II libro La Commedia dantesca ě un universo meraviglioso, illimitato e complesso nel quale, oggi forse piú che in passato, ě pressoché impossibile addentrarsi confidando solo nella propria capacitá di orientamento. Senza un'adeguata carta topografica e una bussola efficiente, si rischia di smarrire presto la strada. Ma per fortuna c'ě un Virgilio che guida il lettore dalla «selva oscura» áeWlnferno fino a con-templare «l'amor che move il sole e l'altre stelle» nel Paradiso: Marco Santagata, con la sua prosa scorrevole, coinvolgente, priva di tecnici-smi, ripercorre in queste pagine il viaggio ultraterreno di Dante, rive-lando e rendendo accessibile 1'inestimabile tesoro di emozioni, senti-menti e pensieri nascosto «sotto '1 velame de li versi strani». Uautore Zocca, Modena, 1947. Docente di Letteratura italiana all'Universitá di Pisa, ě noto a livello internazionale per i suoi studi su Petrarca e Dante. Oltre che saggi scrive romanzi, tra cui // Maestro dei santi pallidi, premio Supercampiello 2003. Marco Santagata IL RACCONTO DELLA COMMEDIA Guida al poema di Dante MONDADORI Linee essenziali per orientarsi Genere e titolo La Commedia ě un poema in terzine di endecasillabi (metro di invenzione dantesca) di complessivi 100 canti diviso in tre parti o cantiche (Inferno, Purgatorio, Paradiso) di 33 canti ciascuna, ad eccezione dell'Inferno ehe ne conta 34 perché il primo funge da proemio generale. Racconta uno straordinario viaggio nelľaldilä compiuto in sogno dal suo autore. Appartiene, dunque, al genere letterario delle visioni. Cosa significhi il titolo Commedia ě oggetto di molte discussioni: addirittura manca la certezza che esso sia di Dante. Tra le taňte ipotesi, la piú suggestiva ě che il termine non si riferisca al genere teatrale tradizionalmente contrapposto alia «tra-gedia», ma a quello delia satira, che i Latini consideravano un sottogenere della commedia e alia quale il poema dantesco si apparenterebbe perché anch'esso, come i testi dei satirici latini, fustiga i vizi e i costumi corrotti dei contemporanei e giudi-ca e critica aspramente il degrado morale e politico della societa. Dante colloca il suo viaggio nelľaldilä nella settimana tra il 25 e il 31 marzo 1300, una data carica di implicazioni. Nel 1300 papa Bonifacio VIII aveva indetto, per la prima volta nella storia della Chiesa, un giubileo secolare: aveva stabilito cioě che, ogni cento anni, a chi si fosse recato a Roma in penitenza alle basiliche di San Pietro e di San Paolo sarebbero state rimesse le pene da scontare in Purgatorio. Ě probabile ehe quelľanno, all'inizio della primavera, anche Dante si sia recato in pellegrinaggio alle tombe dei due apostoli. Nel 1300 Dante compiva trentacinque anni, e quindi si trovava, stando all'idea allora diffusa che fissava la durata della vita umana in settanťanni, esattamente a meta della propria. Anche il 25 marzo era un giorno particolare: secondo la tradizione, un 25 marzo Dio aveva creato il mon-do, e sempře un 25 marzo Cristo si era incarnato; inoltre, per i fiorentini il 25 marzo era il giorno d'inizio di un nuovo anno. Dante comincia a scrivere il poema in un periodo posteriore alla data fittizia del viaggio: puô darsi ehe un abbozzo dei primi canti sia stato steso a Firenze prima delľesilio (gennaio 1302), ma la composizione della Commedia ehe noi leggiamo ě cominciata nel 1306-1307 e si ě protratta fin quasi alla morte delľautore (1321). La stesura deWInferno é collocabile negli anni 1306/07-1308, nei quali Dante soggiornô in Lunigiana, nel Casentino e a Lucca; quella del Purgatorio tra la fine del 1308-ini-zio del 1309 e ľautunno del 1314, anni nei quali Dante ha soggiornato in prevalen-za nel Casentino e nella Toscana occidentale; quella del Paradiso, infine, fra il 1314-15 e la morte (settembre 1321), anni trascorsi da Dante soprattutto a Verona e Ravenna. La diserepanza cronologica tra la data immaginaria del viaggio e quella della sua composizione fa si ehe nella Commedia si intreccino due «voci»: quella di un Dante autore ehe, nel momento in cui serive, interviene con considerazioni, appelli al lettore, invettive, perfino ricordi della sua vita vissuta, e quella di un Dante per-sonaggio ehe agisce come protagonista della storia raccontata. Com'éfatto ľlnferno LTnferno ě una voragine fatta a imbuto ehe sprofonda sotto Gerusalemme fino al centro della Terra. Si formô quando Lucifera, il capo degli angeli ribelli, verme sca-gliato da Dio dal Cielo sulla Terra, e questa, per non essere toccata dal suo corpo immondo, si ritrasse nelľaltro emisfero, ereando agli antipodi di Gerusalemme, in mezzo alľoceano, la montagna del Purgatorio. Le pareti delľimbuto infernale sono a gradoni circolari (detti «cerchi») il cui diametra diminuisce a mano a mano ehe si scende verso il basso. Su ciascun gradone sono collocate le anime dei dannati, in ordine discendente a seconda della gravitä delle colpe da espiare. I cerchi sono nove, piú un decimo collocato prima delľlnferno vero e proprio: in questo spazio sono ammassati gli ignavi, cioě coloro ehe in vita non fecero né il bene né il male. Dopo aver superato il fiume Acheronte, si entra attraverso una porta nel primo cer-chio o Limbo («lembo, margine»), ehe ospita le anime dei non battezzati. Nei cerchi dal secondo al quinto sono puniti i peceatori incontinenti, coloro cioě ehe non sep-pero tenere a freno gli istinti (lussuria, gola, avarizia e prodigalitä, ira e accidia). Gli < iracondi e gli accidiosi del quinto cerchio sono immersi nella palude Stigia. Un'in-valicabile cinta di mura divide questa prima parte delľinferno dalla cittä di Dite, cioě di Lucifero, comprendente i cerchi dal sesto al nono. Nel sesto si trovano le anime degli eretici; nel settimo quelle dei violenti, distribuite in tre settori (detti «gironi»): nel primo girone i violenti contro il prossimo (tiranni, omicidi, predoni), immersi nel Flegetonte, un fiume di sangue ribollente; nel secondo i violenti contro sé stessi (suicidi e scialacquatori); nel terzo i violenti contro Dio e la natura (be-stemmiatori, sodomiti, usurai). Un profondo burrone, nel quale precipita il Flegetonte, separa il settimo dall'ottavo cerchio, detto Malebolge, perché suddiviso in dieci bolge (letteralmente «borse») concentriche e digradanti, messe in comunica-zione da ponti di pietra («scogli»). In Malebolge sono puniti i fraudolenti; nell'ordi-ne: ruffiani e seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, tes-sitori di inganni e consiglieri di frodi, seminatori di discordia, falsari. II nono e ultimo cerchio ě costituito da un lago ghiacciato, il Cocito, nel quale sono conficcati i traditori, distribuiti in quattro zone, anche queste concentriche: nella Caina i tradi-tori dei congiunti, nell'Antenora quelli delia patria o del partito, nella Tolomea quelli degli ospiti, nella Giudecca quelli dei benefattori. Al centro del Cocito, che corrisponde al centro della Terra, si trova Lucifero, con il petto che fuoriesce dal ghiaccio e le gambe ehe si allungano nell'altro emisfero. Com'efatto il Purgatorio II Purgatorio ě una montagna altissima ehe si innalza fino al di sopra dell'atmosfe-ra terrestre: sorge su un'isola collocata in mezzo all'oceano nell'emisfero meridio-nale, privo di terre emerse, esattamente agli antipodi di Gerusalemme. Dante lo rappresenta diviso in tre settori: in basso, il cosiddetto Antipurgatorio, al di sopra il Purgatorio vero e proprio e sulla cima il Paradiso terrestre. Nell'antipurgatorio, im-merso nell'atmosfera terrestre, si trovano le anime dei negligenti, cioě di coloro che in vita hanno tardato a pentirsi dei loro peccati: prima di poter accedere al Purgatorio devono trascorrere qui un numero di anni pari a quello degli anni nei quali hanno vissuto nel peccato. Nel gradino piú basso del monte si trovano gli scomunicati, salvati dalla pieta divina perché pentitisi in punto di morte. Gli altri negligenti sono distribuiti su tre successivi ripiani («balzi») che circondano la montagna: nel primo balzo coloro che si sono pentiti aH'ultimo momento di vita; nel secondo i morti di morte violenta; nel terzo, in una Valletta fiorita, i principi negligenti. Al Purgatorio, fuori dali'atmosféra terrestre, si accede attraverso una porta custodita da un angelo guardiano. Questi incide sette P (simbolo dei sette peccati capitali) sulla fronte di Dante: le lettere si cancelleranno via via che Dante salirá verso l'alto purificandosi. Intorno al monte girano sette ripiani successivi («comici»): in ciascu-no di essi le anime espiano un peccato capitale. I peccati sono ordinati in ordine di gravitá decrescente (dunque all'inverso rispetto all'Inferno) secondo tre principi fondamentali: peccati commessi per amore rivolto a un cattivo oggetto; peccati do-vuti a debolezza deH'inclinazione amorosa; peccati causati da un eccesso di inclina-zione. Nel primo gruppo rientrano i superbi (prima cornice), gli invidiosi (seconda cornice) e gli iracondi (terza cornice); nel secondo gli accidiosi (quarta cornice); nel terzo gli avari e prodighi (quinta cornice), i golosi (sesta cornice) e i lussuriosi (set-tima cornice). II Paradiso terrestre ě un luogo di incantevole bellezza e perfezione. Fu creato come sede originaria dell'umanita, ma a causa del peccato dei progenitori 1'uomo ne ě stato cacciato e da allora nessuno piu ha potuto entrarvi. Vi scorrono due fiumi: il Lete, la cui acqua toglie anche il ricordo dei peccati commessi, e l'Eu-noě, la cui acqua ha il potere di rafforzare la grazia acquisita da chi ě stato immerso nel Lete. Qui Dante osserva il dispiegarsi di una processione allegorica che illustra la storia della Chiesa e, soprattutto, dopo avere confessato le sue colpe ed essersi purificato nel Lete, incontra finalmente Beatrice. Com'efatto il Paradiso II vero Paradiso ě costituito dall'Empireo, un cielo immateriale, nel quale cioě non valgono le categorie di spazio e di tempo, che avvolge l'intero creato. Questo ě for- mato dalla Terra e da nove cieli fisici che la circondano: l'Empireo trasmette il mo- vimento a questi cieli i quali, mossi ciascuno da una determinata inte lica, grazie a quel movimento trasmettono ruotando gli influssi astr; |j EE In ogni cielo ě incastonato un pianeta, dal quale il cielo prende nome la sede di Dio ed ě il luogo immateriale nel quale soggiornano gli ai iracondi e gli accidiosi del quinto cerchio sono immersi nella palude Stigia. Un'in-valicabile cinta di mura divide questa prima parte delľinferno dalla cittä di Dite, cioě di Lucifero, comprendente i cerchi dal sesto al nono. Nel sesto si trovano le anime degli eretici; nel settimo quelle dei violenti, distribuite in tre settori (detti «gironi»): nel primo girone i violenti contro il prossimo (tiranni, omicidi, predoni), immersi nel Flegetonte, un fiume di sangue ribollente; nel secondo i violenti contro sé stessi (suicidi e scialacquatori); nel terzo i violenti contro Dio e la natura (be-stemmiatori, sodomiti, usurai). Un profondo burrone, nel quale precipita il Flegetonte, separa il settimo dall'ottavo cerchio, detto Malebolge, perché suddiviso in dieci bolge (letteralmente «borse») concentriche e digradanti, messe in comunica-zione da ponti di pietra («scogli»). In Malebolge sono puniti i fraudolenti; nell'ordi-ne: ruffiani e seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, tes-sitori di inganni e consiglieri di frodi, seminatori di discordia, falsari. II nono e ultimo cerchio ě costituito da un lago ghiacciato, il Cocito, nel quale sono conficcati i traditori, distribuiti in quattro zone, anche queste concentriche: nella Caina i tradi-tori dei congiunti, nell'Antenora quelli delia patria o del partito, nella Tolomea quelli degli ospiti, nella Giudecca quelli dei benefattori. Al centro del Cocito, che corrisponde al centro della Terra, si trova Lucifero, con il petto che fuoriesce dal ghiaccio e le gambe ehe si allungano nell'altro emisfero. Com'efatto il Purgatorio II Purgatorio ě una montagna altissima ehe si innalza fino al di sopra dell'atmosfe-ra terrestre: sorge su un'isola collocata in mezzo all'oceano nell'emisfero meridio-nale, privo di terre emerse, esattamente agli antipodi di Gerusalemme. Dante lo rappresenta diviso in tre settori: in basso, il cosiddetto Antipurgatorio, al di sopra il Purgatorio vero e proprio e sulla cima il Paradiso terrestre. Nell'antipurgatorio, im-merso nell'atmosfera terrestre, si trovano le anime dei negligenti, cioě di coloro che in vita hanno tardato a pentirsi dei loro peccati: prima di poter accedere al Purgatorio devono trascorrere qui un numero di anni pari a quello degli anni nei quali hanno vissuto nel peccato. Nel gradino piú basso del monte si trovano gli scomunicati, salvati dalla pieta divina perché pentitisi in punto di morte. Gli altri negligenti sono distribuiti su tre successivi ripiani («balzi») che circondano la montagna: nel primo balzo coloro che si sono pentiti aH'ultimo momento di vita; nel secondo i morti di morte violenta; nel terzo, in una Valletta fiorita, i principi negligenti. Al Purgatorio, fuori dali'atmosféra terrestre, si accede attraverso una porta custodita da un angelo guardiano. Questi incide sette P (simbolo dei sette peccati capitali) sulla fronte di Dante: le lettere si cancelleranno via via che Dante salirá verso l'alto purificandosi. Intorno al monte girano sette ripiani successivi («comici»): in ciascu-no di essi le anime espiano un peccato capitale. I peccati sono ordinati in ordine di gravitá decrescente (dunque all'inverso rispetto all'Inferno) secondo tre principi fondamentali: peccati commessi per amore rivolto a un cattivo oggetto; peccati do-vuti a debolezza deH'inclinazione amorosa; peccati causati da un eccesso di inclina-zione. Nel primo gruppo rientrano i superbi (prima cornice), gli invidiosi (seconda cornice) e gli iracondi (terza cornice); nel secondo gli accidiosi (quarta cornice); nel terzo gli avari e prodighi (quinta cornice), i golosi (sesta cornice) e i lussuriosi (set-tima cornice). II Paradiso terrestre ě un luogo di incantevole bellezza e perfezione. Fu creato come sede originaria dell'umanita, ma a causa del peccato dei progenitori 1'uomo ne ě stato cacciato e da allora nessuno piu ha potuto entrarvi. Vi scorrono due fiumi: il Lete, la cui acqua toglie anche il ricordo dei peccati commessi, e l'Eu-noě, la cui acqua ha il potere di rafforzare la grazia acquisita da chi ě stato immerso nel Lete. Qui Dante osserva il dispiegarsi di una processione allegorica che illustra la storia della Chiesa e, soprattutto, dopo avere confessato le sue colpe ed essersi purificato nel Lete, incontra finalmente Beatrice. Com'efatto il Paradiso II vero Paradiso ě costituito dall'Empireo, un cielo immateriale, nel quale cioě non valgono le categorie di spazio e di tempo, che avvolge l'intero creato. Questo ě for-mato dalla Terra e da nove cieli fisici che la circondano: l'Empireo trasmette il mo-vimento a questi cieli i quali, mossi ciascuno da una determinata intelligenza angelica, grazie a quel movimento trasmettono ruotando gli influssi astrali sulla Terra. In ogni cielo ě incastonato un pianeta, dal quale il cielo prende nome. L'Empireo ě la sede di Dio ed ě il luogo immateriale nel quale soggiornano gli angeli e i beati. < Dante, pero, immagina che per incontrarlo i beati scendano temporaneamente nel cielo responsabile dell'influsso astrale al quale piú sono stati soggetti in vita. A par-tire dalla Terra i cieli si susseguono verso ľalto in quest'ordine: nel primo cielo, del-la Luna, appaiono gli spiriti che hanno disatteso un voto; nel secondo cielo, di Mer-curio, appaiono gli spiriti attivi per onore e gloria terrena; nel terzo cielo, di Venere, appaiono gli spiriti amanti; nel quarto cielo, del Sole, appaiono gli spiriti sapienti; nel quinto cielo, di Marte, appaiono quelli militanti per la ; nel sesto cielo, di Giove, appaiono gli spiriti giusti; nel settimo cielo, di Saturno, appaiono quelli contempla-tivi; nell'ottavo cielo, delle Stelle fisse, appaiono gli spiriti trionfanti. II nono cielo, detto Primo Mobile o Cielo Cristallino, il piú esterno e perciô piú vicino a Dio, im-prime il movimento a quelli sottostanti. Vi compaiono tutte le gerarchie angeliche (Serafini, Cherubini, Tróni, Dominazioni, Virtú, Potestä, Principati, Arcangeli, Angeli). Una linea di lettura Nel periodo in cui scrive YInferno Dante, in esilio da almeno quattro anni, cerca di ottenere dai Guelfi «neri» di Firenze un'amnistia personale che gli consenta di ri-tornare in cittä. Pertanto chiede perdono delia colpa piú grave da lui commessa nel biennio 1302-1304 durante il quale, insieme agli altri Guelfi «bianchi» esiliati, ha combattuto in armi contro Firenze, e cioé quella di avere stretto un'alleanza anche militare con i Ghibellini, considerati dai fiorentini, divisi in fazioni ma nell'ambito dello stesso partito guelfo, i loro peggiori nemici. Nelle intenzioni di Dante YInferno ha anche lo scopo di assicurare ai Guelfi di Firenze il suo totale distacco dai Ghibellini e di confermare la sua piena adesione alia politica guelfa delia cittä. Ecco per-ché in questa cantica (e solo in questa, giacché Purgatorio e Paradiso saranno scritti in congiunture politiche e personali molto diverse) egli passa sotto silenzio - o per lo meno attenua fortemente - le responsabilitä dei Neri nel colpo di Stato che aveva provocato la cacciata dei Bianchi, attacca i piú noti esponenti della parte ghibellina (Federico II, Farinata degli Uberti, Guido da Montefeltro), non pronuncia alcun elo-gio dell'istituzione imperiale e cerca di accreditarsi come erede della migliore tradi-zione guelfa. Nelľautunno dei 1308, con la sua uccisione, giunge al suo tragico epilogo la parabola politica di Corso Donati, ľuomo sul quale, grazie alla parentela con la mo-glie Gemma, Dante faceva affidamento per ottenere ľamnistia. In quel periodo co-mincia anche la scrittura dei Purgatorio. In questa cantica, perduta la speranza di rientrare in patria, Dante svela senza reticenze le sue vere convinzioni politiche, co-minciando proprio con il ribaltare il giudizio sui Ghibellini. A Federico II condan-nato alľlnferno contrappone il figlio Manfredi, salvato nonostante la scomunica papale; a Guido da Montefeltro, presentato alľlnferno con infamia, contrappone il figlio Buonconte, contro il quale aveva pur combattuto a Campaldino; denuncia le chiare responsabilitä dei Neri nella crisi politica sfociata nella guerra civile; esprime la convinzione che ľimpero sia necessario per la pace della cristianitä. Per buona parte della cantica Dante lamenta i gravi danni che la latitanza delľautorita imperiale (nessun imperatore era piú stato incoronato dopo la morte di Federico II nel 1250) e la conseguente autonómia delle istituzioni comunali e monarchiche hanno prodotto in Itália e in Europa. Ě vero che nelľautunno dei 1308 Enrico di Lussem-burgo era stato eletto re di Germania e dei Romani, e che aveva manifestato presto la sua intenzione di scendere in Itália per farsi incoronare imperatore, ma per pa-recchio tempo Dante non sembra avere creduto che il neoeletto, a differenza dei predecessori, mantenesse questo impegno. Si ricrederä quando nelľautunno di due anni dopo Enrico scenderä effettivamente in Itália e da quel momento appoggerä con tutte le sue forze il tentativo di restaurare ľautoritä imperiale. Preso com'e da-gli impegni politico-propagandistici (dovrebbe risalire agli anni di Enrico in Itália la scrittura dei trattato politico-giuridico sulla Monarchia), ě probabile che Dante abbia rallentato la composizione dei Purgatorio, addirittura ě possibile che l'abbia interrotta per un certo periodo di tempo. La riprenderä dopo ľimprovvisa e impre-vedibile catastrofe dell'avventura imperiale di Enrico VII, venuto a morte nelľago-sto dei 1313, e la riprenderä sulľonda della piú grave delusione da lui mai provata. Sarä con un nuovo spirito profetico, proiettato verso il futuro ma sganciato dalla realtä contingente, che scriverä i canti dedicati al Paradiso terrestre. Paradossal-mente, di Enrico VII nel Purgatorio non c'e traccia. II Paradiso si colloca sotto il segno dei fallimento di Enrico e dei tradimento della Chiesa, che dal 1309 ha stabilmente fissato la Sede papale ad Avignone sotto il con- < trollo dei re di Francia. Adesso Dante ha perso la speranza che le forze politiche e sociali possano operare per il bene comune e perció si distacca sia dai Guelfi che dai Ghibellini, anche perché ha maturato la convinzione che il riscatto della cristia-nitá e, finalmente, la restaurazione dell'autorita imperiále possano realizzarsi sol-tanto attraverso una profonda riforma della Chiesa. II profetismo che impregna di sé tutta la cantica ha come sua meta finále il ritorno alFImpero, ma come bersaglio polemico ormai quasi unico la Chiesa. Commenti consigliati La Divina Commedia, a eura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia, Firenze 19853 (I ed. 1957). La Divina Commedia, a eura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Le Monnier, Firenze 1979. Commedia, a eura di Emilio Pasquini e Antonio Quaglio, Garzanti, Milano 1987. Commedia, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano 1991-97. Vittorio Sermonti, Llnferno di Dante, II Purgatorio di Dante (revisione di Gianfranco Contini), II Paradiso di Dante (revisione di Césare Segre), Rizzoli, Milano 2001. Inferno, a eura di Saverio Bellomo, Einaudi, Torino 2013. Commedia, revisione del těsto e commento di Giorgio Inglese, Carocci, Roma 2016. 04103363 II racconto delia Commedia L L 1 INFERNO < > CANTO 1 Nella selva del peccato A trentacinque anni Dante perse la strada maestra e si ritrovö, di notte, in una fore-sta fitta e spaventosa. Non sa dire come e perche si fosse perduto: in quel momen-to, infatti, dormiva troppo profondamente. Dante, dunque, sta riferendo un sogno. Quando il sonno e profondo, insegna Aristotele, non si producono sogni o se ne producono solo di confusi, mentre diventano piü limpidi, e perciö restano impressi nella memoria, a mano a mano che il sonno si purifica. Dante, perö, ricorda che sul fare del giorno, dopo aver vagato tutta la notte, era capitato ai piedi di un colle i cui fianchi erano illuminati dai primi raggi del sole. Sorgeva l'alba del 25 marzo 1300. La vista del colle soleggiato gli diede coraggio, e cosi, riposatosi un po', gettö un'ultima occhiata alla foresta alle sue spalle e cominciö a salire. Fatti pochi passi, gli si parö davanti una lince dalla pelle screziata: non solo gli impediva di prose-guire, ma lo respingeva in basso. Dante, tuttavia, non si scoraggiö. L'ora mattutina e la stagione primaverile lo rendevano fiducioso. E invece, ecco apparire un leone: muoveva contro di lui ruggendo con rabbia. Dante si spaventö. Ma subito dopo lo spaventö ancora di piü, anzi, lo paralizzö di paura, una lupa vorace e magrissima, quasi consunta dalla bramosia. Perse la speranza di arrivare sulla cima. La lupa, infatti, gli andava incontro senza fretta e lui retrocedeva: cosicche a poco a poco lo stava ricacciando nella foresta dalla quäle era appena uscito. Una scena come questa ha significati che vanno al di la di quello letterale; in altre parole, si tratta di una scena allegorica. E in effetti tutti gli elementi che la costituiscono associano un significato simbolico a quello primario. La selva e un simbolo trasparente del male e del peccato, nel cui intrico si sono smarriti sia il personaggio Dante sia l'intera cristianita. Ne consegue che il sonno e reale, ma anche metaforico: il peccato ha intorpidito la sensibilita. Se il sonno reale impedisce di ricordare sogni troppo confusi, quello metaforico preeipita il sog-getto in uno stato di incoscienza. II colle illuminato rappresenta la condizione difelicitä ter- rena a cui gli uomini tendono con l'aiuto della virtü e della ragione. E le trefiere simboleg-giano i vizi che impediscono di raggiungere proprio quell'obiettivo: la lince incarna la lus-suria; il leone, la superbia; la lupa, l'aviditä. Ě quest'ultima la causa principále che impedisce agli uomini di essere felici. Dante ha di mira la moderna societa mercantile, basata sullo scambio di beni e sulle transazioni finanziarie, di cui la sua Firenze fornisce l'esempio piü compiuto. II pensiero sottinteso e che bisogna liberarsi di quel modello economico e sociale. Mentre scendeva dal fianco del colle retrocedendo verso la foresta, Dante scorse un essere umano, il cui aspetto non lasciava capire se fosse una persona viva o lo spettro di un defunto. «Pietä» gridö «chiunque tu sia, ombra o uomo!» «Non sono un uomo, lo sono stato» fu la risposta. Disse di essere nato a Mantova, al tempo di Giulio Césare, e di essere vissuto a Roma sotto l'imperatore Augusto; poeta, aveva cantato le imprese compiute da Enea dopo che fuggi da Troia in fiamme. E Virgilio, l'autore deWEneide, vissuto fra il 70 e il 19 a.C. Sara lui a fare da guida a Dante sia nella discesa all'Inferno sia nella salita al Purgatorio. Virgilio non e una figura allegorica: e qui a incarnare il potere della ragione e i valori culturali che l'antichitä aveva elaborato prima che Dio si rivelasse nella storia. «Ma tu» prosegui «perche vuoi tornare in quella paurosa foresta invece di salire sul colle che genera ogni umana felicitä?» Dante, che aveva riconosciuto la fonte di ogni eloquenza, gli rispose deferente. Gli disse che lui era il faro per tutti gli altri poeti, nonché il suo maestro e la sua massima autorita, il solo dal quäle aveva appreso lo stile elevato che gli aveva dato fama di poeta; in nome dell'amore che lo aveva spinto a leggere e a studiare il suo poema, lo pregö di aiutarlo contro quella lupa feroce. E, nel dirlo, piangeva. «Per uscire da questa foresta e salvarti da questa lupa che uccide chiunque cer-chi di passare e che, dopo aver mangiato, ě piü affamata di prima» gli rispose Virgilio «devi seguire un'altra strada.» {Come dire: nella situazione in cui ti trovi, virtü e ragione sono inefficaci, ben altra esperienza ti e necessaria.) E continuö con una profezia: la lupa si aecoppia con molti animali e seguiterä a farlo finché un veltro, un cane da caccia, non ne farä strazio. Questo veltro non si eiberä di beni materiali, ma di sag-gezza, ďamore e di virtü, le prerogative della Trinitä. Sara la salvezza della misera < Italia, per la quale hanno dato la vita la vergine Camilla, Eurialo, Turno e Niso, morti tutti, come si legge neWEneide, combattendo dall'una e dall'altra parte nella guerra tra i Latini e i Troiani. II veltro ricaccerá la lupa all'Inferno, da dove il demo-nio l'aveva liberata. Chi si nasconde dietro I'immagine del veltro? Quale personaggio storico e in quale epoca salvera I'ltalia distruggendo leforze diaboliche degli interessi economici, mercantili efinan-ziari? Molto probabilmente nessuno. Questa sembra una profezia generica, priva di un referente concreto. Pub darsi che Dante pensi a unfuturo imperatore oppure, ed éforse I'ipotesi piii plausibile, a un papa che riconduca la Chiesa alia poverta evangelica e che, attraverso una riforma della Chiesa, trasformi I'intera societa cristiana. «Seguimi,» continuó Virgilio «ti guideró attraverso l'lnferno, dove sentirai le gri-da disperate dei dannati, e attraverso il Purgatorio, dove vedrai le anime contente di soffrire perché sicure di raggiungere la beatitudine. Al Paradiso, invece, ti con-durrá un'anima piú degna di me: a me, pagano, Dio nega l'accesso alia cittá dei santi.» L'anima piii degna e quella di Beatrice, al secolo Bice Portinari, la donna amata e cantata da Dante in gioventu, morta died anni prima, nel 1290. Dante aveva raccontato la storia del suo amore per lei nella Vita Nova. Nelle ultime righe del libro aveva promesso di dedi-care a Beatrice salita in Paradiso un'opera piu degna di lei, ma poi aveva disatteso la pro-messa. Con la Commedia, finalmente, onora quell'impegno. Dante rispose prontamente: «Portami la dove hai detto. Fammi vedere la porta del Purgatorio e i dannati dell'Inferno». Allora Virgilio si mosse e lui lo segui. CANTO 2 Tre donne soccorrevoli Avevano camminato per tutto il giorno, il sole stava tramontando. La notte dava riposo a uomini e animali; solo Dante, sveglio, cercava dentro di se la forza per af-frontare il terribile viaggio che, come autore, si appresta a raccontare, se le Muse, l'ingegno e la memoria lo assisteranno. «Ma tu sei proprio convinto che io sia capace di fare ciö che mi chiedi?» doman-dö a Virgilio. «Hai scritto che Enea, ancora vivo, e andato nell'aldilä. Ebbene, e evidente che Dio gli aveva concesso tale privilegio perche lui, Enea, predestinato a fondare Roma, nel mondo dei morti avrebbe appreso cose necessarie per compiere la sua missione. Nei piani divini Roma avrebbe dato vita a un impero, e cosi i papi, che in quella cittä avrebbero avuto sede, avrebbero diffuso in tutto il mondo il mes-saggio crisriano. Anche san Paolo e salito, vivente, in Paradiso; e questo affinche il suo apostolato ne avesse giovamento e la fede cristiana si spandesse piü sicura tra i popoli. Ma io non sono Enea, non sono Paolo! So bene di non essere degno di questo privilegio. Per me questo viaggio sarebbe una pazzia.» Combattuto tra paura e desiderio, nel corso della notte Dante aveva consumato la bella sicurezza con la quäle si era messo in cammino. «La tua» gli rispose Virgilio «e viltä, e la viltä impedisce agli uomini di compiere grandi imprese. A questo punto e bene che io ti riveli perche ti sono venuto incontro.» Raccontö che nel Limbo, dove egli era relegato tra le anime non sottoposte ai tor-menti infernali ma prive della speranza di conoscere la beatitudine Celeste, si era sentito chiamare per nome. Una donna bella, dagli occhi piü splendenti delle stelle, con una voce angelica e modi semplici e soavi, gli aveva detto che un suo amico, un vero amico, aveva perso la strada e aveva bisogno di aiuto. Lo aveva pregato di soccorrerlo, pur temendo che ormai fosse troppo tardi. Aveva detto di chiamarsi Beatrice, di essere discesa dal Cielo spinta dall'amore. Lui si era dichiarato pronto a esaudire quel desiderio, ma le aveva chiesto come mai un'anima beata non avesse avuto timore di scendere dal Paradiso fino all'Inferno. «Bisogna temere» gli aveva risposto lei «solo ciö che puö nuocere, ma niente di questo vostro mondo infelice puö toccare me beata.» In Paradiso, aveva continuato Beatrice, la Vergine Maria provava compassione di quell'amico suo incapace di uscire dalla foresta, tanto che, infrangendo la severa sentenza emessa da Dio contro di lui, aveva chiamato Lucia e le aveva raccoman-dato di prendersi cura di quell'uomo, che era pure un suo devoto. Lucia era subito corsa al luogo dove lei, Beatrice, sedeva accanto a Rachele, la moglie di Giacobbe (Dante le vedra sedute insieme nel canto 32 del Paradiso), e le aveva detto: «Beatrice, perche non aiuti colui che ti ha tanto amata e che si e innalzato sopra gli altri rima-tori grazie alle poesie scritte per te? Non ti addolora vederlo vicino a morire?». Santa Lucia e la martire di Siracusa venerata come protettrice della vista. Dante soffriva di disturbi agli occhi, e cid potrebbe spiegare la devozione che nutriva nei suoi confronti. E probäbile che anche Beatrice, in vita, fosse una sua devota. La casa del quartiere d'Oltrarno nella quale Bice Portinari era vissuta dopo aver sposato Simone dei Bardi, infatti, era quasi addossata a una chiesa dedicata alia santa, ed e perfino