Alessandro Piperno Una selva oscura e una camera da letto Poche cose s ono fuorvianti e noiose come le mode Ietterarie. Se non altro perché di solito chi le propugna, cosi come chi vi aderisce fideisticamente, sembra dimenticare ehe la letteratura offre spazí assai angusti e piuttosto relativi all'invenzione asso-luta. In ambito letterario, non esistono primizie disancorate dalla tradizione. Di fatto, siamo tutti epigoni. O, per dirla con Marco Aurelio: «Nulla viene dal nulla», Ecco perché rimango sempře perplesso quando sento alcuni amici accademici, per non dire dei colleghi scrittori, sdilinquirsi sulla cosiddetta ego-Fiction, un genere letterario la cui teorizzazione sembra giungere con qualche millennio di ritardo rispetto alia prassi. Mettere in scena se stessi - con tanto di generalita - in un contesto piú o meno realisti co ein maniera piú o meno plausibile ě un antico vizio degli scritto-ri. Si tratta di un esercizio di impudicizia ehe dai lirici greci e latini, passando attraverso Agostino, Montaigne, Cellini, Casanova, Chateaubriand, Stendhal e tanti altri ancora giunge a noi, prendendo forma nei libri di Saul Bellow e Philip Roth senza soluzione di continuitä. Peccato ehe serivere di sé in modo adeguato richieda una Una selva oscura e una camera da letto sapienza artistica (teenica), una sinceritä e un senso morale knpressionanti. Pochi lo hanno fatto meglio di Dante e Proust. Utt'intuizione di Contini Ricordo ancora quando, piú o meno una vita fa, ancora studente, m'ŕmbattei nel saggio in cui Gianfranco Contini, con ľimbarazzo del filologo e ľ au dacia del letterato di grido, paragona Dante Alighieri e Marcel Proust, Allora non potevo certo sapere quanto, nel corso degli anni, un raffronto cosi bislacco avrebbe assunto per me il valore di una rivelazione. Occorre dire ehe Contini, nella smania di assimilare il suo Dante "personaggio-poeta" al non meno ambiguo Narratore proustiano, per prima cosa mette le mani avanti. Marcel Proust, voglio dire, serve da metafora per un discorso non dei tutto elementare su Dante. [...]. II piú grande serittore dei nostri tempi mi sembra dawero proporzionato al compito ehe gli viene attribuito {Un'idea di Dante, p. 33). Come si vede, riducendo Proust a metafora (un ruolo, dopo-tutto, non spregevole), Contini tiene a bada ľimbarazzo, e allo stesso tempo mette in guardia se stesso (e il lettore) dalla palude in cui rischia di impantanarsi. Ha senso, si chiede, mettere sullo stesso piano il massimo poeta del Medioevo e il campione del modernismo novecente-sco? A chi giova affiancare due giganti cosi sideralmente distan-ti: nel tempo, nella lingua, nello stile, nella forma espressiva, nel genere adottato, nelle concezioni filosofiche, nelle finalitä artistiche, nel temperamente? Che te ne fai di paragoni del 104 105 Alessandro Piperno genere? A prenderli troppo seriamente, in modo pedissequo, non rischi di dare un'idea generica, e un tantino retorica, del genio artistico? Insomma, smerciando siffatti raffronti, non corri il pericolo di suggerire al profano ľidea che i sommi scrittori si somigliano un po' tuttí? A scanso di equivoci, nelľaccingermi a raccogliere la sfida lanciata da Contini, lasciatemi dire che la sola cosa che condivido con lui ě ľimbarazzo. Per il resto non ho la sua cultura, né dispongo delľautorevolezza per dare conto di un duello cosi titanico. Inoltre, benché abbia trascorso la parte migliore della mia vita accademica a leggere Proust - al p unto da poter esibire la sempre piú gualcíta coccarda dello specialista - ě evidente che le mie nozioni dantesche sono decisamente meno salde di quanto non fossero le competenze proustiane di Contini. Resta comunque il fatto che il saggio di Contini ha influen-zato i miei primi lavori eruditi in modo determinante. Non a caso, il capitolo che apriva la mia giovanile indagine prou-stiana siintitolava: "Un nuovo inferno". In esso, partendo da una suggestione di George Steiner, enfatizzando gli aspetti nichilisti della Recherebe, immaginavo il Narratore come una sorta di novello Dante alle prese con ľinferno della mondanitä parigina. Insomma, m'impegnai in quella che alľepoca, nel pedante birignao accademico, si sarebbe chiamata: una lettura dantesca della Recherche proustiana. Da allora non sono mancati Studiosi che si sono eimentati nel rapporto tra Dante e Proust, soprattutto in ambito fran-cesistico. Si tratta perlopiu di lavori accademici che mirano a definire il perimetro delľinfluenza dantesca su Proust (assai angusto, a dire il vero), il grado delle conoscenze proustiane dell'opera di Dante (non troppo profonde, a quanto pare) e Unci selva oscura e una camera da letto le affinitä strutturali che assimilano la Commedia alla Recherche (qui le cose si complicano). Insomma, eccellenti indagmi accademiche che, forse, proprio in virtü di questo e date le circostanze, non fanno al caso mio. Sapere quante volte Proust cita Dante nelľepistolario o nella Recherche ha un interesse relativo, e ben poco aggiunge alla comprensione di Dante e alla fruizione di Proust. Comunque, se proprio tenete a saperlo, nella Recherche, le citazioni dantesche sono cinque, e, come é stato notato, nessuna dawero memorabile. Ma ripeto, non mi pare questo il punto. E allora qual é? Dante e Marcel: personaggi a confronto Ii punto é che ancora oggi ľintuizione di Contini conserva una veritä tutta da esplorare. A proposito di autobiografia, lui ravvede una corrispondenza tra la prima persona singulare adottata dal Poeta della Commedia e quella altrettanto controversa del Narratore della Recherche. Partendo dalla fondamentale indagine di Charles S. Singleton, Contini rivela come neíľio dantesco «convergano l'uomo in generale, sog-getto del vivere e delľagire, e ľindividuo storico, titolare di un'esperienza determinata hic et nunc, in un certo spazio e in un certo tempo; Io trascendentale (conla maiuscola), diremmo oggi, e "io" (con la minuscola) esistenziale». Ebbene, nota ancora Contini, qualcosa di non troppo diver-so si puö dire del Narratore proustiano. A cominciare dalla coincidenza onomastica: se il protagonista della Commedia si chiama Dante, ľeroe della Recherche si chiama Marcel. E tuttavia, né ľuno né ľaltro sono sovrapponibili agli omonimi autori che h hanno inventati. Quanto sia preziosa tale intuizione 106 107 Alessandro Piperno Una selva oscura e una camera da leito lo dimostrano i succosi frutti che ha saputo produrre. Valga per tutti l'esempio del bellissimo L'io e il mondo di Marco Santagata (il Mulino, 2011) in cui si da conto della doppia natura del narratore dantesco: la scissione tra personaggio ; agente (agens) e personaggio narrante {auctor). «Piu che di personaggio Dante.» scrive Santagata «forse sarebbe meglio parlare di arcipersonaggio, cioe di un'identita che altre volte : pud presentarsi come diretta proiezione dell'autore e altre ancora rimanere un'istanza autobiografica senza corpo strut- ; turato. Questa entita, che non coincide con l'autore ma che ne : tradisce la fisionomia, conduce a se, e quindi a un punto di vista \ unico, tutte le scritture nelle qualt si manifesta, abolendo non \ solo le differenze di genere e di impianto discorsivo. ma anche . quelle primarie tra storia e invenzione, verita e menzogna.» ;; Se Dante non fosse citato e se non sapessi che a scriverne e Santagata, potret tranquillamente credere che il passo appena..; trascritto si riferisca a Proust. A questi due narratori, se mi e consentito farlo, ne aggiun-gerei un terzo, piu discreto forse, ma non meno influente.;;: Una presenza che fa capolino nei momenti piu emotivamente. drammatici della Commedia e della Recherche, e che agisce sul lettore con forza dirompente. Si tratta del Sapiente, 1'incrocio . tra un filosofo e un moralista che, partendo da conoscenze.;; acquisite e rielaborandole con strabiliante sagacia psicoiogica, \ riflette sulla condizione umana. In questo almeno assimilabili a Shakespeare, Dante e Proust sono fonti inesauribili di saggezza introspettiva. Pare proprio che per loro il cuore umano non abbia segreti. Sanno tutto quel che c'e da sapere suiramorey:: la nostalgia, 1'esilio, lo snobismo... Mi domando se non si a questo terzo narratore a conferire all'opera di entrambi quel senso di autenticita tragica. 