemi di drenaggio, un golfo all’interno del paese (lo zuiderzee, appunto). 16 Cfr. Friedrich Nietzsche, La gaia scienza e Frammenti postumi (1881-1882), a cura di Ferruccio Masini e Mazzino Montinari, in Id., Opere, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. V, t. 2, con la collaborazione di Sossio Giametta e Maria L. Pampaloni, Adelphi, Milano 1965, p. 201. 17 Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, tr. it. di Giuseppe Dierna [Antonio Barbato], Adelphi, Milano 1985, p. 16. 18 Gen 14,20. 19 Cfr. 1Sam 9,1-10,16. 20 Cfr. Rolf Rendtorff, Introduzione all’Antico Testamento. Storia, vita sociale e letteratura d’Israele in epoca biblica, tr. it. di Daniele Garrone, Claudiana, Torino 2008, p. 52. 21 Sull’argomento cfr. anche Giorgio Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995 e 2005. Nella Rovina di Kasch Schmitt è citato esplicitamente per la sua teoria del partigiano e per le sue riflessioni sulla guerra e sull’individuazione della justa causa belli: cfr. RK, p. 391 e Carl Schmitt, Il nomos della terra, tr. it. di Emanuele Castrucci, Adelphi, Milano 1991; Carl Schmitt, Teoria del partigiano. Integrazione al concetto del politico, tr. it. di Antonio de Martinis, Adelphi, Milano 2005. 22 La citazione è tratta da Roger Caillois, Naissance de Lucifer, Fata Morgana, Montpellier 1992, p. 115. La traduzione è quella di Roberto Esposito, La comunità della perdita: l’impolitico di Georges Bataille, in Georges Bataille, La congiura sacra, con un saggio introduttivo di Roberto Esposito e un dossier a cura di Marina Galletti, tr. it. di Fabrizio Di Stefano e Riccardo Garbetta, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. XX. 23 Italo Calvino, Roberto Calasso, “La rovina di Kasch”, in Id., Saggi, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 1995, pp. 1016-1022, in particolare p. 1018. 24 Roberto Calasso, Lì dove è nato l’Oriente c’è il segreto di noi moderni, in “la Repubblica”, 19 febbraio 2002. 25 I. Calvino, Roberto Calasso…, cit., p. 1017. 26 R. Calasso, Lì dove è nato l’Oriente…, cit. 27 Cito da un discorso che Roberto Calasso ha letto il 5 giugno 2014 in occasione delle Conférences René Girard al Centro Pompidou a Parigi e il 6 novembre dello stesso anno alle René Girard Lectures all’Università di Stanford. La versione italiana di questo discorso mi è stata gentilmente concessa dall’autore. Il testo è stato pubblicato solo all’estero: in spagnolo: R. Calasso, La última superstición, in “Letras Libres”, 214, ottobre 2016, pp. 26-31; e in inglese con traduzione di Richard Dixon: R. Calasso, The last superstition, in “Res: Anthropology and aesthetics”, 65-66, 2014-2015, pp. 403-407. Tale discorso è stato in parte inserito in IA, pp. 24-33. 28 Platone, Repubblica, 493c. 29 Cfr. Simone Weil, La rivelazione greca, a cura di Maria Concetta Sala e Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 2014. 30 Cfr. Ead., Attesa di Dio, a cura di Maria Concetta Sala, con un saggio di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 2014, p. 7. 31 Cfr. Alain Jaubert, Entretien avec Roberto Calasso, in “L’infini”, autunno 1987, pp. 9-18. La traduzione italiana del passo, di Elisa Ranucci, è in Valentino Cecchetti, Roberto Calasso, Cadmo, Firenze 2006, p. 223. 32 R. Calasso, Th.W. Adorno, il surrealismo e il mana, in “Paragone”, 138, 1961, pp. 9-24, p. 15. 33 Per un inquadramento generale cfr. John Day, Asherah in the Hebrew Bible and Northwest Semitic Literature, in “Journal of Biblical Literature”, vol. 105, n. 3, settembre 1986, pp. 385-408. 34 Deut 16,21-22. 35 Gen 1,7. 36 Es 14,16. 37 Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, tr. it. di Gianni Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27, p. 5. 