ipotizzabile che la donna fosse stata sepolta proprio Ii. C'erano dunque tutte le ragioni biografiche perche nel poema santa Lucia svolgesse unafunzione di tramitefra Dante e Beatrice. Udite quelle parole, Beatrice si era subito alzata dal suo scranno e si era precipi-tata all'Inferno (la scena sarä rievocata nel canto 32 del Paradiso). Mentre parlava, dis-se Virgilio, piangeva, e anche il suo pianto lo aveva spinto ad affrettarsi a salvare Dante dalla lupa. «Dunque, cosa ti succede? Perche ti fermi? Perche ti lasci prendere dalla viltä? Sapere che tre donne come queste vegliano su di te in Paradiso dovrebbe darti coraggio.» E Dante il coraggio lo ritrovö immediatamente. «Sono deciso» gli disse. «Fammi da guida e da maestro.» E cosi cominciarono a scendere per un cammino impervio. CANTO 3 Gli ignavi «Attraverso di me si entra nella cittá del dolore, attraverso di me si entra dove il dolore ě eterno, attraverso di me si va tra i dannati. Mi ha costruito la giustizia di-vina, Padre, Figlio e Spirito Santo; prima di me esistevano solo cose incorruttibili, ma anch'io duro in eterno. Lasciate ogni speranza, voi che entrate.» Queste minac-ciose parole, scritte sull'architrave di una porta, sgomentarono Dante. Era la porta che introduceva nellTnferno. «Adesso abbandona ogni esitazione» lo esortb Virgilio. «Qui, come ti ho detto, vedrai le anime che hanno perduto per sempře la visione di Dio.» Poi, con un sorriso rassicurante, lo prese per mano e lo condusse dentro quel mondo negato ai viventi. Sospiri, pianti, acuti lamenti echeggiavano sotto una volta scura, senza stelle: imprecazioni, sussurri, strida nelle lingue piú diverse, e il rumore di mani e di cor-pi percossi scuotevano come un turbině quelFaria eternamente buia. Inorridito, Dante chiese a Virgilio chi fosse la gente che si lamentava in quel modo. «Questi» spiegó Virgilio «in vita non furono né buoni né cattivi. Con loro sono mischiati gli angeli vili che non si schierarono né con Lucifero né con Dio. I cieli li rifiutano, ma nemmeno lTnferno li vuole: che gloria potrebbero mai dargli simili peccatori?» «Ma cosa li tormenta tanto?» chiese Dante. «Semplicemente 1'essere privi di ogni speranza, perfino quella di essere annichi-liti per sempre» rispose Virgilio. «Sulla Terra nessuno li ricorda, Dio non li degna né della sua misericordia né della sua giustizia. Non parliamo di loro, guardali e tira dritto.» Dante vide una moltitudine di spiriti correre veloci e senza meta dietro a una bandiera. Mai avrebbe creduto che taňte persone fossero vissute sulla Terra. Ne ri-conobbe qualcuna, ma solo dopo aver riconosciuto 1'anima di colui che per viltá fece il gran rifiuto capi che quella era la folia degli ignavi, i vigliacchi giá morti quando erano ancora in vita, disprezzati da Dio e dal Diavolo. Nudi, erano punti da mosconi e da vespe: il sangue che gli rigava il volto cadeva ai loro piedi mi-schiato alle lacrime e qui era succhiato da vermi schifosi. / lettori del tempo di Dante non esitavano a riconoscere nel vile che fece il gran rifiuto papa Celestino V, I'eremita Pietro del Morrone - uomo di vita santa, ma inesperto di proble-mi ecclesiastici e politici - che si era dimesso dopo pochi mesi di pontificato (5 luglio - 13 dicembre 1294). Gli sarebbe succeduto, con il nome di Bonifacio VIII, il cardinale Benedetto Caetani, che Dante considerava il suo piú acerrimo nemico personále, la causa prima della sua rovina e della corruzione della Chiesa. Per Vintera durata del suo pontificato Bonifacio VIII fu perseguitato dall'accusa di essere stato lui a indurre Celestino alle dimissioni per potergli succedere, accusa a cui Dante mostra di dare credito. Guardando davanti a sé Dante vide una massa di anime accalcarsi sulla riva di un fiume. «Chi sono?» chiese a Virgilio. «Perché sembrano cosi desiderose di passa-re dila?» «Lo saprai quando saremo vicini all'Acheronte, il fiume del dolore» fu la risposta. Dante ebbe la sensazione che le sue parole infastidissero Virgilio e allora, con gli occhi bassi per la vergogna, rimase in silenzio finché non arrivarono al fiume. L'Acheronte, presente anche nelle raffigurazioni dell'Averno o Ade, il regno dei morti del mondo classico, segna il confine tra I'Antinferno degli ignavi e Vlnferno vero e proprio. Un vecchio, bianco di pelo e di capelli, si dirigeva su una barca verso Dante e Virgilio gridando: «Guai a voi, anime malvagie, non sperate di rivedere il cielo. Io vi porteró all'altra sponda, nelle tenebre eterne». Poi, rivolto a Dante: «Tu che sei vivo, allontanati da questi morti». Siccome lui non si allontanava, aggiunse: «Diversa ě la tua strada: una barca molto piú leggera ti traghetterá a un'altra riva.» Dante, dunque, non era destinato allTnferno. Nel canto 2 del Purgatorio Dante raccontera che una veloce imbarcazione, governata da un angelo, trasporta quasi volando sulle onde le anime all'isola in mezzo all'oceano sulla quale si innalza la montagna che esse dovranno satire per purificarsi. Intervenne Virgilio: «Caronte, lo vuole Dio onnipotente, e quindi taci». < A queste parole, le guance barbute del nocchiero non si mossero piů. Anche nella mitologia antica Caronte aveva il compito di traghettare le anime dei morti al di la del flume (o palude) di Acheronte. II ritratto del démone (perché tali diventano nel-ľimmaginario cristiano i personaggi dell'Ade pagano) tracciato da Dante assomiglia molto a quello ehe ne fa Virgilio nelľEneide. Le anime ehe si accalcavano presso le livide acque del fiume, udite le parole gri-date da Caronte, impallidirono, digrignarono i denti e poi si diedero a bestemmiare Dio, la specie umana, i genitori, il luogo e il momento in cui erano stati concepiti e quello in cui erano nati. Dopo di ehe si raggrupparono piangendo sulla sponda. Caronte, a cenni, le caricava sulla barca: con il remo colpiva chi si sedeva. La riva si svuotö, ma per poco. La barca non era ancora approdata dall'altra parte che gia si era radunata una nuova schiera. Virgilio spiegö a Dante che li si radunavano da ogni parte del mondo tutti coloro che morivano in peccato mortale, e che erano cosi vogliosi di attraversare il fiume perché la giustizia divina trasformava la paura delia pena in desiderio. Aggiunse che da li non passava mai alcuna anima destinata alia salvezza e che, pertanto, le proteste di Caronte nei suoi confronti significavano chiaramente che lui si sarebbe salvato. A quel punto un forte terremoto scosse quella buia regione. Dalla terra si sprigionö un vento che produsse un lampo vermiglio: Dante svenne, e cadde al suolo come se si fosse addormentato. 4192 CANTO 4 I grandi spiriti del Limbo Dante fu svegliato dal suono cupo di un tuono. Si alzb in piedi e guardó intorno a sé. Si trovava sulForlo di una voragine dalla quale salivano grida e lamenti assor-danti. Era buia e caliginosa, tanto profonda che era impossibile distinguervi alcunché. «Adesso scendiamo nel mondo senza luce» disse Virgilio pallido in volto. «Io andró avanti e tu mi seguirai.» Ma Dante, che si era accorto del suo impallidire, protestó: «E come posso seguir-ti se tu, mia guida, sei cosi impaurito?». «Non ě paura» rispose Virgilio «ma pieta di coloro che sono rinchiusi qui sotto. Muoviamoci, il viaggio ě lungo.» Si inoltrarono nel primo dei cerchi concentrici e digradanti che contornavano la voragine. Qui nessuno piangeva. Folie di bambini, di donne e di uomini facevano tremare 1'aria con i loro sospiri. Non piangevano, perché nessuna punizione li tormentava. «Non mi chiedi chi sono?» domandó Virgilio. «Questi» seguito senza aspettare la risposta di Dante «in vita non hanno peccato, e pero, anche se hanno fatto cose buone, i loro meriti non sono stati sufficienti a salvarli. Quelli vissuti dopo Cristo non hanno ricevuto il battesimo, e quelli vissuti prima hanno seguito una religione sbagliata. Io sono uno di loro. Siamo condannati solo per questo. La nostra pena ě sapere di non poter appagare, mai e poi mai, il desiderio di congiungerci a Dio.» Le sue parole fecero capire a Dante che su quel margine intorno al pozzo erano relegate anche anime di persone di grande valore, e ció lo addoloró molto. «Qualche anima ě mai uscita da qui, o per i propri meriti o per l'intervento di altri?» chiese, senza pero dire a Virgilio che fede e dottrina gli avevano insegnato come Cristo risorto fosse disceso all'Inferno e vi avesse Iiberato le anime dei pa-triarchi ebrei. Virgilio, tuttavia, aveva intuito il suo pensiero, e allora gli raccontó che, non molto tempo dopo il suo arrivo nel Limbo (il poeta era morto nel 19 a.C, poco piú di cinquanťanni prima della mořte di Cristo, avvenuta secondo Dante nel 34), aveva visto giungere all'Inferno un Potente incoronato con il segno della croce: questi aveva Iiberato le anime del progenitore Adamo e di suo figlio Ábele, di Noe, Mosě, Abramo e Davide, di Giacobbe con il padre Isacco, i suoi dodici figli e la mo-glie Rachele, e di tanti altri ancora, e le aveva portate in Paradiso. Prima di allora, nessun'anima ne era mai uscita. Mentre Virgilio parlava, i due camminavano fendendo quella moltitudine di spi-riti, fitta come una foresta. Percorso un breve tratto di strada, Dante vide un fuoco illuminare le tenebre. Benché fossero ancora a una čerta distanza, si accorse che in quel cerchio di luce si trovavano persone onorevoli, e allora chiese a Virgilio chi fossero coloro che godevano del privilegio di essere separati dalle altre anime. Questi gli spiegó che il Cielo accordava loro quella distinzione perché portavano nomi famosi e venerati sulla Terra. In quel momento echeggió una voce: «Onorate il sommo poeta: la sua ombra, che si era allontanata, sta tornando da noi». Quattro grandi ombre avanzavano silenziose verso di loro. Non sembravano né liete né tristi. «Guarda!» disse il maestro. «Quello che impugna la spadá e precede gli altri come se fosse il loro re ě Omero, il sovrano dei poeti; dietro di lui ě Orazio, il terzo ě Ovidio, 1'ultimo ě Lucano. In quanto poeti, onorando me, onorano sé stessi.» Di Omero, Dante, come tutti i suoi contemporanei, aveva solo una conoscenza vaga e di seconda mano, ma sapeva bene che una tradizione ininterrotta lo indicava come il principe dei poeti; Orazio, Ovidio, Lucano e, naturalmente, Virgilio costituivano nel Medioevo il ca-none deWeccellenza poetka: erano i poeti per antonomasia. I quattro si riunirono con Virgilio, parlarono un po' tra loro e poi rivolsero a Dante gesti di saluto. Di questa cortesia Virgilio parve contento. E non si limitarono a salutarlo, ma lo accolsero nel loro gruppo. Cosi Dante fu il sesto di quei grandi sapienti. Nel collocare sé stesso nella ristretta schiera di quei sommi Dante autore compie un gesto di inaudita audacia. Implicitamente, infatti, egli attribuisce anche a sé stesso, che pure scri-ve in volgare e avrebbe percib diritto solo al nome di rimatore, quel titolo di poeta che la cul-tura del suo tempo riconosceva unicamente agli antichi autoři che avevano scritto in greco o < in latino. Ě un modo, sicuramente immodesto, per innalzare il poema che sta scrivendo sul-lo stesso piano dei capolavori dell'antichita. Parlando, il gruppetto si spinse fino alia zona illuminata dal fuoco. Arrivarono ai piedi di un castello cinto da sette giri di mura e circondato da un piccolo fiume. Lo attraversarono come se fosse privo d'acqua; poi, superate una dopo ľaltra sette porte, giunsero a un prato d'erba freschissima. Qui c'erano perso-ne dall'aspetto molto autorevole: pronunciavano poche parole, a bassa voce. Poi salirono su un'altura illuminata dalla quale era possibile osservare tutte le anime ehe si trovavano sul prato. Davanti a sé Dante vide gli spiriti dei non cristiani che avevano concepito e compiuto grandi cose. Quella visione, commenta, lo entusia-sma ancor oggi mentre ne scrive. Quei grandi spiriti erano divisi in due gruppi principáli. II primo, costituito da personaggi eminenti nella vita attiva, comprendeva nomi famosi della storia di Tro-ia e di Roma, considerate insieme perché i Latini erano, tramite Enea, discendenti dei Troiani e perché ľimpero costruito da quella discendenza aveva svolto, per vo-lere della Provvidenza, una funzione determinante nella diffusione del cristianesi-mo. Ecco dunque Elettra, madre di Dardano, progenitrice della Stirpe troiana, e tra i suoi molti nipoti i due piú illustri, Ettore ed Enea; a Enea, fondatore di Roma, segue Giulio Cesare, fondatore dell'impero, in armi e con lo sguardo minaccioso. E poi Camilla, la figlia del re dei Volsci ehe combatté contro Enea, e Pentesilea, regina delle Amazzoni, uccisa da Achille sotto le mura di Troia; dal lato opposto, il re Latino era seduto accanto alia figlia Lavinia, moglie di Enea. L'elenco prosegue con Lucio Giunio Bruto, primo console di Roma, ehe ne cacciö il re Tarquinio il Superbo, e con un gruppetto di donne romane celebri per la loro virtú: Lucrezia, ehe si suicidö dopo essere stata disonorata da Sesto Tarquinio, figlio del Tarquinio appena ricor-dato; Giulia, figlia di Cesare e moglie di Pompeo; Marzia, moglie di Catone Uticen-se {che sara protagonista dei canti 1 e 2 del Purgatorio), e Cornelia, madre dei Gracchi (riproposta come esempio di virtu nel canto 15 del Paradiso). In disparte se ne stava il Saladino, cioě Salah-ad-Din, sultáno d'Egitto alia fine del XII secolo (unico personag-gio «moderno» e nello stesso tempo il solo grande spirito islamico della schiera). Collocato in posizione piú elevata era il secondo gruppo, quello dei sapienti, di-sposti intorno ad Aristotele, che di tutti i sapienti ě il maestro. Gli altri lo guardava- no con riverenza: primi fra gli altri i filosofi Socrate e Platone, che gli erano piú vi-cini. Intorno sedevano Democrito di Abdera, Diogene il Cinico, Anassagora di Cla-zomene, Talete di Mileto, Empedocle di Agrigento, Eraclito di Efeso, Zenone di Elea, Dioscoride di Cilicia. E inoltre i poeti greci Orfeo e Lino, Cicerone, il filosofo Lucio Anneo Seneca; accanto, gli scienziati: il matematico Euclide, ľastronomo e geografo Tolomeo, i medici Ippocrate e Galeno e, unici «moderni», i filosofi arabi Avicenna e Averroě. Su quel prato c'erano ancora molti altri spiriti, ma Dante auto-re non puô elencarli tutti: deve procedere nel suo racconto perché tante sono le cose da riferire. La compagnia dei poeti dovette dividersi: Virgilio condusse Dante fuori da quel tranquillo castello, di nuovo nella zona buia dove i sospiri facevano tremare l'aria. CANTO 5 I lussuriosi: Francesca e Paolo Dal primo cerchio Dante scese nel secondo. Era piü piccolo del precedente, ma con-teneva molto piü dolore. All'ingresso il giudice Minosse, ringhiando in modo orri-bile, interrogava le anime, emetteva la condanna e la rendeva esecutiva. Dopo aver ascoltato la loro confessione e avere capito quäle luogo dellTnferno si addicesse alle loro colpe, attorcigliava la coda intorno al corpo un numero di volte pari a quello del cerchio a cui erano destinate. Come Caronte, anche il mitico re di Creta Minosse e un personaggio del mondo dei morti gia presse gli antichi. NeZZ'Eneide esercita questo stesso ruolo di giudice dei defunti all'ingresso dell'oltretomba. Benche le anime in attesa di giudizio fossero molte, quando vide Dante, Minosse interruppe il suo lavoro e gli disse: «Tu che vuoi entrare in questa casa di dolore, stai attento. Non ti fidare della tua guida, e non Iasciarti neppure ingannare dal fat-to che l'ingresso sia cosi largo». «Minosse,» lo interruppe Virgilio «smetti di gridare. Non puoi impedire un viag-gio voluto dal fato: lo vuole Dio onnipotente, perciö taci.» II luogo, buio, muggiva come il mare in tempesta. Una bufera incessante trasci-nava le anime che, prese nel vortice, venivano sbattute qua e lä e percosse tra loro. Dante comprese che quel tormento puniva i lussuriosi, i peccatori che sottomettono la ragione agli istinti. II vento Ii faceva volare come fossero stornelli, Ii sballottava disordinatamente in tutte le direzioni. Non potevano sperare non solo che si fer-masse, ma nemmeno che calasse un poco. Nella tormenta Dante vide avvicinarsi, portata dal vento, una lunga fila di anime simile a quella che formano le gru volando una dietro l'altra, e come le gru anche le anime emettevano suoni lamentosi. Chiese al suo maestro chi fossero. Virgilio cominciö a elencarle a una a una. Semiramide, moglie di Nino, a cui succedette sul trono: regnö su molti popoli, fu rotta a ogni lussuria, al punto che, per cancella- re l'infamia del suo amore incestuoso per il figlio, dal quale secondo alcuni sarebbe stata uccisa, decreto per legge che ciascuno potesse fare cio che piu gli piaceva. Di-done, di cui nell'Eneide Virgilio racconta che si uccise per amore di Enea, dopo aver tradito la fedelta promessa al defunto marito Sicheo. Cleopatra, la lussuriosa regina d'Egitto che si diede la morte per non cadere nelle mani di Ottaviano (suicidio ricor-dato anche nel canto 6 del Paradiso). Elena, a causa della quale fu combattuta la lunga e luttuosa guerra di Troia (e che Dante, forse, riteneva morta nella distruzione di quella citta). II grande Achille che, innamoratosi della figlia di Priamo, Polissena, si lascio attrarre in un agguato dove mori per mano del di lei fratello Paride. Paride (il rapi-tore di Elena, che dopo aver ucciso Achille fu ucciso a sua volta da unafreccia avvelenata scagliatagli da Filottete). Tristano (cavaliere della Tavola Rotonda legato da un tragico amore incestuoso a Isotta, moglie di suo zio Marco, re di Cornovaglia e, secondo alcuni, ucciso proprio da lui). Questo elenco di donne e di cavalieri del passato suscito in Dante un turbamen-to cosi forte che per poco non perse i sensi. La sua attenzione fu attirata da due anime che non volavano una dietro l'altra, ma affiancate. Incuriosito, disse a Virgilio che avrebbe parlato volentieri con loro; lui gli rispose di aspettare che si fossero avvicinate e poi di pregarle in nome di quell'amore che le teneva strette nel volo: lo avrebbero accontentato. Cosi Dante fece. Le invito a parlare con lui, se Dio non lo impediva, e allora quelle anime tor-mentate, avendo percepito quanto affetto pervadesse la sua richiesta, si staccarono dalla fila e come due colombe gli si avvicinarono in volo. «0 uomo cortese e benevolo» comincio una delle due «che in questo luogo tene-broso vieni a far visita a noi che macchiammo il mondo con il nostro sangue, se Dio ci fosse amico lo pregheremmo di premiare la compassione che mostri per il nostro male crudele concedendoti di vivere in pace. Fino a che il vento, qui, si manterra calmo come e adesso, noi vi diremo tutto cio che desiderate ascoltare.» Dopo esser-si presentata - «Sono nata a Ravenna, una citta vicina al mare nel quale sfocia il Po con i suoi affluenti» - raccontb come tra lei e il compagno fosse nato l'amore e a quale tragico destino li avesse condotti: «Amore, che in un cuore nobile attecchisce veloce, accese in costui un cosi smodato desiderio del mio bel corpo, di cui adesso sono priva, che ancora, dannata, ne soffro le conseguenze. Amore, che impone di < riamare chi ti ama, accese me di un desiderio cosi forte della bellezza di quesťuo-mo che, come vedi, ancora mi possiede. Amore ci porto a morire insieme. Chi ci uc-cise a tradimento vive ancora, ma ě atteso nella Caina» (al fondo delllnferno, dove sono puniti i traditori dei parenti). Dante ha riconosciuto i protagonisti di una storia di amore e mořte accaduta non molti anni prima. Francesca da Polenta, figlia di Cuido il Vecchio signore di Ravenna e moglie del signore di Rimini Giovanni Malatesta detto Gianciotto perché sciancato («ciotto»), ave-va una relazione con il fratello del marito, Paolo Malatesta detto il Bello, lui pure sposato. La relazione, dunque, oltre che adulterina era incestuosa, dal momento che allora veniva considerato incestuoso un rapporto carnale anche con parenti acquisiti. Adulterio e incesto sono sipeccati individuali, ma di forte impatto sociále perché turbano 1'armonia della fami-glia e le regole della convivenza. Gianciotto, scoperta la tresca, li uccise entrambi. Dante e il solo a parlare di questa vicenda, della quale tacciono tutte lefonti delVepoca, comprese quel-le romagnole. II duplice delitto, dunque, non avevafatto scalpore, anche perché non doveva-no essere rari i casi di mariti, soprattutto di rango, che lavavano con il sangue 1'onore mac-chiato. Quelfatto di sangue, pero, era ben noto a Firenze, dove i protagonisti erano molto conosciuti: Paolo Malatesta vi aveva esercitato la funzione di capitano del Comune tra il 1282 e il 1283 e il padre di Francesca vi aveva ricoperto la carica di podesta nel 1290, pochi anni dopo il delitto, databile intorno al 1285. Udite le parole di quelle anime ferite, Dante chinó il capo, tanto a lungo che Vir-gilio gli chiese: «A cosa stai pensando?». Quando finalmente gli rispose, esclamó: «Ahimě, quali dolci pensieri ďamore, e che grande desiderio condusse questi due a un cosi doloroso trapasso!». Poi si rivolse a loro: «Francesca, i tuoi tormenti mi impietosiscono fino alle lacri-me, ma dimmi: al tempo dolcissimo nel quale in ciascuno di voi si accendeva il desiderio, con quali indizi e in quale occasione amore fece in modo che lo rivelaste 1'uno all'altro?». E lei gli rispose: «La tua guida sa bene che non c'ě dolore piú grande del ricorda-re la passata felicitá quando si ě infelici, ma siccome sei cosi desideroso di conosce-re come sia nato il nostro amore, te lo racconteró, pur piangendo». In precedenza, quando per la prima volta si é rivolta a Dante, Francesca ha citato alcuni dei concetti piú importanti del cosiddetto «amor cortese», cioé di quella idea delVamore che ispirava gran parte della letteratura amorosa in prosa e in versi del Medioevo: Vamore é una prerogativa di persone nobili di animo e solo di quelle; impone a chi e amato di ricambiare il sentimento; é desiderio suscitato dalla bellezza corporea dell'uomo o della donna. Francesca, pero, ignora o distorce il vero significato dell'amor cortese: mentre questo impone di subli-mare il desiderio, lei riduce un sentimento che dovrebbe raffinare I'animo di chi lo prova a soddisfazione dei sensi, e quindi a lussuria. Adesso, nel raccontare Voccasione nella quale Vamore si era rivelato a entrambi, presenta la letteratura «cortese», quella stessa che gia aveva travisato, come fonte di corruzione e incitamento a peccare. Francesca disse, infatti, che un giorno, per svago, lei e il suo compagno stáváno leggendo il Lancelot, il romanzo (in prosa francese, a cui Dante fara ancora riferimento nel canto 16 del Paradiso) che racconta come il cavaliere Lancillotto si fosse innamo-rato di Ginevra, moglie di re Artu. Erano soli e non sospettavano cosa sarebbe acca-duto. Ě vero che ció che leggevano li aveva spinti piú di una volta a guardarsi negli occhi e che quegli sguardi li avevano fatti impallidire, ma a farli cedere fu un punto ben preciso del racconto. Quando lessero che quel nobile innamorato bació la bocca da lui desiderata, Paolo, tremante d'emozione, bació la sua. Da quel momento smi-sero di leggere. Come nel romanzo il siniscalco Galeotto aveva indotto Ginevra a baciare Lancillotto, il libro aveva spinto loro a baciarsi. Mentre Francesca parlava, 1'altra anima, mai nominata, piangeva. Colpito da tanto dolore, Dante perse conoscenza, e cadde a terra come se fosse morto. CANTO 6 I golosi: Ciacco I tormenti di Francesca e Paolo, amanti benché cognati, avevano tramortito Dante. Ripresi i sensi, si ritrovó nel cerchio sottostante, il terzo. Intorno a lui, in qualunque direzione si muovesse o ficcasse gli occhi, non c'erano che nuovi dannati sottoposti a nuove pene. In quel luogo una pioggia fredda, pesante, mista a grandine e neve, si riversava, sempře uguale, su un terreno maleodorante. Cerbero, fiera crudele e mostruosa - gli occhi iniettati di sangue, la barba unta e lercia, il ventre dilatato e le mani artigliate - latrava con tre gole sopra le anime sommerse dalla pioggia e le graffiava, le scuoiava, le squartava. I reietti ululavano come cani, e si rivoltolavano da un lato alťaltro per ripararsi in parte dalla pioggia. Quando vide Dante e Virgilio, Cerbero, tremando in tutto il corpo, spalancó le tre bocche e mostró le zanne. Virgilio raccolse da terra due manciate di fango e le gettó in quelle gole fameliche. Subito le tre facce del démone Cerbero si acquietarono, proprio come fa un cane dopo aver dato il primo morso al pasto per il quale smaniava abbaiando. Dante trasforma Cerbero, che nelle rappresentazioni antiche delYAde era un cane a tre teste, in un démone mostruoso che abbina tratti animali e umani. Le ombre, sfibrate dalla pioggia, giacevano distese per terra, simili a corpi ma prive di consistenza. Virgilio e Dante le calpestavano camminando. Di colpo, una di esse si levó a sedere e disse a Dante: «Tu dovresti riconoscermi perché sei nato prima che io morissi». E lui: «Non ricordo di averti mai visto, forse perché lo strazio a cui sei sottoposto ti rende irriconoscibile. Dimmi tu chi sei, e perché sei condannato qui a una pena cosi spiacevole». «Nella dolce vita terrena abitavo nella tua cittá, che oggi trabocca ďinvidia. Voi fiorentini mi chiamavate Ciacco. Sono qui a macerarmi sotto la pioggia a causa del peccato di gola. Non sono il solo, comunque: anche tutte le altre anime qui presenti sono punite per questo stesso peccato.» Su questo Ciacco - che sembrerebbe piú un nome di battesimo che un soprannome di-spregiativo («ciacco» con il significato di «porco») - Dante autore nonfornisce alcuna in-formazione. Molto probabilmente era quello che allora veniva chiamato un «uomo di corte», cioé un diente di grandi famiglie facoltose, le quali, per ostentare la loro ricchezza, scim-miottavano lo stile di vita dell'antica nobilta feudale offrendo grandi pranzi, quel che si di-ceva «teuere corte imbandita». Per Dante il lusso e lo sperpero sono aspetti riprovevoli di una societa dominata da arricchiti che ignorano la vera generosita cortese. Sentito che si trattava di un concittadino, Dante, dopo aver manifestato dolore per la sua angosciosa condizione, gli fece tre domande: «Fino a che punto i fiorentini spingeranno le loro divisioni? A Firenze c'ě ancora qualche persona giusta? Qual ě 1'origine delle discordie che lacerano la cittä?». E la prima volta che Dante affronta il terna delle discordie civili florentine. Verso la fine degli anni Novanta del Duecento il partito guelfo si era diviso in due fazioni: quella dei Bianchi, alla quale era affiliato lo stesso Dante, capeggiata dalla famiglia dei Cerchi, ban-chieri, e quella dei Neri, capeggiata dalla famiglia dei Donati, a un ramo della quale appar-teneva Gemma, la moglie di Dante. I Neri erano sostenuti, piú o meno apertamente, da papa Bonifacio VIII. Questi avevafatto venire in Italia in loro aiuto Carlo di Valois, fratello del re di Francia Filippo IV il Bello, efu proprio grazie alle armi francesi che nel novembre 1301 i Neri presem il potere a Firenze e, nei primi mesi dell'anno successivo, ne esiliarono i Bianchi. Alla prima domanda Ciacco rispose con una predizione: «La lunga contesa sfo-cera nel sangue. II partito dei Cerchi caccera dalla cittá quello dei Donati. Ma ě de-stino che, prima ancora che passino tre anni da adesso (primavera del 1300), il potere dei Cerchi precipiti e che alto si levi, con 1'aiuto di uno (Bonifacio VIII) che ora si at-teggia a imparziale, quello dei Donati. Questi domineranno per molto tempo, ves-sando gli altri senza curarsi né dei loro lamenti né della loro indignazione». Predizione sostanzialmente corretta - anche perché Dante sta scrivendo dopo che gli eventi sono gia accaduti -, tranne che su un punto: i Bianchi non hanno mai cacciato dalla cittä i Neri. Dante autore, evidentemente, vuole apparire imparziale e distribuire su en-trambe le parti le responsabiliťa, anche a scapito della veriťa storica. Alle altre due domande Ciacco rispose in modo piú sbrigativo: «Di giusti, ce ne sono pochissimi, e anche quei pochi sono inascoltati. L'odio che incendia i cuori ě < nato dalla superbia, dall'invidia e dall'aviditá». Dante gli fece un'ulteriore domanda: «Dimmi dove si trovano le anime di Fari-nata degli Uberti e di Tegghiaio Aldobrandi, persone tanto ragguardevoli, di Iaco-po Rusticucci, di Arrigo Fifanti, di Mosca dei Lamberti e degli altri che in passato si impegnarono per il bene pubblico. Li addolcisce il Cielo o li avvelena l'Inferno?». «Sono fra le anime piú nere, nei cerchi piú profondi: se scenderai fin laggiú, li potrai vedere» gli rispose Ciacco. (E infatti Dante avra eura di ripresentarle nei canti che seguiranno.) Le persone nomínate erano fiorentini vissuti molti anni prima, intorno alla metá del Duecento. Alcuni di loro erano guelfi, altri ghibellini, ma appartenevano tutti a grandi fa-miglie delYaristocrazia cittadina, il cui stile di vita era assai diverso da quello dei loro di-scendenti, che ostentavano la riechezza mantenendo clienti come Ciacco. Dopo aver pregato Dante, una volta ritornato alla dolce vita terrena, di ricordar-lo ai vivi, Ciacco lo guardó per qualche istante, storcendo gli ocehi, poi reclinó il capo, e con quel movimento cadde disteso insieme agli altri accecati dal fango. «Si rialzerá solo il giorno del Giudizio universale» commentó Virgilio «quando, al suono della tromba degli angeli, ogni anima ritornerá nella sua tomba terrena, riprenderá il proprio corpo e udirá la sentenza di condanna rimbombare per l'eternitá.» Mentre, a passi lenti, attraversavano quella repellente mistura di anime e fango, Virgilio e Dante parlavano di quale sarebbe stata la condizione delle anime dopo il Giudizio finále. Dante volle sapere se, dopo quel giorno, le pene infernali sarebbero rimaste immutate o sarebbero cresciute di intensita. Virgilio lo rimandó alla dottri-na di Aristotele, secondo la quale quanto piú un essere ě perfetto, tanto piú sente il bene e il male: anche se i dannati non avrebbero mai raggiunto una totale perfezio-ne, tuttavia dopo il giudizio avrebbero avuto un essere piú pieno e perfetto. Percorrendo il cerchio, arrivarono all'imbocco della discesa in quello sottostante. Qui trovarono il diavolo Pluto. CANTO 7 Prodighi e avari, iracondi e accidiosi «Pape Satan, pape Satan aleppe!...» si lamentava Pluto con una fastidiosa voce rau-ca, manifestando cosi a Satana la sua dolorosa meraviglia nel vedere un vivente tra i morti. Pluto, rappresentato da Dante confattezze insieme umane e ferine, nella mitologia clas-sica era il dio delta ricchezza, e quindi non a caso posto qui a guardia del cerchio dove sono puniti gli avari e i prodighi. Virgilio conforto Dante, di cui aveva intuito la paura, assicurandogli che, per quanto potere avesse, Pluto non sarebbe riuscito a impedire loro di scendere nel cerchio sottostante. Dopo di che si rivolse a quel demonio gonfio d'ira intimandogli di tacere, perché il loro viaggio nelle profonditá dell'Inferno era voluto da Dio stes-so. A quelle parole la fiera crudele si afflosció a terra, come si afflosciano avvilup-pandosi le vele gonfiate dal vento quando l'albero della nave si spezza. Cosi Dante e Virgilio scesero nel quarto cerchio. «Ahi giustizia divina!» esclama Dante autore. «Chi altri mai potrebbe ammassa-re tanti e tanto inauditi tormenti come quelli che io vidi all'Inferno? E perché noi uomini, peccando, ci condanniamo a un simile strazio?» Due grandi schiere di anime avanzavano da parti opposte del cerchio l'una con-tro