108 A questo punto non serve soffermarsi sulFentita di una mirabile rivoluzione narratologica (chiamiamola pnre cosi), ma come essa sia determinante per definire i nessi tra 1'íspirazione artistica dantesca e quella proustiana, in tale setiso almeno, bizzarramente contigue. . Giocando sulle macro-somiglianze, salta subito agli occhi i eome la Commedia e la Recherche occupino, nelle rispet-tive letterature, un ruolo prominente, il posto ďonore di fari incontrastati. Autentiche šumme, in esse convergono i motivi di due tradizioni canoníche. La differenza (certo, non da poco) e che mentre Dante ě il capostipite, 1'invento.re, rimmaginifico per antonomasia, Proust ě íi maestro di ceri-monie, il liquidatore, il grande curatore testamentario. Del resto, sono pochi gli autoři immortali che abbiano saputo escrc.ii';!ix un fascino altrettanto esclusivo sugli specialisti e. allo stesso tempo, ispirare al lettore comune una fedeltá canina. In un certo senso, Dante e Proust hanno fondato religioni letterarie che non smettono di mietere martiri. Leggerli ě allo stesso tempo un piacere, una fatica e un atto devozionale. Ti sembra che dopo averli incontrati e assimilatí, niente potrá piů soddisfare le tue esigenze di pienezza. Allo stesso tempo ti sfuggono-. Le loro opere ; maggiorí sono scrigni gremíd di tesori nascosti. Superati gli intralci posti dalla lingua arcaica delhuno e dalla sint.assi impossibile delbaltro, li si pud approcciare con il piacere con cui leggiamo un feuilleton ottocentesco, e, allo stesso tempo, come dicevo, quali custodi di una sapienza umana definitiva. Del resto, sono accomunati da urťossessione per la mořte, in Dante espltcitata sin dal ptincipto, da Proust evocata con maggior círcospezione ma in modo non meno í-.struggeníenel lungo epilogo. In un certo senso, si pud dire 109 Alessandro Piperno Una selva oscura e una camera clu letto che en tram hi ci parlino dall'aldilä: postumi e proprio per questo irrimediabilmente attuali. Venendo al dato tematico e tentando di ridurlo all'osso, sia la Commedia sia la Recherche si presentano come viaggi, o per essere piu precisi, perigliosi pellegrinaggi alia conquista di un senso sancito da una vocazione esclusiva e irresistibile. Dimentichiamo per un attimo che, a fronte dell'approccio profano e cost cupamente ateo di Proust, ad animare Dante ci sia il sentimento religioso tipico di un uomo del Medioevo. Piü interessante rawisare come sia il Poeta sia il Narratore si prefiggano, sin dalle prime battute, di intraprendere un iter di salvezza, e che per farlo si affidino anima e corpo a una forma peculiare di misticismo artistico. Se la cosa per un uomo come Dante, un intellettuale del Trecento, non deve sorprendere -dopotutto gli esempi degni di emulazione non gli mancano, a cominciare da quelli offerti da Boezio e Sant'Agostino -, appare assai meno scontato riferirla a un dilettante fin de siecle come Proust. Senza tuttavia dimenticare che la sua passione per il Medioevo - favorita dalle mode del tempo e mediata dagli studi di John Ruskin - troverä nella Recherche svolgimenti inauditi. A ogni modo, per capire quanto malagevoli e accidentati siano i viaggi intrapresi dal personaggio-Dante e dal perso-naggio-Marcel, va considerato che la Commedia e la Recherche sono disseminate di indizi, allegorie, visioni, sogni, epifanie, profezie, false partenze: ciascuna delle quali e al servizio dell'ascesa vertiginosa verso lo sfavillante Empireo della con-sap evolezza morale. Via Crucis A questo punto, come non notáre che la Commedia inizia in un luogo famigerato su cui da secoli i commentaton non smettono di interrogarsi: la selva oscura. Come considerarla? Un pantano nevrotico? Una facile allegoria? Un incubo a occhi aperti? La descrizione realistica di un luogo fantastico? Mi guarderó bene dalFaggiungere la mia ínterpretazione a quelia di chiosatori piú attrezzati e illustri. Mi bašta ricordare come il poeta, prima di affrontare il viaggio neH'aldilá, si trovi intrappolato in un bosco tenebroso e inospitale, minacciato da animali feroci, in condizioni emotive che lambiscono la paranoia. Ossia, in un'impasse emotiva analoga a quelia in cui si clibatte 1'anima in pena che ci accoglie alFinizio di Comhray. La selva oscura del Narratore ě la camera da letto, molto probabilmente immersa in un buio tiepido e caliginoso. Ě in pieno dormiveglia, ossia, in vino stato psichico abbastanza vacillante e inaffidabile da alterare le leggi del Tempo, fin quasi a sowertirle. Se la coscienza e incapace di stabilire la differenza tra i vivi e i morti, i sensi si dibattono in una sfilza di impressioni tanto vivide quanto illuso-rie. Insomma, anche Marcel come Dante, si presenta al nostro cospetto in piena crisi di mezza etá, confuso e smarríto, vagolante tra un passato inafferrabile e un presente inaffidabile. Non sa in quale direzione muovere, da dave cominciare. Impiegherá quasi tremila pagine per raccapezzarsl, sbrogliando a fatica il bandolo di una matassa che piú intricata non potrebbe essere. Ció ha autorizzato diversi critici a parlare di itinerario cristo-logico. Per il Narratore salvarsi significa concepire il solo libro che si sente autorizzato a scrivere. Cosi il percorso proustíano assume la circolaritá del viaggio dantesco, in un certo senso ricalcandola, con esiti altrettanto palíngenetici. 110 111 Alessandro Piperno Um selva oscara e una camera da íetto II fallimento D'altronde, sin dagli esordi, a perseguitare entrambi ě l'idea di riscatto. La vita nova, cosi come I ptáčeti e i giorrii sono animati da urťesígenza piú o meno dissimulata di risarcí-mento, favorita da singolari, e per čerti versi analoghe, cir-costanze biografiche. Bencfié provengano da ambienti colti e príviiegiati, i due artisti, ancora imberbi, non si sentono sufficientemente apprezzati. Mentre Dante, da bravo stilno-vista, non fa che rivendicare il primato delia nobilta spirituále su queíla dinastica, Proust coltiva una passione morbosa per ľarístocrazia di sangue. In un certo senso, ě come se, ciascu-no a suo modo, avessero un conto in sospeso c on le origini e con lo spettro del fallimento in agguato. A guardarlí da una čerta distanza, viene da pensare ehe ľesilio inílitto a Dante per ragioni politích e trovi corrispondenza negli oltraggi dí: carattere mondano, razziale e sessuale che Proust pati per tutta la vita. Mi chiedo se cid non giustiŕichí, almeno in parte, ambizioni artistiche allo stesso tempo titaniche e cosi aspre a manifestarsi. La Commedia e la Recherche hanno soprattutto questo in comune. Sono le opere