38 Cfr. Franz Boas, L’organizzazione sociale e le società segrete degli indiani kwakiutl, tr. it. di Christina Scarmato, Cisu, Roma 2001. 39 Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, tr. it. di Leonardo Amoroso, con un saggio di Roberto Calasso, Adelphi, Milano 1979. 40 Ivi, p. 12. 41 Platone, Leggi, 739d. 42 Su questo aspetto, rimando anche alle riflessioni di Georges Bataille ne La congiura sacra e al commento di Roberto Esposito nell’introduzione all’edizione italiana: cfr. R. Esposito, La comunità della perdita…, cit., p. XII. 43 Rolando Damiani, Scritture nei cieli, in Id., Nuovi mondi, nuove stelle, Guerini e Associati, Milano 1987, pp. 111-113, in particolare p. 112. 44 Così anche per Italo Calvino: cfr. I. Calvino, Roberto Calasso…, cit., p. 1019. 45 Cfr. Maria Di Salvatore, Letteratura e storia ne “La rovina di Kasch” di Roberto Calasso, in “Italica”, vol. 87, 4, inverno 2010, pp. 637-645, in particolare p. 638. 46 Gv 11,50. 47 Walter Burkert, Origini selvagge. Sacrificio e mito nella Grecia arcaica, tr. it. di Maria Rosaria Falivene, Laterza, Roma 1992, p. 25. 48 Calasso prendeva a titolo di esempio Christopher A. Faraone e F.S. Naiden (a cura di), Greek and Roman Animal Sacrifice. Ancient Victims, Modern Observers, Cambridge University Press, New York 2012. 49 Cfr. Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, La cucina del sacrificio in terra greca, tr. it. di Carla Casagrande e Giulia Sissa, Boringhieri, Torino 1982. 50 Sylvain Lévi, La dottrina del sacrificio nei Br āhmaṇa, tr. it. di Silvia D’Intino, Adelphi, Milano 2009, p. 42. 51 R. Calasso, La foresta dei Br āhmaṇa, in S. Lévi, op. cit., pp. 11-29, p. 27. 52 Cfr. R. Calasso, Figli di un dio indiano, in “l’Espresso”, 3 ottobre 1996. 53 Charles Malamoud, Cuocere il mondo. Rito e pensiero nell’India antica, tr. it. di Antonella Comba, Adelphi, Milano 1994, p. 49. 54 W. Burkert, Homo necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, tr. it. di Francesco Bertolini, Boringhieri, Torino 1981, p. 23. 55 Ivi, p. 31. 56 Cfr. W. Burkert, Homo necans, cit., p. 29. 57 Gen 10,8-9. 58 Cfr. C. Malamoud, Cuocere il mondo, cit., p. 129. 59 G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 2011, pp. 188-189. 60 Su questo argomento cfr. Osservazioni sul concetto di “resto” di Charles Malamoud in Cuocere il mondo, cit., pp. 19-39. 61 “Śeṣa era anche śeṣa, il ‘residuo’ che si incontra ogni giorno: i resti dei cibi, i resti dei conti, i resti delle azioni, che sussistono ancora quando delle azioni si è consumato il frutto, nella terra e nel cielo. Da quel resto si sviluppava la nuova vita. Il nuovo era un grumo vecchissimo, restio a dissolversi. Ubiqui sono i resti. Ovunque accerchiano. Decisivo è come si trattano: eliminarli? coltivarli? A volte contaminano, a volte esaltano. ‘Sul residuo sono fondati il nome e la forma, sul residuo è fondato il mondo.’ Non solo il mondo è fondato sul residuo, ma il mondo è il primo dei residui. Distaccato da un qualcosa di immensamente più vasto, che non tollerava, nella sua sovrabbondanza, di rimanere integro. ‘Questo è il mondo’ pensarono i ṛṣi” (Ka, p. 460). 62 Mt 12,7. 63 Os 6,6. 64 Mt 12,6. 65 Cfr. René Girard, Il sacrificio, tr. it. di Claudio Tarditi, Raffaello Cortina, Milano 2004 e Id., La violenza e il sacro, a cura di Ottavio Fatica ed Eva Czerkl, Adelphi, Milano 1980. 66 R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 374. 67 W. Burkert, Origini selvagge, cit., p. 24. 68 Cristiano Grottanelli, Il sacrificio, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 57. 69 R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 348. 70 C. Malamoud, Cuocere il mondo, cit., p. 70. 