l'altra urlando e spingendo massi con il petto, finché non si scontravano, pro-prio come si scontrano le onde spinte da correnti contrarie presso Cariddi (nello stretto di Messina). Ciascuna delle due schiere, al momenta dell'urto, si rigirava gri-dando un insulto all'altra: «Perché tieni stretto il denaro?», i prodighi agli avari; «Perché lo sperperi?», gli avari ai prodighi. E poi ritornavano indietro, a destra e a sinistra del cerchio, fino al punto opposto, e anche li ripetevano il loro oltraggioso ritornello; dopo di che si voltavano per un nuovo scontro. Dante chiese a Virgilio chi fossero costoro e, in particolare, se quelli con la testa tonsurata che vedeva alia sua sinistra fossero stati effettivamente uomini di Chiesa. Virgilio gli spiego che, come poteva capire chiaramente dalle reciproche accuse che si rivolgevano, tutti quei peccatori in vita avevano o speso o conservato fuor di mi-sura, e che, per quanto riguardava le anime con il capo privo di capelli, erano state papi e cardinali, e si sa che le massime gerarchie ecclesiastiche sono quelle in cui l'avidita raggiunge il colmo. E quando Dante osservó che si sarebbe aspettato di ri-conoscere qualcuno di quei peccatori, Virgilio gli fece presente che ció era impossible, perché il fatto che durante la vita non avessero saputo conoscere il bene e il male li rendeva adesso irriconoscibili. Si sarebbero scontrati tra loro in eterno, anche dopo il Giudizio universale, quando sarebbero risorti dalla tomba: gli avari, dominati dall'ossessione del possesso, con il pugno chiuso; gli scialacquatori senza neppure i capelli, sperperati anche quelli. «Questo ti mostra chiaramente» concluse Virgilio «come i beni terreni affidati alia Fortuna, beni per il cui possesso gli uomini si accapigliano, altro non siano che una beffa, e per di piú di breve durata: tutto l'oro del mondo non potrebbe compra-re un solo momenta di riposo a nessuna di queste anime stanche.» Avendo sentito nominare la Fortuna, Dante chiese cosa fosse queU'entita che tie-ne i beni del mondo tra i suoi artigli. Virgilio scorse nella sfumatura spregiativa dell'espressione un segno dell'ignoranza umana, e allora si dilungo a spiegare la nátura e i compiti della Fortuna. Disse che Dio, come aveva affidato a ciascun cielo un'intelligenza angelica che ne guidasse il moto, cosi aveva assegnato ai beni mon-dani come unica amministratrice un'intelligenza celeste con il compito di trasferire quei beni illusori da un popolo all'altro, dall'una all'altra famiglia, senza che gli uomini potessero opporsi. Essa adempie a questo ufficio senza mai fermarsi, e i muta-menti da lei prodotti, per cui un popolo primeggia e un altro langue, nascono da un giudizio, riconducibile al volere divino, del tutto inspiegabile per la mente umana. Ecco, questa ě la Fortuna, maledetta, biasimata, infamata perfino da colore che dovrebbero onorarla; ma lei nemmeno ode le ingiurie degli uomini, con gli altri an-geli gira la sua sféra ed ě beata in sé stessa. «Ma adesso scendiamo in un luogo nel quale il dolore ě ancora piu forte» concluse Virgilio. «Ě mezzanotte, e noi non pos-siamo perdere tempo.» Attraversarono il cerchio fino al bordo opposto, presso una sorgente gorgoglian-te la quale versava in un canale che da essa aveva origine un'acqua scura, quasi < nera. Lo seguirono per una via accidentata fino a una palude, formata dallo Stige, giu in basso, nel quinto cerchio (lo Stige era un ßume infernale della mitologia greca e latina). Nel pantano Dante vide anime nude, ricoperte di fango, irate in volto, che si colpivano a vicenda, e non solo con le mani, ma con la testa, con il petto e con i pie-di, e che addirittura si sbranavano a morsi. «Questi» gli disse Virgilio «sono colore che si lasciarono trasportare dall'ira; sotto il pelo dell'acqua ci sono anime che con i lore sospiri fanno ribollire la superficie, come puoi vedere tu stesso. Conficcate nel fondo della palude dicono: "Sulla Terra, dove l'aria ě dolce e rallegrata dal sole, fummo tristi, pieni del fumo accidioso esa-lato dalla bile nera; adesso ci rattristiamo nella nera melma della palude". In realtä, quest'inno se lo gorgogliano in gola, perché non possono recitarlo con parole distinte.» Come I'ira, anche I'accidia era uno dei sette peccati capitali, in quanto il soggetto, nella condizione di inerzia e di vuoto interiore in cui versa (oggi parleremmo di «depressione») che gli impedisce di godere del dono del creato, non pub operare e nemmeno guardare alia vita con la fiducia che il credente deve avere. Dante e Virgilio, dopo aver percorso un lungo tratto del cerchio tenendosi tra la riva asciutta e la palude con gli occhi fissi ai mangiatori di fango immersi li dentro, giunsero ai piedi di una torre. CANTO 8 Verso la citta di Dite. Filippo Argenii Dante e Virgilio, molto prima di giungere ai piedi della torre, avevano visto accen-dersi sulla sua cima due fiammelle, alle quali avevano risposto, da una distanza tale che li rendeva a stento percettibili, analoghi segnali luminosi. «Cosa significano quei fuochi di segnalazione? Chi li accende?» chiese Dante a Virgilio. E lui: «Se il vapore della palude non te lo impedisce, giá adesso, perlustrando le acque fangose, puoi scorgere cosa aspettano colore che li hanno accesi». E infatti sull'acqua correva verso di lore, piu veloce di una freccia, una navicella guidata da un solo marinaio, che gridava: «Sei mia, anima dannata!». E Virgilio di rimando: «Flegias, questa volta tu gridi invano, ci avrai solamente per il tempo ne-cessario ad attraversare la palude». Flegias, deluso e contrariato, si tacque reprimendo la sua ira. Dante non specifica quale funzione eserciti Flegias, ma e chiaro perché lo colloca nel quinto cerchio, quello degli iracondi. Questo personaggio mitologico, presente anche neWEneide, furente con Apollo perché gli aveva sedotto lafiglia, in un impeto d'ira aveva incendiato il tempio del dio a Delft. Virgilio e Dante salirono sulla barca, la quale, caricata del peso di un vivente, na-vigava spostando piu acqua del solito. Mentre solcavano quella palude mefitica un'anima sporca di fango si paro davanti a Dante e gli chiese: «Chi sei che vieni qui prima di essere morto?». E Dante: «Sono venuto qui, ma non ci resto. Piuttosto, chi sei tu, ridotto in questo stato?». «Lo vedi da te, sono un dannato.» «Spirito maledetto, tieniti la tua pena. Ti ho riconosciuto, anche cosi coperto di fango.» Benché Vanima non abbia rivelato il suo nome, Dante riconosce ilfiorentino Filippo Ar-genti. Di lui sappiamo poco. Si chiamava Filippo dei Cavicciuoli, soprannominato Argenti perché si diceva avesse ferrato ďargento il suo cavallo. Dante lo presenta come orgoglioso, iracondo e violento; i testimoni piú antichi lo tratteggiano come cavaliere superbo che ama-va ostentare la sua ricchezza. Dante, dunque, attraverso di lui stigmatizza ancora una volta i costumi della classe dirigente fiorentina dei suoi tempi, caratterizzati dalVostentazione della ricchezza e dal disprezzo per i meno abbienti. Tanto piú che i Cavicciuoli apparteneva-no alla consorteria degli Adimari, della quale, nei decenni přeceděnu, era stato esponente anche quel Tegghiaio Aldobrandi nominato nelVincontro con Ciacco tra le persone ragguar-devoli e ricordato dai cronisti come cavaliere saggio, prode e di grande autorita. II confronto implicito tra i due Adimari sottolinea la decadenza morale delVaristocrazia cittadina. Udite le parole di Dante, il dannato allungó le mani verso la barca, per salirvi o per rovesciarla, ma fu prontamente ricacciato da Virgilio, il quale poi abbracció Dante e lo bacio benedicendone la madre per aver partorito un uomo capace di tanto sdegno nei confronti del male. «Questi» aggiunse poi «visse da arrogante, nessun atto di bontá abbellisce la sua memoria sulla Terra: ecco perché qui nellln-ferno ě cosi furiosamente arrabbiato. Anche adesso al mondo sono in tanti a rite-nersi uomini grandi, che poi, qui, si rotoleranno nella melma come maiali lasciando di sé solo spregevoli ricordi.» Dante espresse a Virgilio il desiderio di vedere, prima di lasciare la palude, quel peccatore sprofondare nelle acque fangose, e Virgilio gli assicuró che sarebbe stato esaudito. E infatti, poco dopo, i dannati della palude ne fecero strazio, tanto che anche adesso, mentre scrive, Dante ne loda e ringrazia Dio. I dannati in coro urlava-no: «Dágli a Filippo Argenti!», e lui, rabbioso, si dilaniava con i denti. Colpito da grida di dolore, Dante spalancb gli occhi davanti a sé. Virgilio gli spiego che erano ormai vicini alla cittá chiamata Dite. E Dante confermó di riuscire a distinguerne con sicurezza le torri, rosse come se fossero uscite dalle fiamme. A farle apparire di quel colore, disse Virgilio, era il fuoco eterno che bruciava al di lá delle mura. Dante chiama Dite, nome classico di Plutone dio degli Inferi, sia Lucifero sia la parte delVlnferno, il cosiddetto «basso Inferno», a lui piú vicina. La citta di Dite, infatti, com-prende i quattro cerchi piú bassi, nei quali sono puniti peccati piú gravi di quelli di inconti- < nenza dei primi cinque: mentre questi sono causati dall'incapacita difrenare gli istinti o di dominare gli impulsi, i peccati di violenza e difrode implicano una scelta da parte del sog-getto, e quindi una sua partecipazione attiva e consapevole. La cittä e delimitata da una cer-chia di mura turrite che corre lungo i bordi della palude Stigia, segnando il confine tra il quinto e il sesto cerchio. Arrivati con la barca nel profondo fossato che protegge la cittä e compiuto un ampio giro intorno alle mura di colore ferrigno, a un certo punto il marinaio urlö forte: «Scendete, qui e l'entrata». Sul portone, un numero sterminato di diavoli gri-dava con stizza: «Chi e costui che si aggira vivo per il regno dei morti?». Virgilio gli fece segno di voler parlare con loro in disparte, al che, dissimulando un po' la rab-bia, i diavoli risposero: «Vieni tu solo; quel tipo che ha avuto l'ardire di entrare in questo regno se ne vada. Provi, se ne e capace, a ritornare indietro da solo per la strada che ha follemente percorso, perche tu, che l'hai guidato in questa buia con-trada, rimarrai qui». Al sentire quelle parole, Dante temette di non riuscire piü a tornare nel mondo dei vivi. Si rivolse a Virgilio, la cara guida che molte volte gli aveva dato sicurezza e lo aveva salvato dai pericoli, pregandolo di non lasciarlo cosi scoraggiato: se non potevano spingersi oltre, ebbene, tutti e due, insieme, potevano subito ritornare sui loro passi. Virgilio perö lo rassicurö che nessuno avrebbe impedito il loro passag-gio, perche Dio lo voleva, e gli chiese di attenderlo, riconfortato e speranzoso: lui non l'avrebbe abbandonato in quel mondo sotterraneo. Ciö detto, lo lasciö solo, combattuto tra paura e speranza. Dante non pote udire ciö che Virgilio diceva a un gruppo di diavoli usciti dalle mura, ma il loro confabulare non durö a lungo: ben presto, infatti, i demoni rientra-rono di corsa dentro la cittä e gli chiusero le porte in faccia. Virgilio tornö verso Dante a passo lento, con gli occhi bassi e un'espressione scoraggiata; sospirando diceva tra se: «Ma guarda che gentaglia mi vieta di entrare!». E poi, rivolto a Dante: «Tu non perderti d'animo, non preoccuparti se mi vedi dolente, io questa sfida la vincerö, chiunque lä dentro si dia da fare per impedirmelo. Non e la prima volta che i diavoli sono cosi presuntuosi, lo furono giä presso la porta dell'Inferno, quella sulla quäle hai visto l'iscrizione che annuncia la morte eterna e che da allora e ri- masta aperta. Giä in questo momento, dopo essere passato proprio per quella porta, di cerchio in cerchio sta scendendo verso di noi un potente che ci aprirä la cittä». I diavoli mostrarono per la prima volta la loro tracotanza quando cercarono di opporsi a Cristo che scendeva nel Limbo a liberare le anime dei patriarchi ebrei. In quell'occasione Cristo sfondö la porta infernale, che da allora e rimasta aperta per sempre. < > CANTO 9 Uingresso nella citta di Dite Virgilio, accortosi che Dante nel vederlo tornare sui suoi passi era impallidito, per non accrescere ulteriormente la sua paura nascose il proprio turbamento. Immobile, si mise in ascolto: attraverso il fumo denso e scuro delia palude non poteva guardare molto lontano. «Bisognerä pure ehe la vinciamo questa battaglia» cominciö a dire «altrimenti... Ma la vinceremo, ě potente chi ci ha sostenuto finora. Oh, come mi pesa che chi deve arrivare non sia giä qui!» Dante capi che Virgilio aveva pronunciato le ultime parole per correggere le prime, eppure provö paura, forse perché attribuiva a quel discorso interrotto un signi-ficato peggiore di quello che aveva. Per accertarsi che la sua guida conoscesse la strada, gli chiese se poteva accadere che qualcuno dal Limbo scendesse fin dove si trovavano. Che un'anima del Limbo percorresse quella strada, rispose Virgilio, ca-pitava di rado, anche se, per la veritä, lui era giä stato li un'altra volta, spintovi da-gli incantesimi della crudele maga Eritone, che era solita richiamare in vita i defun-ti. Lui era morto da poco, quando Eritone gli aveva fatto attraversare le mura della cittä di Dite affinché tirasse fuori un'anima condannata nella Giudecca, il piu basso e il piu buio dei cerchi infernali: Dante, dunque, poteva stare tranquillo, perché lui conosceva bene la strada. Strada che, obbligatoriamente, passava attraverso quella palude maleodorante intorno alia cittä di Dite. Nella Farsaglia Lucano racconta ehe la maga tessala Eritone aveva fatto tornare in vita un morto affinché profetizzasse a Sesto, figlio di Pompeo, I'esito della battaglia di Farsalo (48 a.C.) tra il padre e Giulio Cesare. L'episodio a cui accenna Virgilio e invece un'invenzio-ne di Dante. L'attenzione di Dante hi catturata dall'improwiso apparire, nello stesso istante, di tre furie insanguinate sulla cima infuocata di una torre: d'aspetto femmineo, avevano per cintura rettili velenosi e per capelli serpentelli e vipere. Erano le Erin- ni, gli disse Virgilio, le ancelle di Proserpina, regina degli Inferi: Megera, Aletto e Tisifone. Si graffiavano il petto con le unghie, si percuotevano con le palme delle mani e lanciavano grida tanto alte che Dante, impaurito, si strinse a Virgilio. Guar-dando verso il basso, dov'era Dante, le furie urlavano: «Venga Medusa, cosi lo tra-sformiamo in pietra! Male facemmo a non uccidere Teseo quando ci assali». «Girati subito» gli disse Virgilio «e tieni gli occhi chiusi. Se davvero apparisse la testa di Medusa, e tu la vedessi, non potresti mai piu risalire da qui.» Dette queste parole, fu lui stesso a voltarlo e, per maggiore sicurezza, sovrappose le sue alle mani che Dante si era messo sugli occhi. A questo punto Dante autore invita i lettori, quelli tra loro capaci di intendere la veritä, a contemplare l'insegnamento nascosto sotto il velo dei suoi versi oscuri, cioě a coglierne il significato allegorico. Quale significato morale vada attribuito alle Erinni, all'azione pietrificante di Medusa e a quella dell'angelo che sta per apparire non é perspicuo, tanťé vero che da secoli gli interpreti si interrogano sui valori simbolici e allegorici della scena. Erinni era il nome greco delle Furie, personaggi della mitologia classica: nelV antichita raffiguravano i rimorsi delle col-pe commesse che infuriano nella coscienza degli uomini; nel Medioevo hanno molti e diversi significati simbolici: piu congruente con il testo di Dante sembra essere I'interpretazione secondo la quale esse simboleggerebbero i peccati compiuti con la mentě, la parola e ľazione. Le Erinni invocano Medusa, una delle tre Gorgoni, mostri alati dallo sguardo che impietri-va. Medusa fu decapitata da Perseo, ma la sua testa mantenne il potere di trasformare in pietra chi la guardava, e percib Minerva la collocb sul suo scudo. Le Erinni lamentano pure di non avere ucciso I'eroe ateniese Teseo, spintosi negli Inferi per rapire Proserpina, e li ri-masto prigioniero finché Ercole non lo libera: se lo avessero fatto, avrebbero distolto altri (in particolare Enea) dall'avveniurarsi nel regno dei morti. Dante, che aveva gli occhi chiusi, senti avvicinarsi dalla palude un rombo frago-roso e terribile, del tutto simile a quello prodotto da un uragano che si abbatte su una foresta, ne schianta i rami e li scaglia lontano e, preceduto da una grande nube di polvere, mette in fuga le bestie selvatiche e i pastori. Virgilio gli liberô gli occhi e lo invito a dirigere lo sguardo verso il punto della palude dove piu densi erano i vapori. E li vide innumerevoli anime di dannati le quali, come le rane schizzano fuori dall'acqua in presenza di una biscia, fuggivano rapidissime davantí a uno < che, a piedi, attraversava lo Stige come se fosse terraferma. Non sembrava provare ne paura ne pieta, ma solo fastidio per quel vapore denso che allontanava dal viso agitando la mano sinistra. Dante cap! che era un angelo, si volto verso Virgilio e questi gli fece segno di tacere e di inchinarsi. L'angelo giunse davanti alia porta della citta, la tocco con una verga, e quella si apri senza alcuna resistenza. Poi, dalla soglia, rimprovero i diavoli: da dove nasceva l'arroganza a cui si erano abbandona-ti? Perche contrastavano l'irresistibile volonta di Dio? Sapevano bene che non ne avrebbero avuto alcun vantaggio, anzi, che quel loro comportamento aveva piu volte accresciuto la loro pena. Si ricordassero di Cerbero, che portava ancora sul collo i segni delle catene (quando liberb Teseo prigioniero, Ercole rapi Cerbero, qui guar-diano del terzo cerchio, incatenandolo). Poi, con l'aria di chi e gravato da ben altre pre-occupazioni, senza degnare Dante e Virgilio di una sola parola, l'angelo riprese la strada da cui era venuto. I due entrarono, pacificamente, nella citta e si trovarono nel sesto cerchio. Dante, desideroso di conoscere quali peccatori fossero rinchiusi in quella fortez-za, appena dentro si guardb intorno: a destra e a sinistra vide un vasto spazio pia-neggiante, punteggiato di innumerevoli sarcofagi. L'effetto era lo stesso che si pro-va nelle necropoli di Aries, la dove il Rodano si impaluda, e di Pola, presso il golfo del Quarnaro, che, a est, segna il confine italiano, con la differenza, pero, che qui il modo della sepoltura era quanto mai doloroso: quelle tombe, infatti, erano arro-ventate da un fuoco di tale intensita che nessun fabbro avrebbe potuto desiderarne uno piu forte per rendere malleabile il ferro. Ad Aries, citta della Provenza situata sul delta del flume Rodano, nel Medioevo si esten-deva una vastissima necropoli romana, detta Alyscamp (Campi Elisi), della quale oggi e vi-sibile solo una piccola porzione, mentre e del tutto scomparsa la necropoli che allora si tro-vava a Pola, presso il golfo tra I'lstria e la costa della Dalmazia. Siccome i coperchi delle tombe erano sollevati, si udivano i lamenti degli infelici che dentro vi erano tormentati. Si trattava, spiego Virgilio a Dante, dei fondatori e dei capi di sette eretiche con tutti i loro adepti, ed erano, aggiunse, molto piu nu-merosi di quanto lui credesse. I seguaci di una stessa eresia erano sepolti insieme, e i loro sepolcri erano piu o meno roventi a seconda della gravita dell'errore professato. «Eresia» veniva chiamata ogni dottrina giudicata erronea e percib condannata dalla Chiesa. Gli eretici nell'Inferno subiscono il supplizio delle fiamme, cost come sulla Terra sono condannati al rogo. Poi Virgilio svolto verso destra e i due passarono tra le tombe e le mura della citta. < > 956^52 CANTO 10 Gli eretici: Farinata degli Uberti Mentre camminavano, uno dietro l'altro, lungo un sentiero appartato che si snoda-va tra le mura della cittä e le tombe, Dante chiese a Virgilio di soddisfare un suo desiderio. Siccome i coperchi dei sarcofagi erano giä sollevati e non c'era nessuno di guardia, era possibile vedere i dannati che vi giacevano? «I sepolcri» rispose Virgilio «saranno tutti chiusi quando, dopo il Giudizio universale, le anime torneranno qui dalla valle di Giosafat (nei press; di Gerusalemme) insieme ai corpi che avevano lasciato sulla Terra. Qui sono sepolti Epicuro e tutti coloro che, seguendo la sua dottrina, ritengono che l'anima muoia insieme al cor-po, e dunque la tua richiesta sarä ben presto soddisfatta, e sarä pure esaudito» ag-giunse «il desiderio che mi hai taciuto.» Dante si giustificö per non aver espresso quel desiderio asserendo che proprio lui gli aveva insegnato, tempo prima, a non parlare troppo. II filosofo greco Epicuro (341-270 a.C), essendo vissuto prima del cristianesimo, non pub essere considerato propriamente un eretico, ma ai tempi di Dante era diffusa la prassi di chiamare «epicuri» quelli che non credevano nell'immortalita dell'anima. Per quanta ri-guarda il desiderio inespresso di Dante a cui Virgilio allude, si tratta dell'aspirazione a in-contrare un particolare dannato. Improvvisamente, da una delle arche usci una voce: «O toscano, che, vivo, ti ag-giri per questa cittä infuocata e parli con tanto decoro, per favore, fermati un poco. La tua parlata rivela che sei fiorentino, nato anche tu in quella nobile cittä alia quale, forse, io feci troppo male». Dante, sentitosi apostrofare, si spaventö e si accostö a Virgilio. «Ma che fai?» reagi quest'ultimo, stupito. «Girati! Guarda, lä c'e Farinata. Si e al-zato in piedi nel sepolcro, lo puoi vedere tutto dalla cintola in su.» Manente degli Uberti, detto Farinata, e l'anima che Dante desiderava incontrare e il pri-mo dei personaggi di cui aveva gia chiesto notizia a Ciacco. Era stato il capo carismatico dei Ghibellini di Firenze intorno alla meto, dei Duecento. Nel 1260 fu tra i capi della coalizione formata dai fuorusciti ghibellini di Firenze, dai senesi e dai tedeschi dei re di Sicilia Manfre-di, figlio naturale dell'imperatore Federico II, che nella battaglia di Montaperti sbaragliö i Guelfi fiorentini. II ricordo di quella strage restb impresso per decenni nella memoria della cittä, e da allora ifiorentini considerarono gli Uberti, esiliati nel 1267, i low peggiori nemi-ci, sottoponendoli a continue vessazioni. Nel 1283 l'inquisitore di Firenze con un processo postumo (Farinata era morto nel 1264) condannb lui e i suoi eredi per eresia: il cadavere fu dissepolto e le ossa arse sul rogo. Si trattö di un processo politico: le accuse di eresia nei con-fronti dei Ghibellini, indipendentemente dalla loro fondatezza, erano infatti ricorrenti nella Propaganda guelfa ed ecclesiastica. Farinata e dunque collocato nel cerchio degli eretici proprio a causa di quella condanna (qui perö sottaciuta), e cid significa che Dante, nel suo ten-tativo di ingraziarsi i Neri di Firenze, si adegua ai luoghi comuni di quella campagna diffamatoria. Dante guardö Farinata, il quäle si levava con la fronte alta e il petto in fuori come se non si curasse deHTnferno. Virgilio lo sospinse verso la tomba, raccoman-dandogli di usare parole convenienti. Farinata, dopo averlo squadrato per un po', con tono altero gli chiese: «Chi furono i tuoi antenati?». Dante glielo disse e quello, sollevati appena gli occhi in un gesto di disappunto: «Furono nemici miei, dei miei padri e dei mio partito, tanto che per due volte Ii cacciai». «Furono cacciati, ma entrambe le volte tornarono dai luoghi d'esilio; i vostri, in-vece, l'arte di ritornare non l'hanno imparata» ribatte Dante. 1 Guelfi furono cacciati da Firenze la prima volta nel 1248 e la seconda dopo Montaperti. Non risulta, perö, che gli Alighieri fossero coinvolti neue lotte tra i due partiti, con la par-ziale eccezione di Geri dei Bello, cugino dei padre di Dante, forse lui pure esiliato dopo Montaperti (Dante lo incontrera tra i seminatori di discordia nella nona bolgia). I Ghibellini, fuggiti da Firenze nel 1267, dopo la sconfitta e la morte di Manfredi a Benevento non riuscirono piü afarsi riammettere in cittä. Prima che Farinata potesse rispondere, un'ombra sporse la testa sopra l'orlo del-l'arca scoperchiata - forse si era alzata in ginocchio -, guardö intorno a Dante come per accertarsi se ci fosse qualcun altro con lui e poi, delusa, gli chiese piangendo: < ■<» «Se ti aggiri per l'lnferno grazie al tuo valore intellettuale, dov'e mio figlio? Perché non ě con te?». Dall'allusione a un figlio di ingegno pari al suo e dal tipo di pena a cui era con-dannato, Dante capi che a parlargli era stato Cavalcante Cavalcanti. Cavalcante (morto prima del 1280), uno dei capi del partito guelfo ai tempi di Farinata, era il padre di Guido, grandissimo poeta e grande amico di Dante, nonché consuocero di Farinata, dal momento che Guido ne aveva sposato unafiglia. Non ci sono testimonianze che avesse professato idee ereticali, mentre Guido condivideva la dottrina averroistica che nega-va Vimmorlalita dell'anima individuate. Avendo capito chi era, Dante poté rispondergli in modo adeguato: «Non compio questo viaggio grazie alle mie capacitá; la persona che aspetta la, dietro di me, at-traverso l'lnferno mi conduce, spero, a chi vostro figlio Guido non ebbe in gran conto». Virgilio non pub condurre Dante che a Beatrice, e la cosa, in effetti, accadra nel Purgato-rio. Ora, Dante e Guido Cavalcanti, pur essendo amici e pur condividendo molte idee intor-no alia poesia in volgare, avevano concezioni diverse dell'amore: per Cavalcanti si trattava di una passione irrazionale e distruttiva; per Dante di un sentimento che nobilita spiritual-mente chi lo prova. Ebbene, il punto di massima divergenza tra i due si coglie proprio nelle poesie di Dante per Beatrice, presentata come una sorta di angelo in grado di elevare al cielo il suo innamorato. La reazione di Cavalcante fu immediata. Alzatosi in piedi di scatto, grido: «Hai detto "non ebbe"? Non ě piú in vita? Non vede piú la luce del sole?». Poiché Dante indugiava a rispondere, l'ombra ricadde sul dorso e non si fece piú vedere. L'altero Farinata, che di fronte a quella scena era rimasto perfettamente immobile, riprese il discorso dal punto in cui era stato interrotto: «Se i miei non hanno im-parato l'arte di ritornare in patria, cio mi tormenta piú di questo sepolcro. Ma non passeranno cinquanta mesi lunari che anche tu saprai quanto quell'arte sia difficile». Farinata non predice a Dante che sara esiliato (cosa che, peraltro, finora nessun altro gli ha predetto), ma che sperimentera quanto sia difficile ritornare dall'esilio. I cinquanta mesi lunari a partire dallafine di marzo 1300 portano alia primavera inoltrata del 1304, doe al periodo nel quale si sviluppb efalli il tentativo del cardinale Niccolb da Prato di pacificare Firenze facendo rientrare in citta i fuorusciti «bianchi» e ghibellini. II cardinale agiva su incarico di papa Benedetto XI, successore di Bonifacio VIII, defunto nell'ottobre 1303. «Ti auguro di ritornare nel mondo,» prosegui Farinata «ma intanto dimmi: perché il popolo di Firenze ě cosi spietato contro gli Uberti da escluderli da ogni atto di clemenza?» E Dante, con ironia: «II massacro che arrossö di sangue l'acqua dell'Arbia fa si che nelle nostre chiese si recitino tali preghiere». «Non fui solo io ad attaccare Firenze, e avevo buone ragioni per allearmi con al-tri» ribatté Farinata. «Ma fui solo io, quando tutti gli altri accettarono la proposta di raderla al suolo, a difenderla a viso aperto.» he assemblee e i consigli nei quali,fra I'altro, si decretavano indulti e amnistie si svolge-vano generalmente all'interno delle chiese. Ilfiume Arbia scorreva nei pressi del campo di battaglia di Montaperti, dove i Ghibellini avevano fatto strage dei Guelfi; in quanto ritenuti i principali responsabili di quel massacro, gli Uberti furono da altera esclusi da tutte le amnistie. Farinata ricorda che al congresso tenuto dai vincitori a Empoli poco dopo la battaglia di Montaperti era stato proprio lui a opporsi alia proposta avanzata dai legati di Manfredi di distruggere Firenze. Dante cambiö discorso. Dal dialogo con Cavalcante in lui era sorto un dubbio, che Farinata avrebbe potuto sciogliere: era chiaro che i dannati potevano vedere il futuro, mentre ignoravano il presente. Farinata confermö che erano come i presbiti: Dio concedeva loro di vedere le cose lontane nel tempo, ma non quelle vicine o at-tuali. Perciö, della condizione dei viventi non sapevano nulla, a meno che qualcuno non gliela riferisse. Questa loro preveggenza, comunque, sarebbe scomparsa del rutto dopo la fine del mondo, quando anche il tempo avrebbe avuto fine. Allora Dante, sentendosi in colpa, gli disse: «Riferite all'anima che ě ricaduta nella tomba che suo figlio ě ancora tra i viventi e che prima non gli ho risposto perché stavo ri-flettendo sul dubbio che adesso mi avete risolto». Guido Cavalcanti, in effetti, nel marzo 1300 era ancora vivo; morira il 29 agosto di quel-I'anno a Sarzana, dove era stato mandato al confino con una risoluzione dei priori, fra i quali era anche Dante, o a Firenze, appena rimpatriato da Sarzana. Dante personaggio aveva capito che Cavalcante, potendo vedere il futuro prossimo, sapeva che il figlio sarebbe < morto presto, ma, non essendo in grado di conoscere alcunché del presente, ignorava sefosse gia morto in quel momento. Nel frattempo si era fatto tardi, e Virgilio chiamö Dante. Questi, allora, pregö Fa-rinata di dirgli, in fretta, quali dannati erano li con lui. «Tantissimi» rispose. «Qui ci sono Federico II e il cardinale, e tralascio gli altri.» Dopo di che scomparve nella tomba. Federico II di Svevia (1194-1250) era stato 1'ultimo imperatore del Sacro romano impero. Negli anni in cui Dante scriveva questo canto, nessuno gli era ancora succeduto in quella carica. La Chiesa, che lo considerava il suo piü acerrimo nemico, tanto da averlo scomunica-to per ben due volte, lo tacciava di eresia per ragioni propagandistiche. I Ghibellini, al contrario, vedevano in lui il piú alto punto di riferimento della causa imperiale. 