magniioquenti e assolute di artisti maturi ehe si affacciano suíla scéna letteraria del loro tempo in modo a tal punto deflagrante da stravolgere qualsiasi precedente paradigma estetice II che rende ancor piú arduo per noi interrogarsi sulla fonte primigenía delľispkazione che li guida. A tutťoggi, né i dantisti né i proustiani hanno saputo stabilire il momento esatto in cui questi capolavori universali hanno preso forma. Abbiarao le prove che Dante abbia seritto i primi canti Inferno giä a Firenze, poco prima delľesilio. Non sappiamo molto altro. In quanto a Proust, sebbene i filolog! si scervellino da un secolo, dífficile stabilire il momento esatto in cui il velleitario esperimento saggístíco-narrativo del Contro Sainte-Beuve cede il passo alia Recherche. D'altra parte, tanto per marcare le differenze, va notáto c he mentre le opere minori di Dante sono tali solo se paragonate alla Commedia, quelle di Proust aequistano interesse e valore soprattutto alla luce delia Recherche. Ma torniamo per un secondo alla selva oseura, se non vi spiace. La vedete? Ě li ehe tiene in scacco i .narratori di queste nosí re epopee. Un intoppo ehe contribuisce a esacerbare il mistero delia vocazione. A pensarci bene, non mi vengono in mente eroi letterari altrettanto ossessionati daíľelezione da cui si sentono investiti. Per non arrendersi ai mille imprevisti, si affidano a mentori illustrí e autorevoli. Sorvolando sugli incoraggiamenti ricevuti da Virgilio, Brunetto Latini, dalla stessa Beatrice, come non pensare al pistoiotto inflitto a Dante dal suo avo iilusrre nel celeberrimo XVII canto del Paradiso? Non solo, infatti, Cacciaguida gli preannuncia ľesilio, e tutte le mortificazioni e i paíimenti ehe dovrä sopportare, ma anche il riscatto rappresentato dalla stesura di un poema immortale. «Questo tuo grido fara come vento, / ehe íe piu alte cime piú percuote; / e ciô non fa ďonor poco argomento». Benché le guide a disposizione del Narratore non possano vantare lo stesso grado di lungimiratiza e santitä, risultano altrettanto indispensabili al suo percorso di salvezza. Si tratta perlopiú di artisti inventári: Bergotte, Berma, Elstir e, per interposta arte, la sublime muška di Venteuil. Anche se il vero Cacciaguida del Narratore, quello ehe gli promette sofferenze indícibili e la via per coníerire íoro un senso retrospettivo, e niente meno ehe Charles Swann. Da un punto di vista struttura-le, Swann puô essere accostato pero anche a Virgilio. Sebbene sprowísto di analogo genio letterario, Swann condivide con 112 113 Alessiinclro Piperno Virgilio l'errore. An che lui, a causa dell a sua indolenza, per non aver saputo dare fondo alle ambizioni artistiche, si trova intrappolato in una sorta di limbo. E ciö non di meno, proprio come Virgilio per Dante, Swann incarna la figura del fratello maggiore del cui esempio negativo il Narratore si awale per edificare la sua cattedrale. Swann conosce i tormenti della gelosia, i fasti della mondanitä, le frivolezze dello snobismo, l'amore esclusivo per 1'eleganza, il bello e le arti figurative. Ciö che gli manca e il coraggio, la disciplina, il senso morale per attendere a un'opera degna del suo ingegno. Se Virgilio e relegato all'inferno per cause di forza maggiore, Swann e dannato per colpa della sua mancanza di carattere. La musica dello stile Tra gli studi sullo stile di Dante che nel corso degli anni ho avuto modo di compulsare (non molti, a dire il vero), cjuello di Osip Mandel'stam, sebbene zeppo di errori marchiani, continua ad apparirmi il piü espressivo, decisamente migliore (tanto per opporgli un esempio illustre) delle note di Eliot, per certi versi faziose e troppo sbilanciate sulle convinzioni estetiche dell'esegeta. In un certo senso, come dantista, Eliol da il meglio di se nelle vesti di poeta. Sara che il modo di Mandel'stam di affrontare la poesia dantesca conforta una certa mia idea di ciö che dovrebbe essere la critica: un atto creativo ed emozionato. Comunque, Conversazione su Dante che Mandel'stam scrisse e rivide in condizioni materiali ed emotive parecchio dantesche e un ecceliente viatico per continuare questa indagine irta di diffi-coltä. In esso si da conto della vocazione pittorica della poesia i :- Um selva oscuni e una cameni da leito dantesca (per certi versi, impressionista, e quindi proustiana) l ] e di molte altre attitudini formali non meno singolari. Iis sS): Partirei da un assunto che mi pare pertinente. Gli scrittori I amati ci costringono per tutta la vita a ietture serrate. Quelli l dawero grandi non fanno che sfuggirci da ogni dove, e proprio ;' quando ci eravamo illusi di averli afferrati una volta per tutte. 1 A tal proposiio, Mandel stam scrive (e lasciate che lo citi nella l ; nuova traduzione di Serena Vitale): *............ Leggere Dante e una fatica senza fine: piü si avanza, piü la meta ; si allontana. Se la prima lettura causa soltanto un leggero affanno e una sana stanchezza, per continuare e bene munirsi di un paio I di indistruttibili scarponi chiodati svizzeri. Mi chiedo del tutto i seriamente: quante suole di cuoio - quante scarpe, quanti sandali - avrä consumato 1'Alighieri mentre si dedicava al suo lavoro , poetico vagando per l'Italia lungo scoscesi senden di capre? j Come dicevo, il monito implicito di Mandel'stam mi pare parecchio pertinente, A dispetto delle troppe demagogiche 1* : i Ietture pubbliche che ci sono State inflitte negli ultimi anni, : la Cornmedia continua a rappresentare un esercizio di lettura j che, per quanto gustoso appaia al primo assaggio, impegna le nostre facoltä fin quasi allo sfinimento. E non parlo, inten-' diamoci, del criptotesto frequentato dai critici piü esigenti ;J ;: e superciliosi: i Heina mi storici, filosofici, teologici che la j- . Cornmedia custodisce come una summa. Parlo di qualcosa di ' piü pedestre, materico: ossia, degli irti incagli cui ci espone la j <■■■ prosodia dantesca. Per il volenteroso lettore contemporaneo, ''I la sintassi e il lessico sono talmente complessi che, sebbene al ,. servizio di un quadro che piü vivido e realistico non potrebbe essere, risultano inafferrabili. «Cercando di approfondire, per 114 115 Alessandro Piperno Unii selua osetím e una camera da letto quanto ě nelle mie forze, k struttura della Divina Com media, arrivo alla conclusione che 1'intero poema ě una sok strofa, unica e indivísibíle.» Ed ě qui che, ancora una volta, mi torna in mentě Proust. Anche la Recberche, dopotutto, si configura coine un'unica incessante frase. Le divisioní in libri e capítoli, i pochi spazi bianchi che separano una sezione dall'altra, sono quanto di piú strutturalmente pretestuoso si possa immaginare. Anzi, talvolta, nel rileggere la Recberche con mentě sgombra da pregiudizi, viene il sospetto che Proust abbia realizzato nella prassi il grande sogno flaubertkno di trasfomiare la prosa in poesia pura, in suono, nenia, incantesimo. E non per i suoi accenti linci, ma semmai per quelk informe fluidita senza scampo inaugurata dal suo celebre incipit: «Per molto tempo sono andato a letto presto». L'idea, assai cara ad aleuni danti-sti ďantan, secondo cuí la Commedia sarebbe un sogno, puó essere tranquillamente attríbuita alk Recberche. Non ě mi ca | vero che il Tempo Perduto scaturisce, come Proust lascia inten-dere, da una tazza di tě, bensi dal sonno del Narratore, date I le circostanze non meno inquieto di quello di Gregor Samsa. Che non sia. k