71 Johannes Cornelis Heesterman, Il mondo spezzato del sacrificio. Studio sul rituale dell’India antica, tr. it. di Vincenzo Vergiani, Adelphi, Milano 2007, p. 326. 72 Ivi, p. 327. 73 Ivi, p. 330. 74 Ivi, p. 328. 75 C. Grottanelli, Il sacrificio, cit., p. 92: “Quel passaggio non è comprensibile come pura desacralizzazione del concetto: il termine non ha infatti mai perduto un suo intrinseco connotato sacrale. Per comprendere il valore del sacrificio nel nostro secolo, bisogna dunque occuparsi delle tendenze che hanno rivendicato per quel gesto rituale una paradossale ‘sacralità’, in linea con la ‘diaspora del sacro’ che caratterizza la fase più avanzata della modernità – o, come altri amano dire, il ‘postmoderno’”. 76 R. Calasso, La foresta dei Br āhmaṇa, cit., p. 19. 77 Cfr. R. Calasso, La foresta dei Br āhmaṇa, cit., p. 22 e S. Lévi, La dottrina del sacrificio, cit., p. 41. 78 I. Calvino, Roberto Calasso…, cit., p. 1020. 79 Sulle implicazioni religiose della dimensione narrativa, rimando a Manfredi Bortoluzzi, Dalla caduta al deicidio: mito, sacrificio e letteratura, in “DADA. Rivista di Antropologia post-globale”, 1, giugno 2013, pp. 53-69, in particolare p. 55. 80 Es 24,8. 81 2Re 22,8-10. 82 La questione del legame fra il Deuteronomio e l’episodio raccontato dal libro dei Re è controversa e i biblisti vi si accapigliano da secoli. Il racconto di Calasso si pone sulla scia dell’identificazione fra i due “libri della Legge”. 83 Per un’analisi approfondita del valore “sacrale” della lettura e dell’immagine del mondo come libro rimando a Hans Blumenberg, La leggibilità del mondo, il Mulino, Bologna 1984. 84 Frances A. Yates, Cabbala e occultismo nell’età elisabettiana, tr. it. di Santina Mobiglia, Einaudi, Torino 2002. 85 Maurice Blanchot, La conversazione infinita. Scritti sull’insensato gioco di scrivere, Introduzione di Giovanni Bottiroli, tr. it. di Roberta Ferrara, Einaudi, Torino 2015, p. 515. 86 W. Burkert, Homo necans, cit., p. 186. 87 La citazione è da Opere e giorni, 42. 88 W. Burkert, Homo necans, cit., p. 190. 89 Sull’argomento cfr. F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, tr. it. di Renzo Pecchioli, Laterza, Roma-Bari 1969. 90 R. Calasso, Figli di un dio indiano, cit. 91 M. Kundera, L’arte del romanzo, tr. it. di Ena Marchi, Adelphi, Milano 1988, pp. 222-223. 92 R. Calasso, Pubblicazione permanente e sporadicamente visibile, in “Adelphiana 1963-2013”, 2013, pp. 22-25, in particolare p. 23. 93 Paolo Rossi, Clavis Universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli 1960. 94 Cfr. la Premessa gnoseologica in Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Introduzione di Giulio Schiavoni, tr. it. di Flavio Cuniberto, Einaudi, Torino 1999: “Ai sistemi filosofici inerisce un esoterismo di cui non possono liberarsi, che è loro proibito dissimulare, e che tuttavia li condannerebbe se mai lo portassero in piena luce” (pp. 3-4) e ancora: “La verità non è un disvelamento che distrugga il mistero, bensì una rivelazione che gli rende giustizia” (p. 7). 95 Per questo paragrafo cfr. Michel Foucault, Follia e discorso. Archivio Foucault 1. Interventi, colloqui, interviste, a cura di Judith Revel, tr. it. di Gioia Costa, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 262-286. 96 Ivi, p. 271. 97 La citazione viene da Theodor W. Adorno, Minima Moralia, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1951, p. 428; la traduzione è di Calasso: RK, p. 203. 98 Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, tr. it. di Sossio Giametta, in Id., Opere, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. VIII, t. 3, Adelphi, Milano 1974, p. 289. 