11 «cardinale» é Ottaviano degli Ubaldini (1210 ca -1273), appartenente a una cospicua famiglia ghibellina (era zio di quell'arcivescovo Ruggieri che a Pisa fece imprigionare e morire il conte Ugolino), che svolse nell'Italia centrale una politica da molti ritenuta favorevole a quella parte. Dante si riavvicinö a Virgilio, e insieme ripresero il cammino, ma continuava a pensare alla predizione fattagli da Farinata. Lo aveva cosi sgomentato che Virgilio gli chiese: «Percha sei tanto sconvolto?». Quando ne conobbe il motivo, gli ordinö: «Tienila a mente». Poi, puntando il dito, aggiunse: «Attento a quanto sto per dirti: sarä Beatrice, che, beata, conosce tutto il futuro, a rivelarti il tuo destino» (nel Para-diso, invece, questo compito sarä assolto dal trisavolo Cacciaguida). Dopo di che svoltö a sinistra. Lasciarono le mura della cittä di Dite e si diressero verso il centro del bara-tro, lungo un sentiero che portava a un vallone dal quale emanava un fetore repel-lente che arrivava fin lassů. CANTO 11 L'ordinamento dell'Inferno Giunsero sul bordo di una parete alta e scoscesa che sovrastava l'enorme ammasso di peccatori del settimo cerchio, ma Ii, a causa del puzzo insopportabile che saliva dal fondo della voragine, arretrarono e si accostarono a una grande tomba. Sul co-perchio lessero la scritta: «Custodisco Anastasio, che Fotino distolse dall'ortodossia». Anastasio II, papafra il 496 e il 498, visse nel pieno dello scisma dei monofisiti (che ne-gavano la natura umana di Cristo), con i quali cercö un accordo senza mai cedere a posizio-ni eretiche. In realta Dante confonde un oscuro diacono Fotino, inviato in missione ad Anastasio dal metropolita di Tessalonica e dal papa ammesso alla comunione, con il piü famoso vescovo monofisita Fotino di Sirmio, vissuto un secolo dopo. A Virgilio, che aveva proposto di fermarsi per abituare il naso a quel puzzo, Dante suggeri di fare in modo che quella sosta non risultasse tempo perso. E lui, dettosi d'accordo, cominciö a illustrargli come era fatta la parte dellTnferno sottostante. Sotto di loro, disse, c'erano tre cerchi digradanti pieni di dannati, tutti colpevoli di avere peccato, volontariamente e con intenzione, usando la violenza o l'inganno. II primo (settimo cerchio) conteneva i violenti, divisi, in ordine di gravitä, in tre giro-ni, a seconda che avessero esercitato violenza contro il prossimo - nelle persone (con omicidi e ferimenti) e nelle cose (con distruzioni, ruberie e rapine) -, contro se stessi, dissipando i propri averi e suicidandosi, o contro Dio, bestemmiandone il nome e spregiandone la bontä con peccati contro la natura (la sodomia) e contro il lavoro, che alla natura si conforma (l'usura). Ai violenti seguono gli ingannatori: per primi (ottavo cerchio) coloro che ingannarono quelli che non si fidavano di loro, e perciö stavano in guardia (i fraudolenti), poi (nono cerchio) coloro che, piü grave-mente, ingannarono chi aveva fiducia in loro (i traditori). Sul fondo dell'ultimo cerchio, in corrispondenza con il centro della Terra, c'era Dite (Lucifero). A Dante, che gli chiese perché i dannati incontrati fino ad allora (lussuriosi, golo-si, avari, prodighi, iracondi, accidiosi) fossero fuori della cittá di Dite, Virgilio spiegó, appoggiandosi ad Aristotele, che i peccati sono di tre tipi: di incontinenza (smoda-tezza), di malizia (frode) e di dissennata bestialita (violenza), e che quelli del primo tipo, commessi dai dannati ai quali Dante si riferiva, in quanto causati da impeti passionali, meno offendono Dio di quelli compiuti per scelta. A Dante era rimasto ancora un dubbio, e cioě perché 1'usura fosse un peccato contro Dio. Sulla base, an-cora una volta, di Aristotele e del libro della Genesi, Virgilio argomentó che, sicco-me la nátura deriva da Dio e dal suo operare e 1'arte umana segue la nátura e 1'uomo trae il suo sostentamento dalla nátura e dal lavoro, 1'usuraio, che ripone le sue aspettative di guadagno nel prestito di denaro a interesse e non nella fertilita naturale e nel lavoro, disprezza sia la nátura sia 1'arte che ě sua seguace. Ma ormai si era fatto tardi, erano circa le quattro del mattino (del 26 marzo), e la via per scendere nel cerchio sottostante era ancora lontana. CANTO 12 I centauri e i tiranni del Flegetonte La discesa poteva avvenire solo attraverso un burrone scosceso e accidentato, simile a quella frana abbattutasi, a causa di un terremoto o del cedimento del monte, sulla riva dell'Adige al di qua di Trento, tanto ripida che nessuno avrebbe potuto trovare il modo di percorrerla verso il basso. La sola vista di quel dirupo incuteva paura, ma do che si trovava lungo il suo ciglio faceva veramente orrore: li, infatti, se ne stava disteso il Minotauro. La frana, tutt'oggi visibile, va identificata con i cosiddetti Slavini di Marco, ai piedi del monte Zugna, pochi chilometri a sud di Rovereto. Quanto al Minotauro, il mito racconta che Pasifae, moglie di Minosse re di Creta, invaghitasi di un torn, per accoppiarsi con lui si nascose all'interno di una vacca di legno, e in seguito diede alia luce un mostro con il corpo di uomo e la testa di toro (ma Dante sembra invertire le due nature). Imprigionato da Minosse nel labirinto, dove veniva nutrito con came umana, il Minotauro fu ucciso dall'ate-niese Teseo, che riusci a uscire dal labirinto grazie all'aiuto di Arianna, figlia di Minosse e Pasifae. Quando vide Dante e Virgilio, il mostro, in un eccesso di rabbia, si prese a morsi. Virgilio gli urlö: «Pensi forse che sia arrivato qui Teseo? Vattene! II mio compagno non ha niente a che fare con Arianna, e qui per conoscere lTnferno». II Minotauro si slanciö contro di loro, ma barcollava, come fa il toro colpito a morte che, incapace di camminare, saltella scomposto. «Approfittane, corri al passaggio» gridö subito Virgilio a Dante. «Scendi giü mentre e prigioniero della sua stessa rabbia.» Cominciarono a calarsi per quelle pietre franate, instabili sotto il peso di un corpo vivo. Vedendo Dante pensieroso, Virgilio capi che si stava chiedendo cosa aves-se potuto provocare una frana in un mondo eternamente immobile come ITnferno, e allora gli spiegö che il crollo, non ancora avvenuto quando lui era passato di li la prima volta (inviatovi, come detto nel canto 9, dalla maga Eritone), era stato causato dal devastante terremoto che aveva squassato l'universo al momento della morte di Cristo. Piu in basso scorreva un fiume di sangue bollente nel quäle erano immersi i vio-lenti che avevano sparso il sangue del prossimo. Si tratta del Flegetonte, come sarä denominato nel quattordicesimo canto, cioe «fiume di fuoco»; in quel canto Dante ne rivelerä l'origine e ne descrivera il corso, cosi come degli al-trifiumi infernali. Dante autore, dopo aver deprecato la cupidigia e l'ira che stravolgono gli uomi-ni nella loro breve vita terrena condannandoli a un perpetuo tormento nel sangue bollente, racconta di avere visto un largo fossato solcare circolarmente il piano del settimo cerchio e, tra il fossato e la parete rocciosa, correre in fila centauri armati di areo e frecce. Sembrava che andassero a caccia, come erano soliti fare sulla Terra. I centauri sono figure mitologiche dal torso umano e dal resto del corpo equino (hanno qualche analogia, dunque, con il Minotauro), che la tradizione rappresentava in genere come violenti: famoso e il combattimento da essi ingaggiato con i lapiti quando, invitati alle nozze del re di questi ultimi, Piritoo, con Ippodamia, si ubriacarono e tentarono di rapire la sposa e altre donne lapite. Dei tre centauri che Dante mette in scena, Folo partecipb a quella battaglia; Nesso, che aveva cercato di violentare Deianira e per questo era stato colpito dal marito di lei, Ercole, con unafreccia avvelenata, prima di morire aveva dato a Deianira una camicia intrisa del suo sangue intossicato che Ercole indosso, rimanendone ucciso; Chirone, che Dante presenta come il piü autorevole in quanto precettore di Achille, godeva invece fama di saggio e di colto. Vedendo Dante e Virgilio scendere lungo la parete rocciosa, i centauri si ferma-rono; tre di loro scelsero accuratamente alcune frecce e uscirono dalla fila. «A quäle specie di pena State andando?» chiese ad alta voce uno di loro. «Ditelo subito, altrimenti tendo il mio arco.» «Lo diremo a Chirone, quando saremo li. Tu sei sempre stato troppo precipito-so» gli rispose Virgilio. II quäle, poi, dato a Dante un colpetto di gomito, disse: «A parlare ě stato Nesso, che riusci a vendicare la propria morte; quello fra i due che riflette a capo chino ě Chirone, educatore di Achille; il terzo ě Folo, da sempre ar-rabbiato. Migliaia di centauri corrono sulle sponde del fiume e con le loro frecce < ■<» trafiggono qualunque dannato sporga dal sangue piu di quanto la colpa commessa non gli conceda». Si avvicinarono. Chirone, scopertasi la bocca dalla barba con la cocca di una frec-cia, chiese ai compagni: «Vi siete accorti che quello di dietro smuove i sassi che toc-ca? Non ě cosa da morti». «E infatti ě vivo» interloqui Virgilio, la cui testa arrivava esattamente all'altezza del petto del centauro, lä dove la natura umana e quella ferina si congiungono. «Per incarico di uno spirito beato lo conduco attraverso lTnferno. Nessuno di noi due ě un dannato. In nome di Dio, dacci uno dei tuoi che ci faccia da guida, ci mo-stri dove attraversare il fiume e, al guado, prenda in groppa costui che, non poten-do volare, si brucerebbe nel sangue bollente.» Chirone incarico Nesso di guidarli e di liberare la strada nel caso in cui avessero incontrato altre schiere di centauri. Camminando lungo la riva del fiume, dal quäle fuoruscivano le grida dei dan-nati, Dante vide anime immerse nel sangue bollente fin sopra agli occhi. «Sono ti-ranni» spiegö il centauro «che rapirono la vita e i beni dei sudditi.» Poi nominö Alessandro Magno e il feroce Dionisio di Siracusa, che tanti dolori inflisse alla Sici-lia, uno dai capelli neri, Ezzelino da Romano, e uno biondo, Obizzo II d'Este, ucci-so dal figliastro. L'identificazione con Alessandro il Macedone (356-323 a.C.) non e sicura: potrebbe trat-tarsi, infatti, di Alessandro, tiranno di Fere, in Tessaglia, dal 369 al 358 a.C; l'altro tiranno antico e Dionisio I il Vecchio di Siracusa (430 ca-367 a.C). I due moderni sono Ezzelino III da Romano (1194-1259), signore della Marca Trevigiana, ghibellino imparentato con Vim-peratore Federico II, di cui aveva sposato unafiglia (Dante collocherä in Paradiso una sorel-la di Ezzelino di nome Cunizza), e Obizzo II d'Este, marchese di Ferrara, ucciso, nel 1293, forse dal figlio Azzo VIII, da Dante definito «figliastro» perché una diceria voleva che la madre lo avesse concepito in adulterio. Nella Commedia l'odio per gli Este e una costante: guelfi, strettamente alleati con i Neri di Firenze e particolarmente ostili ai Bianchi di Bologna. Azzo VIII muore nel 1308 e, dunque, poteva essere ancora in vita quando Dante scrive questo canto, in cui lo accusa di aver ucciso il padre e di essere un bastardo. Piů avanti Nesso sostö sopra i dannati immersi in quel bollore fino alla gola (gli omicidi). Indicö un'ombra, che se ne stava in disparte, dicendo: «Costui squarciö in chiesa quel cuore ehe ancora sanguina sul Tamigi». £ ľinglese Guido di Montfort, dal 1270 vicario in Toscana di Carlo I d'Angib re di Na-poli, ehe nel 1271, durante una messa célebrata in una chiesa di Viterbo alla quale presen-ziava, oltre al sovrano angioino, anche Filippo III re di Francia, per vendicare il padre morto in battaglia contro Enrico III ďlnghilterra uccise il nipote di questi, Enrico di Cornovaglia. II cuore del giovane principe fu portato a Londra e conservato in una chiesa. Grazie alla protezione del re di Napoli, di cui era eugino, Montfort rimase impunito. Poi Dante vide dannati ehe emergevano dal fiume con tutto il petto (erano coloro ehe avevano inferto ferite al prossimo) e ne riconobbe molti. Sporgevano tanto perché il livello del sangue si stava abbassando sempre piú. Quando arrivô alľaltezza dei piedi, i due viaggiatori e il centauro ehe li accompagnava attraversarono. Nesso spiegô a Dante ehe il fiume bollente, come nel tratto ehe avevano percorso si era fatto via via meno profondo, cosi, da quel punto in poi, diventava sempre piú pro-fondo, fino a raggiungere la profonditä massima lä dove erano immersi i tiranni. Aggiunse ehe nel tratto successivo la giustizia divina tormentava il famoso Attila, flagello di Dio, Pirro e Sesto (guastatori e predoni). Ad Attila, re degli Unni, nel canto successivo Dante imputera anche la distruzione di Firenze. Pirro é il figlio di Achille: nelľEneide Virgilio lo rappresenta come furibondo de-vastatore di Troia. Sesto é il figlio di Pompeo (a cui Dante gia aveva alluso nel canto 9), da-tosi alla pirateria dopo la morte del padre. La giustizia divina, aggiunse, spreme lacrime eterne anche a Rinieri da Corneto e a Rinieri dei Pazzi, due briganti ehe infestarono le strade. Piú ehe con il Rinieri bandito di strada della Maremma (nel qual caso Corneto sarebbe Tarquinia), potrebbe essere identificato con Rinieri della Faggiola, morto nel 1292 o 1293, padre di Uguccione (in questo caso Corneto sarebbe la sede principále di quella famiglia nel Montefeltro). II secondo Rinieri (morto prima del 1280) apparteneva allafamiglia ghibellina dei Pazzi di Valdarno superiore. Dante li taccia di essere banditi di strada, ma in realtä erano esponenti di famiglie feudáli, ghibelline, ehe difendevano, anche ricorrendo alla guerri-glia, i diritti e i territori di cui i Comuni, e quello di Firenze in particolare, si appropriavano illegalmente. Qui Dante sostiene la tesi del Comune, forse anche per far dimenticare che,fra il 1302 e íl 1304, con quelle famiglie i Bianchi in esilio avevano stretto un'alleanza militare contro Firenze. < Poi Nesso giro su sé stesso e guadö di nuovo il fiume. L 1 CANTO 13 Suicidi e scialacquatori: Pier delta Vigna Nesso non aveva ancora toccato l'altra riva che Dante e Virgilio giä si erano inoltra-ti in una macchia selvaggia: le fronde erano scure, i rami, nodosi e contorti, non avevano frutti ma solo spine velenose. Nemmeno le bestie selvatiche che in Ma-remma, tra Cecina e Corneto (Tarquinia), rifuggono i luoghi coltivati avrebbero abi-tato in sterpaglie cosi aspre e fitte. Vi avevano il nido le sozze Arpie, quei mostri che cacciarono i Troiani dalle isole Strofadi predicendo loro future sventure: avevano larghe ali, il volto di donna, i piedi artigliati e il ventre pennuto, e dagli alberi lanciavano versi spaventosi. Le tre Arpie dal volto femminile e il corpo di rapace sono personaggi mitologici. Qui Dante allude a quell'episodio deHTineide nel quale Virgilio racconta come le Arpie avessero imbrattato con i loro escrementi il cibo dei Troiani che,fuggiti dalla loro citta distrutta, so-stavano nelle isole Strofadi, nel mare Ionio, e come una di esse avesse predetto loro che, arri-vati in Italia, per la fame si sarebbero ridotti a mangiare le proprie mense. Virgilio avverti Dante che si trovavano nel secondo girone (del settimo cerchio), dove avrebbe visto cose incredibili. Dante sentiva lamenti provenire da ogni parte del bosco, ma non vedeva nessu-no. Turbato, smise di camminare. Al che Virgilio gli disse: «Se spezzi un rametto, le tue supposizioni cadranno». Immaginava, infatti, che Dante attribuisse quei lamenti a dannati nascosti tra i rami delle piante. Dante, allora, allungö una mano e da un grande arbusto spinoso troncö la cima di un ramo. Subito il ramo spezzato gridö: «Perche mi schianti?». E poi, anneritosi di sangue: «Perche mi laceri? Non hai un briciolo di pietä? Adesso siamo sterpi, ma fummo uomini. Se fossimo stati anime di serpenti, la tua mano avrebbe dovuto essere piü pietosa». Dal ramo spezzato uscivano insieme parole e sangue, proprio come da un tizzo-ne ancora verde, acceso solo a un estremo, stilla all'altro l'umidita e, con un sibilo, fuoriesce il vapore. A Dante, intimorito, cadde di mano il rametto. Virgilio si rivolse alľanima ferita dicendole di essere stato lui a spingere Dante a compiere quel gesto, e ehe ciô gli rineresceva; lo aveva fatto perché Dante, ehe pure aveva letto nell'Eneide di piante spezzate dalle quali colava sangue, non avrebbe prestato fede a un fenomeno tanto ineredibile se non ľavesse sperimentato personalmente. Virgilio allude alľepisodio di Polidoro. In terra di Trácia Enea svelle aleuni arbusti e da questi sgorgano gocce di sangue, dopo di ehe una voce sale dal terreno sottostante: e quella di Polidoro, figlio di Priamo ed Ecuba, il quale racconta come fu ucciso da un nugolo di frecce ehe poi crebbero su di lui, non sepolto, in forma di mírto. Virgilio invitô ľanima nascosta nella pianta a rivelare a Dante il proprio nome, in modo ehe questi, ritornato nel mondo, come parziale risarcimento potesse ravvi-vare la sua memoria. Ľanima non seppe resistere alľinvito, e si presentó. Ě Pier delia Vigna (1190 ca - 1249), oggi noto come poeta lirico in volgare, ma ai tempi di Dante famoso soprattutto come raffinato estensore di epištole in latino e come importante funzionario alla corte delľimperatore Federico II, nella quale aveva ricoperto le cariche di capo delia cancelleria e di ascoltato consigliere. Nel 1249, coinvolio in una congiura, fu ac-cecato e poi giustiziato, forse a San Miniato, in Toscana. Dante autore accetta sia la tesi ehe Pier delia Vigna fosse caduto vittima di un complotto sia la leggenda ehe sifosse suicidato. II dannato disse ehe, in vita, aveva governato a suo piacimento il cuore di Federico II, del quale deteneva sia la chiave delľassenso sia quella del dissenso, chiavi ehe lui manovrava con cosi dolce diserezione da eseludere dalla confidenza del so-vrano tutti gli altri cortigiani. Attendeva a quel glorioso incarico con tanta serupo-losa fedeltä da perderci il sonno e la salute. E tuttavia ľinvidia, quella meretrice ehe mai distoglie i suoi ocehi maligni dalla reggia delľimperatore, rovina delľumanitä e principále vizio delle corti, infiammô contro di lui gli animi di tutti, e gli animi accesi di invidia a loro volta accesero ďira ľimperatore, cosieché gli onori felici si mutarono in tristi pianti. Caduto in disgrazia, ritenne ehe la morte Io avrebbe sot-tratto al disprezzo del mondo, e cosi, quasi godendo del suo gesto sprezzante, si uccise: lui, innocente, si fece ingiusto carnefice di sé stesso. Giuró sulle radici del-ľalbero in cui la sua anima era stata trasformata ehe mai aveva tradito il suo signore e, infine, chiese a quello dei suoi interlocutori ehe sarebbe tornato nel mondo di < ■<» risollevare la sua memoria, che ancora giaceva atterrata dal colpo infertole dall'invidia. Virgilio, dopo aver atteso un po' per vedere se l'anima avesse avuto ancora qual-cosa da dire, visto che taceva sollecito Dante a farle altre domande, ma questi disse di essere troppo commosso, e lascio a lui quel compito. Virgilio, allora, chiese al dannato di spiegare come le anime fossero avvinte in quelle piante e se qualcuna mai se ne svincolasse. Dal ramo spezzato usci un sospiro, che poi si tramuto in voce: «Quando l'anima crudele si divide dal corpo dal quale lei stessa si e sradicata, Minosse la manda nel settimo cerchio. In questo bosco, nel luogo dove il caso l'ha scagliata, germoglia: prima mette fuori un sottile ramoscello e poi si sviluppa in pianta selvatica. Le Arpie, strappando dolorosamente rami e foglie, producono le ferite dalle quali escono i nostri lamenti. Come tutte le altre anime, anche noi nel giorno del Giudizio torneremo nel mondo per cercare i nostri corpi, ma non potre-mo rivestircene: li trascineremo qui e ciascun corpo sara appeso all'albero nel quale la sua anima e imprigionata.» Un rumore improwiso sorprese Dante e Virgilio, ancora protesi verso quel tron-co spezzato pensando che volesse aggiungere altre parole: il rumore era simile a quello che sente un cacciatore quando l'abbaiare dei cani e lo stormire delle fronde lo avvisano che il cinghiale e i suoi inseguitori si stanno avvicinando al luogo dove e appostato. Ed ecco, alia loro sinistra, apparire due anime nude e coperte di graffi: inseguite da un branco di nere cagne fameliche, scappavano veloci spezzando nella corsa le frasche del bosco. Quella davanti invocava la morte che la salvasse dallo strazio, l'altra, che si era accorta di essere troppo lenta, le gridava: «0 Lano, le tue gambe non furono cosi pronte a fuggire durante gli scontri presso il Toppo!». Poi, venutole meno il fiato, si getto in un cespuglio. Le cagne si slanciarono su di lei e la sbranarono. Con questi due dannati entrano in scena gli scialacquatori, chefecero violenza a se stessi dilapidando i propri averi. Lano viene identificato con il senese Arcolano di Squarcia Maco-ni: si diceva fosse appartenuto a quella brigata «spendereccia» o «godereccia» alia quale Dante alludera nella bolgia dei falsari. Fu ucciso nello scontro avvenuto a Pieve al Toppo (giugno 1288) nell'ambito delta guerra tra gli aretini e i Ghibellini fuorusciti di Siena e Fi- L n renze, da una parte, e i Guelfi, capitanati da Firenze, dalľaltra, guerra culminata ľanno dopo nella battaglia di Campaldino, alla quale partecipb lo stesso Dante. L'anima che corre piú lentamente é quella dei ricchissimo padovano Giacomo da SanťAndrea, ucciso nel 1239, famoso per la sua leggendaria dissipatezza. L'anima trasformata in cespuglio, infine, dovrebbe essere, ma ľidentificazione e controversa, quella dei banchiere e mercante fiorenti-no, ma attivo soprattutto in Francia, Rucco di Cambio dei Mozzi, il quale, travolto dal dis-sesto delia sua ditta, si sarebbe impiccato a Parigi (fra il 1291 e il 1292). Un suo nipote é collocato da Dante tra i sodomiti. Virgilio preše Dante per mano e lo condusse verso il cespuglio, il quale, intanto, si lamentava per le ferite sanguinanti dicendo: «0 Giacomo da Sanť Andrea, a cosa ti é servito cercare in me riparo? Che responsabilitä ho io se sei vissuto da peccatore?». Fermatosi su di lui, Virgilio gli chiese chi fosse, e quello, dopo aver pregato le due anime sopraggiunte di raccogliere le sue fronde disperse dalle cagne e di radu-nargliele ai piedi, disse di essere stato cittadino di Firenze, la cittä che aveva cam-biato il suo primo protettore, Marte, con san Giovanni il Battista. Aggiunse che il dio delia guerra, per vendicarsi di essere stato ripudiato, ľavrebbe perseguitata per sempre; anzi, che ľavrebbe giä distrutta, dopo che i fiorentini ľavevano riedificata sopra le ceneri in cui Attila ľaveva ridotta, se non fosse stato per il fatto che una sua statua, seppure mutila, restava ancora presso il Ponte Vecchio. Le sue ultime parole furono: «Mi impiccai in casa mia». La leggenda voleva che la chiesa battistero di San Giovanni nelľantichitä fosse un tem-pio dedicato a Marte. Leggendaria é anche la distruzione di Firenze a opera dei re unno Attila (distruzione che nel De vulgari eloquentia Dante attribuirä invece al re goto Fotila), cosi come ľidentificazione, da parte dei fiorentini, dei resti di un'antica statua equestre, coľ locata sul Ponte Vecchio, con una statua che sarebbe appartenuta al tempio di Marte. Con le parole dei dannato, Dante presenta Firenze come una cittä dilaniata, sotto il malígno influs-so dei dio delia guerra, da risse e lotte intestine. Delia statua mutilata di Marte Dante par-lerä nuovamente nel canto 16 dei Paradiso. < > 4^2828 CANTO 14 I bestemmiatori: Capaneo Dante, spinto dall'amor di patria, radunö le fronde disperse a terra e le rese al suo concittadino, che si era ammutolito. Poi lui e Virgilio arrivarono al confine tra il se-condo e il terzo girone. Questo girone era una pianura, del tutto priva di vegetazio-ne, circondata dalla selva dei suicidi, cosi come quella lo era dal Flegetonte. La co-priva una sabbia arida e compatta, identica a quella che Catone aveva calpestato nel deserto della Libia. Marco Porcio Catone detto VUticense (che Dante collochera come custode del Purgato-rio) guido le truppe pompeiane sconfitte attraverso il deserto libico. Dante si rifa al racconto di Lucano nella Farsaglia, racconto a cui alludera anche nella bolgia dei ladri. Sulla distesa di sabbia Dante vide molte schiere di dannati, tormentati da pene diverse: alcuni, meno numerosi ma puniti piú dolorosamente degli altri, erano di-stesi sulla schiena (i bestemmiatori), altri sedevano accoccolati (gli usurai) e altri an-cora, ed erano i piú, camminavano senza sosta intorno al girone (i sodomiti). Lingue di fuoco piovevano lentamente sopra la landa sabbiosa, come lentamente larghi fiocchi di neve scendono in montagna quando non tira vento. Restavano ben accese fino a che non toccavano terra, proprio come le fiamme che in India (secondo Alberto Magno) piovvero sull'esercito di Alessandro il Macedone, il quale, siccome non si estinguevano, per evitare che si accumulassero ordinö ai suoi uomini di calpestare il terreno. Sotto quelle fiamme eterne la sabbia si accendeva come un'esca sotto l'acciarino. I dannati, bruciati sia dalla pioggia di fuoco sia dalla sabbia ardente, muovevano freneticamente le mani di qua e di la, cercando invano di scuotere via le fiamme appena cadute. Dante scorse un uomo di grande corporatura che se ne stava disteso con un'e-spressione sprezzante e minacciosa, come se quell'incendio gli fosse indifferente: uno che proprio non sembrava ammorbidito dalla pena. Chiese a Virgilio chi fosse, ma fu lo stesso dannato, accortosi che stava domandando di lui, a rispondergli gri- dando: «Da morto, io sono lo stesso che fui da vivo!». E prosegui: «Giove, se anche chiedesse al suo fabbro Vulcano di sfiancarsi a fabbricargli nuovi fulmini, che pro-prio da lui aveva avuto quello con il quale, arrabbiato, mi colpi a morte, o se anche nella tenebrosa officina sotto 1'Etna ne sfiancasse a turno tutti gli aiutanti Ciclopi), invocando il loro aiuto come aveva fatto nella battaglia di Flegra, e se anche mi ful-minasse con tutte quelle folgori, ebbene, Giove non potrebbe gioire della sua vendetta». A quel punto Virgilio parlo con una veemenza con la quale mai prima di allora Dante lo aveva sentito parlare: «Capaneo, questa e la tua punizione maggiore, che in te non si abbassa la superbia; la rabbia che provi e Tunica pena adeguata alia tua empieta». E poi, rivolto a Dante, con atteggiamento piu disteso: «Quello fu uno dei sette re che assediarono Tebe. Disprezzo Dio e, a quanta pare, ancora lo disprezza, ma, come gli ho appena detto, quel suo disprezzo e 1'unico appropriato ornamento di cui pud fregiarsi. Ma adesso seguimi, sta' attento a non mettere i piedi sulla sabbia rovente e tieniti sul margine del bosco». II mito di Capaneo e raccontato nella Tebaide di Stazio (poeta latino che Dante assume-ra come guida, insieme a Virgilio, nell'ultimo tratto della salita del Purgatorio): durante I'assedio condotto da sette re alia citta di Tebe, il cui trono era stato usurpato da Eteocle a danno di suo fratello Polinice, il bestemmiatore Capaneo salt da solo sulle mura nemiche e da li sfidb Giove a incenerirlo. II dio, allora, lo fulminb, ma, sebbene colpito, Capaneo restb in piedi e, morendo, con lo sguardo continub a sfidare la divinita. Lo spirito di Capaneo ac-cenna anche alia battaglia di Flegra, in Tessaglia, nella quale Giove dovette ricorrere all'aiuto di Vulcano per abbatlere con i fulmini i Giganti che tentavano di scalare I'Olimpo. Un piccolo fiume di colore rosso, bollente come la fonte del Bulicame dalla quale le meretrici di Viterbo incanalano l'acqua calda per i loro bagni, sgorgava dalla sabbia e scorreva verso il basso deH'imbuto infernale. II fondo, le pareti interne e le spallette erano di pietra: su queste, dunque, era possibile camminare. fiume rosso di sangue e il Flegetonte, che Dante aveva gia guadato in grappa al cen-tauro Nesso. Bulicame era il nome di una sorgente termale nei pressi di Viterbo da cui le prostitute, alle quali era fatto divieto di lavarsi altrove, derivavano con un sistema di cana-lizzazioni l'acqua per i loro bagni. < «Di tutte le cose che ti ho mostrato finora» ammoni Virgilio «nessuna ě piú note-vole di questa.» E poi, per soddisfare la curiositä suscitata in Dante, continuö rac-contando che nell'isola di Creta, ignara del male nei tempo felice in cui vi regnava Saturno (la mitica etä dell'oro), sorgeva una montagna, l'Ida, anch'essa un tempo ri-gogliosa e adesso ridotta a un deserto. In una caverna di quel monte si ergeva in piedi, con le spalle rivolte a Damietta (cittä presse il delta del Nilo, e pereib a oriente) e gli ocehi a Roma {a occidente), la statua di un grande vecehio: aveva la testa ďoro, le braccia e il petto ďargento, il tronco di rame, le gambe e il piede sinistra di ferro, il destro, sul quale si appoggiava, di terracotta. Tutte le parti del corpo, tranne la testa, erano attraversate da una fenditura che versava lacrime. Queste, riunite, filtra-vano dalla caverna, scendevano di roccia in roccia alľlnferno, dove formavano i fiumi Acheronte, Stige e Flegetonte e, sul fondo, il lago ghiacciato di Cocito. La figura del vecehio di Creta rappresenta visivamente la storia di decadenza delľumani-ta dalla primitiva eta dell'oro a quella presente, nella quale essa, invecchiata e prossima alla fine, sopravvive precariamente su un piede di terracotta. Dalla fenditura prodotta nell'uma-nita dal peccato originale nascono i mali e, da qui, le lacrime di cui sono fatti i fiumi infernali. «Perche» chiese Dante «se i fiumi, che derivano dalle lacrime del vecehio di Creta, scendono qui dalla Terra, non abbiamo incontrato prima questo fiumicello?» «Perche» gli rispose Virgilio «l'Inferno ě circolare, e noi, nello scendere, non ne abbiamo mai percorso ľintera circonferenza. Se l'avessimo fatto, lo avresti incontrato.» E Dante ancora: «Dove sono il Flegetonte e il Lete?». «II sangue bollente avrebbe dovuto farti capire che questo ě il Flegetonte. Quanta al Lete, lo vedrai in Purgatorio» disse Virgilio. «E ora di lasciare il bosco, seguimi sulla spalletta del fiume, che non brucia.» Ilfiume Lete scorre nei Paradiso terrestre, sulla eima del monte del Purgatorio: alle ani-me che vi si immergono prima di salire al cielo le sue acque tolgono perfino il ricordo dei peccati commessi. 