nátura onirica deirinvestigazione proustiana a rendere la musica della sua prosa cosi fluida e inesauribile? ; Del resto, se il paragone tra Dante e Proust, a livello terna- \ tico, puó apparire esercizio velleítarío (e per i motiv! espressi { da Continí), un raffronto stilistico va liquidato come un abuso I inammissibile. Che senso puó avere affiancare i versi del Poeta piú facondo e caustíco del Medioevo con la prosa piú densa, duttile, suadente e discorsiva che un romanziere abbia mai í-adottato? Eppure, come spero di aver giá suggerito, c e un piano su cui i clue artisti s'incontrano. E, per definirlo, devo chiedere aiuto allo stesso Proust. Ě lui ad aver chiamato in causa k cosiddetta "canzone dello Etile". Al di lä delle forme espressive adottate, infatti, non c'e scrittura artistica che non nasconda una certa qual musica segreta. Se eib riguarda ogni scrittore di rango, vale in modo peculiare per due pesi mas-simi come Dante e per Proust. Gli endecasillabi e le terzine dell'uno, cosi come l'ipotassi impazzita dell'altro, sono talmente caratteristici da costituire una griffe eterna e inconfondibile. Vien da chiedersi, semmai, se queste melodie non esprimano nel modo piü alto l'idea che ossessiona sia Dante sia Proust: l'arte, sebbene legata alla vita, ha senso solo quando e in grado di trascendere qualsiasi contingenza esistenziale e condurci altrove. Proust lo dice esplicitamente: «La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illumiuata, k sola vita, dunque, pie-namente vissuta, e k letteratura». Una chiosa che, sebbene sotto altra forma e con la cautela dell'uomo di fede, Dante avrebbe potuto sottoscrivere. Resta comunque il fatto che, per dirk con Borges: «I versi, soprattutto i grandi versi di Dante, sono molto piü di ciö che significa.no. Ii verso e, tra le molte altre cose, un'intonazione, un accento spesso intradueibile», Basta sostituire la parola "versi" con "proposizioni" e il nome di Dante con quello di Proust per ottenere lo stesso effetto di veritä. Vendetta privata e pubblica virtü Fin qui la mia investigazione e stata volutamente generale, se non proprio generica. Lasciate che entri nel merito dando conto di una caratteristica psicologica che mi pare aecomuni ;Dante a Proust. Se per entrambi, come abbiamo visto, la letteratura e una forma di riscatto, non sorprendiamoci che, in 116 117 Ale ciro Pipi Una selva osetím e una camera da letto peculiari ciixostanze, essa possa offrire il gustoso pretesto per la Vendetta. Come abbiamo giä visto, Dante e Proust giungo-no all'opei'a maggiore in eta matura e in condizioni spirituali burrascose. Una conquista tardiva che sancisce una specie di frattura definitiva con il passato. Una retraite dai contorni foschi. Se Dante, oltre a Firenze, si lascia alle spalle la politica che gli ha provocato solo cocenti delusioni, Proust, dopo la morte dei genitori e la fine della giovinezza frivola, mette una . pietra sopra alla mondanitä. Naturalmente queste fratture sono meno nette di quanto i due non abbiano interesse a suggerirci. Se Dante, infatti, continua a essere ideologicamente implicato con le diatribe dell'ingrata Firenze che gli ha dato il benservito, . Proust stenta a liberarsi dal fascino dei salotti parigini. Non a caso politica e mondanitä costituiscono uno dei pilastri por-tanti dei rispettivi capolavori: in nome di coinvolgimenti cosi impellenti e settari, Dante e Proust utilizzano la letteratura per sfogare le proprie vendette private. Sulla faziosa ferocia di Dante nei confronti dei suoi nemici politici si e detto allo sfinimento. L'idea che usi VInferno per togliere dai calzari qualche aguzzo sassolino di troppo ha sedotto piü di un critico. Altri esegeti danteschi, invece, hanno ritenuto questa interpretazione una capziosa mistifieazione. Su tutti brilla la vibrante protesta di Borges che, a quanto pare, proprio non ci sta: Chi non comprende la Commedia dice che Dante la scrisse per vendicarsi dei suoi nemici e ricambiare i suoi amici. Niente di piü falso. Nietzsche ha detto falsissimamente che Dance e la iena che fa poesie nelle tombe. La iena che fa poesia e una contraddizlone in termini; e poi Dante non gode affatto dei dolore altrui. Sa che ci sono peccati imperdonabili, capitali. Per ciascuno di questi sceglie una persona che lo ha commesso, ma che per il resto puó essere ammírevole o adorabíle. Francesca e Paolo sono soltanto lussuriosi. Non hanno altro peccato, ma uno bašta a condannarli. Borges naturalmente ha ragione, ma, se mi ě consentito dtrlo, . ha anche torto. Che YInferno sia zeppo di dannati che godono della stima, se non addirittura della tenera pieta, di Dante e indubbio: a cominciare da Virgilio, ca va sam dire. A parte Francesca, come non citaře cosi, alla rinfusa, Brunetto Latini, Farinata, Ulisse, lo stesso Ugolino e tanti altri ancora? A fronte di questi casi virtuosi, tuttavia, ce ne sono altri di cui, se Dante non se ne fosse oceupato, infliggendo loro patimenti orrendi, non avremmo mai sentito parlare. Su costoro Dante infierísce non solo senza alcuna pieta, ma in modo crudel-mente voluttuoso. Come non rimanere costernati di fronte . al trattamento riservato a Filippo Argenti? Da un punto di vista storico, serbiamo di lui nozioni nebulose. Egli appare in quella parte di Inferno colonizzata da fiorentiní piú o meno illustri. Come dice Santagata: «11 punto di vista con il quale questi canti sono seritti ě quello di un fiorentino intrinseco che si rivolge ai concittadini», A noi bašta sapere che Argenti apparteneva alla famiglia guelfa degli Adimari con cui Dante aveva motivi di attrito. E che il suo soprannome "Argenti", Stando alla testímonianza di Boccaccio, proveniva dal lusso con cui questo vanitoso gentiluomo era solito agghindare il suo cavallo. Dante lo colloca nelle acque putrescenti dello Stige. La pena che vi sconta ě di definizione incerta, qualcosa comunque che ha a che fare con le attitudini irose, vanesie e arroganti cui 1'Argenti era solito indulgere. Lepisodio ě fin troppo celebre perché io stia qui a rievocarlo. Devo díre che la cosa che mi ha sempře stupíto non ě tanto 3'atteggiamento 118 119 AJessandro Piperno di Dante nei confront! di quel dannato in difficoltä che viene letteralmente sbranato dai compagni di sventura, bensi quellen di Virgilio. E lui, infatti, a invitare Dante a soffermarsi sul: truculento spettacolo di smembramento subito dall'Argenti, una scena che non stento a definite splatter. Insomma, nessun sotteso. Ii pio Virgilio glielo dice esplicitamente: Ed elli a me: «Avante che la proda ti si lasci. veder, tu Sarai sazio: di tal disi'o convien che tu goda». Mi chiedo: perche tanto accanimento? Perche un simile corapiaeimento nel promettere all'allievo che con un po' di : pazienza la sua fame di vendetta verrä saziata nel modo piij : truce e crudele? Di certo Argenti, corne ogni altro penato, ha avuto quel che meritava. Sconta la legge draconiana del contrappasso che domina l'intero inferno, la giurisprudenza che distribuisce i castighi di cui Dante da conto alia fine del XXVIII canto, quando Bertram dal Bornio, per giustificare horrido tormento eterno che lo affligge, dice: «[...] Perch'io parti' cos! giunte persone, partito porto il mio cerebro, lasso!, dal suo principio ch'e in questo troncone. Cosi s'osserva in me lo contrapasso». Vi assicuro che non mi addentrerei in questo ginepraio se il tema del mio intervento non lo