99 Sono riflessioni che in parte traggo dalla lettura di M. Blanchot, Lo spazio letterario, con un saggio di Jean Pfeiffer e una nota di Guido Neri, tr. it. di Gabriella zanobetti, Einaudi, Torino 1967. 100 M. Kundera, L’arte del romanzo, cit., pp. 221-222. 101 Guillaume Apollinaire, I pittori cubisti. Con una lettera di Picasso sull’arte, a cura di Giorgio Peri, Le Tre Venezie, Padova 1945, p. 17. 102 M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit., p. 207. 103 G. Agamben, Il fuoco e il racconto, Nottetempo, Roma 2014, p. 116. 104 Ne trovo notizia in C. Grottanelli, Il sacrificio, cit., p. 56. 105 1Re 3,9. 106 1Re 4,33. 107 1Re 11,4: “Quando Salomone fu vecchio, le sue donne l’attirarono verso dèi stranieri e il suo cuore non restò più tutto con il Signore suo Dio come il cuore di Davide suo padre”. Quarta parte Mistica della forma 1 Cfr. Joseph E. Fontenrose, Python. A Study of Delphic Myth and its Origins, Biblo & Tannen, New York 1974 e Norman Douglas, Old Calabria, Cosimo, New York 2007. 2 Cfr. Platone, Simposio, 180b. 3 Cfr. Porfirio, L’antro delle Ninfe, introduzione, traduzione e commento a cura di Laura Simonini, Adelphi, Milano 1986, p. 47. 4 Cfr. Platone, Fedro, a cura di Giovanni Reale, testo critico di John Burnet, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Roma 1998. 5 Ivi, 238d: “Non ti meravigliare quindi se, procedendo nel discorso, io sarò spesso invasato dalle Ninfe: non sono lontane dai ditirambi le parole che io ora proferisco”. 6 Ivi, 244a. 7 Ivi, 244d. 8 Friedrich Hölderlin, Patmos. Al langravio di Homburg (Prima stesura), in Id., Poesie scelte, a cura di Susanna Mati, Feltrinelli, Milano 2010, p. 205, vv. 1-4. 9 Cfr. NCA, p. 313: “Si entra nel mito quando si entra nel rischio, e il mito è l’incanto che in quel momento riusciamo a far agire in noi. Più che una credenza, è un vincolo magico che ci stringe”. 10 James Hillman, La vana fuga dagli dèi, tr. it. di Adriana Bottini, Adelphi, Milano 1995, p. 13. 11 Ivi, p. 14. 12 Ivi, p. 63. 13 Ivi, p. 65. 14 Ivi, p. 24. 15 Ivi, p. 58. 16 Ivi, p. 32. 17 Ibid. 18 Roberto Calasso, L’eterno ritorno del mito, in “Corriere della Sera”, 13 ottobre 2009. 19 Sul significato della Ninfa in Warburg rimando anche alla lettura di Giorgio Agamben, Ninfe, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 20 Aby Warburg, Mnemosyne. Atlante delle immagini, a cura di Martin Warnke con la collaborazione di Claudia Brink, ed. ital. a cura di Maurizio Ghelardi, Aragno, Torino 2002, p. 40. 21 Cfr. Daniela Sacco, Ninfa e Gradiva: dalla percezione individuale alla memoria storica sovrapersonale, in “Cahiers d’études italiennes” [online], n. 23, a. 2016 (consultato il 20 maggio 2020): http://cei.revues.org/3080. 22 Cfr. Ludwig Binswanger, Aby Warburg, La guarigione infinita. Storia clinica di Aby Warburg, a cura di Davide Stimilli, tr. it. di Chantal Marazia e Davide Stimilli, Neri Pozza, Vicenza 2015. 23 Cfr. A. Warburg, Il rituale del serpente, tr. it. di Gianni Carchia e Flavio Cuniberto, Adelphi, Milano 1998. 24 Citato in FVN, p. 47 e in LD, p. 38. 25 Parte di questo capitolo è stata pubblicata, nella traduzione di Alex Andriesse, in Elena Sbrojavacca, The Forest and the Snake, “Review of Contemporary Fiction”, vol. XXXV, n. 3, autunno 2015, pp. 72-91. 26 Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni. 1899, in Id., Opere complete, a cura di Cesare L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1966, vol. 3, p. 414. 