2^68260^ CANTO 15 I sodomiti: Brunetto Latini Dante e Virgilio si allontanarono dal bosco camminando sopra una delle spallette di pietra, dove il vapore esalato dal fiume bollente spegneva la pioggia di fiamme. Quegli argini erano, si, piü bassi e meno larghi, ma avevano la stessa forma della diga che i fiamminghi, per difendersi dalle maree, costruiscono tra Wissant e Bruges (rispettivamente ai margini occidentale e Orientale delle Fiandre) e dei terrapieni che i padovani innalzano lungo il Brenta a protezione di cittä e villaggi prima che in Ca-rantania il calore primaverile sciolga le nevi e faccia gonfiare i fiumi. (// ducato di Carantania occupava un'area estesa dall'attuale Carinzia fino a Trento, presso cui nasce il fiume Brenta.) II bosco era giä scomparso alia vista, quando Dante e Virgilio si im-batterono in una schiera di anime sodomiti) che procedeva verso di loro costeg-giando l'argine. Ciascuna di esse li osservava con lo stesso sguardo concentrato con il quale le persone si scrutano l'un l'altra in una notte senza luna: stringevano le palpebre come un vecchio sarto che cerca di infilare il filo nella cruna. Un'anima riconobbe Dante, gli afferrö dal basso il bordo della veste e gridö: «Qual meraviglia!». Dante guardö intensamente il viso riarso e, benche fosse deva-stato dalle ustioni, lo riconobbe, abbassö la mano come per accarezzarlo ed escla-mö: «Voi siete qui, ser Brunetto?». E lui: «Figlio mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latini torna un poco indietro con te lasciando che la fila dei compagni prosegua il suo cammino». Dante lo pregö vivamente di farlo, anzi, gli disse che lui stesso si sarebbe seduto insieme a lui, se la sua guida glielo avesse concesso. Ma Brunetto rispose che chiunque di loro si fosse fermato anche solo per un momento sarebbe poi dovuto rimanere sdraiato per cento anni senza potersi riparare dalle fiamme. Che Dante, dunque, continuasse a camminare: lui l'avrebbe seguito standogli vicino, e poi sarebbe tomato indietro per ricongiungersi al suo gruppo di dannati. Brunetto Latini (1220/30-1293), notaio (da qui il titolo di «ser»), uomo di cultura e politico, fix una delle piú eminenti personalita florentine della seconda meta del Duecento e ľin-tellettuale piú rappresentativo del partito guelfo. Vissuto in Francia durante il predominio ghibellino (1260-1266) - dove, infrancese, scrisse Venciclopedia il Tresor ricordata alia fine del canto -, al suo rientro a Firenze occupb importanti cariche pubbliche. Dante rappresenta Brunetto come un maestro a cui era stato legato da un rapporto di tipofiliale. In effetti, egli deve aver esercitato sul giovane Dante, con I'esempio, gli scritti, i consigli di lettura e con vere e proprie lezioni di lingua e stile latini, una sorta di tutorato culturale e spirituále. Ma dirsi figlio di Brunetto, cio'e dell'indiscusso punto di riferimento della vita politica e ammi-nistrativa fiorentina, per Dante significa anche dichiararsene erede e con cib indicare sé stesso, per quanto bandito dalla cittä, come il vero interprete dei valori della tradizione guelfa comunale. Dante, ehe non osava scendere dall'argine per camminare al fianco di Brunetto, mostrava la sua deferenza tenendo il capo chino. Brunetto allora gli chiese quale superiore ragione lo portasse laggiu ancora in vita e chi fosse colui che gli faceva da guida. E Dante gli rispose ehe lassu sulla Terra, poco prima di aver toccato il culmine della vita (essendo nato net maggio 1265, il 25 marzo 1300 non aveva ancora compiuto trentacinque anni), si era smarrito in una sel-va: ne era uscito solo il giorno prima, all'alba, ma stava per perdervisi un'altra volta quando gli era apparso colui che adesso lo accompagnava e lo riconduceva a casa per quella strada. Al che Brunetto disse: «Se quando ero in vita ho visto giu-sto, segui la rotta che ti indica la Stella sotto la quale sei nato (la costellazione dei Ge-melli) e non mancherai di giungere alia gloria. Se non fossi morto cosi anzitempo (alia fine del 1293, quando Dante sta per pubblicare il suo primo libro, la Vita Nova, e sta per entrare nella vita politica cittadina, tra il 1294 e il 1295), io stesso, vedendo quanto il Cielo ti fosse propizio, avrei incoraggiato il tuo operare. Ma quella ingrata popo-lazione che anticamente scese da Fiesole, e che ancora conserva la selvatica durezza delle origini montanare (secondo la leggenda, Firenze, che i Romani fondarono dopo aver distrutto Fiesole, fu popolata da coloni románi e daifiesolani rimasti senza cittä), ti odiera proprio per la tua rettitudine (mandando Dante in esilio), ed ě giusto che sia cosi, per-ché il fico non puó produrre i suoi dolci frutti tra le aspre sorbe. Un detto antico li chiama ciechi (stando ad alcune tradizioni, a causa della loro ingenuitä, ma Brunetto allu- < de alia cecita con la quale, combattendosi, i fiorentini mandano in rovina la citta); sono a vidi, invidiosi, superbi: non macchiarti dei loro vizi. La tua sorte ti riserva un grande onore: entrambe le parti vorranno divorarti, ma l'erba restera lontana dalla loro bocca. Le bestie fiesolane (cioé i fiorentini) si mangino tra loro, e non tocchino la pianta, ammesso che nel loro letame ne nasca ancora qualcuna in cui riviva il santo seme di quei Romani che si fermarono a vivere a Firenze, ricettacolo di tanta catti-veria, quando la fondarono (tra i pochi discendenti dei Romani, ovviamente, c'e Dante stesso)». Brunetto allude alle fazioni dei Neri e dei Bianchi, unite nell'odio contro Dante. Questi si inimichera i Bianchi, suoi compagni di esilio, quando, forse intorno al 1306, li abbando-nera e sconfessera nel tentativo di ottenere dai Neri di Firenze un'amnistia personale. La predizione di Brunetto, dunque, si riferisce a un periodo di tempo successivo, anche se di poco, a quello a cui rimandavano i cinquanta mesi profetizzati da Farinata perché Dante conoscesse quanto fosse difficile Varte di ritornare dall'esilio. «Se fosse esaudito il mio desiderio» gli rispose Dante «voi sareste ancora in vita: la cara e buona immagine paterna di voi che mi insegnavate come si diventa im-mortali ě fissa nella mia mente, e adesso, a vedervi qui, mi addolora. Finché avrö vita, nelle mie parole si vedrä quanto io abbia caro il vostro insegnamento. Annoto ciö che dite del mio futuro, e lo conservo, insieme a un'altra predizione, per farlo commentare da una donna, Beatrice, che lo saprä fare. (In realta, nel Paradiso, a com-mentare le profezie di Farinata e Brunetto sara Cacciaguida, trisavolo di Dante.) Questo solo voglio dirvi: sono pronto a obbedire ai voleri della Fortuna, purché non con-trastino con la mia coscienza. La vostra profezia non giunge nuova alle mie orec-chie, e perciö la Fortuna giri la sua ruota come le pare, e il contadino la sua zappa.» A quel punto, Virgilio, che camminava un poco piü avanti, si voltö e sentenziö: «Buon ascoltatore ě chi ricorda ciö che ha udito!». Dante, perö, non si distrasse, e continuo a parlare con Brunetto. Gli chiese chi fossero i suoi compagni piú noti e importanti. E lui gli rispose che il tempo non sarebbe bastato a nominarli tutti, ma che, per dirla in breve, i compagni piú eminenti erano uomini di Chiesa e dotti fa-mosi. Cito Prisciano e Francesco d'Accursio; se Dante poi, aggiunse, avesse avuto voglia di conoscere una persona tanto sozza e ripugnante, avrebbe potuto vedere il vescovo che il papa aveva trasferito da Firenze a Vicenza dove, morendo, aveva la- L n sciato quei nervi che, da vivo, aveva proteso in colpevoli erezioni durante i suoi rapporti omosessuali. Prisciano da Cesarea (V-VI secolo) é autore della piú diffusa grammatica latina del Me-dioevo. Francesco (1225-1293), figlio del celebre giurista Accursio, insegnö diritto alio Studio di Bologna. Andrea di Spigliato dei Mozzi, vescovo di Firenze dal 1287, fix allontanato da Bonifacio VIII, su pressione popolare, per essere stato ispiratore, nel 1295, di una rivolta di magnáti contro i provvedimenti che li escludevano dalle cariche pubbliche, e trasferito a Vicenza dove mori. Ě nipote del banchiere Rucco incontrato da Dante tra i suicidi. Brunetto avrebbe parlato ancora, ma una nuvola di fumo che vedeva levarsi dal sabbione lo avvisö che stava per sopraggiungere una nuova schiera di dannati, ai quali gli era proibito mescolarsi. Pertanto si congedö dicendo: «Non ti chiedo altro che di avere cura del mio Tresor, nel quale ancora sopravvivo». Ciö detto, si giro e scattö in una corsa attraverso il sabbione. Sembrava uno dei corridori che a Verona gareggiano per conquistare il panno verde e, per come correva veloce, pareva il vincitore non il perdente. A Verona si svolgeva ogni anno, la prima domenica di quaresima, una corsa podistica il cui vincitore era premiato con un drappo verde, mentre l'ultimo arrivato riceveva un gallo che doveva esibire per la citta. Dante pub avervi assistito il 16 febbraio 1304, verso lafine del suo primo soggiorno Veronese, cominciato nell'estate dell'anno precedente. < > A4C CANTO 16 Altri violenti contro natura: Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci Dante era arrivato al punto da cui gia si percepiva in lontananza, simile al ronzio degli alveari, il rumore prodotto dal precipitare del Flegetonte nel dirupo che sepa-rava il settimo dall'ottavo cerchio. Ed ecco che da una schiera che passava distante dall'argine si staccarono contemporaneamente tre anime. Correvano verso Dante e Virgilio e tutte e tre gridavano: «Fermati, tu che dall'abito ci sembri uno della nostra corrotta citta». Erano piagate da ustioni vecchie e recenti. Virgilio invito Dante ad arrestarsi: era doveroso essere cortesi verso quelle anime tanto onorevoli che, se non fosse stato per le fiamme, avrebbe dovuto essere lui a correre verso di loro. Dante e Virgilio si fermarono, e allora le anime smisero di correre e, raggiuntili, cominciarono a muoversi in circolo intorno a loro. Come i lottatori nei duelli giudi-ziari (ai quali venivano affidate le controversie altrimenti non risolvibili, nella convinzione che il vincitore fosse voluto da Dio), prima di colpirsi e ferirsi, ruotando, cercano di ca-pire quale sia la presa piu vantaggiosa, cosi ognuna di quelle anime, girando in tondo, storceva il collo voltando il viso verso Dante. Poi una di loro comincio a par-lare: «Anche se questo luogo di degrado e il nostro aspetto annerito e scorticato rendono spregevoli noi e le nostre suppliche, il buon nome di cui abbiamo goduto in vita ti induca a dirci chi sei tu, che cammini impunemente attraverso l'lnfemo. Questi, che gira davanti a me, benche adesso sia nudo e privo di peli e capelli, fu di rango molto piu elevato di quanta tu possa credere. Si chiamava Guido Guerra, era nipote della valente Gualdrada, e fece cose egregie come governante e come capita-no. L'altro, che gira dietro a me, e Tegghiaio Aldobrandi, di cui i fiorentini avrebbe-ro dovuto ascoltare i consigli. E io, in mezzo a loro, fui Iacopo Rusticucci, condan-nato, piu che per altro peccato, per la bestialita che usavo con mia moglie». L'allusione ad atti «bestiali» con la moglie potrebbe indicare che questo gruppo di danna-ti non praticb la sodomia omosessuale, ma una forma di vizio contro natura eterosessuale. Di Rusticucci (di cui Dante aveva chiesto notizia a Ciacco) poco sappiamo, se non che fu guelfo, cavaliere e che ricopri la carica di capitano del popolo ad Arezzo (1258). Dal suo te-stamento risulta che praticb I'usura, ma su cib Dante sorvola. Guido Guerra VI di Dovado-la (1220 ca -1272), appartenente a un ramo della nobilissima famiglia comitate dei Guidi -con la quale, nel periodo dell'esilio, la vita di Dante fu strettamente intrecciata -, era nipote di Gualdrada, moglie di Guido Guerra III efiglia di Bellincione Berti dei Ravignani, antica e ragguardevole famiglia fiorentina (al padre e alia figlia Dante accennera nel canto 16 del ParadisoJ. II Guido Guerra infernale fu uno dei capi del partito guelfo: comandb ifuorusci-ti fiorentini nella battaglia di Benevento contro Manfiedi (1266) e poi divenne il principale esponente del governo cittadino. Tegghiaio Aldobrandi, un altro di cui Dante aveva chiesto notizia a Ciacco, apparteneva alia consorteria degli Adimari (la stessa di Filippo Argenti): guelfo, dopo la sconfitta di Montaperti andb in esilio a Lucca dove mori. I fiorentini non se-guirono il suo consiglio di non scendere in guerra contro Siena, guerra conclusasi con la disfatta di Montaperti. Se avessi potato ripararmi dal fuoco - commenta Dante - mi sarei gettato tra loro giü dall'argine, e sono sicuro che Virgilio me lo avrebbe permesso, ma la paura fu piü forte del desiderio di abbracciarli. Allora mi presentai, non prima di avere assicurato l'interlocutore che la loro condizione non aveva suscitato in me disprez-zo alcuno ma, semmai, un intenso dolore, e ciö fin dal momento in cui Virgilio mi aveva fatto capire che si avvicinavano persone onorevoli quali essi erano: «Si, sono di Firenze, ho sempre ascoltato e ripetato le vostre azioni e i vostri nomi con com-mozione. Lascio l'amarezza del peccato e vado a cercare la suprema dolcezza; prima, perö, bisogna che scenda sino al fondo dell'Inferno». «Possa tu vivere a lungo» replicö Rusticucci «e la tua fama risplendere dopo la morte. Dimmi: i nobili costami e le virtu civili abitano ancora nella nostra cittä, come un tempo, o se ne sono andati? Te lo chiedo perche Guglielmo Borsiere, arrivato qui da poco tempo, e che adesso cammina la con gli altri, molto ci addolora con i suoi discorsi.» Non sappiamo chi fosse Guglielmo Borsiere: forse era uomo di corte, come Ciacco, e per-cib diretto testimone della decadenza morale dell'aristocrazia fiorentina. Dante guardö in alto ed esplose in un grido: «O Firenze, i nuovi venuti e i facili arricchimenti hanno prodotto in te tanta arroganza e smodatezza che ne piangü». < Dante autore ha di mira sia il fenomeno dell'inurbamento, che portando in citta gente dal contado ha stravolto la classe dirigentefiorentina ai danni dell'antica nobilta autoctona, sia il potere assunto dallafinanza e dal commercio. I tre dannati, convinti che quello sfogo fosse la risposta alla loro domanda, si guardarono l'un l'altro con l'espressione di chi viene a conoscere una dolorosa veri-tá e poi, dopo aver manifestato la loro ammirazione per il coraggio e la sinceritá con i quali Dante rispondeva a simili domande e avergli chiesto di usare la stessa franchezza nel parlare di loro una volta ritornato sulla Terra, sciolsero il cerchio e fuggirono via come se avessero le ali ai piedi. Neanche il tempo di dire «amen», che giá Virgilio si era rimesso in cammino. Percorso un breve tratto, furono investiti dal rombo assordante del Flegetonte che precipitava al fondo di una parete ripidissima. Esso era di intensita pari al fragore prodotto da quel fiume - il primo a gettarsi nel mare tra quelli che scendono dal versante sinistro dell'Appennino - che nel suo corso superiore ha nome Acquache-ta, nome che poi perde nei pressi di Forli (per assumere quello di Montone), quando, sopra San Benedetto dell'Alpe, invece di dividersi in taňte cascatelle, piomba dal-l'alto con un unico salto. Ai tempi di Dante il Montone era il primo fiume a sfociare nell'Adriatico guardando da ovest a est, mentre oggi sarebbe il terzo, preceduto dal Reno e dal Lamone, che allora finiva-no, rispettivamente, nel Po di Primaro e nelle paludi intorno a Ravenna. Dante portava intorno al collo una corda con la quale aveva pensato di catturare la lince dalla pelle screziata apparsagli mentre saliva sul colle (se la lince é simbolo di lussuria, la corda pub simboleggiare la castita). Virgilio gli ordino di scioglierla e di passargliela, e quando 1'ebbe in mano, prese lo slancio e la gettó giú dal burrone, osservandola cadere con attenzione. Dante pensó che a quel richiamo cosi incon-sueto dovesse rispondere qualcosa di altrettanto insolito. E infatti Virgilio, che gli leggeva nel pensiero, gli confermó che ben presto si sarebbe materializzato ció che lui immaginava confusamente, come in un sogno. Dante autore a questo punto si rivolge ai lettori. Ě vero, dice, che per evitare di essere tacciati come bugiardi, pur non essendolo, fin che si puó non bisogna parlare di veritá che possano sembrare menzogne, ma in questo caso lui non puó tacere. Sulle parole della commedia che stanno leggendo - possa essere loro gradita per molto tempo - giura che attraverso l'aria densa di fumo egli vide un essere, che avrebbe sbigottito anche la persona piu sicura di se, salire nuotando verso di lui. Compiva gli stessi movimenti del marinaio che, dopo essersi immerso nel fondo del mare per disincagliare un'ancora rimasta incastrata in uno scoglio o in qualco-s'altro, risale protendendo in alto le braccia e raccogliendo Ie gambe e i piedi per darsi la spinta. E la prima volta che Dante designa il genere letterario (commedia) a cui appartiene il poema; lofara solo una seconda volta all'inizio del canto ventunesimo. 5061711 CANTO 17 Gerione e gli usurai «Ecco la fiera con la coda appuntita, alia quale non resistono ne montagne ne mura ne eserciti! Ecco la fiera che infesta con il suo puzzo il mondo intero!» disse Virgi-lio, il quale, poi, fece cenno al mostro di approdare all'estremitä dell'argine di pie-tra sul quale lui e Dante avevano fino ad allora camminato. II mostruoso Gerione (il cui nome verra pronunciato molto piü avanti) e nello stesso tempo un demone e un simbolo dellafrode che dilaga in tutto il mondo e contro la quale non valgono ne protezioni naturali (le montagne) ne mura cittadine ne eserciti. Nella sua figura Dante mescola alcuni dementi delta mitologia classica, che faceva di Gerione un mostro a tre teste, con altri di estrazione biblica come le locuste deH'Apocalisse. Quella ripugnante immagine di frode obbedi, ma sulla riva appoggiö la testa e il busto, non la coda (che pendeva nel vuoto). La sua faccia, dall'aspetto benevolo, era di uomo dabbene; il tronco, di serpente; aveva zampe artigliate e pelose, il dor-so, il petto e i fianchi decorati di lacci e ghirigori piü colorati dei tappeti orientali o dei tessuti orditi da Aracne (fanciulla che sfidb Minerva nell'arte delta tessitura e che dalla deafu trasformata in ragno: il mito sara ricordato nel canto 12 del Purgatorio). Per il modo in cui si era sistemata sull'orlo di pietra che delimitava il sabbione dalla parte dell'abisso, con la testa e il busto sulla riva e la coda nel vuoto, la fiera sembrava una barca tirata in secco solo per metä o un castoro che dalla riva da la caccia ai pe-sci con la coda immersa nell'acqua. Faceva guizzare la sua estremitä biforcuta e ve-lenosa torcendola come fosse uno scorpione. Per avvicinarsi al mostro, Dante e Virgilio girarono sulla destra e, fatti una deci-na di passi sull'orlo di pietra che Ii proteggeva dalla pioggia di fuoco e dalla sabbia rovente, lo raggiunsero. In quel momento, perb, Dante scorse un gruppo di dannati seduti sulla sabbia in prossimitä della voragine. Virgilio lo invito, affinche comple-tasse la conoscenza del girone, ad andare da loro per un breve colloquio. In attesa del suo ritorno, lui avrebbe parlato con la bestia per convincerla a concedere loro le sue forti spalle per scendere. Dante, allora, si diresse da solo la dove sedevano quelle anime afflitte. Queste piangevano e agitavano le mani qua e la per ripararsi ora dalle falde di fuoco ora dalla sabbia ardente: sembravano i cani che, d'estate, con il muso o con la zampa scacciano le pulci, le mosche o i tafani che Ii pungono. Dante non riconobbe nessuna di quelle anime, ma si accorse che portavano al collo una borsa da monete, ciascuna con una propria insegna, e che quelle anime se la mangiavano con gli oc-chi: su una, gialla, era disegnato un leone azzurro; su un'altra, rossa, un'oca bianca. La prima e Vinsegna dei Gianfigliazzi, magnati fiorentini aderenii al partita dei Neri; la seconda e quella degli Ubbriachi, ghibellini (con una possibile allusione a Ciapo o Lapo degli Ubbriachi, banchiere attivo a Firenze negli anni Novanta del Duecento). Un dannato, sulla cui borsa bianca era disegnata una scrofa azzurra e gravida, disse a Dante: «Che ci fai tu qui? Vattene. Dato che sei ancora vivo, sappi che il mio concittadino Vitaliano siederä alia mia sinistra. Io sono l'unico padovano tra questi fiorentini, che piü e piü volte mi assordano gridando: "Venga finalmente il piü grande dei cavalieri, quello sulla cui borsa sono disegnati tre capri neri!"». Cib det-to, storse la bocca e tiro fuori la lingua, come un bue che si lecchi il naso. A parlare e. il banchiere padovano Reginaldo degli Scrovegni, morto nel 1300, padre di quell'Enrico che commissionb a Giotto la decorazione della cappella difamiglia: preannun-cia a Dante la condanna all'lnferno dell'ancora vivente (morira nel 1311, cioe dopo che Dante ha scritto questo canto) Vitaliano del Dente dei Lemizzi, suo genero, e lui pure banchiere. L'odio evidente di Dante nasce dal fatto che gli Scrovegni tenevano in pugno lafami-glia dei Caminesi, signori di Treviso, alia quale egli si sentiva legato. II paragone con il bue che si lecca con la lingua potrebbe alludere, in modo ingiurioso, a un altro ramo della fami-glia Lemizzi, quello dei Linguadivacca. II fiorentino, irriso come nobilissimo cavaliere, il cui arrivo e atteso all'lnferno e Gianni Buiamonti dei Becchi, finanziere e socio in affari del potente Betto Brunelleschi, guelfo «nero»: condannato nel 1308 per bancarotta fraudolenta, anche lui morira dopo la stesura del canto, nel 1310. Dante, temendo che un suo ritardo potesse irritare Virgilio, si affrettb a raggiun-gerlo, trovandolo giä in groppa al mostro. «Coraggio,» lo incitb Virgilio «d'ora in poi scenderemo con mezzi come questo. Monta davanti a me, cosi la coda non poträ colpirti.» < Dante era sul punto di mettersi a tremare, cosi come il malato di malaria, a cui giä sono illividite le unghie, sente avvicinarsi il brivido della febbre e trema anche solo a guardare l'ombra; ma si trattenne per vergogna e si fece forza, come fa il ser-vo in presenza di un valente signore. Sedutosi su quelle spalle ripugnanti, avrebbe voluto chiedere a Virgilio di abbracciarlo, ma gli mancö la voce. Virgilio, perö, gli venne come al solito in aiuto, e lo sorresse stringendolo con le braccia, poi ordinö a Gerione di muoversi, ma scendendo gradualmente e a larghe volute, dato che por-tava un carico per lui inusuale. II mostro si staccö dalla riva retrocedendo lenta-mente come una barca che lascia l'ormeggio e quando si senti libero di muoversi rivolse la coda lä dov'era il petto: dopo averla distesa, la fece guizzare come un'an-guilla e con le zampe raccolse a se l'aria come un nuotatore fa con l'acqua. Dante si ritrovö nel vuoto e senza poter vedere nient'altro che lo stesso Gerione: si spaventö non meno di quanto si spaventarono Fetonte, quando lasciö cadere le briglie del carro del Sole dando fuoco al cielo, come ancor oggi si vede, e lo sventurato Icaro, quando si senti staccare le ali dalle spalle, mentre il padre gli gridava che stava sba-gliando strada. Gerione nuotava nell'aria lento lento, planando con volute circolari: Dante se ne accorse soltanto perche sentiva una leggera brezza sul viso e sotto di sc. I miti di Fetonte e di Icaro sono raccontati da Ovidio neue Metamorfosi: Fetonte, figlio di Elios (il Sole), aveva ottenuto dal padre di poter guidare per un giorno il suo carro, ma i cavalli gli presero la mano e cosi, uscito dalla giusta traiettoria, incendiö il cielo e la terra (i segni sono ancora visibili nella Via Lattea); Icaro, insieme al padre Dedalo, era fuggito dal labirinto in cui erano tenuti prigionieri grazie a un paio di ali attaccate alle spalle con la cera, ma essendo salito troppo vicino al sole, nonostante le raccomandazioni del padre, la cera si liquefece e lui precipitb in mare. A un certo punto Dante udi, sotto di se a destra, lo scroscio spaventoso della ca-scata che si abbatteva sul fondo: sporse la testa e guardö giü. Vide fuochi e udi pianti e senti crescere la paura di cadere. Tremando, strinse le gambe intorno al cor-po di Gerione. Poi cominciö a scorgere sotto di se atroci scene di tormenti. Si face-vano piü vicine da ogni lato, e dal loro progressivo avvicinarsi percepi visivamen-te, cosa che prima non poteva fare, che stava scendendo con giri circolari. Come il falcone che e stato a lungo in volo, per stanchezza, e non per obbedire al richiamo o L n per aver avvistato la preda, scende lentamente, con disappunto del falconiere, lä da dove, rapido, si era alzato in volo, allo stesso modo Gerione depose Dante e Virgilio proprio ai piedi della ripida parete: scaricatili, si dileguö con la velocitä di una freccia scagliata dall'arco. < > CANTO 18 Malebolge: ruffiani e seduttori, adulatori Nell'Inferno c'e un luogo, detto Malebolge, tutto di pietra grigio scura. Dello stesso colore ě la parete rocciosa che lo circonda. Nel suo centro si apre un pozzo largo e profondo. La zona circolare compresa tra la parete e il pozzo ě suddivisa in died fossati. Ne danno un'immagine i castelli fortificati circondati da una successione di fossi a difesa delle mura; e proprio come quei castelli hanno piccoli ponti che dalle loro porte arrivano sino al fossato piú esterno, cosi in Malebolge una serie continua di ponti rocciosi si diparte dalla base della parete e interseca gli argini e i fossati convergendo nel pozzo centrále. Fu in questo luogo che Dante e Virgilio si ritrova-rono, una volta che Gerione li aveva deposti a terra. Malebolge («borse» o «sacche del male») ě il nome, di coniazione dantesca, dell'intero ottavo cerchio, nel quale sono puniti gli inganni compiuti nei confronti di chi sifida: e un grande anello di pietra, digradante verso il centro, suddiviso appunto in died fossati (o bol-ge) collegati da ponti naturali, ciascuno dei quali ospita una distinta categoria di peccatori. Al centro sprofonda un pozzo sul cui fondo si trova il lago ghiacciato di Cocito (nono cerchio). I due svoltarono a sinistra e si incamminarono lungo la parete rocciosa, sul mar-gine esterno della prima bolgia: sul fondo, alia loro destra, stáváno i dannati, nudi ruffiani e i seduttori). Erano divisi in due colonne: una, nello spazio tra il centro della bolgia e il margine esterno, procedeva in direzione contraria a quella di Dante e Virgilio, e percio veniva loro incontro; l'altra, nella corsia interna, camminava nel-la loro stessa direzione, ma piú velocemente. Un modo simile di procedere fu esco-gitato dai Romani per smistare il grande traffico di pellegrini che, l'anno del giubi-leo, intasava il ponte di SanťAngelo: da un lato del ponte, rivolti verso il Castello, venivano fatti passare i pellegrini diretti a San Pietro; dall'altro, in direzione del monte Giordano, quelli che ne venivano. II giubileo indetto da Bonifacio VIII (dal 25 dicembre 1299 al 24 dicembre 1300) attrasse a Roma una quantita di pellegrini quale non si era mai vista in epoca medievale. Che il pon-te di Sant'Angela (detto anche di San Pietro), I'unico a consentire I'accesso diretto alia basilica di San Pietro, fosse particolarmente congestionato e dunque credibile, anche se ilfatto non e attestato da altrefonti. E probabile che Dante si sia recato a Roma per lucrare I'indul-genza e che, pertanto, attinga qui a un ricordo personate. II monte Giordano, oggi non piu visibile, era una collinetta situata quasi dirimpetto a Castel Sant'Angelo, sulla riva opposta del Tevere. Dagli argini della bolgia diavoli cornuti frustavano i dannati sulla schiena con lunghi scudisci. Oh, come alzavano i tacchi al primo colpo! Nessuno aspettava il secondo, e tanto meno il terzo. Mentre camminava, Dante adocchio un dannato che gli sembrava di conoscere: prima si fermo per guardarlo bene, poi, con 1'assenso di Virgilio, ritorno indietro, seguendo il peccatore che nel frattempo era passato oltre. Questi, sotto i colpi di frusta, cercava di non farsi riconoscere abbassando la testa. Ma inutilmente, perche Dante gli disse: «0 tu che guardi per terra, se non sei uno che gli assomiglia, sei Ve-nedico dei Caccianemici. Quale colpa ti condanna a cosi brucianti frustate?». «Se ti rispondo» disse quello «e solo perche sentirti parlare come fanno i vivi mi riporta alia vita di un tempo. Fui io, checche se ne dica, a convincere Ghisolabella a soddisfare le voglie del marchese Obizzo d'Este. Non sono il solo bolognese a esse-re qui tormentato, anzi, in questa bolgia ci sono piu bolognesi di quelli che adesso, tra Savena e Reno, dicono "sipa" (doe «si»). Ricordati di quanto siamo avidi, e avrai una prova sicura di cio che affermo.» Mentre parlava un diavolo gli inferse una scudisciata, dicendogli: «Cammina, ruffiano! Qui non ci sono femmine da prostituire». Venedico dei Caccianemici, antica famiglia nobiliare di Bologna, fu un importante uomo politico della seconda meta del Duecento. Guidava la fazione di Guelfi intransigenti detta dei Geremei, ostile ai Bianchi e sostenitrice degli Este di Ferrara (ai quali Venedico era legato anche da rapporti di parentela), storici nemici di Bologna e alleati dei Neri di Firenze. Sa-ranno proprio i Geremei, saliti al potere nel 1306, a costringere Dante afuggire da Bologna, dove si era rifugiato un paio di anni prima: anche da qui il suo odio nei confronti di questo dannato. Che Venedico avessefatto prostituire la sorella Ghisolabella al marchese di Ferrara < Obizzo II (immerso nel sangue bollente insieme ai tiranni nel primo girone del settimo cer-chio) e attestato solo da Dante, evidentemente sulla base di dicerie correnti. Nel 1300 Vene-dico era ancora vivo (sarebbe morto nel 1303): perciö Dante, quando nel 1307-1308 scrive questo canto e lo colloca tra i morti, o commette un errore, o si lascia trascinare dall'odio. Diverso, come vedremo, sarä il caso del morto-vivente Branca Dorla, immerso nel ghiaccio fra i traditori dei parenti. II Sävena e il Reno sono due corsi d'acqua che, all'epoca di Dante, delimitavano il territorio del comune di Bologna. Dante ritornö da Virgilio. Insieme salirono senza sforzo su una roccia che spun-tava dal costone formando un ponte naturale. Giunti sull'arco sotto il quäle passa-vano i dannati, Virgilio disse a Dante di fermarsi e di osservare la fila di anime seduttori) che procedeva verso di loro sotto le frustate: siccome camminavano nella loro stessa direzione, prima non aveva potuto guardarle in faccia. Poi, senza che Dante gli avesse chiesto alcunche, disse: «Guarda come quel grande procede ancora regalmente, senza spargere alcuna lacrima di dolore! E Giasone, che con corag-gio e astuzia nella Colchide rapi il vello d'oro del montone. Prima aveva sostato nell'isola di Lemno, dopo che le donne, spietatamente, vi avevano ucciso tutti i ma-schi, e Ii, con gesti d'amore e belle parole, aveva sedotto la giovinetta Isifile, per poi abbandonarla incinta tutta sola. Questa e la colpa punita dal tormento che vedi, e che rende giustizia anche a Medea, lei pure ingannata da lui. In sua compagnia camminano coloro che sedussero fingendo amore». L'eroe mitico Giasone, con cinquanta compagni detti Argonauti (da Argo, il nome della nave sulla quäle viaggiavano), compi una spedizione nella Colchide (corrispondente all'in-circa all'attuale Caucaso) per recuperare la pelliccia dorata di un montone la conservata come sacra reliquia. Durante la traversata sostö a Lemno, un'isola dell'Egeo che era rimasta priva di maschi perche tutti massacrati, su istigazione di Venere, dalle donne: qui convisse per due anni con la regina Isifile, che poi abbandonb, gravida di due gemelli, per proseguire l'impresa con la promessa, mal mantenuta, di ritornare. Nella Colchide superb difficilissime prove grazie ai poteri magici di Medea, figlia del re Eeta, che si era innamorata di lui. Con il suo aiuto si impossessb del vello dorato e fuggi insieme a lei a Corinto, dove perb l'äbbando-nb per sposare Creusa, figlia del re Creonte. Medea si vendicb uccidendo i duefigli avuti da Giasone. Dante attingeva queste notizie soprattutto da Ovidio e da Stazio. Dante e Virgilio, nel frattempo, avevano attraversato il ponticello: dal punto nel quäle esso incrociava l'argine opposto, che a sua volta faceva da sostegno all'arcata successiva, sentirono dei sommessi lamenti provenire dalla seconda bolgia; Ii emet-tevano dannati (gli adulatori) che soffiavano rumorosamente con la bocca e le narici, percuotendosi, intanto, con le mani. II miasma che esalava dal fondo aveva incro-stato le pareti di un marciume che infastidiva occhi e naso. Siccome l'unico modo per scorgere il fondo di quel fosso stretto e buio era salire sul punto piü alto del ponte, Dante e Virgilio lo fecero, e da Ii videro sotto di loro anime affondate in uno Stereo che pareva proprio quello delle latrine. Frugando in basso con gli occhi, Dante scorse una testa talmente sporca da non capire se fosse di un laico o di un chierico. «Perche ti fissi su di me quando ci sono tanti altri imbrattati di merda?» gridö quello con rabbia. «Perche ricordo di averti giä visto quando avevi i capelli puliti» gli rispose Dante. «Tu sei Alessio Interminelli da Lucca: eeco perche fisso te piü degli altri.» E lui, picchiandosi la zucca: «Sono sommerso quaggiü a causa delle adulazioni di cui sempre mi sono riempito la bocca». Di Alessio degli Interminelli (o Antelminelli), cavaliere lucchese, e attestata la presenza a Firenze negli anni Novanta del Duecento fino all'll novembre 1299: e probabile che in questa occasione egli rappresentasse i Bianchi di Lucca e che Dante lo avesse conosciuto allora. Intervenne Virgilio. «Guarda un po' piü avanti» disse a Dante. «Potrai vedere proprio in faccia quella sozza e scapigliata donnaccia che, laggiü, si sta graffiando con le unghie sporche di merda e che per un po' si piega sulle cosce, per un po' si ferma in piedi. E la puttana Taide, quella che alla domanda del suo amante: "Ti sono molto gradito?" rispose: "Non molto, moltissimo!". E con ciö, di questa bolgia abbiamo visto quanto basta.» La prostituta Taide e personaggio di una commedia di Terenzio (185/184-159 a.C), ma qui Dante autore si riß, equivocando, a un passo del De amicitia di Cicerone: mentre nella commedia e l'amante che, dopo aver inviato in dono una schiava a Taide, chiede al parassita che aveva eseguito la commissione se Taide gliene fosse grata, dal testo ciceroniano sembra < che la richiesta sia rivolta dall'amante a Taide stessa. In ogni caso, Dante capovolge la do-manda latina «Mi sei grata?» in «Ti sono gradito?». L CANTO 19 I papi simoniaci: Niccoló III, Bonifacio VIII, Clemente V Dante autore inizia questo canto con un'apostrofe a Simon mago e ai suoi seguaci, detti, appunto, «simoniaci», gli avidi che, in cambio di oro e argento, prostituiscono in adulterio, cioě in illegittimo possesso, quei beni, appartenenti solo a Dio, che possono essere dati in matrimonio solamente alle persone buone. Per voi racchiusi nella terza bolgia, scrive Dante, adesso suonerá la mia tromba profetica. 