richiedesse. Si da il caso, infatti, che, come mi resi conto una ventina di anni fa, la legge del contrappasso domini anche l'ultima parte della Recherche. La famosa matinee Guermantes dove il Narratore rivede dopo tanti 120 Una selva oscura e una camera da lelto .anni i suoi amici, almeno quelli ancora in vita, ě un'immane bolgia che mette in scena - con che ferocia dantesca! - gli oltraggi inflitti dal Tempo agli amici-nemici di una vita. E a bel la posta che parlo di contrappasso, Non e'e invitato, infatti, che non porti su di sé i segni indelebili dei propri peccati. A cominciare dal pověro Monsieur Charlus che, celebre per il suo classismo inflessibile e malmostoso, sopravvissuto a un colpo apoplettico che gli ha stravolto connotati e carat (ere, si ritrova a omaggiare una signora che in altri tempi non avrebbe neppure salutato. E che dire di Madame Verdutin che dopo aver trascorso la vita a eseerare i Guermantes per un beffardo concatenarsi di eventi ritroviamo sposata proprio a i principe di Guermantes? Ma non ě su questi eroi central! che vorrei soffermarmi, , bensi su un minore. II suo nome ricorda - almeno da un punto di vista fonico - il bieco Eilippo Argenti; Monsier d'Argencourt. E le somiglianze non finiscono qui. Anche di d'Argencourt sappiamo poco se non il fatto che il Narratore lo considera un suo rivale odioso. Eccolo sbucare nel salotto Guermantes -nelle vesti di "nemico personale" del Narratore - in condizioni fisiche e mentali devastanti. «Ii piü fiero dei volti, la piü impettita delle figure non erano piü che un cencio imputridito, sballottato da ogni parte.» Spero non sfugga al lettore il compiacimento con cui il Narratore si scaglia sul vecchio awersario. Nessuna pietä per i vinti. Solo compiacimento. A dimostrazione di quanto dico, vedendo d'Argencourt ridotto a quel modo, al Narratore scappa perfino da ridere: «Fui preso da un'ilarita irrefrenabile davanti a quel sublime citrullo, altrettanto ammorbidito nella sua benevola caricatura di se stesso quanto, sul versante tragico, il signor di Charlus fulminato e compito». 121 Alessandro Piperno Non ho moko altro da aggiungere. Mi limito a rilevare come questi due spirit! risentiti non resistano alia tentazione fin troppo umana di vessare senza alcuna continenza i propri antagonisti. Non possono fare altrimentí. La promiscuitä tra vita e opera - per noř cosi toccante, per loro vocazione testarda e destino ineludibile - li spinge a una crudeltä ehe ci lascia attoniti e costernati. Certo, sarebbe cieco, a questo punto, non sofřermarsi su una differenza incontestable. Occorre notáre, infatri, come per Proust non esista niente oltre ľinferno in cui ha convogliato i suoi personaggi. II suo cammino verso la salvezza ha qualcosa di gretto. La crudeltä ě il solo approdo possibile. Ota ehe . ľ opera volge al termine, cosciente delia propria onnipotenza artistica e prívo com'e del conforto religioso, prende congedo da noi nel momento piú drammatico, quando un senso di . fine incombe su di lui e sul mondo in decomposizione ehe ha cercato di evocare. Almeno in questo, íl suo itínerario appare . contrario a quello dantesco: muove dal paradiso delľinfanzia, attraversa il purgatorio delia frivolezza, per giungere sfiancato alľinferno delia vecehiaia e delia morte. In Dante, come dicevo, le cose funzionano altrimenti. Ľinferno ě una tappa preliminare. La fede cristiana ehe io anima non si esaurisce certo nelle vendette distribuíte con tanto inflessibiíe rigore. Di fatto, ě a piú agio nella luce ehe nelle tenebre. Nicola Lagioia Tirarsi fuori dalla selva oseura A settecento anni. dalla mořte di Dante Alighieri ě lecito : domandarsi ceme leggere la Commedia nel XXI secolo. Le celebraziom dantesche sono cosi sinceramente sentite e con-divise da lasciare pochi dubbi su cid che di importante si muove dietro le forme della ricorrenza. Nondimeno, sono talmente fragorosi questi festeggíamenti (trasmissioni tele-f- vistve e radiofoniche, letture pubbliche, iniziative editoriali, convegni, conferenze, festival) da rendere faticoso il compito di attraversare le stanze del "grande party su Dante Alighieri" per raggiungere la stanzetta, di solito meno illuminata, della nostra coscienza. Di cosa parla, proprio a noi, oggi, la Divina Commedia? Cosa racconta della nostra vita? Non sono un dantista, non sono uno specialista, sono uno serittore ma soprattutto un lettore accanito, e dunque un indi-víduo dentro cui 1'opera di Dante (come quella di Shakespeare o di Cervantes) continua a lavorare, a farsi strada, a cambiare forma nel tempo. Da adolescente la Commedia mi suggeriva cose diverse da quelle che ho creduto di percepire a trenťan-ni. Oggi, me ne comunica akre ancora. Leggiamo libri a cui sopravvřvremo. E poí leggiamo libri che ci soprawívranno. 122 123 Nicola Lagioia Tirarsi fuori da IIa selva oscura La Commedia ě tra questi ultimi: ě entrata in contatto con mé. quando ero un ragazzo, ha continuato a rovistate nella niia vita adulta, sguscera fuori da me e dai miei contemporanei■■■ quando saremo tutti morti proseguendo il suo cammino nella;:-vita di altri ragazzi, gli adulti del futuro. Su cosa sia 1'inferno di Dante, rispetto a noí contemporanei, e. in che consista il suo viaggio oltremondano, ho avuto occasioned di interrogarmi moko neglí ultimi tempi, soprattutto a causa ■ di una brutta síoria di cui mi sono occupato. Non sono in grado di dire quale sia - ammesso che esista - l'interpretazione ■: autentica della poetica di Dante, e in particolar modo della I; Commedia. Posso provare a spiegare verso quali stráni luoghi sta conducendo me. Ma prima ci sono delle premesse da fare. In un passo moko noto de Le cittä invisibili Iíalo Ca!vino sostiene che 1'inferno dei viventi non é "qualcosa che sani". Se ne esiste uno, ě gia qui, davanti ai nostri occhi. II bráno % prosegue con un invito all'ottimismo della volontä -1'autore :; ci esorta a riconoscere ció che inferno non ě, e a dargli spa-zio - ed ě probabilmente a causa di questa conclusione che í neglí anni il suddetto passo ě stato celebrato okre le soglie :.; della retorica. Felicí di essere chiamati a fare la nostra parte/; persuasi di essere proprio noi gli eletti, quelli a cui ě affidato ; il compito di riconoscere ció che inferno non ě, di tutelarlo, ■ di proteggerlo, di dargli addirittura spazio, dimentichiamo la :: príma parte del discorso, e cioě l'inquietante attestazione che % 1'inferno, se esiste, ě gia qui. Come riconoscerlo? Questa ě la domanda a cui di solito chi . . cita Le cittä invisibili, tutto preso da una dubbia investitura, ó non si sente chíamato a rispondere. Facciamo dunque un .v passo índietro: siamo sicuri di saper distínguere tra ció che ě ■ perdu to per sempře e ció che chíede la nostra eura per essere ■šal vato? Piantiamo la nostra tenda su questa linea di confine: aj di la c'ě b inferno, al di qua ci siamo noi. Ma ě davvero cosi? Sembrerebbe un bízzarro rovesciamento del meno celebre -ma indubbiamente iperbolico - assunto del teologo svizzero :Hans Urs von Balthasar quando seriveva che 1'inferno esiste :ma ě vuoto. E vuoto laggiú al centro della terra, mentre quassu, Stando a Le citta invisibili, dovremmo dedurre che non solo esista ma sia piuttosto frequentato. Si tratterebbe moltre di un nosto caratterizzato da una evidente nátura contraddittoria: temporanea e definitiva. Come puó non essere eterno essendo inferno? E come potrebbe non essere transitorio appartenendo al nostro mondo? Visto che siamo in vena di rovesciamenti (il XXI secolo dovrá pur cominciare a mangiare in salsa piccante quello che l'ha preceduto) potremmo provare, senza spostarci da questa ipotetica linea di confine, ad aggredire Jean-Paul Sartre. «L'inferno sono gli altri.» Se questo ě vero, se lo sguardo degli altri ci denuda e ci ferisce in un tremendo gioco di rispeechiamend dove incomunicabilítá e alienazione hanno la meglio sulla nostra fragilita di assetatí (di autenticita, di completezza, di conoscenza), il nosiro sguardo avrá lo stesso effetto sugli altri individui; per ognuno di loro, gli altri siamo noi. Ecco che la linea di confine, sia pure moko ambigua, dove ci illudevamo di sostare qualche ora, si dissolve. Era una linea tracciata con la sabbia, il vento 1'ha giá spazzata via. L'inferno siamo noí. Viviamo come si dice in un mondo polarizzato. E cosi, in assen-za di sfumature, viviamo in un mondo cíeco. Bianchi contro neri. Carnefíci contro vittime. Da una parte i cattívi e daU'altra i buoni, con noi immancabilmente tra le file di questi ultimi. 