27 “Ora, ogni dubbio svaniva con l’intervento delle ‘ninfe’ sullo sfondo della ‘fitta foresta’. Una vera e propria geografia sessuale simbolica! Per ‘ninfe’ – termine ignoto ai profani e poco usato dagli stessi medici – s’intendono infatti le piccole labbra situate sul fondo della ‘spessa foresta’ del pelo pubico”: cfr. S. Freud, Frammento di un’analisi d’isteria. Caso clinico di Dora, in Id., Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti. 1900-1905, in Id., Opere complete, a cura di C.L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1970, vol. 4, pp. 299-424, in particolare p. 383. 28 Cfr. Oscar Botto, Letterature antiche dell’India, Casa Editrice Dr. Francesco Vallardi - Società Editrice Libraria, Milano 1969, p. 37. 29 Per l’importanza della foresta nella letteratura rimando anche a Piero Boitani, La foresta, in Franco Moretti (a cura di), Il romanzo. Temi, luoghi, eroi, Einaudi, Torino 2003, vol. IV, pp. 449-463. 30 Mt 10,16. 31 Cfr. Eco della storia incontra Roberto Calasso, puntata del 16 luglio 2016. Consultabile online: http://www.raiscuola.rai.it/articoli/eco-della-storia-incontra-roberto-calasso/33951/default.aspx (visitato il 20 maggio 2020). 32 Cfr. NCA, p. 228. 33 Mario Piantelli, Il simbolismo dei n āga, in Bestie o dei? L’animale nel simbolismo religioso, a cura di Alessandro Bongioanni ed Enrico Comba, Ananke, Torino 1996, pp. 123-135, in particolare p. 128. 34 Cfr. IF, p. 108. 35 Gen 3,6. 36 Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy, L’absolu littéraire. Théorie de la littérature du romantisme allemand, Seuil, Paris 1978. 37 Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987. I puntini di sospensione sono del testo. 38 R. Calasso, L’eterno ritorno del mito, cit. 39 Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, tr. it. di Girolamo Mancuso, Feltrinelli, Milano 2015, p. 69. 40 C. Campo, op. cit., p. 81. 41 Dario Sabbatucci, Politeismo, Bulzoni, Roma 1998, vol. I (Mesopotamia, Roma, Grecia, Egitto), p. 276. Poscritto La veglia perfetta 1 Nel Cacciatore Celeste era anche già contenuta una splendida definizione del divino che Utnapishtim affida a Sindbad e che torna, identica, nella Tavoletta dei Destini: “Tutti gli dèi che hai incontrato e che incontrerai, ovunque, di là da tutti i mari, sono fatti della stessa sostanza. C’è una grande matassa lucente che rotola e continuamente si lascia dietro qualche pezzo. E quei pezzi sono altre matasse lucenti, che continuano a rotolare e a loro volta si lasciano dietro altre più piccole matasse lucenti. Questa è la vita degli dèi”. Cfr. CC, p. 397 e TD, p. 137. 2 Emanuele Trevi, Un atto di fede nelle storie, in “la Lettura – Corriere della Sera”, 22 novembre 2020. 3 Cfr. IA, p. 16: “Perché il caso è più ampio dei significati”. 4 Cfr. Terza parte, cap. 1. 5 Cfr. Gn 11,31. 6 Cfr. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, tr. it. di Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1968, pp. 181-186. 7 Ivi, p. 182. 8 Ivi, p. 184 9 Ivi, p. 227. 10 Cfr. ivi, pp. 185-186. 11 Cfr. Prima parte, cap. 2.8 e Seconda parte, cap. 1.2. 12 Cfr. Seconda parte, cap. 3.2 e Quarta parte, cap. 2. 13 NCA, pp. 315-316 e cfr. Parte prima, cap. 3.4. Letteratura assoluta: Prima parte. Il libro unico e la letteratura assoluta Prima parte IL LIBRO UNICO E LA LETTERATURA ASSOLUTA Letteratura assoluta: Seconda parte. Fra la mente e l’universo Seconda parte FRA LA MENTE E L’UNIVERSO Letteratura assoluta: Terza parte. Dal cosmo alla cosmesi Terza parte DAL COSMO ALLA COSMESI Letteratura assoluta: Quarta parte. Mistica della forma Quarta parte MISTICA DELLA FORMA Letteratura assoluta: Frontespizio Elena Sbrojavacca Letteratura assoluta Le opere e il pensiero di Roberto Calasso Letteratura assoluta - Indice INDICE Premessa Attualità e inattualità dell’opera di Calasso Orientarsi nell’Opera Tavola delle abbreviazioni Prima parte. Il libro unico e la letteratura assoluta 1. Gli