1 simoniaci sono colon che vendono o acquistano i beni spirituali, in particolare le cari-che ecclesiastiche. Gli Atti degli Apostoli raccontano che Simone, un mago di Samaria, chiese a Pietro di poter comprare lafacolta degli apostoli di trasmettere con il battesimo lo Spirito Santo mediante I'imposizione delle mani. Dante e Virgilio erano saliti sul ponte che scavalcava la terza bolgia fino al punto in cui questo cadeva a perpendicolo sul centro del fossato sottostante. Le pareti e il fondo, di pietra grigio scuro, erano cosparsi di fori rotondi tutti della stessa gran-dezza. A Dante sembrarono identici a quelli fatti nel suo bel San Giovanni per ospi-tare i fonti battesimali: non molti anni prima del 1300, lui ne aveva rotto uno per salvare un bambino che vi stava annegando. E questa mia dichiarazione - commenta Dante autore - convinca definitivamen-te chiunque a non dare credito a false voci. Al tempo di Dante, nel fonte battesimale di San Giovanni erano presenti deifori, scavati quando il rito per effusione aveva soppiantato quello per immersione, nei quali erano collocate delle anfore d'argilla contenenti I'acqua lustrale. L'episodio autobiografico, di cui non abbiamo altre testimonianze, va messo in relazione con il racconto biblico della rottura del-I'anfora da parte del profeta Geremia: gli abitanti di Gerusalemme si erano dati a culti ido-latrici, e allora Dio aveva ordinato a Geremia di rompere un'anfora nella valle antistante la Porta dei cocci per profetizzare loro che la cittá sarebbe stata distrutta. Rompendo Vanfora dell'acqua benedetta Dante aveva replicato il gesto e, nello stesso tempo, il messaggio del profeta biblico: come Geremia si era scagliato contro I'idolatria degli Ebrei, cosi lui, con la Commedia, si scaglia contro la moderna idolatria della Chiesa, ovvero la simonia. E proba-bile che il gesto di Dante avesse creato sconcerto o che, addirittura, fosse stato giudicato sa-crilego. Da qui la sua solenne affermazione dei buoni motivi che lo avevano guidato. Dall'imboccatura dei fori spuntavano solamente i piedi e i polpacci dei dannati. Avevano tutti le piante dei piedi in fiamme, per cui dimenavano le articolazioni cosi forte che avrebbero spezzato corde e funi: come il fuoco appiccato a un oggetto unto fiammeggia solo sullo Strato piü superficiale, cosi faceva quella fiamma dai calcagni alia punta delle dita. Dante chiese a Virgilio chi fosse il dannato che, riarso da un fuoco piü vivo, si dibatteva piü degli altri compagni di pena. Virgilio gli rispose che, se avesse accet-tato di essere portato in braccio fin laggiü, scendendo per il punto meno ripido della costa, avrebbe saputo direttamente da lui chi fosse e quali fossero le sue colpe. Dante acconsenti volentieri, e cosi, attraversato il ponte, arrivarono suH'argine fra la terza e quarta bolgia, si voltarono e scesero nel fondo angusto e pieno di fori. Virgilio lo depose solo quando furono accanto al buco dentro cui il dannato mani-festava il suo dolore dimenando tanto freneticamente le gambe. Dante, che si era chinato a terra, con l'orecchio vicino all'imboccatura, come fa il frate confessore se l'assassino giä piantato a testa in giü nel terreno lo richiama in-dietro per ritardare la morte {gli «assassini», sicari prezzolati, erano giustiziati per «pro-pagginazione», cioe infilati a testa in giü in una buca che poi veniva riempita di terra e ac-qua), domandö a quell'anima conficcata per la testa di rivelargli chi fosse, se poteva parlare. E quella gridö: «Sei giä qui? Sei giä qui, Bonifacio? II libro del futuro mi ha dunque ingannato di parecchi anni (/' dannati, come detto, possono conoscere le cose che verranno). Ti sei stancato cosi presto di quelle ricchezze per avere le quali non avesti ritegno di sposare con l'inganno la bella donna (la Chiesa, sposa di Cristo e quindi dei suoi vicari) e poi di prostituirla?». A parlare e Niccolb III, papa dal 1277 al 1280, appartenente alia potente famiglia roma-na degli Orsini e dai suoi contemporanei concordemente accusato di aver praticato la simonia a favore dei familiari. Ilforo in cui si trova conficcato e destinato ad accogliere le anime di tutti i papi simoniaci: i nuovi arrivati spingono verso il basso i predecessori. Niccolb scambia Dante per Bonifacio VIII, e si stupisce che egli sia morto prima del previsto (in questo modo Dante pub anticipare al 1300 la condanna all'Inferno di Bonifacio, che mori < ■<» nel 1303). Bonifacio VIII e qui accusato di aver ottenuto il pontificato, a cui avrebbe aspira-to per brama di potere e di ricchezze, con I'inganno, cioe incoraggiando, se non addirittura costringendo, il suo predecessore Celestino V (da Dante collocato tra gli ignavi) alle dimissioni. Dante, interdetto e disorientato, non sapeva cosa rispondere. Fu Virgilio a sug-gerirgli di dire: «Non sono io quello che credi». Al che il dannato, indispettito, torse forte i piedi e poi, dolorosamente, disse: «Se non sei quello, cosa vuoi da me? Se ti importa tanto sapere chi sono, sappi che io fui rivestito del manto papale e che fui per davvero un figlio dell'orsa (animate che si riteneva fortemente attaccato alia prole, ma qui anche nel senso di membro della famiglia Orsini), tanto avido, per avvantaggiare gli orsacchiotti parenti), che su nel mondo ho messo in tasca molte ricchezze e qui allTnferno ho messo me stesso in questa tasca. Sotto la mia testa, spinti giü e schiacciati nelle fessure della roccia, ci sono i papi che mi hanno preceduto nella si-monia; finirö anch'io piü in basso, spinto da colui che credevo tu fossi quando ti ho fatto quella domanda precipitosa. Ma giä ora e piü il tempo che ho passato capo-volto a cuocermi i piedi di quello che passerä lui in questa stessa posizione. Da Occidents, infatti, verrä un nuovo papa (demente V) dal comportamento ancora piü turpe. Calpesterä ogni legge, e giustamente ricoprirä me e Bonifacio. Sara un no-vello Giasone: quello comprö il favore del suo sovrano, questi farä altrettanto con il re di Francia». Niccolb III afferma che e passato piü tempo dalla sua morte (1280) ad allora (1300) di quanto passerä tra la morte di Bonifacio VIII (1303) e quella del suo successore demente V (1314). Questi, il guascone (e percib proveniente da occidente) Bertrand de Got, e eletto papa nel 1305 e muore nell'aprile 1314. Si diceva che il re di Francia Filippo IV il Bello fosse intervenuto in suo favore nel conclave dietro la promessa di ottenere per cinque anni le decime della Chiesa nel regno di Francia: da qui il paragone con il Giasone della Bibbia, che aveva comperato la carica di sommo sacerdote dal re di Siria Antioco. Dante manifesta tan-ta ostilitä e disprezzo per demente V perche lo ritiene responsabile del fallimento di Enrico VII, al quale, dopo un iniziale sostegno, aveva fatto mancare il suo appoggio alla vigilia del-l'incoronazione imperiale (1312): di questo «tradimento» parlerä nel canto 17 del Paradiso; alia sua corruzione accennerä indignato nel canto 27 sempre del Paradiso. La profezia di Niccolb III relativa alla morte di demente V comporta che questo canto sia sta- to, se non scritto, almeno rielaborato nella seconda meta del 1314, poco prima della pubbli-cazione deMInferno, ultimato ormai da alcuni anni. Dante autore si chiede se, allora, egli avesse reagito al discorso del papa simo-niaco con troppa temerarietá. Infatti, nonostante la reverenza dovuta a un papa, la sua risposta era stata di questo tenore: «Ehi, tu, dimmi: quanto denaro Cristo no-stro Signore pretese da san Pietro per consegnargli le chiavi della Chiesa? Altro non gli chiese se non "Vienimi dietro". Né Pietro né gli altri apostoli estorsero oro o ar-gento a Mattia quando questi fu sorteggiato per sostituire il traditore Giuda (secon-do il racconto degli Atti degli Apostoli). Percio stattene quieto, che sei giustamente punito, e tieniti stretto il denaro accumulato con la simonia, quelle ricchezze a causa delle quali hai ardito opporti a Carlo ďAngió (probabile allusione alle voci, peraltro infondate, di un sostegno prezzolato di Niccolb III a una congiura contro il re di Napoli Carlo I ďAngib). E se non me lo vietasse il rispetto dovuto, nonostante tutto, alla dignita pontificale di cui tu fosti investito, le mie parole sarebbero ancora piú dure, perché la cupidigia di voi ecclesiastici corrompe il mondo, calpestando i buoni e innalzando i malvagi. Vide proprio voi 1'evangelista Giovanni quando vide la grande meretrice fornicare con i re (nella grande meretrice, Babilonia rceHApocalisse, i pa-dri della Chiesa scorgevano la Roma pagana, Dante invece la Roma papale, cioe la Chiesa), quella meretrice che nacque con sette teste (i setře sacramenti) e che, finché il suo sposo (il papa) ebbe cara la virtu, trasse aiuto e vigore da dieci corna (i dieci coman-damenti). Vi siete costruito un dio ďoro e ďargento (comefecero gli Ebrei con il vitello ďoro): ma quale differenza c'ě tra voi e gli Ebrei idolatri se non che essi pregavano un solo idolo e voi ne pregate cento (ogni moneta ďoro o ďargento)? Ahi, Costantino, quanto male partori non la tua conversione al cristianesimo, ma il dono con il quale per la prima volta facesti ricco un papa!». La cosiddetta «Donazione di Costantino» era un documento di fatto risalente soltanto al IX secolo, ma ai tempi di Dante ritenuto autentico, con il quale Vimperatore Costantino 1 (280-337), dopo la sua conversione al cristianesimo, avrebbe donato a papa Silvestro I la cit-ta di Roma. La «Donazione» era il principále pilastro giuridico sul quale la Chiesa fondava il proprio potere temporale. Dante, che la ritiene autentica, nel trattato politico sulla Mo-narchia contesta la legittimita del dono imperiále. La donazione sara deprecata anche nel canto 20 del Paradiso. < Mentre Dante gliele cantava in quel módo, Niccoló III, preso dall'ira o morso dalla vergogna, ballava agitando i piedi freneticamente. A giudicare dall'espressione soddisfatta con la quale aveva ascoltato quelle parole di veritá, il discorso di Dante doveva essere piaciuto a Virgilio. Lo aveva ab-bracciato e, dopo averlo sollevato ed esserselo stretto al petto, era risalito per la via da cui era disceso, tenendolo in braccio finché non era giunto al culmine delťarcata che scavalcava la quarta bolgia. Li depose il suo carico con tutta la delicatezza ri-chiesta da quel luogo accidentato e scosceso, arduo perfino per le capre. Da lassú, a Dante si apri la visione di una nuova bolgia. CANTO 20 Gli indovini Adesso - scrive Dante autore - devo mettere in versi un altro tormento, e questo sará l'argomento del ventesimo canto della prima canzone, dedicata ai dannati. £ la prima volta che Dante chiama «canti» i capitoli nei quali sono suddivise le tre canti-che, qui definite «canzoni». Dante, che si era sporto dal ponte per osservare il fondo della bolgia, vide avvi-cinarsi lentamente una processione di anime che piangevano in silenzio. Guardan-do meglio, si accorse che tutte avevano il collo mostruosamente stravolto e la faccia girata verso la schiena, cosa che le costringeva a camminare all'indietro. Nemmeno una paralisi avrebbe potuto ridurre qualcuno in quel modo. Rivolgendosi ai suoi lettori, Dante autore scrive che essi possono bene immaginare, senza bisogno delle sue parole, come, di fronte alia visione della forma umana stravolta al punto che le lacrime colavano nel solco tra le natiche, lui non avesse potuto fare a meno di pian-gere. Appoggiato a una sporgenza della roccia, singhiozzava tanto forte che Virgi-lio lo rimprovero: «Dopo tutto quello che hai visto reagisci ancora come gli altri sciocchi? Vera pieta, qui, ě non avere pieta. C'ě qualcuno piú scellerato degli indovini, convinti di poter forzare le decisioni di Dio? Solleva gli occhi, e guarda!». Gli indico l'ombra di Anfiarao, a cui la terra si era spalancata sotto i piedi, e che, mentre i Tebani lo dileggiavano chiedendogli: «Dove stai precipitando? Perché ab-bandoni la battaglia?», non smise di rovinare in basso finché non giunse al cospetto di Minosse. Adesso, proprio perché voleva vedere troppo lontano, camminava all'indietro con le spalle al posto del petto. E poi quella di Tiresia, da maschio trasfor-mato in femmina per aver colpito con un bastone due serpenti avvinghiati nella copula, ma ritornato maschio dopo avere di nuovo colpito la stessa coppia di serpenti. II sacerdote Anfiarao e uno dei sette re (fra i quali il Capaneo incontrato tra i bestemmia-tori) che parteciparono all'assedio di Tebe: avendo previsto con arte divinatoria la morte in guerra, aveva cercato di sottrarsi alia spedizione, ma, costrettovi, mentre combatteva eroica-mente fu inghiottito da una voragine sotto gli occhi dei tebani e precipitb nell'Ade. Dante qui interpreta liberamente il racconto della Tebaide di Stazio. Anche I'indovino Tiresia (padre di Manto, che entrera in scenafra poco) partecipb alia guerra tebana. Dante, in questo caso, riprende un racconto delle Metamorfosi di Ovidio: Tiresia, punito con la trasforma-zione in donna per avere bastonato due serpenti durante I'accoppiamento, dopo sette anni, avendo nuovamente percosso gli stessi due serpenti, riacquistb il suo sesso originario. In virtu di questa sua esperienza, fu chiamato a dirimere una controversia tra Giove e Giuno-ne su quale dei due sessi provasse maggiore piacere nell'amore: schieratosi con Giove, che riteneva fosse quello femminile, per vendetta fu accecato da Giunone, ma risarcito da Giove con il dono della preveggenza. Aronte seguiva Tiresia addossandosi alia sua pancia. Era vissuto in una caverna tra i bianchi marmi dei monti di Luni, sotto i quali gli abitanti di Carrara hanno le loro coltivazioni, e da lassu aveva potuto osservare senza incontrare ostacoli le Stelle e il mare. Aronte e un indovino etrusco che, stando alia Farsaglia di Lucano, avrebbe predetto la guerra civile tra Césare e Pompeo. I «monti di Luni» sono le alpi Apuane, dalle quali si estrae il marmo bianco. Tra il 1306 e il 1307 Dante era stato ospite dei marchesi Malaspina in Lunigiana. Infine veniva Manto, e lei pure procedeva all'indietro, cosicché Dante non pote-va vedeme né i capelli che, sciolti com'era proprio delle maghe, scendevano a co-prirle il seno, né le altre parti pelose del corpo. Siccome, disse Virgilio, dopo aver vagato per molte terre si era stabilita lä dove lui era nato, adesso desiderava parlar-gli un poco di quel luogo. E prosegui raccontando: «Dopo che suo padre Tiresia era morto e Tebe, sacra a Bacco, aveva perso la liberta, Manto aveva a lungo peregrina-to per il mondo. Nella bella Italia, ai piedi di quelle Alpi che all'altezza del Tirolo delimitano il confine della Germania, si trova un lago, chiamato Benaco, nel quale si raccoglie l'acqua che sgorga da innumerevoli fonti nell'arco montano compreso tra il borgo di Garda e la Valcamonica e al cui centro si incrociano i confini tra le diocesi di Trento, Brescia e Verona. L'acqua che non puô essere contenuta nel lago defluisce necessariamente dal punto in cui la riva ě piú bassa, sulla sponda meri-dionale, lä dove ě situata Peschiera, fortezza ben munita per fronteggiare bresciani < e bergamaschi. II fiume ehe cosi si forma prende il nome di Mincio per ľintero suo corso, dalľinizio fino a Governolo, nei cui pressi si getta nel Po. Le sue acque, dopo un breve tragitto dal lago, incontrano un avvallamento, e li si allargano formando una palude ehe, a volte, durante ľestate tende a prosciugarsi. Passando per quel luogo Manto, vergine erudele, vide in mezzo alľacquitrino un lembo di terra incol-to e disabitato. Desiderosa di fuggire la compagnia umana, vi si fermô con i servi per esercitarvi le sue arti magiche e vi rimase fino alla morte. In seguito gli uomini ehe vivevano sparsi nei dintorni si riunirono in quel luogo protetto tutto intorno dalla palude. Sulla tomba di Manto costruirono una cittä e in memoria di lei, senza ricorrere a sortilegio aleuno, la chiamarono Mantova. Era molto piú popolata prima che i conti di Casalodi si facessero stoltamente ingannare da Pinamonte dei Bona-colsi. Ti ho detto tutto cič> affinché, nel caso in cui sentissi raccontare diversamente ľorigine delia mia cittä, nessuna menzogna alteri la veritä». Manto, dopo la morte del padre Tiresia, di cui sarebbe stata aiutante, erafuggita da Tebe, caduta sotto tirannia, e, dopo aver vagato per molti anni, si era fermata la dove sarebbe sorta Mantova, ehe Virgilio, nato nel vicino villaggio di Andes (identificato con ľodierna Pie-tole), considera la sua patria. La lunga digressione vuole correggere lefonti antiche, tra le quali lo stesso Virgilio, ehe attribuivano lafondazione delia cittä o a Manto o aun suofiglio (Dante, invece, afferma ehe Manto era vergine) o a pratiche magiche, e riportarla invece al-ľiniziativa degli uomini. Ľaccenno finale al declino delia popolazione di Mantova si riferi-sce a vicende delia seconda meťa del Duecento: Pinamonte dei Bonacolsi, ghibellino, nella guerra tra le grandi famiglíe mantovane prima si era alleato con i Casalodi o Casaloldi (1268), guelfi di antica nobiltä, poi si era rivoltato contro di loro, li aveva cacciati (1273) ed era diventato signore difatto delia cittä fino alla morte (1293). Lafortezza di Peschiera era un caposaldo degli Scaligeri di Verona, ghibellini anch'essi. Nel deserivere le zóne del lago di Garda e del Mantovano Dante pub avere attinto a ricordi di viaggi compiuti durante il suo soggiorno a Verona nel 1303-04. Dopo averlo rassieurato ehe la sua spiegazione era cosi persuasiva da togliere ogni efficacia a qualunque altra, Dante chiese a Virgilio di indicargli qualche altro dannato degno di nota. Per primo Virgilio nominö Euripilo, del quale lui, come Dante sapeva bene, aveva parlato nella sua sublime tragédia, YEneide: Euripilo, la cui barba, a causa delia rotazione del collo, scendeva dalle gote sulle spalle, era sta- to indovino nel periodo in cui la Grecia si era svuotata di uomini, partiti per la guerra di Troia, e insieme a Calcante aveva calcolato il momento propizio perché la flotta greca salpasse dalľAulide verso Troia. Poi segnalô per nome aleuni astrologi moderní: Michele Scoto, di esile corporatura, ma profondo conoscitore degli ingan-ni ehe si possono compiere con la mágia; Guido Bonatti e il calzolaio Asdente, ehe adesso avrebbe voluto, ma era troppo tardi, essersi oceupato solo di riparare scar-pe. Infine indicó un gruppo di streghe, le sciagurate ehe avevano abbandonato i la-vori femminili come il cucito, la tessitura e la filatura e, fattesi indovine, avevano praticato malefici con filtri e figúre da trafiggere o bruciare. NeZ/Tineide (qui chiamata «alta tragedia» in considerazione del suo stile elevato, men-tre, alľopposto, il poema dantesco e detto «commedia» alľinizio del canto successivo) Euripilo non e un indovino, ma un semplice messaggero ehe riferisce ai Gréci il responso delľo-racolo di Apollo. Forse Dante lo riteneva collegato alľindovino Calcante, il quale aveva suggerito di sacrificare Ifigenia, figlia di Agamennone, per placare la dea Artemide, ehe im-pediva alle navi greche di salpare. Michele Scoto (1175 ca - prima del 1236), filosofo seozze-se, traduttore di Aristotele e Averroé e autore di un imponente trattato di astrológia, fu il piú famoso astrologo del suo tempo, molto apprezzato dalľimperatore Federico II, alla cui corte trascorse gli ullimi anni di vita. II matematico forlivese Guido Bonatti (1210 ca -1296/1300) fu invece ľastrologo piú famoso delia seconda metä del Duecento, lui pure collegato agli ambienti ghibellini avendo collaborato nel tempo con Federico II, Ezzelino da Romano e Guido da Montefeltro. Benvenuto detto Asdente, cioé «sdentato», benché esercitasse il mestiere di calzolaio a Parma, nella seconda metä del Duecento era un ascoltato esegeta delle profezie bibliche e profane. «Ma adesso vieni via» disse Virgilio «perché il sole ě sorto a Gerusalemme e sta tramontando la luna ehe, come ben ricordi dato ehe ti fu di aiuto nella selva in cui ti eri smarrito, ieri notte era giä piena.» (Sono circa le sei del mattino del 26 marzo.) Dante e Virgilio si misero in cammino parlando tra loro. CANTO 21 I barattieri: Vanziano di Santa Zita Seguitando a parlare di cose che Dante autore non ritiene importante riferire nella sua commedia, passarono dal ponte della quarta bolgia a quello della quinta: nel punto piu alto si arrestarono a osservare la nuova fossa di Malebolge. Era straordi-nariamente buia. Come durante l'inverno, quando non possono navigare, i vene-ziani fanno bollire nell'arsenale la pece con la quale calafatare le imbarcazioni dan-neggiate - e in quei mesi di sosta forzata c'e chi costruisce una nuova barca, chi chiude con la stoppa le fessure apertesi nelle fiancate di quelle che hanno molto na-vigato, chi con il martello ribatte i chiodi a prua o a poppa, chi fabbrica remi, e chi attorciglia la canapa per le sartie e rappezza le vele -, alio stesso modo non il fuoco ma l'arte divina faceva ribollire sul fondo della bolgia una pece densissima che ne ricopriva le pareti di uno strata vischioso. La superficie della pece era increspata da bolle che si sollevavano, gonfiavano e poi si disfacevano scoppiando. Benche scru-tasse attentamente, Dante non vi vedeva nient'altro. «Bada!» lo mise in guardia Virgilio. A quel richiamo Dante si volto: alle sue spal-le un diavolo nero stava correndo su per il ponte verso di loro. Feroce nell'aspetto e crudele nel comportamento, tenendo le ali spalancate si muoveva leggero sulle punte dei piedi, anche se le sue spalle, aguzze e sporgenti, erano appesantite da un peccatore riverso all'indietro che lui teneva artigliato per i garretti. Dal ponte grido agli altri diavoli: «0 Malebranche, ecco uno degli anziani di Santa Zita! Mettetelo sotto la pece, mentre io torno a Lucca a prenderne altri: quella citta, dove per denari il no diventa si, e fornitissima di questo genere di peccatori. Eccetto Bonturo, sono tutti barattieri». Cio detto, lo buttb di sotto e torno indietro piu veloce di un mastino che insegue un ladro. Malebranche e il nome collettivo (suggerito dagli artigli, «branche») dei diavoli della bolgia (ma e anche il nome di unafamiglia di Lucca). Qui sono puniti i barattieri. Ricadevano sotto il reato di baratteria tutte le malversazioni e le appropriazioni illecite di denaro o beni pubblici, nonche la compravendita delle cariche, soprattutto elettive: oggi parleremmo di corruzione, concussione e voto di scambio. La baratteria e uno dei reati di cui Dante e rico-nosciuto colpevole nella sentenza di condanna all'esilio. I barattieri di questo canto sono tutti di Lucca (dove Dante ha soggiornato a lungo nel 1308), citta qui indicata con il nome di una popolana, Zita da Monsagrati, morta nel 1278, venerata come una santa benche non fosse canonizzata (lo sara solo nel 1690). Gli «anziani», tra i qualifigura I'anonimo peccatore portato a spalla dal diavolo, costituivano la piii alta magistratura del Comune lucchese. Quanto al peccatore, esso va identificato con un tale Martino Bottaio, un guelfo «nero» di estrazione popolare legato al Bonturo Dati nominato poco dopo: la cosa straordinaria e che Martino mori proprio il 26 marzo 1300, sicche Dante ne racconta I'arrivo all'Inferno, po-tremmo dire, in diretta. II mercante Bonturo Dati (ricordato con ironico sarcasmo) e ancora vivo negli anni in cui Dante scrive questo canto: morira infatti nel 1325. Fino al 1314 avra un ruolo di primo piano nella vita politica lucchese, e poi si trasferira a Firenze legandosi strettamente ai Neri. II dannato si immerse e poi torno su piegato in due, ma i diavoli che stavano sotto il ponte, prima gli gridarono: «Qui non viene esposto il Volto Santo! Qui si nuota ben diversamente che nel Serchio! (Fiume che scorre nei press; di Lucca, nella cui catte-drale e conservato un crocifisso bizantino chiamato Volto Santo.) Percio, se non vuoi es-sere uncinato, non venire fuori dalla pece». Subito dopo, artigliatolo con innumere-voli ramponi, lo ributtarono sotto - proprio come fanno gli sguatteri quando im-mergono la carne nella pentola e ve la trattengono con gli uncini perche non affiori -, e intanto gli dicevano: «Qui, diversamente che a Lucca, devi ballare al coperto, e sgraffignare di nascosto, se mai ci riesci». Virgilio consiglio a Dante di rannicchiarsi dietro la sporgenza di una roccia per evitare di essere visto dai diavoli e lo esorto a non avere paura, qualunque gesto o minaccia avesse visto fare nei suoi confronti, perche lui, che gia altre volte si era scontrato con i demoni, sapeva bene come comportarsi. Ma poi, raggiunto l'argine al di la del ponte, dovette mostrare tutto il suo coraggio, perche i diavoli, con la stessa furia con la quale i cam si avventano contro un mendicante, rivolsero contro di lui tutti i loro ramponi; e come il mendicante si affretta a chiedere 1'elemosina senza avanzare di un passo, cosi lui subito grido: «Fermi tutti! Uno di voi venga ad ascoltarmi, dopo di che deciderete se uncinarmi». E quelli, in coro: «Vada Malaco- < ■<» da!» (sia il nome del capo del diavoli sia quelli di molti altri, quali Cagnasso, Graffiacane, Scarmiglione, sono coniati su cognomi e soprannomi attestati a Lucca). Questi allora si fece avanri dicendo fra sé: «A che mai gli serve?». Al che Virgilio: «Pensi forse, o Malacoda, che io sia venuto qui, superando tutti i vostri ostacoli, senza il volere divino? Lasciaci andare, perché il Cielo vuole che io mostri a qualcuno questo cammino impervio». A queste parole, Malacoda, deposta ogni arroganza, lasció cadere a terra l'unci-no. «Non c'ě piu niente da fare» disse agli altri diavoli. «Non colpitelo.» Virgilio, allora, disse a Dante di uscire dal nascondiglio e di raggiungerlo senza timore. Dante obbedi, ma i diavoli gli si fecero incontro tutti insieme, tanto che lui ebbe paura che non mantenessero il patto. La stessa paura, ricorda Dante autore, da lui vista nei fanti che, dopo aver patteggiato la resa, uscivano dal castello di Ca-prona, quando si trovarono in mezzo a tanti nemici. Dante partecipd al breve assedio che nell'agosto 1289, meno di due mesi dopo la vittoria di Campaldino, I'esercito fiorentino pose al castello di Caprona, a poca distanza da Pisa, oc-cupato dalle truppe ghibelline comandate da Guido da Montefeltro. I difensori del castello si arresero dopo soli tre giorni. Intimorito, Dante si strinse a Virgilio, tenendo gli occhi fissi sui diavoli, che ave-vano facce minacciose. Abbassavano gli uncini contro di lui e intanto si dicevano l'un l'altro: «Vuoi che lo colpisca sul groppone?». «Si, dáglielo addosso!» Malacoda, pero, che stava parlamentando con Virgilio, si giro di scatto e intimó a uno di loro: «Fěrmati, Scarmiglione!». Quindi spiegó a Dante e a Virgilio che non avrebbero po-tuto proseguire di ponte in ponte perché quello sulla sesta bolgia era crollato e che, se avessero voluto procedere ugualmente, avrebbero dovuto continuare lungo l'ar-gine fino al ponte naturale che avrebbero incontrato non molto lontano. «Questo ponte» precise «ě crollato esattamente 1266 anni e un giorno fa, cinque ore meno rispetto a quella presente.» II ponte e crollato a seguito del terremoto provocato dalla morte di Cristo, avvenuta, se-condo Dante, a 34 anni compiuti, all'ora sesta, cioe a mezzogiorno. Dunque, adesso sono le sette del mattino del 26 marzo 1300. Questo ě I'unico luogo del poema che indica la data del viaggio. L n Malacoda aggiunse che, siccome stava inviando una decina dei suoi a controlla-re che un qualche dannato non si tirasse fuori dalla pece per cercare un po' di sol-lievo, loro potevano accompagnarsi al gruppo in tutta sicurezza. E cominció a chia-marne per nome i componenti: Alichino, Calcabrina, Cagnazzo e Barbariccia, che pose a capo del drappello; e poi chiamo ancora Libicocco, Draghignazzo, Ceriatto, Graffiacane, Farfarello e Rubicante. A costoro ordino di perlustrare all'intorno la pece bollente e di non toccare i due fino al successivo ponte di roccia che, integro, scavalcava le bolge. (Sia Vinformazione data da Malacoda a Dante e Virgilio sia I'ordine da lui impartito ai diavoli sono menzognerí, perché tutti i ponti sulla sesta bolgia, come si vedra, sono crollati.) Dante, pero, avendo visto i diavoli digrignare i denti e ammic-care, in segno di intesa con Malacoda, si spavento e prego Virgilio di proseguire da soli, senza quella scorta, tanto lui conosceva la strada; ma Virgilio gli rispose di non temere e di lasciarli digrignare a loro piacimento, perché le minacce erano rivolte ai dannati immersi nella pece. Svoltarono verso l'argine sinistro, ma prima ciascun diavolo mostro la lingua, stretta fra i denti, al capo Barbariccia, il quale rispose usando il culo a mo' di tromba. < > CANTO 22 Altri barattieri: Ciampolo di Navarra A me ě capitato - comincia Dante autore - di vedere cavalieri mettersi in marcia, dare 1'assalto e sfilare in parata, e qualche volta anche battere in ritirata; ho visto, o aretini, fare scorrerie nel vostro territorio; ho visto compiere incursioni a cavallo, combattere tornei e scontrarsi nelle giostre: tutto ció accompagnato da segnali, a volte di trombe, a volte di campane, altre volte di tamburi o di fumate e faló dai ca-stelli, segnali nostrani o forestieri; mai, pero, ho visto muoversi cavalieri, fanti e neppure navi al suono di una cornamusa cosi bizzarra, come quella usata da Barbariccia. Allusione alla guerra tra Firenze e Arezzo proseguita con la spedizione contro Pisa ricor-data nel canto precedente. Le scorrerie florentine in territorio aretino avvengono tra il 1286 e il 1289: in questo periodo si situa anche il gia citato scontro di Pieve al Toppo, nel quale trovb la mořte il Lano senese puníto tra gli scialacquatori. Dante e Virgilio camminavano insieme ai dieci diavoli. Ben feroce compagnia! -commenta Dante autore. Ma, ďaltronde, in chiesa si sta con i santi e in taverna con i furianti. Uattenzione di Dante era concentrata sulla pece, nel tentativo di scorger-vi qualcuno dei dannati che vi bollivano dentro. Per alleviare il tormento alcuni di loro a volte lasciavano emergere la schiena, per poi nasconderla in un battibaleno: sembravano delfíni che affiorano dalTacqua con il dorso avvisando cosi i marinai delTawicinarsi di una tempesta. Come i ranocchi stanno sul bordo dei fossi tenen-do fuori dalTacqua solo il muso, lo stesso facevano i dannati su entrambe le spon-de, ma non appena si avvicinava Barbariccia si ritraevano sotto la superficie bollen-te come farmo le rane. Cápita, talvolta, che una di loro si trattenga mentre le altre saltano via: ebbene, Dante vide uno di quei dannati attardarsi e Graffiacane, che gli era piú