124 125 Nicola Lasrioia Timrsi fuori äalla setva oscura Non riusciamo ad autorappresentarci come agenti del. male, ma abbiamo molto allenato ultimamente la nostra vocazione vittimaria. Nel corso della vita ci capita di subire ingiustizia e violenza, e quasi inevitabile. Quando si e oppress! da un'ingiu-stizia e giusto naturalmente protestare, e giusto denunciare, e giusto lottareperche l'offesa venga rimossa, l'offensore disar-mato, ma soprattutto disinoescato il dispositive che produce questo genere di male. (Benche, secondo Simone Weil, una delle maestre che il XXI secolo farebbe bene a portare con se, tanto e stata poco compresa e assimilata dal secolo scorso, ingiustizia e violenza ledono nell'uomo quaicosa di sacro, ma non e quella la parte che protesta, non e quella la parte che rivendica, non e quella la..' parte che prova a organizzarsi per difendersi e contrattaccare. Secondo Simone Weil lo scandalo ontologico sarebbe privo. ; di una voce udibile all'esterno, dal momento che: «Non basta : un'offesa alia persona e ai suoi desideri per farlo sgorgare: : quel grido sgorga sempre per la sensazione di un contatto con l'ingiustizia attraverso il dolore. Spesso si alzano anche grida di protesta personale, ma quelle non hanno importanza; se ne . possono provocare a volonta senza violare alcunche di sacro. ■ Cio che e sacro, lungi dall'essere la persona, e quello che in ■ un essere umano e impersonale».) Se c'e quaicosa di sacro, in noi, e impersonale. Lasciamo decantare questo concetto vertiginoso. Lo ripren- . deremo piu avanti. Resriamo per adesso sulla dicotomia vit- ■] tima/carnefice. Da dove nasce, all'interno di questa retorica, . la nostra vocazione vittimaria? Ammettendo che non abbia a che fare con la nostra parte sacra, non e per questo priva di ; importanza. Si pud pensare che nasca, ultimamente, da una .;,'■ giustificata sete di giustizia, la quale tuttavia (per cosi dire) una volta "messa a terra", circostanziata, puö finire all'atto pratico per svilupparsi in modo distorto. La sete di giustizia •di cui parlo e generata a sua volta dalla china piuttosto ina-spettata che ha preso il mondo negli ultimi trent'anm. Crollo della classe media, impoverimento della piccola borghesia, perdita di rappresentativitä e di protagonismo, allargamento pauroso della forbice tra ricchi e poveri. Sono tutti scossoni che, per come si era sviluppato il secondo Novecento, hanno colto la maggior parte di noi di sorpresa. Ci sentiamo defraudati di quaicosa, la congiuntura storica ci e awersa, e come se non bastasse siamo soli a combattere contro un nemico gigantesco. Il Novecento ha portato via con se le ideologie nate dai grandi maestri del sospetto che avevano infiammato il pensiero europeo tra XIX e XX secolo. II sogno della giustizia sociale aveva per cosi dire un suo apparato, una sua forza, una sua capacitä di cambiare le cose, di incidere sulla Storia, non che (non c'e sogno che non possa rovesciarsi in incubo) la speculate capacitä di generare tirannia, prevaricazione e atrocitä. L'Europa occidentale non ha fatto l'esperienza dello stalinismo ne del grigiore e dell'oppressione sovietica: da noi - anche in forza della dialettica obbligata con I'altra parte - il dispositi-: vo sviluppatosi dalle grandi teorie emancipative della tarda . modernitä (partiti di massa, rntellettuali, sindacati, istituzioni culturali) ha funzionato bene per quasi cinquant'anni. Adesso non esiste quasi piu. Soli davanti airawersario, sentiamo di perdere terreno ogni giorno che passa. (Non e nemmeno chiaro, per dire la veritä, se questo nuovo scenario storico sia costruito a! solo scopo di danneggiarci, o se siamo noi a non conoscere ancora a fondo la complicata macchina della contemporaneitä, la quale magari potrebbe 126 127 Nicola Lagioia Tirarsi fuori dalla selva oscura cela re dentro di sé le leve - o gli algoritmi? - per un possibile. affrancamento, cVie tuttavia per adesso non siamo in grado di írovare.) Subiamo dunque le offese di questa nuova condizione. Ma íra 1'essere realmente vittíme di alcune conseguenze ínnescate da un momento storico cosi poco esaltante e il sentirsi vítti■ me di tutto ció che di spiacevole cí succede il passo a volte ě breve. Consiste in questo, dunque, la vocazione vittimaria: ostentarele ferite causate da un'offesa che non trova giusrizia ; (ťawersario si dissolve ogni volta che cerchiamo di afferrar- ; lo) per avanzare crediti inesistenti verso chiunque ci capití a tiro (di solito, altre persone nella nostra condizione), con la pretesa - spesso inconsapevole - di andare all'incasso anche : di ció che non cí spetta, dal momento che ció che ci spettava ě giá svanito okre la linea ďorizzonte. Si tratta di un automatismo sempře piú. frequente, di una . tentazione molto umana ma alia lunga rovinosa; ehi e vittima della Storia puó avere una speranza di riscatto, chi ě vittima di se stesso mai. Una conseguenza di questa vocazione ě, specularmente, 1'impossibilitá di immaginarsi come carneíici o colpevoli di alcunché. Noi siamo i buoni, siamo dalla parte della ragione, siamo le vittime di qualcosa. Questa convinzione ci ha portati nemmeno troppo lentamente a non saper piú collegare le nostre condotte meno nobili alia volontá che le attiva, a non vedere il nesso di causalitá tra il peggio di cui siamo capaci e la colpa o il dolo da cui quel peggio viene generate Siamo dispostí a perdonare pochissimo le colpe altrui, e dunque (temendo di non poter perdonare noi stessi) prefe-riamo accecarci pur di non vedere: che siamo umani, dunque contraddittori, spaventati, frustrati, impauriti, naturalmente ínclini a sbagliare, a provocare dispiaceri, danni e dolore. Questo autoaccecamento distrugge uno dei pilastri su cui abbiamo ediťicato le nostre leggi morali: la possibilitá del pentimento. La ietteratura di tutti i tempi (soprattutto quella legata alia matura modernita) ě piena di personaggi che si pentono del male che hanno fatto, o che almeno ne son o consapevoli. Ma : come possiamo noi contemporanei pentirci del peggio di cui siamo protagonisti se non siamo piú in grado di associarlo a una nostra pur evidente (ma evidente solo per gli altri) azione ■:' che lo produce? Sradicata in noi la possibility del pentimento, per un per-:verso effetto domino viene meno negli altri la capacitá di