dèi, ospiti fuggevoli della letteratura 1.1 Un accesso laterale all’Opera: “La letteratura e gli dèi” 1.2 Il ritorno degli dèi nella poesia moderna 1.3 Gli dèi sono colori emotivi 1.4 Il mito dei moderni: il progresso 1.5 La parodia infinita di Lautréamont 1.6 Tastiere mentali 1.7 La forma come valore 1.8 Il metro è il “giogo” della parola 1.9 La letteratura come sapere 1.10 Un sapere liquido e misterioso 1.11 Brivido nuovo 1.12 Il divino e la letteratura 2. L’Opera 2.1 Il libro unico 2.2 “La rovina di Kasch” (1983) 2.3 “Le nozze di Cadmo e Armonia” (1988) 2.4 “Ka” (1996) 2.5 “K.” (2002) 2.6 “Il rosa Tiepolo” (2006) 2.7 “La Folie Baudelaire” (2008) 2.8 “L’ardore” (2010) 2.9 “Il Cacciatore Celeste” (2016) 2.10 “L’innominabile attuale” (2017) 2.11 “Il libro di tutti i libri” (2019) 2.12 Un tempio per la contraddizione 2.13 “La Tavoletta dei Destini” (2020) 3. Lo stile è una danza 3.1 Né romanzi né saggi 3.2 Un racconto con pause di riflessione 3.3 Ai margini del testo 3.4 L’autoconsapevolezza del testo 3.5 Scelte formali e ambiguità 3.6 Enciclopedismo e passione aforistica 4. Alla ricerca di uno sguardo sommario 4.1 Le immagini hanno una natura e una storia 4.2 Illustrazioni e simulacri 4.3 Il primo esperimento con le immagini: “L’impuro folle” 4.4 Il dialogo fra testo e immagini nel “Rosa Tiepolo“ e nella “Folie Baudelaire” 4.5 I due volumi fuori collana 4.6 L’influenza di Aby Warburg 5. Carmen solutum 5.1 Il legame fra storia e letteratura 5.2 La storia e i suoi simboli 5.3 Per una storiografia anacronistica Seconda parte. Fra la mente e l’universo 1. Il predominio della mente 1.1 La questione da cui tutto parte: la natura della mente 1.2 La mente e il mondo esterno 1.3 Soggetto e simulazione 1.4 Plotino e l’invenzione dell’interiorità 2. Il risveglio della coscienza 2.1 Il pensiero come spazio della commistione 2.2 Vedere e riconoscere 3. Edipo e la Sfinge 3.1 Lo spalancarsi dell’enigma 3.2 La Sfinge e la potenza del simbolico 3.3 Il problema del segno, o delle interpretazioni infinite 4. Analogico e digitale 4.1 Due poli sempre in azione 4.2 I sistemi formali 4.3 Continuo e discreto 5. Immagini mentali 5.1 Una lunga questione irrisolta 5.2 Il rapporto fra immagini e continuo 5.3 Simulacri e letteratura 6. Un vincolo magico 6.1 Le insidie del mito 6.2 Il mito come metodo espositivo 6.3 Mito e letteratura 6.4 Una bussola per navigare la mente Terza parte. Dal cosmo alla cosmesi 1. La storia sperimenta 1.1 Un tempo “privo di presagi” 1.2 Freud e il sentimento oceanico 1.3 La nostalgia di un passato indefinito e perduto 1.4 Tempo ciclico e perdita di senso della storia 1.5 Potere e legittimità 1.6 L’esoterismo coatto del mondo moderno 1.7 Società sperimentale 1.8 La separazione dalla natura e la questione della tecnica 1.9 Dal moderno all’“innominabile attuale” 2. Residuo ed espulsione 2.1. Il sacrificio come unica realtà 2.2 La caccia e il sacrificio 2.3 Il sovrappiù 2.4 Ordine, Legge, diritto 2.5 Il rinunciante 2.6 La sopravvivenza del sacrificio nel mondo contemporaneo 3. L’arte come ultimo vestigio sacrificale 3.1 Dai riti alle storie 3.2 La letteratura e i Misteri 3.3 Emanciparsi dal pericolo della verità 3.4 Port-Royal e la sua congrega di solitari 3.5 L’immolazione dello scrittore 3.6 Dal sacro al libro e ritorno Quarta parte. Mistica della forma 1. Rapiti dalle Ninfe 1.1 Inganni apollinei 1.2 Nell’occhio del drago 1.3 Simulacri pericolosi 1.4 Dalla clinica universale alla letteratura 1.5 Aby Warburg e la Ninfa del Ghirlandaio 2. La foresta e il serpente 3. Una scienza esatta Poscritto. La veglia perfetta 1. Un dialogo ininterrotto 2. Caso, Destino e Necessità 3. Risvegli 4. Scrivere dopo il Diluvio Note Ringraziamenti