vicino, agganciargli i capelli impeciati e tirarlo su, simile a una lontra che il cacciatore estrae dall'acqua. Gli altri diavoli gridarono in coro: «Rubicante, prendi-lo con gli artigli e scuoialo!». Dante prego Virgilio di chiedere a quello sciagurato chi fosse. Virgilio, allora, gli si avvicinb e gli domandó dove fosse nato. «Sono nato nel regno di Navarra» rispose. «Mia madre mi mise al servizio di un signore, perché quello scioperato di mio padre aveva scialacquato i propri averi e poi si era suicidato. In seguito, entrai nella corte del buon re Tebaldo di Navarra, e qui mi diedi alla baratteria.» Non sappiamo chi sia questo innominato peccatore: i commentatori antichi lo identifica-no con un certo Zampblo o Ciampolo, nella forma toscana. Un'ipotesi suggestiva, ma priva di appoggi documentarí, vedrebbe in luí il celebre poeta Rutebeuf (attivo nei decenni centra-li del Duecento), nato in Champagne (allora appartenente al regno di Navarra) e in rapporti con il re Tebaldo II, che regno dal 1253 al 1270. Ceriatto lo lacero con una delle due zanne che gli sporgevano ai lati della bocca come ai cinghiali: quel pověro topo era capitato tra gatte incattivite! Ma s'intromise Barbariccia: afferró il Navarrese e, tenendolo stretto con entrambe le braccia, intimo agli altri diavoli di non muoversi; poi invito Virgilio, se desiderava avere ulteriori informazioni dal dannato, a porgli in fretta altre domande, prima che uno dei diavoli lo facesse a pezzi. Virgilio allora gli chiese se tra i peccatori immersi nella pece conoscesse qualche italiano. Quello rispose di avere lasciato da poco uno che pro-veniva da una regione vicina all'Italia. Aveva appena finito di esclamare: «Potessi essere ancora sotto la pece insieme a lui!», che Libicocco, gridando: «Abbiamo pa-zientato anche troppo», lo agganció per un braccio con un rampone e gli strappó di netto un pezzo di muscolo. Anche Draghignazzo gli diede addosso, uncinandolo alle gambe. Al che il comandante Barbariccia si volse tutťintorno con sguardo mi-naccioso. Calmatisi un poco i diavoli, Virgilio chiese subito al dannato, che se ne stava a guardarsi le ferite, chi era il compagno dal quale aveva detto di essersi separata per venire a riva. E lui rispose: «Era frate Gomita di Gallura, ricettacolo ďogni tipo ďinganni: capitatigli tra le mani i nemici del suo signore, si fece pagare e li lasció liberi senza processo, "di piano", come lui ama dire. Del resto, anche in tutti gli altri incarichi fu grandissimo barattiere. Con lui fa comunella il signor Mi-chele Zanche di Logudoro: i due non fanno altro che parlare della Sardegna». La Sardegna medievale era divisa in quattro regni o «giudicati»: Arborea, Cagliari, Gallura e Logudoro. II frate Gomita, che qui appare provvisto diformazione giuridica («di pia- < no» [de plancj nel lessico giudiziario indicava il processo sommario), era probabilmente un ufficiale del giudice di Gallura Nino Visconti (difamiglia guelfa pisana, associato al potere con il conte Ugolino delta Gherardesca, protagonista del penultimo canto delllniemo; il Visconti, da Dante conosciuto personalmente, sara inuece uno dei personaggi del canto 8 del Purgatorio). Non sappiamo chifossero i nemici lasciati liberi per denaro da Gomita: se-condo i commentatori antichi, Visconti lo avrebbe fatto impiccare a causa di questo tmdi-mento. Michele Zanche o Zanca, nato a Sassari da nobile famiglia intorno al 1210, era strettamente collegato ai Dorla di Genova, e in particolare a Branca Dorla (che Dante collo-chera, morto vivente,fra i traditori dei parenti), a cui aveva dato in sposa una figlia. Fu fatto assassinare dallo stesso Dorla per motivi a noi oscuri, ma sicuramente legati agli interes-si genovesi in Sardegna. II dannato avrebbe parlato ancora, se uno dei diavoli non lo avesse spaventato digrignando i denti e facendogli cosi temere il peggio: in effetti, Farfarello, con gli occhi sbarrati, sembrava proprio sul punto di colpirlo. II gran capo Barbariccia, perö, lo allontanö. Allora il peccatore, che dall'accento aveva riconosciuto le regioni d'origine dei suoi interlocutori, riprese a dire: «Se volete vedere o ascoltare dannati toscani o lombardi, ne farö venir su dalla pece, purche i Malebranche stiano lontani per non spaventarli. Quando qualcuno di noi emerge, con un fischio avverte gli al-tri che non c'e pericolo: se io, da qui, fischierö, ne farö venire a galla parecchi». A queste parole, Cagnazzo, facendo segno di no con la testa, esclamö: «Ma senti che astuzia ha escogitato costui per buttarsi di sotto!». Allora l'altro, che era abilissimo nel tendere trappole, replicö: «Non sono astuto, ma molto malvagio, se procuro ai miei un tormento ancora peggiore». Alichino raccolse la sfida e, contro il parere dei suoi, disse al dannato: «Se ti tuffi, io ti rincorro non di galoppo, ma volando. Ci ritiriamo dalla sommitä dell'argine e ci nascondiamo dall'altra parte: vedremo se tu da solo sei piü bravo di noi». I diavoli si voltarono verso l'altro lato dell'argine, primo fra tutti Cagnazzo, che era stato il piü restio a prestar fede al Navarrese; questi colse il momento favorevo-le: appoggiö i piedi per terra e nello stesso istante si svincolö dalla presa di Barbariccia e saltö giü. Di ciö ogni diavolo si senti colpevole, ma piü degli altri Alichino, che era stato causa dell'errore, perciö si mosse per primo gridando: «Ti prendo!». Ma la sua prontezza non fu sufficiente, perche le sue ali non furono piü veloci della paura del dannato; questi si tuffö e Alichino dovette tirare su il petto e virare verso l'alto, come si impenna il falco irato quando l'anatra, nel vederlo avvicinarsi, di col-po si tuffa sott'acqua. Calcabrina, arrabbiato per la beffa subita, spiccö il volo, desi-deroso che il dannato sfuggisse alia cattura per avere l'occasione di azzuffarsi con Alichino. E infatti, non appena il barattiere scomparve nella pece, con gli artigli ghermi il suo compagno. Questi perö si dimoströ un falco ancora piü aggressivo nell'artigliarlo, e cosi caddero entrambi in mezzo alia pece bollente. Scottati, per il bruciore si separarono subito, ma non poterono alzarsi in volo perche le loro ali erano incrostate di pece. Barbariccia, indispettito non meno degli altri, ordinö a quattro dei suoi di volare sull'altro argine con i loro ramponi: i diavoli si apposta-rono velocemente su entrambe le rive, e da Ii allungarono gli uncini ai due che, or-mai, si erano ben cotti dentro la crosta di pece. Dante e Virgilio se ne andarono lasciandoli in quegli impicci. ^///:::C CANTO 23 Gli ipocriti: duefrati Godenti Senza piü la compagnia dei diavoli, Dante e Virgilio camminavano per un luogo disabitato come due frati minori, in silenzio, uno dietro l'altro. Dante pensava alla favola di Esopo della rana e del topo e al fatto che la sua morale si applicava perfet-tamente alla rissa a cui aveva assistito. II topo chiese alla rana di aiutarlo ad attraversare un fiume. Questafinse di acconsentire: lo caricb sulla schiena e, dicendo difarlo per la sua sicurezza, lo legb a se per una zampa. A meta del fiume si immerse cercando di trascinare sott'acqua il topo ma, mentre questi si di-batteva in superficie, sopraggiunse un nibbio che lo afferrb portando in cielo con se anche la rana legata alla preda. La favola era notissima al tempo di Dante perche contenuta nelle rac-colte in latino che circolavano nelle scuole sotto il nome di Esopo (autore greco vissuto nel VI secolo a.C). Da questo pensiero, perö, ne nacque un altro che moltiplicö lo spavento da lui provato in precedenza, e cioe che i diavoli, rimasti beffati da un peccatore per causa loro, si sarebbero subito messi aH'inseguimento e, siccome adesso la rabbia si univa alla loro naturale malvagitä, sarebbero stati piü inferociti di un cane che cerca di addentare la lepre. Con i capelli dritti per la paura, non cessava di prestare atten-zione a ciö che poteva succedere alle sue spalle. Infine, si decise a implorare Virgilio: «Maestro, nascondiamoci subito, ho una gran paura dei Malebranche. Giä me Ii sento addosso». Virgilio, il quäle non solo aveva percepito ciö che Dante immaginava prima an-cora che glielo manifestasse, ma nutriva un'identica preoccupazione, rispose che avrebbero cercato di sottrarsi aH'inseguimento dei diavoli calandosi nella bolgia successiva. Era necessario, perö, trovare un punto nel quäle il pendio della parete fosse piü dolce. Non aveva neppure finito di parlare che Dante vide i diavoli arri-vare volando, ed erano giä vicini. Virgilio non perse tempo: come una madre che, svegliata dal rumore di un incendio e, vistesi le fiamme addosso, afferra il figlio, scappa e, preoccupata piú della sua incolumitá che del proprio decoro, non si fer-ma nemmeno un momento per indossare almeno una camicia, cosi Virgilio prese Dante in braccio e, tenendolo stretto al petto proprio come fosse un figlio, si lasció scivolare sulla schiena giú dalla scarpata della parete rocciosa che delimitava uno dei lati della sesta bolgia. Aveva appena messo i piedi sul fondo pianeggiante quando gli inseguitori apparvero sulla sommitá dell'argine, proprio sopra di loro. Ma a quel punto non avevano piú niente da temere: Dio, infatti, impedisce ai diavoli di uscire dalla bolgia di cui sono i custodi. Nella nuova bolgia trovarono dannati (gli ipocriti), alťapparenza colorati di ver-nice, che piangendo camminavano molto lentamente, quasi distrutti dalla stan-chezza. Indossavano cappe pesanti con i cappucci calati sugli occhi della stessa fog-gia di quelle che usáno i benedettini di Čluny: ma queste alťesterno erano ďoro abbagliante (da qui Vimpressione che i peccatori fossero colorati) e all'interno di piombo, e perció tanto pesanti che al loro confronto le cappe di piombo di cui 1'imperatore Federico II rivestiva i condannati sarebbero risultate leggere come paglia. Nella grande e ricca abbazia benedettina di Čluny, in Borgogna, nel X secolo era nato il movimento riformatore dei cluniacensi. A questi monaci venivano rimproverati 1'eleganza e il lusso delVabbigliamento. Quanto a Federico II, si diceva che egli mettesse a cuocere i condannati per lesa maesta dopo averli rivestiti di una tunica di piombo che li uccideva fonden-dosi: di questa pena, pero, non c'é traccia nella legislazione federiciana. Dante sembra aval-lare leggende diffuse dalla propaganda guelfa ed ecclesiastica. Dante e Virgilio cominciarono a muoversi nella stessa direzione dei dannati, ma siccome questi, a causa del peso, camminavano troppo lentamente, a ogni passo se ne trovavano accanto di nuovi, ragion per cui Dante pensb che fra i tanti che ne scorgevano Virgilio dovesse riconoscerne qualcuno noto per le sue azioni o il suo casato, e gli chiese di indicarglieli. Virgilio non ebbe bisogno di rispondere perché un dannato, che camminava dietro di loro, sentita la parlata toscana gridó: «Ferma-tevi, voi che andate cosi di corsa! Forse io posso soddisfare la richiesta». E Virgilio a Dante: «Aspettalo, e poi regola il passo sul suo». Dante si fermó. Vide due dannati. Sul loro viso traspariva un grande desiderio di raggiungerlo, ma li rallentavano il peso delle cappe e la strada ingombra di com-pagni di pena. Una volta arrivati dov'era lui, lo guardarono a lungo di sbieco, in < ■<» silenzio. Poi si misero a parlare tra loro: «Da come respira, questo qui sembra vivo» si dicevano. «Se invece sono morti tutti e due, per quale privilegio camminano senza la vestě di piombo?» Infine si rivolsero a Dante: «O toscano, che ti trovi qui fra gli ipocriti, per corte-sia, dicci il tuo nome». E Dante: «Sono nato e cresciuto nella grande cittä presso il bel fiume Arno, e sono qui con il mio corpo. Ma chi siete voi, che spargete lacrime cosi copiose? Che pena tanto abbagliante ě la vostra?». «Le cappe dorate sono fatte di piombo» rispose uno dei due «e sono cosi spesse che per il peso ci fanno gemere, come i carichi troppo pesanti fanno cigolare le bilance. Fummo entrambi di Bologna, entrambi frati Godenti: il mio nome era Catala-no, Loderingo quello di costui. La tua cittä ci chiamb a ricoprire in coppia la carica di podesta, per la quale, di solito, si chiama una sola persona, con il compito di mantenere la pace: gli effetti di come lo svolgemmo si vedono ancor oggi dalle par-ti del Gardingo.» I bolognesi Catalano dei Malavolti (1210 ca - 1285), guelfo, e Loderingo degli Andalb (1210 ca -1293), ghibellinu, appartenenti entrambi all'ordine religioso, fondato dallo stesso Loderingo nel 1260, dei Cavalieri della Milizia della Beata Vergine Maria (detto dei «frati Godenti», in quanto aperto anche ai coniugati che praticavano attivita mondäne), nel 1266, dopo la disfatta dei Ghibellini a Benevento, furono nominati in coppia podesta di Firenze (carica che veniva affidata a una personalita esterna alla cittä) allo scopo di garantire 1'equi-librio tra le parti. Secondo Dante, essí condussero una politica ipocrita a favore dei Guelfi vincitori e ai danni dei Ghibellini sconfitti, tanto che questi, l'anno dopo, vennero cacciati e le loro proprieta immobiliari rase dl suolo. Ancora nel 1300, nella zona di Firenze situata nei pressi dell'attuale Palazzo Vecchio che prendeva nome dalla torre del Gardingo, erano visibili le macerie delle case degli Uberti, abbattute in quell'occasione con la proibizione di ricostruire su quell'area. Dante aveva pronunciato le prime parole di risposta: «O frati, i vostri mali...», quando si interruppe perché gli era caduto l'occhio su uno che era crocifisso per terra con tre picchetti di legno (invece che con i chiodi). Accortosi della sua presenza, il dannato cominciö a contorcersi per la rabbia e a sospirare rumorosamente, quasi soffiasse nella barba. L T Catalano, che aveva capito perche Dante si era interrotto, prese la parola: «Croci-fisso qui per terra» gli disse «stai osservando Caifa, che consiglio ai farisei di sup-pliziare un uomo solo, e cib per il bene del popolo. Disteso nudo di traverso, come vedi bene, deve sopportare il peso di chiunque passa di qua. In questa bolgia subi-scono lo stesso tormento suo suocero Anna e tutti i membri del consiglio che deli-berb la morte di Cristo, principio delle sventure degli Ebrei». Caifa, sommo sacerdote, nel sinedrio di Gerusalemme chiese la condanna a morte di Cristo con la motivazione che era preferibile sacrificare una singola persona piuttosto che ri-schiare sommosse popolari. Motivazione ipocrita, perche in realta agiva per interesse personate. Anna, suo suocero e suo predecessore nella carica sacerdotale, aveva condotto Vinter-rogatorio di Cristo. Virgilio, ripresosi dallo stupore suscitatogli da quel dannato crocifisso, chiese ai frati Godenti se sull'argine interno ci fosse un passaggio attraverso il quale lui e Dante potessero uscire dalla bolgia senza dover ricorrere all'aiuto di qualche diavo-lo. Catalano gli rispose che un ponte di roccia, piu vicino di quanto lui potesse spe-rare, partendo dalla cerchia piu esterna valicava tutte le bolge, salvo quella in cui si trovavano, perche li era crollato. Tuttavia potevano salire su per le macerie. Virgilio rimase un poco pensieroso, a testa bassa, e poi mormorb: «Dunque Ma-lacoda mentiva». E il frate, con sarcasmo: «Fra i tanti vizi che ho sentito attribuire al diavolo dai teologi bolognesi, c'e anche quello di essere bugiardo». Virgilio si allontanb in fretta, con il volto un po' corrucciato dall'ira; Dante allora lascib i dannati con le cappe di piombo e lo segui. < > CANTO 24 I ladri: Vanni Fucci In pieno inverno la brina del mattino imbianca il suolo come fosse neve, ma a diffe-renza di questa ben presto si dissolve, e cosi capita che il pastorello, uscito di casa in cerca di foraggio per Ie bestie, vedendo la campagna tutta bianca rientri sconfor-tato senza sapere che fare, ma che poi esca di nuovo e si riconforti nel constatare come i campi in poco tempo abbiano cambiato aspetto, e allora, impugnato il ba-stone, conduca le pecore al pascolo. Alio stesso modo, la paura che aveva preso Dante nel vedere Virgilio cosi turbato in volto fu ben presto medicata dal constatare che, una volta giunti alle macerie del ponte crollato, questi lo guardava con la stessa dolcezza di quando lo aveva visto per la prima volta ai piedi del colle illumi-nato dal sole. Dopo avere esaminato attentamente la frana, e deciso quale fosse la via migliore per arrampicarsi, Virgilio afferrö Dante con decisione e lo spinse verso ľalto. Ne guidava l'arrampicata segnalandogli a quali sporgenze aggrapparsi, ma solo dopo aver saggiato con le mani se potevano reggere il suo peso. Quella non era certo una via ehe si sarebbe potuta percorrere con una cappa indosso! Con gran fatica riuscivano a salire di sasso in sasso, tanto che, se quell'argine tra le due bolge non fosse stato piü basso del precedente, dato che l'intero cerchio di Malebolge de-clinava verso l'imboccatura del pozzo centrale, forse Virgilio, che era uno spirito, non avrebbe avuto problemi, ma Dante, per quanto sostenuto e sospinto dalla sua guida, non ce l'avrebbe fatta. Finalmente arrivarono in cima: a Dante mancava il fiato, al punto da non poter piü muovere un passo, e cosi, appena giunto, si mise a sedere. Virgilio lo rimproverö. Era ora che scacciasse da sé la pigrizia: fra i cuscini e sotto le coperte non si acquista fama, e chi muore senza fama lascia nel mondo una traccia di sé piü labile del fumo nelľaria o delia schiuma nelľacqua. «E dunque, alzati!» lo incitö. «Con la forza delia volontä vinei la stanchezza che ti toglie il fiato! Con quella forza si puö vincere ogni battaglia, se non ci si fa pro- strare dal peso del corpo. Non basta esserci lasciati gli ipoeriti alle spalle, ci attende una salita molto piü lunga di questa.» Dante si alzö in piedi, facendo mostra di sentirsi molto piü in forze di quanto non fosse. «Vai,» disse «io sono pronto.» Sulľargine la via era stretta e irta di spuntoni. Dante camminava e intanto, per nascondere la propria debolezza, parlava. Fu per averlo sentito che dal fondo della settima bolgia qualcuno pronunciö parole confuse. Benché si trovasse al culmine del ponte ehe valicava la fossa, Dante non ne comprese il significato: gli parve solo che a parlare fosse stato qualcuno in movimento. Guardava in basso, ma ľoscuritä gli impediva di vedere distintamente il fondo. Allora chiese a Virgilio di raggiun-gere ľaltro argine. Virgilio accondiscese volentieri. Arrivati alia fine del ponte, alia congiunzione con l'argine opposto, gli si apri la visione della bolgia. Vi erano am-massati serpenti terribili di specie diverse. II deserto libico non potrebbe vantarsi di possederne tanti e cosi velenosi nemmeno se si unisse con ľintera Etiópia e con l'Arabia. In mezzo a quella crudele e ripugnante massa di rettili correvano nudi i dannati: non potevano sperare in un buco in cui rifugiarsi e neppure nell'elitropia (una pietra simile alio smeraldo alia quale era attribuito il potere di rendere invisibili e di annullare ľeffetto del velení). Correvano con le mani legate dietro la schiena con ser-pi, le quali, inoltre, spingevano la testa e la coda lungo le reni e si annodavano in-torno al ventre. All'improvviso un serpente si awentö contro un dannato ehe si trovava vicino alia riva dove erano Dante e Virgilio e lo morse alia nuca. In un momento quello preše fuoco e cadde a terra incenerito. La cenere sparsa per terra si riuni per forza propria e, in un istante, riprese la forma umana: i grandi sapienti attestano ehe la fenice, quando giunge al suo cinquecentesimo anno di vita, muore e rinasce alio stesso modo. Come I'epilettico caduto a terra privo di sensi perché posseduto da un demonio o a causa di un'ostruzione dei vasi sanguigni, quando si rialza si guar-da attorno ancora stordito da cio che ha provato e, guardando, sospira, cosi si com-portava quel peccatore dopo ehe si era rialzato. Nel Medioevo I'epilessia mantiene il carattere di morbo sacro che aveva presso gli anti-chi, ma la sacralita si trasforma in diabolicita. Dante, perö, distingue: la perdita dei sensi e la conseguente caduta a terra possono essere causati da possessione demoniaca oppure da < un'occlusione o ostruzione (oppilazione) dei vaši sanguigni: sarebbe un eccesso di umori, di varia nátura, a determinare Vostruzione totale o parziale dei ventricoli del cervello. Virgilio domandó al dannato chi fosse, e lui rispose: «Ě da poco tempo che dalla Toscana sono precipitato in questa fossa crudele. A me piacque vivere da bestia, come piace al mulo, che peraltro io fui («mulo» significava anche bastardó). Sono Van-ni Fucci detto "Bestia", e Pistoia fu la mia degna tana». Dante, allora, si rivolse a Virgilio: «Digli di non svignarsela e chiedigli quale col-pa lo abbia spinto fin quaggiú: per come io l'ho conosciuto, era un violento e un iracondo». Giovanni, figlio illegittimo di Guelfuccio dei Lazzari,fu un guelfo di parte «nera» coin-volto in violenze sia priváte sia politické negli anni Ottanta e Novanta del Duecento: bandito da Pistoia nel 1295, moripoco prima del 1300. Nel 1292 aveva militato tra le truppe florentine durante la guerra contro Pisa legandosi a Nino Visconti; poi aveva esercitato il me-stiere di mercenario e, infine, si era messo a capo di una banda che infestava la zona tra Pistoia e Prato. Dante pub averlo conosciuto in uno dei suoi soggiorni a Firenze. II peccatore non fece finta di non aver sentito: indispettito, alzó arditamente il viso rosso di rabbia verso Dante e disse: «Che tu mi sorprenda in questa miserabile condizione mi addolora piú di quanto mi addolorai quando mi fu tolta la vita. Ma non posso non risponderti: mi trovo sprofondato cosi in basso (e non tra i violenti del settimo cerchio) perché rubai il tesoro della sacrestia di San Iacopo, furto che, allora, fu erroneamente imputato ad altri. Non voglio pero che tu gioisca di avermi visto in questo stato, e percio apri bene Ie orecchie e ascolta cosa ti preannuncio, se mai uscirai dall'Inferno: dapprima Pistoia si spopolerá dei Neri cacciandoli, poi Firenze muterá governi e governanti. II pianeta Martě fara uscire dalla Val di Magra, in Lu-nigiana, un fulmine avvolto da nuvole fosche: sul Campo Piceno nuvole e fulmine combatteranno una battaglia aspra e violenta, finché il fulmine, ďun tratto, squar-cerá le nuvole e tutti i Bianchi saranno colpiti. Te lo dico perché tu ne soffra!». // trafugamento del tesoro della cappella di San Iacopo, nel duomo di Pistoia, avvenne tra il 1293 e il 1294: in un primo tempo ne fu accusato un certo Rampino di Ranuccio Foresi, poi scagionato. Vanni Fucci predice avvenimenti del 1301 e 1302: nel maggio 1301 i Guelfi «bianchi» di Firenze, che da alcuni anni esercitano il potere a Pistoia, divisa tra duefazioni guelfe, dovendo lasciare la balia (ovvero la potestá di governo) della cittá, ne bandiscono in via preventiva i Guelfi «neri»; nei primi giorni di novembre, con ľaiuto determinante di Carlo di Valois, i Neri fiorentini compiono un colpo di Stato, al quale seguira, nel gennaio 1302, il bando dei Bianchi, tra i quali Dante. Nel settembre 1302 il marchese Moroello Ma-laspina di Giovagallo, in Lunigiana (qui simboleggiato dal fulmine), a capo delľesercito fio-rentino e lucchese, dopo un assedio conquistb il castello di Serravalle nel territorio pistoiese (da Dante designato classicamente come Campo Piceno) sconfiggendo i Bianchi di Pistoia (simboleggiati dalle nuvole). La «bianca» Pistoia si arrendera alle truppe florentine, sempře comandate da Malaspina, solo nel 1306, dopo quattro anni di terribile assedio. Moroello, benché guelfo «nero», dal 1306 alia sua morte nel 1315 é il maggíor protettore di Dante. D144A CANTO 25 Altri ladri e ancora Vanni Fucci Alia fine del suo discorso il ladro (Vanni Fucci) fece le fiche con entrambe le mani, le alzo al cielo e gridó: «Prendi, Dio, ě a te che le indirizzo!». «Fare lefiche» era un gesto osceno e ingiurioso consistente net mettere il pollice tra I'in-dice e il medio delta mano chiusa a pugno per alludere all'organo sessuale femminile. Da allora, commenta Dante, i serpenti mi furono cari, e ció perché una serpe si awolse al collo del ladro come per dirgli: «Non parlare piú», e un'altra alle braccia, e lo lego, annodandosi sul davanti, in modo che gli arti superioři non potessero piu fare alcun movimento. Dopo di che Dante autore esplode in un'invettiva: «Ahi, Pistoia, Pistoia, perché non decidi di incenerirti, tu che superi in malvagitá i tuoi fondatori? (Secondo la tra-dizione, i seguaci di Catilina, che congiurb contro la Repubblica e mori in battaglia a Cam-po Piceno net 62 d.C.) In tutti i tenebrosi gironi dell'Inferno non ho visto uno spirito piu superbo contro Dio, nemmeno quello che precipitó dalle mura di Tebe (Capa-neo, incontrato tra i bestemmiatori del settimo cerchio)». Fatte le fiche, il ladro fuggi senza proferire parola, mentre un centauro si avvici-nava gridando rabbiosamente: «Dov'e? Dov'e il ribelle?». Sulla groppa, fino a dove cominciava l'aspetto umano, aveva piu bisce di quante se ne potevano trovare in Maremma. Un drago con le ali spalancate, collocate sulle sue spalle, dietro la nuca, soffiava fuoco su chiunque gli capitasse davanti. «Cosrui ě quel Caco» disse Virgilio «che sotto la rupe dell'Aventino sparse molto sangue. Non percorre il primo girone del settimo cerchio come gli altri centauri perché con l'inganno rubo i buoi lasciati da Ercole nelle vicinanze; le sue iniquitá cessarono proprio a causa di quel furto: Ercole, infatti, lo colpi cento volte con la sua mazza, ma lui era giá morto al decimo colpo». Caco é un mostro mitologico che Dante trasforma in creatura diabolica. NeH'Eneide Virgilio racconta che Caco, un predone particolarmente crudele, aveva sottratto a Ercole al- cuni capi di bestiame usando lo stratagemma di trascinarli per la coda affinché le tracce non rivelassero dove Ii nascondeva, ma che Ercole, scopertolo, lo uccise a colpi di clava. Mentre Virgilio stava ancora parlando, il centauro era giä passato oltre. Nel frat-tempo sotto di loro erano arrivati tre spiriti. Dante e Virgilio si accorsero della loro presenza soltanto quando li sentirono chiedere stupiti: «Voi chi siete?». Virgilio allora smise di parlare, per ascoltarli. Li per li Dante non Ii riconobbe, ma capitö che uno dei tre ne menzionasse un altro domandando: «Cianfa dove sarä rimasto?». Al che, avendo riconosciuto il nome di un fiorentino, messo un dito davanti alia bocca Dante fece cenno a Virgilio di tacere. Cianfa e il primo dei cinque ladri di Firenze presentati in questo canto. Sembra trattarsi di un Donati (come il Buoso che apparira piu avanti), giä morto nel 1289. All'improvviso un serpente con sei zampe si slanciö contro uno dei tre spiriti e si avvinse a lui con tutto il corpo. (II serpente e il Cianfa appena nominato, che ha subito una trasformazione in rettile; la sua vittima piu avanti sara chiamala Agnello, forse un Agnolo dei Brunelleschi, famiglia ghibellina.) Con le zampe centrali gli cinse la pancia, con quelle anteriori le braccia, poi gli addento interamente la faccia; distese le zampe posteriori lungo le cosce del dannato e tra esse infilö la coda, che fece poi risalire sulla schiena. Incollati l'uno all'altro come fossero di cera calda e malleabile, i due mescolarono i loro colori: ciascuno aveva perso la forma precedente. Gli altri due spiriti osservarono la scena ed esclamarono: «Ohime, Agnello, come ti stai mutando!». La testa formatasi dalla compenetrazione dei corpi mostrava, fuse insieme, la fi-sionomia dell'uomo e quella del serpente. Le braccia del dannato e le zampe anteriori del serpente da quattro si ridussero a due; le cosce e il ventre dell'uomo, unen-dosi alle zampe e al busto del serpente, crearono una mostruositä indescrivibile: la nuova creatura conservava entrambi gli aspetti e nessuno dei due. Quell'essere cosi orribilmente trasformato si muoveva con grande lentezza. Ma ecco che un serpentello grigio scuro, sprizzante fuoco dalla bocca, piü fulmi-neo di un ramarro che nella calura estiva attraversa la strada da una siepe all'altra, balzö verso la pancia degli altri due dannati, ne morse uno all'ombelico e cadde immobile ai suoi piedi. (II serpentello, come vedremo, e I'anima di Francesco Guercio Ca-valcanti, mentre la vittima é Buoso Donati.) II morsicato lo guardo in silenzio, lui pure < ■<» immobile, e sbadigliö come se avesse un attacco di sonno o di febbre. Mentre i due si osservavano Tun l'altro, dalla ferita del dannato e dalla bocca del serpentello uscivano grandi volute di fumo che si scontravano. Davanti a ciö che sto per descrivere, proclama Dante autore (ricorrendo allafigura retorica della iactatio, consistente nel dichiarare di aver superato in bravura i grandi prede-cessori), taccia Lucano, che racconta di Sabello e Nasidio morsi dai serpenti, e taccia anche Ovidio, che descrive le metamorfosi in serpente di Cadmo e in fönte di Are-tusa. Io non ho nulla da invidiargli, perche lui ha narrato solo la metamorfosi da una natura in un'altra, e non, come io sto per fare, lo scambio contemporaneo e speculare di due nature. Nella Farsaglia Lucano racconta di due soldati di Catone morsi da serpenti nel deserto libico: a Sabello si putrefanno le carni; Nasidio si gonfia perdendo l'aspetto umano. Neue Metamorfosi Ovidio descrive la trasformazione di Cadmo, fondatore di Tebe, in serpente e della ninfa Aretusa, inseguita dalfiume Alfeo, in fönte. Mentre al serpentello si biforcava la coda, al morsicato si univano i piedi e le gambe si fondevano interamente tra loro. La coda biforcuta del primo assumeva l'aspetto delle gambe che si dileguavano del secondo; e la pelle, che in questi si in-duriva, nell'altro diventava piü molle. Quanto piü le braccia del morsicato si accor-ciavano rientrando nel busto, tanto piü si allungavano le zampe anteriori del serpentello. Quelle posteriori, attorcigliatesi, si trasformarono in un membro virile, laddove il membro del morsicato si protendeva diviso in due. Mentre il fumo dava all'uno il colore dell'altro e all'uno faceva crescere i peli e all'altro Ii toglieva, il serpentello si levö in piedi e il morsicato cadde per terra. Non smettevano di guardar-si intanto che il loro volto cambiava aspetto. Quello che si era alzato in piedi ritras-se il muso verso le tempie e l'eccesso di materia ivi accumulatosi fuorusci su en-trambi i lati formando le orecchie; la materia restante foggiö il naso e le labbra umane. Quello che si era steso a terra allungö la faccia e fece rientrare le orecchie nella testa, come fa la lumaca con le corna; la sua lingua, che era unita e atta a par-lare, si biforcö; quella giä biforcuta dell'altro, invece, si compattö. A questo punto il fumo smise di fuoruscire da entrambi. L'anima trasformata in rettile fuggi sibilando per la bolgia; l'altro gli tenne dietro cercando di parlare, ma poi si girö e disse all'unico dannato che non aveva mutato L T aspetto: «Mi fa piacere che ora tocchi a Buoso correre carponi per questa bolgia come ho giá fatto io». Buoso di Forese Donati (nipote del Buoso Donati vittima dell'inganno di Gianni Schic-chi Cavalcanti raccontato nel trentesimo canto) era zio paterno di Corso, ma per Dante con-tava soprattutto che fosse il padre di Gasdia, moglie del giurista Baldo ďAguglione, che egli considerava suo nemico personále. Ecco, conclude Dante autore, le continue metamorfosi di ladri che ho visto nella settima bolgia: se il mio racconto ě un po' confuso, mi scusi la novitá della materia. E sebbene