perdonare. Come si la a perdonare chi non sa pentirsi? Ma - questa la vera ulteriore domandá - quale atteggiamen-to bisognerebbe avere di fronte non tanto a chi non vuole ma a chi non puó, non possiede piú cioě gli strumenti per arrivare ; a pentirsi di ció che ha fatto? «Io non so ben ridir com'i' v'intrai, / tanťera pien di sonno a quel punto.» Ě il celeberrimo Dante del I canto dell 'Inferno. Dante non sa bene spiegare come successe che si ritrovó nella selva oscura, . tanto era pieno di sonno, appesantito, accecato, poco presente a se stesso. E cosi di solito che anche noi contemporanei andiamo fuori strada, ci perdiamo, scivoliamo senza rendercene conto nei periodi piú bui della nostra vita, profondi coni d'ombra dai quaii non ě detto che riusciamo a tirarci fuori. Qualche volta ne veniamo divorati. Dal 2016 al 2020 mi ě capitato di seguire un terribile caso di cronaca. Si tratta delTomicidio di Luca Varani, ventitreenne 128 129 Nicola Lagioia Tiranifuori dalla selva ascura tortiirato per ore in modo indiciblle da due quasi trentenni (incensurati e di buona famíglia) e poi lasciato morire dissaii-guato in un appartamento del quartiere Coiktino, a Roma, Ho seguito il caso spirito dal bísogno di capire, ci ho dedicate u n libro {La cittä dei vivi, Einaudi 2020). A colpirmi furono alľepoca diversí aspettí delia vicenda, proverô a elencarne qualeuno. Prímo, non si trattava di un normále delitto metropolitano ma di mVazione violentissima le cui modalita facevano pensare alľomicídio rituále e aí tempo stesso a čerti massacri ehe si consumano nelle zone di guerra quando il diritto sembra essere sospeso. Secondo, totaíe assenza di movente. Non c'era nessun motívo ehe potesse spingere i due assassini - Marco Prato e. Manuel Foffo - a fare qualcosa del genere, nessun vantaggio ehe i responsabili avrebbero potuto trarre dal trucidare un. ragazzo ehe conoscevano a malapena (il caso di Marco Prato), oppure (quello di Manuel Foffo) ehe non conoscevano aťfatto. Terzo, la circostanza ehe non si trattasse di un omicidio matu--rato in un ambiente criminale. Un malvivente mette in conto di poter finire in situazioni violente. Manuel Foffo e Marco Prato erano due giovani considerati "normáli". Prato veniva dalla buona borghesia cattolico-progressista delia cittä, era molto attivo nella comunitä gay romana, faceva il pr, organiz-zava aperitivi e serate musicali. Foffo veniva da una famiglia di ristoratori, fuoricorso a giurisprudenza da molto tempo, cercava con ratica e frustrazione il suo posto nel mondo, era ombroso e introverso almeno quanto Prato era istrionico e sopra le righe, ma - al pari del suo complice - non si era mal reso protagonista di epísodi violenti. Due giovani integrati nelle proprie comunitä di riferimento. ■ Nessuno avrebbe immaginato quello ehe sarebbe successor compresi i responsabili. Se a Marco Prato o a Manuel Foffo qualcuno avesse detto che si sarebbero trovati in galéra dopo : aver commesso un omicidio orrendo (sul corpo di Varani í - 1'autopsia rileverá un numero esorbitante di ferite inferte a :v colpi di martello e di coltello) semplicemente non ci avrebbero creduto. Loro due fare una cosa simile? Avrebbero pensato a un horror o a un film di fantascienza, Inline, e questo ě uno degli elementi per me piu pertur- . banti, sebbene sia Prato sia Foffo sapessero naruralmcnte di essere i responsabili del delitto, non riuscivano a capacitarse- v ne. Non capivano, letteralmente, come fosse stato possibile , cio che pure era evidente. Marco e Manuel erano arrivati a uccidere Luca Varani dopo essersi chiusi per tre giorni neh" appartamento di Foffo, b even do alcolici e consumando cocaina, eppure - stando alle sentenze di condanna - erano capaci di íntendere e volere. La loro difficolta di comprendere l'accaduto riguardava un altro aspetto. Entrambi si descris-sero davanti ai giudici come degli spossessati, due assassini a propria insaputa, erano informati su cio che avevano fatto ma non riuscivano a ricondurlo alia sfera della propria volontá, del proprio libero arbitrio. Era per entrambi estremamente difficile, se non impossibile, trasformare 1'informazione in conoscenza. Stando al loro racconto, sembrava che avessero insomma evocato delle forze che a un certo punto non erano piu riusciti a controllare. Erano state quelle, le forze, ad agire al posto loro. Ma quale tipo di forze? Manuel Foffo, in particolare, che aveva confessato il delitto immediatamente (prima che la scientifica facesse i suoi rilievi aveva gia raccontato ai carabinieri, con dovizia di particolari, i colpi che aveva sferrato contro un ragazzo di cui non ricordava neanche il nome), sembrava implorare al tempo stesso i propri 130 131 Nicola Lagioia accusatori: «Sono colpevole di tutto, sono disposto a farmi anche l'ergastolo ma, vi prego, spiegatemi voi come e stato possibile che io abbia fatto una cosa del genere». ilNon sono un Anders Breivik, sembrava dire, non sono un Charles Manson, ho dei sentimenti, sono capace di empatia, di convpassione... e allora come ě possibile che 10 sia anche un assassino?" Naturalmente Prato e Foffo erano colpevoli di uno degli omicidi piü macabri ed efferati degli ultimi anni. Al tempo; stesso, perö, erano anche sinceri. Sembravano usciti da uno di quei film in cui il protagonista va a letto la sera e si risveglia il mattino dopo in un bagno di sangue, con un coltello in mano accanto ai cadavere di uno sconosciuto. Se Marco Prato e Manuel Foffo avevano ucciso barbara-mente Luca Varani, ma al tempo stesso la loro volontä era stata travolta da qualcos'aitro, in che cosa consisteva di precise - anche al di la della veritä giudiziaria - la loro colpa? Mentre Prato e Foffo confessavano il loro delitto, l'opinio-ne pubblica si affrettava a farne dei mostri. Se si erano resi capaci di un'azione cosi barbara, non potevano essere anche umani. Se erano dei mostri, se non avevano due braccia, due gambe e una testa come noi, avevano fatto qualcosa di cui noi umani non saremmo mai capaci. Se chi commette il male ě un alieno, noi di quel male non potremo mai arrivare a mac-chiarci. Questo il meccanismo difensivo di chi, soprattutto in rete, invocö la pena di morte e altre punizioni esemplari verso coloro che (da uomini a mostri) avevano compiuto. un perturbante salto di specie. Prato e Foffo avevano "cosi-ficato" Luca Varani, lo avevano in cuor proprio ridotto a qualcos'aitro per poterlo uccidere in quel modo (salto di. specie o addirittura di regno), e adesso una folia inferocita "i'irarsifuori tiatta sehe, oscura compiva (per fortuna questa voka solo a livello simbolico) la stessa operazione nei loro confront!. Moltipiicare tra not e gli altri Ie distanze fin o a forzare la barriera per ora invalicabile deile affinitä bioíogiche ě qualcosa che facciamo sempře piú spesso. A volte ci basta meno di un omicidio. L'inferno di Sartre ě meno profondo e inquietante del nostro. A tal proposito, una cosa molto piú penetrante su Prato e Foffo la disse Davide Toffoli, il professore di Luca Varani, una delle poche persone di questa storia a mostrare profonditä, int eiligen z a, empatia e capacitä di analisi. Manuel Foffo, dopo aver chiesto il rito abbreviate, era appena stato condannato a 30 anni di carcere. Alia giornalista che daman dö a Davide Toffoli se si trattasse cli una pena sufficiente (i leoni da tastiera, sempře piú scatenati, continuavano a invocare per gli assassini 1'inferno sulla terra) questo valoroso professore delle scuole superioři rispose: «Penso che, nel contesto processuale, fosse il massimo imponibile. La cosa che mi ha piú impressionato, al di lä delPefferatezza con cui si sono awentati su Luca, ě il fatto che il corpo senza vita di Luca sia rimasto in quella casa per giorni. Credo che se esiste l'inferno, e gli assassini di Luca hanno avuto un minimo di luciditä, lo abbiano vissuto proprio in quelle ore». I due assassini, insomma, aU'inferno ci erano giä. Ma di che tipo di inferno si trattava? Anche ammesso che Prato e Foffo si fossero accaniti su Luca Varani travolti da una oscura fona superiore che non riuseivano a ricondurre alia propria volontä, al proprio iibe-ro arbitrio, non per questo erano meno colpevoli. Solo, era difficile collocare quella colpa dove ciassicamente ci saremmo aspettati di trovarla. Bisognava spostarsi piú indiet.ro, riper- 132 133 Nicola Laaioia Tirarsifitori dúlltí selva oscura correre la vita dei due assassini, questi normáli ragazzi di buona ramiglia che - a differenza del Charles Manson, dcgii Anders Breivik, degli Angelo Izzo, dei Pietro Maso - erano increduli e affranti per ciô che non si capacitavano ancora di avere fatto. Come avevano potuto, "pieni di sonno:\ lasciarev che le loro víte entrassero nella profonda zona d'ombra dove v tutto diventata possibile? Ho seguito la vicenda di Foffo e Prato per anni. Li ho sentiti parlare. Ho intervistato i loro amici. Ho esaminato \ con cura gli atti del processo. Con uno dei due ho avuto un lungo rapporto epistolare. Ho cercato per quel che potevo.i dí immergermi sem pre piu nel loro mondo. Se dopo anni di ricerca ho creduto di poter isolare una caratteristica determi- : nante che - a dispetto di due temperament! cosi diversi - li ■. accomunava in modo quasi indistricabile, credo sia ľestrema . difficoltä (a volte son o stato tentato di dire ľimpossibilitä) di distogliersi da se stessi. Sia Prato sia Foffo erano disperati per come avevano rovi- .v nato la propria vita, commettendo un omicidio di cui non : avrebbero mai immaginato di renders! protagonisti, ma non riuscivano a pensare che a se stessi e ai loro problem!. Erano. totalmente concentrati sui propri guai, sulla propria tragédia ľ privata, sulla indiscutibile evidenza della propria vita devastata, ma molto raramente riuscivano per esempio a realizzare che an che la persona che avevano ucciso era reale. Luca era reale v almeno quanto il loro futuro rovinato e la loro attuale esistenza .;. carceraria. Questo dato, Prato e Foffo, non riuscivano dawero ■ a interiorizzarlo. Alio stesso modo, prima di commettere ľo- :;i: micidio, erano entrambi ossessivamente concentrati sui propri , problemi, sulle proprie velleitä, sulla propria incapacita di fare .:; per esempio un salto sociále molto desiderato (di svoltare, di ;, essere considerate persone dt successo almeno dalla propria cómunitá), e questa parossística difficoltá di vedere gli altri inipediva loro di conoscere se stessi. Prato e Foffo, negli anni, hanno lavorato malissimo su di : se, ecl ě questo il motive per cui si sono fatti travolgere dalle y-forze oscure a cui, dopo l'omicidio, non riuscivano a dare nemmeno un nome. Prato e Foffo per anni non hanno fatto che guardarsi in uno specchio, e nessun essere umano che si guardi continuamente alio specchio potrá mai sapere chi ě. La nostra identita ce la costruiamo atrraverso gli altri (attraverso il riconoscimento negli altri, in un lento e paziente e a volte doloroso ma sempre necessario lavo.ro alternato di identifica-zione e differenziazione), non ceno contemplando la nostra immagine in una superficie rtflettente. Marco Prato era insomnia quello che - secondo un recente : libro molto interessante di Vittorio Lingiardi - si potrebbe definite un narcisista overt (un narcisista a pelle spessa, pieno di sé, persuaso della propria superiorita, aggressivo, sprez-zante, privo di empatia, incline alia manipolazione, propenso a piegare il prossimo ai propri scopi se non a ridurlo a un :: oggetto per il proprio piacere personále), inentre Manuel ■■■■■ Foffo un narcisista covert (a pelle sottile, timido, introverso, nascosto, silenzioso, timoroso del giudizio altrui, terrorizzato dal fallimento, incline a coltivare nel segreto fantasie grandiose e irrealizzabili). Entrambi accecati da se stessi (o meglto: dall'idea di sé), non riuscivano piú a vedere gli altri giá da un pezzo. In questo modo, erano anche accecati su loro stessi. Non ci conosciamo mai fino in fondo, ma in loro il narcisismo maligno aveva scavato cosi bene, e cosi a fondo, da rendere questa ignoranza scandalosa. L'egocentrismo e il narcisismo patologici come cecita. 134 13.5 Nicola Lagioia Tirani fuori da IIa selva oscura Ě questo, oggi, un tip o di inferno dei viventi sempře piü vasto. Ciö che in Marco Pra to e Manuel. Foffo supera i! iivello di guardia (il diritto pen ale) esiste altrove in modo cosi pervasive («questa ě l'acqua», scriveva David Foster Wallace) da diven tare tutťuno con l'ambiente circostante. Ciö che in loro ě patologico ed evidente, in noi gira a basso regime, ma lavora e corrode e riduce giorno per giorno il nostro sguardo sul mondo. E cosi che, un niillimetro per volta, arriviamo senza ren- . dercene conto a chiudere gli occhi (questi occhí chiusi com-pletamente spalancati, il Kubrick di Eyes Wide Shut ci aveva visto bene), siamo awolti dal sonno e giä ci ritroviamo nella valle dell'ombra. «Io non so ben ridir comT v'intrai». E singulare che Dante scriva di non sapere dopo il suo viaggio oltremondano. Viene da pensare (nelle tantissime interpretazioni di cui la Com media puö essere oggetto) che Dante non si limiti a ricordare di essere stato all'inferno, ma sta all'inferno proprio mentre:. scrive, cosi come attraversi il purgatorio e poi ascenda al paradiso endecasillabo dopo endecasillabo. Cosi come si puö pensare che "Finferno dei viventi" di cui parla Caivino non ci stia semplicemente di fronte ma sia la cittä invisibile dentro ■ di noi. Non a! Testern o ma innan/irutto all'interno dobbiamo distinguere tra ciö che ě dannato e ciö che non lo e ancora, e provare a proteggere, e dare spazio a quesťuírimo, sperando abbia la meglío. Cosi come ancora, m un rozzo (mi rendo-conto) ma spero autentico slancio interpretativo (per la mia. vita, ora) si puö pensare che 1'oscuramento della coscienza di Dante nella seíva, il suo smarrimento, preludio aíFattraver-samento infernale, corrisponda a urťipertrofia dell'io con i suoi egoismi, il suo rancore, la sua frustrazione, il suo dolore, la sua conseguente paura, il suo eventuale tradursi in azione ■■"malvagia - 1'ipertrofia .dell'io, tutto cio che serve oggi a non conoscersi, a chiudere gli occhi su se stessi - e che il faticoso tirarsi fuori dalla selva oscura, e poi purgarsi, e poi salire verso 1'alto, proceda di pari passo col progressive spogiiarsi di quelle scorie identitarie, f ino a giungere alia parte sacra, impersonale, . di cui scriveva Simone Weil. Passare dall'io ai noi? Eclissare 1'io perche la coscienza possa discliiudere le sue porte come un fiore che sboccia? Non e un percorso allegorico. E forse la concreta, faticosa, fondamentaie lotta con noi stessi - e insieme agli altri (l'idea di una comunita) perche abbia effetto su noi stessi - a cui siamo chiamati per soprawivere degnamente nel futuro come specie, come creature tra le creature sulla terra. 13 Ó 137