la vista di Dante fosse annebbiata per il turbamento, i tre dannati non poterono fuggire cosi di soppiatto da impedirgli di riconoscere distintamente Puc-cio Sciancato dei Galigai (ghibellino bandito da Firenze nel 1268), il solo dei tre a non avere subito alcuna metamorfosi; l'altro (il serpentello che aveva assunto figura umana), invece, era colui a causa del quale ancor oggi piange il castello di Gaville. Gaville ě un castello del Valdarno confiscato nel 1289 da Firenze allafamiglia ghibellinu degli libertini. L'episodio a cui Dante allude é oscuro: sembrerebbe che un Francesco Cavalcanti detto Guercio fosse stato ucciso da uomini del castello e che, per vendicarlo, i Cavalcanti avessero attaccato Gaville dando origine allafaida che fa piangere i suoi abitanti. < > CANTO 26 I tessitori di inganni: Ulisse Godi, Firenze! La fama della tua grandezza non solo vola per il mondo intero, ma si diffonde in tutto l'Inferno! Tra i ladri ho trovato cinque tuoi cittadini cosi sprege-voli che me ne vergogno e certo tu non ne acquisti onore. Ma, se e vero che i sogni fatti all'alba si avverano, allora tu proverai ben presto le sventure che Prato, per non dire di altre cittä ancor piü nemiche e potenti, ti augura ardentemente. Se ti colpissero oggi, sarebbe sempre troppo tardi: ma siccome e ineluttabile che ti colpi-scano, lo facciano subito, perche mi daranno tanto piü dolore quanto piü invecchio. (La predizione dei prossimi mali che si abbatteranno su Firenze non sembra riferirsi a eventi specifici.) Pronunciata l'invettiva, Dante autore riprende a raccontare. Virgilio risali, tirandosi dietro Dante, su per gli scalini che prima, nello scendere, Ii avevano fatti impallidire, poi entrambi proseguirono, non senza l'aiuto delle mani, su per il ponte di roccia che valicava l'ottava bolgia (dov'erano puniti i tessitori di inganni e i consiglieri difrodi). Lo spettacolo che vidi da lassü - commenta Dante - e che ancora mi addolora quando lo ricordo, fece si che da allora io tenga a freno la mia intelligenza piü di quanto non avessi fatto prima, affinche non si metta a correre senza la guida della virtü, e mi privi io stesso, in tal modo, di quel bene donatomi dagli astri favorevoli (la costellazione dei Gemelli che splendeva al momento della sua nascita) o da una poten-za superiore. DaU'alto dei ponte Dante vide il fondo della bolgia cosparso di fiamme: erano tanto numerose quanto le lucciole che in un crepuscolo di inizio estate il contadino, dal colle dove si sta riposando, vede risplendere giü nella vallata, forse proprio lä dove sono i suoi campi e le sue vigne. Ogni fiamma si muoveva sul fondo dei fos-sato senza lasciare intrawedere ciö che nascondeva: ciascuna celava un'anima. Allo stesso modo il profeta Eliseo vide partire il carro di fuoco di Elia quando i ca- valli si levarono al cielo impennandosi, ma, seguendone poi con gli occhi l'ascesa, non scorse altro che una fiamma salire come una nuvoletta. La Bibbia narra che un carro infuocato, trainato da cavalli anch'essi di fuoco, rapi il profeta Elia sotto gli occhi dei suo discepolo Eliseo portandolo fino al cielo. Dante stava in piedi sul ponte: era talmente preso da ciö che vedeva che, se non si fosse tenuto a una sporgenza, sarebbe caduto, anche senza essere urtato da qual-cuno. Virgilio, vistolo cosi attento, gli spiegö che dentro a ogni fiamma ardeva un dannato. «Adesso ne sono sicuro» disse Dante «ma l'avevo intuito giä prima, e infatti anche in precedenza volevo chiederti chi c'e in quella fiamma che si muove verso di noi con la cima divisa in due, come se si sprigionasse dalla pira sulla quäle Eteocle fu posto insieme al fratello Polinice.» Eteocle e Polinice, figli di Edipo, si uccisero l'un l'altro sotto le mura di Tebe. I low cada-veri vennero collocati su una stessa pira, ma la fiamma si divise in due, a testimoniare che l'odio che Ii aveva divisi in vita perdurava anche dopo la morte. Virgilio rispose che nella fiamma erano tormentati Ulisse e Diomede, accomuna-ti nella punizione come lo erano stati nel provocare la collera divina. II fuoco puni-va l'inganno dei cavallo, con cui furono aperte le porte di Troia, attraverso le quali fuggirono i nobili progenitori dei Romani; puniva l'astuzia che aveva indotto Achille ad abbandonare Deidamia e che di ciö si lamentava anche da morta; puniva il furto della statua di Pallade. I Greci Ulisse e Diomede sono tra gli eroi piü famosi della guerra di Troia: il primo cele-bre per l'astuzia, il secondo per il coraggio. Notissimo e lo stratagemma dei cavallo di legno, al cui interna erano nascosti Ulisse e altri valorosi soldati, grazie al quäle i Greci riuscirono a penetrare nella cittä e a distruggerla. Dopo motte peripezie, i Troiani superstiti approdaro-no nel Lazio, sotto la guida di Enea, e fondarono Roma. Deidamia era stata sedotta da Achille nell'isola di Sciro, dove la madre Teti lo aveva nascosto sotto abiti femminili per im-pedirgli di partecipare alla guerra di Troia, nella quäle sapeva che sarebbe morto. Ulisse e Diomede, giunti sull'isola, lo smascherarono e lo convinsero a partire per Troia. Nel Purga-torio Dante dirä che Deidamia si trova nel Limbo, e dunque e Ii che ancora piange il tradi-mento di Achille. La statua di Pallade Atena proteggeva la cittä di Troia: Ulisse e Diomede < riuscirono a penetrare nella rocca dove era conservata, uccisero i guardiani e la rubarono. Dante attinge le sue informazioni dali'Achilleide di Stazio e dalťBneide. Dante, allora, prego con insistenza la sua guida di aspettare che la fiamma tripartita si avvicinasse, qualora le anime in essa nascoste avessero potuto parlare: prova-va un cosi forte desiderio di ascoltarle che giá si protendeva in quella direzione. Virgilio accettó, ma con 1'avvertenza che a parlare sarebbe stato lui stesso, perché, trattandosi di Greci, notoriamente superbi, forse a Dante non si sarebbero degnati di rispondere. E cosi, quando la fiamma fu vicina, Virgilio cominció con solennitá: «0 voi due che statě dentro a un'unica lingua di fuoco, se in vita ho acquisito qual-che merito presso di voi scrivendo YEneide, in cui celebro molte delle vostre gesta, fermatevi, e Ulisse racconti dove si smarri e incontró la morte». La piú alta delle due fiamme cominció ad agitarsi come fosse scossa dal vento e a mormorare in modo indistinto, poi inizio a parlare - la cima, che si muoveva di qua e di lá, sembrava essere la sua stessa lingua - e disse: «Quando mi separai da Circe, che con le sue lusinghe mi tratteneva da piú di un anno nell'isola vicina a quel luogo che poi Enea avrebbe nominato Gaeta, né la tenerezza per il figlio né la devozione per il padre né 1'amore di sposo per Penelope poterono vincere il mio ardente desiderio di conoscere il mondo, i vizi e le virtú degli uomini; e cosi, invece di dirigermi verso la Grecia, mi spinsi in alto mare con una nave soltanto e con quei pochi compagni che non mi avevano abbandonato. Esplorai entrambe le spon-de del Mediterraneo, quella europea fino alla Spagna e quella africana fino al Ma-rocco, la Sardegna e le altre isole di quel mare». Dante, che non conosceva /'Odissea, sapeva di Circe, di come la maga avesse legato a sé Ulisse e trasformato in porci i suoi compagni, dalle Metamorfosi di Ovidio; dal poema di Virgilio, invece, aveva appreso che Enea aveva battezzato Gaeta con il nome della sua nutri-ce (Caieta) la tumulata. «Quando arrivammo a quell'angusto passaggio (lo stretto di Gibilterra) dove Er-cole aveva collocato le due colonne per ammonire i naviganti a non inoltrarsi nel-1'oceano, i miei compagni ed io eravamo diventati dei vecchi senza forze. Dopo aver superato sulla destra Siviglia e sulla sinistra Ceuta {in Africa, di fronte a Gibilterra), parlai loro e dissi: "Fratelli, che attraverso innumerevoli pericoli siete giunti all'estremo occidente, nei pochi anni di vita che ancora ci restano non rifiutatevi di conoscere il mondo disabitato al di lá del sole. Considerate la vostra origine: non siete stati creati per vivere come bestie, ma per mirare alla virtíi e al sapere". Con questo breve discorso li spronai a tal punto che a fatica avrei potuto trattenerli dal mettersi in viaggio: e dunque, rivolta la poppa a oriente (cioe dirigendoci a occidente), ci lanciammo, come se i remi fossero ali, in quel volo temerario. Navigavamo pie-gando sempře verso sinistra (cioe verso Vemisfero australe). Ormai, di notte, poteva-mo vedere tutte le Stelle del polo meridionale, mentre quelle del polo settentrionale restavano nascoste sotto 1'orizzonte. Erano passati cinque mesi dal giorno in cui avevamo intrapreso quella rotta pericolosa quando in lontananza ci apparve una montagna di colore indistinto: mai ne avevo visto una piú alta. (E la montagna del Purgatorio, situata agli antipodi di Gerusalemme, la cui cima, sulla quale é collocato il Pa-radiso terrestre, si eleva al di sopra dell'atmosféra.) Ci rallegrammo, ma subito la nostra gioia si converti in pianto: da quella terra che ci era appena apparsa si levó un vento turbinoso che colpi la parte anteriore della nave. Questa giró per tre volte nel gorgo creato dal turbině; alla quarta sollevó in alto la poppa e con la prua si inabis-só fino a che il mare non si richiuse su di noi.» I/Odissea, peraltro - come detto - ignota a Dante, non parla della fine di Ulisse, ma da vari autoři latini Dante poteva ricavare la notizia favolosa di un suo viaggio nelVoceano; la navigazione agli antipodi e il naufragio in vista della montagna del Purgatorio restano co-munque una sua invenzione. 5^2402 CANTO 27 I consiglieri di inganni: Guido da Montefeltro La fiamma di Ulisse, finito di parlare, si levava dritta e acquietata. Con il permesso di Virgilio si stava giä allontanando quando un'altra fiamma, subito dietro di lei, attirö l'attenzione di Dante e della sua guida a causa dell'mdistinto mormorio che usciva dalla sua punta. Le parole del dannato, non trovando un passaggio né un'a-pertura attraverso il fuoco, all'inizio si tramutarono in crepitio, proprio come i la-menti del suppliziato dentro il toro siciliano, da lui stesso fabbricato, si trasforma-vano in muggiti, cosicché sembrava che quel toro di rame sentisse dolore. L'ateniese Perillo aveva costruito per Falaride, tiranno di Agrigento, un toro di bronzo al cui interno erano chiusi i condannati a morte e che poi veniva arroventato: le grida del tor-turati uscivano dal toro simili a muggiti. II primo a sperimentare lo strumento di tortura, per ordine di Falaride, fit lo stesso Perillo. Ma dopo che le parole, trovata la loro strada, ebbero impresso alia punta la stes-sa vibrazione con la quale la lingua le pronunciava, da quella fiamma usci il se-guente discorso: «O tu (Virgilio), che or ora dicevi in lombardo: "Istra (adesso) puoi andare, non ti spingo phi a parlare" (sono le parole con le quali Virgilio, nativo del Mantovano e perci'o di lingua lombarda, aveva congedato Ulisse), anche se forse non puoi fermarti ancora, non ti dispiaccia di restare a parlarmi: non dispiace a me, che pure brucio nel fuoco! Se sei appena precipitato all'Inferno da quella dolce terra ita-liana nella quale commisi le mie colpe, dimmi se i romagnoli sono in pace o in guerra. Io nacqui nel Montefeltro, tra Urbino e il monte da cui esce il Tevere apren-dosi un varco». Virgilio toccö il fianco di Dante, che si sporgeva dal ponte, e gli disse: «Paria tu, questi ě un italiano». E Dante, che giä aveva pronta la risposta, cominciö senza indugio: «I tiranni del-la tua Romagna, come sempre, covano la guerra nei loro cuori, ma in questo momenta non ce n'e nessuna in corso (nel maggio 1299 era stata stipulata una pace tra Bo- nifacio VIII e le citta romagnole, soggette al potere della Chiesa). Ravenna ě nella stessa condizione in cui si trova da molti anni: l'aquila dei Polentani la tiene sotto di sé e con le sue ali arriva a coprire anche Cervia. Forli, che resistette a lungo all'assedio e fece dei francesi una catasta sanguinolenta, si trova ancora sotto gli artigli del leone verde. Malatesta il Vecchio da Verrucchio e suo figlio Malatestino, che fecero stra-zio di Montagna dei Parcitadi, mordono ancora Rimini come mastini. II leone in campo bianco, che cambia partito con le stagioni, regge Faenza e Imola. Cesena, come giace tra la pianura e la montagna, cosi sta in bilico fra tirannide e governo libero». Lafamiglia dei da Polenta, sul cui stemma campeggiava un'aquila, si era impadronita del potere a Ravenna nel 1275; nel 1283 Bernardino da Polenta, fratello della Francesca uc-cisa da Gianciotto Malatesta, prese il controllo di Cervia. II leone verde é Vinsegna della fa-miglia Ordelaffi. La ghibellina Forli fu espugnata dall'esercito franco-pontificio, dopo un lungo assedio, nel 1283; il 1 ° maggio 1282 le truppe forlivesi, comandate da Guido da Montefeltro, avevano inflitto una sanguinosa sconfitta alia cavalleria francese. Lafamiglia guel-fa dei Malatesta - Malatestino era fratello di Paolo e Gianciotto - si era insignorita di Rimini nel 1290; nel 1295 catturarono e uccisero crudelmente Montagna dei Parcitadi, capo della fazione ghibellina a loro ostile. 11 leone in campo bianco e Vinsegna di Maghinardo Paga-ni di Susinana, ghibellino in Romagna, ma in Toscana fedele ai Guelfi di Firenze, per i quali combatté a Campaldino; nel canto 14 del Purgatorio Guido del Duca lo chiamera «demonio». «Ma adesso,» concluse Dante «ti prego, dicci chi sei; non essere meno cortese di quanta io sia stato, e possa il tuo nome durare nel mondo.» Prima la fiamma cominció a crepitare, poi mosse la punta di qua e di la e, infine, disse: «Se io pensassi di rispondere a una persona che potesse ritornare nel mondo, non pronuncerei una sola parola, ma siccome da questo abisso nessun vivente ě mai ritornato, ti rispondero senza temere che le mie parole mi procurino infamia». Parla I'anima di Guido da Montefeltro (1220 ca - 1298), la piú importante personalita ghibellina della seconda meta del Duecento e uno dei piufamosi condottieri del secolo: vica-rio di Corradino di Svevia, comandante dello schieramento ghibellino in Romagna, capitano delle truppe pisane nella guerra conlro Firenze, nel 1296 si fece frate francescano. La sua conversione fu presentata dal partito guelfo come una vittoria politica di Bonifacio VIII. Sul < ■<» rapporto di Guido con il papa e impostato I'episodio dantesco, mirato a screditare lafigura del condottiero e I'affidabilita dell'uomo politico piegatosi a collaborare con il suo principale nemico. «Io fui soldato, e poi frate francescano. Credevo che vestendo quell'abito avrei scontato i miei peccati, e lo avrei creduto giustamente, se il papa - che gli pigli un accidente! - non mi avesse fatto ricadere nelle vecchie colpe: voglio che tu sappia come e perche. In vita non ho agito con la forza del leone, ma con l'astuzia della volpe. Conoscevo tutti gli stratagemmi, tutte le trame oscure; seppi utilizzare l'arte dell'inganno con tanta abilita che la mia fama si estese fino ai confini del mondo. Quando arrivai alia vecchiaia, eta nella quale tutti dovrebbero calare le vele, ritirare le sartie e rifugiarsi in porto, gli inganni di cui mi compiacevo mi vennero in odio, e cosi, pentito, mi feci frate: e cio, ahime, avrebbe giovato alia mia salvezza. Ma il capo dei nuovi farisei moderni prelati simoniaci), avendo intrapreso una guerra nei pressi del Laterano (il palazzo di Roma allora sede del papa e della curia) - e non guer-reggiando contro i saraceni e nemmeno contro i giudei, che nessuno dei suoi nemi-ci aveva aiutato gli infedeli a espugnare San Giovanni d'Acri IX'ultima fortezza cri-stiana in Palestina, caduta nel 1291) o aveva trafficato nei paesi del Sultano -, non ebbe nessun rispetto ne per il ministero di sommo pontefice ne per il suo stato sa-cerdotale e nemmeno per 1'abito francescano che indossavo. Come l'imperatore Co-stantino fece chiamare papa Silvestro dalla grotta in cui si era rifugiato affinche lo guarisse dalla lebbra (e a seguito della guarigione, dice la leggenda, si converti al cristia-nesimo), cosi questo papa mi fece chiamare affinche, come un medico, lo guarissi dalla sua febbre di dominio. Mi domandd un consiglio, ma io rimasi muto, perche le sue parole mi parvero deliranti. E allora lui ricomincib: "Non temere di peccare; ti assolvo gia ora, ma tu insegnami come radere al suolo Palestrina. Io posso chiu-dere e aprire le porte del Cielo: per questo sono due le chiavi che il mio predecesso-re non ebbe care". (Allusione ironica e sarcastica al rifiuto di Celestino V, da Dante collo-cato - come detto - tra gli ignavi.) Di fronte a cosi pesanti argomentazioni mi parve che il tacere sarebbe stato la scelta peggiore. "Padre," risposi "giacche tu mi assolvi dal peccato che sto per commettere, sappi che a farti trionfare su Palestrina sara il promettere a lungo e il mantenere per poco tempo."» L n Dal maggio 1297 Bonifacio VIII era in guerra con i Colonna, una delle piu potentifami-glie romane. Era una guerra privata che il papa non aveva esitato a elevare al rango di cro-ciata, cosa che Dante stigmatizzera anche nel canto 27 del Paradiso. Nei mesi successivi erano cadute tutte lefortezze dei Colonna, tranne Palestrina, dove si erano rifugiati i cardi-nali Pietro e lacopo. Sappiamo che Bonifacio aveva cercato a lungo di convincere alia resa i Colonna asserragliati, anche con promesse evidentemente menzognere se nel maggio 1298, dopo la low resa, fece evacuare la citta e la rase al suolo. Non possiamo escludere che Guido da Montefeltw abbia effettivamente avuto un ruolo in questa vicenda, ma ilfamigerato consiglio, piuttosto deludente per la pochezza del suo contenuto, o e un'invenzione di Dante o, piu probabilmente, circolava oralmente. «Dopo la mia morte, san Francesco venne a prendermi, ma un diavolo gli disse: "Non portarlo con te, non farmi questo torto. Deve venire giu tra gli altri miei ser-vi. E da quando ha dato il consiglio ingannatore che gli sto addosso pronto ad ac-ciuffarlo per i capelli: il principio di non contraddizione impedisce che ci si possa pentire e si voglia peccare nello stesso tempo". Ohime, che brutto risveglio fu il mio quando mi prese dicendomi: "Forse tu non pensavi che io fossi maestro di logical". Mi porto da Minosse; questi avvolse per otto volte la coda intorno alia schie-na e poi, dopo averla morsa rabbiosamente, sentenzio: "Ecco un peccatore da na-scondere dentro al fuoco". Per questo sono qui, dannato a patire rivestito di fiamme.» Quando ebbe finito di parlare, la fiamma si allontano agitando la punta. Dante e Virgilio proseguirono fino al ponte che sovrastava la bolgia nella quale erano puni-ti i colpevoli di avere provocato discordie. < > CANTO 28 I seminatori di scismi e discordie: Maometto, Pier da Mediana, Bertran de Born Chi mai potrebbe riferire compiutamente, si chiede Dante autore, anche servendosi della prosa e anche raccontandoli piü volte, il sangue e le ferite che ho visto in que-sta nona bolgia? II linguaggio e la memoria degli uomini non hanno la capacitä ne-cessaria per contenere e descrivere l'intera serie di quegli orrori. Anche se si met-tessero insieme tutti coloro che nella tormentata terra di Puglia hanno versato il loro sangue nelle guerre provocate dall'arrivo dei Troiani o in quella lunghissima che, come scrive l'infallibile Livio, procura ad Annibale un cosi ricco bottino di anelli d'oro, con coloro che furono feriti per resistere a Roberto il Guiscardo e con gli altri le cui ossa ancora si ammucchiano a Ceprano, dove i pugliesi mancarono alia parola data, e presso Tagliacozzo, dove l'anziano Alardo vinse con uno strata-gemma, e anche se tutti questi caduti mostrassero le loro mutilazioni, ebbene, sa-rebbe comunque impossibile eguagliare la ripugnante condizione della nona bolgia. II primo riferimento e alle guerre sostenute dai Troiani di Enea per stabilirsi in Italia e alia seconda guerra punica, in particolare alia strage di Canne (216 a.C), nella quale i Car-taginesi depredarono i cadaveri di ventimila Romani. II secondo riferimento e ai combatti-menti che il principe normanno Roberto il Guiscardo, nominato duca di Puglia (1059), do-vette sostenere per un ventennio per conquistare e consolidare il ducato (ne fara cenno il canto 18 del Paradiso). Nella guerra tra Manfredi, figlio di Federico II, e gli Angioini, la fortezza di Ceprano si arrese al re di Napoli per il tradimento dei baroni pugliesi che la cu-stodivano: di qui la successiva sconfitta di Manfredi a Benevento (1266). Corradino di Sve-via, nipote di Federico 11, fu sconfitto a Tagliacozzo (1268) da Carlo I d'Angib grazie a una mossa strategica suggeritagli dal cavaliere crociato Erard (Alardo) di Valery. Dante scorse un dannato aperto dal mento fino a dove si scorreggia - mai la per-dita del fondo avrebbe squarciato una botte in quel modo -: le budella pendevano tra le gambe ed erano visibili le interiora e il sacco che trasforma in merda ciö che gli uomini ingoiano. Mentre Dante era intento a osservarlo, il dannato lo fissö, con le mani si apri il petto, e disse: «Guarda come mi squarcio! Guarda come e storpia-to Maometto! Davanti a me, con la faccia spaccata dal mento all'attaccatura dei ca-pelli, cammina Ali. (Dante condivideva la credenza dei tempo che ITslam nascesse da uno scisma nell'ambito della cristianita: Maometto in un primo tempo sarebbe stato un prelato cristiano; Ali e il cugino e genero di Maometto, fondatore della setta degli sciiti.) Tutti i dannati che qui vedi, da vivi seminarono discordie e scismi: per questa colpa sono cosi divisi (con evidente contrappasso). Alle mie spalle c'e un diavolo che, quando ab-biamo completato il giro della bolgia e le nostre ferite si sono rimarginate, ci concia in questo modo, tagliandoci di nuovo con la spada. Ma chi sei tu, che te ne stai a guardare dal ponte forse per prendere tempo e ritardare il viaggio verso la pena che ti e stata assegnata?». «Costui non e morto» gli rispose Virgilio «e non e dannato; io, che invece sono morto, ho il compito di condurlo giü di cerchio in cerchio affinche abbia completa conoscenza dellTnferno.» A quelle parole, piü di cento dannati si fermarono a guardare Dante pieni di me-raviglia, dimentichi della loro pena. «Dunque» prosegui Maometto con un piede giä sollevato per andarsene, «dato che, forse, tra breve rivedrai il sole, di' a frate Dolcino che, se non vuole raggiun-germi qui tra poco tempo, si munisca di viveri, in modo che i novaresi non ottenga-no, grazie all'assedio della neve, quella vittoria che per loro sarebbe arduo conquistare con le armi.» Poi, messo il piede a terra, si allontanö. Dolcino Tornielli di Novara, capo della setta eretica degli apostolici, di ispirazione paupe-ristica, nel 1306 si rifugib in Val Sesia per sottrarsi alla crociata indetta contro di lui da novaresi e veredlest con la benedizione di papa demente V. Assediato sul monte Zebello, nel marzo 1307 fu costretto ad arrendersi per mancanza di eibo, dovuta anche all'isolamento provocato dalla neve, e nel giugno successivo venne fatto a pezzi e bruciato. Maometto, dunque, predice avvenimenti accaduti poco tempo prima che Dante scrivesse questo canto. Uno dei dannati che per lo stupore si erano fermati a guardare - aveva la gola perforata, il naso troncato e un solo orecchio - prima degli altri apri la gola, all'e-sterno tutta rossa di sangue, e disse: «Tu, che non sei dannato e che io ho visto in Italia - a meno che tu non assomigli molto a qualcun altro -, se ti capiterä di torna- < re a vedere la dolce pianura che da Vercelli digrada a Marcabo (castello allora situato allefoci del Po) ricordati di Pier da Medicína. E fa' sapere a Guido e ad Angiolello, i piú ragguardevoli cittadini di Fano, che, se ě vero, come ě vero, che noi all'Inferno possiamo prevedere il futuro, Ioro saranno chiusi in un sacco e gettati in mare pres-so la costa di Cattolica, e sará un tiranno sleale a tradirli. Mai il Mediterraneo, da Cipro a Maiorca, ha visto un delitto cosi infame, né per mano di piráti né per mano di naviganti greci. Li tradirá il guercio Malatestino Malatesta, signore di Rimini, cit-tá che un tale, qui vicino a me, vorrebbe non avere mai visto: li inviterá a conferire con lui e poi, annegandoli, fara in modo che essi non debbano piú votarsi a Dio per scampare al vento che soffia dalle alture di Focara». Di Pier da Medicína, un romagnolo - Medicína e situata una ventina di chilometri a est di Bologna - che qui afferma di aver conosciuto Dante prima dell'esilio, non sappiamo nien-te di sicuro: secondo gli antichi commentatori, avrebbe fomentato discordie fra i signoři di Romagna e in particolare tra Fano e la Rimini dei Malatesta. Lui e i successivi Curione e Mosca dei Lamberti rientrano nella categoria dei sobillatori di discordia nella societa civile. Anche I'episodio dell'uccisione dei due fanesi non e documentato. I due chiusi nel sacco e gettati in mare potrebbero essere Guido del Cassero e Angiolello da Carignano, capi, rispet-tivamente, del partito guelfo e di quello ghibellino di Fano. 11 low assassinio per mano di Malatestino Malatesta, detto «dall'occhio» in quanto monocolo, sembra avvenuto nell'am-bito di un tentativo dei Malatesta di intromettersi nelle cose di Fano: Malatestino avrebbe invitato i due capipartito rivali a un incontro in campo neutro (su una imbarcazione?) e poi li avrebbe fatti sopprimere, forse al largo di Cattolica, liberandoli una volta per tutte, dice Pier da Medicína con sarcasmo, dai pericoli della navigazione, ostacolata in quella zona dal vento detto «focarese». Anche questo delitto dovrebbe essere avvenuto poco prima della composizione del canto. «Se vuoi che io rechi notizia di te nel mondo» gli rispose Dante «indicami e no-mina colui al quale fu funesta la vista di Rimini.» Allora il dannato afferro con la mano la mascella del compagno, gli spalanco la bocca e gridó: «Ě proprio lui, ma non parla piú! Questi, esiliato, sciolse il dubbio di Cesare affermando che a chi ě pronto l'indugiare sempre porta danno». E adesso, commenta Dante, il Curione che era stato cosi audace nel pronunciare quelle parole se ne stava li avvilito con la lingua tagliata. II tribuno della plebe Gaio Scribonio Curione, bandito da Roma in quanto cesariano, rag-giunse Cesare a Rimini e, scrive Lucano, lo convinse ad attraversare il Rubicone (49 a.C), dando cosi inizio alle guerre civili. Un dannato con entrambe le mani mozzate levo in alto i moncherini - e cosi il sangue gli colava sulla faccia - e grido: «Ricordati anche del Mosca. Fui io, ahimě, a pronunciare la frase "Cio che ě fatto ě fatto", da cui ebbero origine i mali dei toscani». «E la fine della tua stirpe» continue Dante. A quelle parole il dannato, che al dolore della pena aggiungeva quello per la fine della sua famiglia, se ne ando come fuori di sé. Mosca dei Lamberti (di cui Dante aveva chiesto notizia a Ciacco), morto nel 1243, fu uno dei capi del partito ghibellino di Firenze. I cronisti raccontano che nel 1216, essendo Buondelmonte dei Buondelmonti venuto meno alia promessa di matrimonio con una donna degli Amidei, questi si consultarono con i membri del clan, fra i quali i Lamberti, su come vendicare I'offesa, e che risultb decisivo il consiglio di Mosca di non limitarsi aferire I'offen-sore ma di ucciderlo, per evitare le conseguenze imprevedibili di una vendetta a meta. L'uc-cisione di Buondelmonte é ritenuta anche da Dante la causa che scatenb la rivalita tra Guel-fi e Ghibellini (ne parlera anche nel canto 16 del Paradiso). Nell'ambito delle guerre tra i due partiti, i Lamberti furono banditi nel 1268 e, come gli Uberti, non piú riammessi in patria. Mosca se ne ando, ma Dante rimase a osservare la processione dei dannati e assists a uno spettacolo che, non avendo nessun'altra testimonianza a sostegno, avrebbe paura di riferire, se non lo rendesse sicuro la coscienza di dire il vero. Vide un busto senza testa camminare non diversamente dagli altri, ma tenendo in mano per i capelli il capo mozzato, a penzoloni come una lanterna. La testa fissava Dante e Virgilio, e intanto sospirava lamentandosi. II dannato la usava per guardare, come fosse una lampada. Come possa accadere, commenta Dante, che due parti del corpo siano una sola e quell'una sia divisa in due, lo sa solo Dio. Quando si trovo proprio sotto il ponte, il dannato alzó in alto il braccio che teneva la testa per avvi-cinarla a Dante e Virgilio, in modo che potessero sentire le sue parole. «Tu che, pur respirando, ti aggiri tra i morti, guarda questa pena atroce, guarda se ce n'ě altra peggiore. Affinché tu possa portare ai vivi notizia di me, sappi che io < sono Beltram dal Bornio. Io diedi i malvagi consigli a re Enrico il giovane, io inimi-cai il padre e il figlio ľuno contro l'altro: nemmeno Achitofel fece peggio di me con Davide e Assalonne. Siccome ho diviso persone cosi strettamente congiunte, porto il mio cervello diviso dal cuore: in me ě pienamente rispettato il contrappasso, il rapporto tra pena e colpa.» Bertran de Born (1140 ca -1215), visconte di Hautefort (Altaforte), fu uno dei piú cele-bri trovatori del suo tempo (nel De vulgari eloquentia Dante lo ricorda tra i poeti che si sono distinti nel cantare le armi). Risale alle vite romanzate dei trovatori la notizia che egli abbia istigato Enrico, detto il «re giovane», a ribellarsi, tra il 1173 e íl 1174, al padre Enrico II Plantageneto, re d'Inghilterra. La Bibbia racconta che Achitofel istigö Assalonne contro il padre Davide, di cui Achitofel era stato consigliere. Bertran de Born e il Geri del Bello che apparirä all'inizio del canto che segue rientrano nella categoria dei seminatori di discordia all'interno delle famiglie. CANTO 29 Geri del Bello. Gli alchimisti: Griffolino d'Arezzo e Capocchio Di fronte alla moltitudine di dannati di quella bolgia e alle orribili ferite che gli pas-savano davanti, Dante avrebbe desiderato fermarsi e sfogare con il pianto le lacri-me che gli si erano addensate negli occhi, ma Virgilio lo richiamö chiedendogli per-che continuava a guardare giü, tra le misere ombre mutilate, cosa che non aveva fatto nelle bolge precedenti. Se per caso credeva di poterle contare a una a una, do-veva tenere presente che la bolgia aveva una circonferenza di ben ventidue miglia (corrispondenti a una dozzina di chilometri). E per di piü il tempo a loro disposizione ormai era poco: era giä l'una del pomeriggio del 26 marzo e avevano ancora molto da vedere. Mentre se ne andavano Dante disse che, se Virgilio avesse saputo per quäle motivo si era attardato a osservare la bolgia, forse gli avrebbe perdonato il suo indugiare, e gli rivelö di ritenere che in essa fosse punito un suo consanguineo. E Virgilio: «Non pensare piü a Iui, c'e altro a cui prestare attenzione, e quello resti dov'e. Ho detto resti dov'e perche l'ho visto mentre sotto il ponte ti minacciava con il dito e l'ho sentito chiamare Geri del Bello. In quel momento tu eri talmente occu-pato con il signore di Altaforte (Bertran de Born) che non badavi a nient'altro». «Penso» gli rispose Dante «che a renderlo cosi sdegnato sia il fatto che nessuno dei famigliari ha ancora vendicato il disonore del suo assassinio: la mancata Vendetta mi ha reso piü pietoso verso di lui.» Geri del Bello (o di Bello), cugino primo di Alighiero, padre di Dante, doveva essere un uomo violento efacile alla rissa se ai primi di novembre del 1280 fu imputato e condannato in contumacia in un processo per atti di violenza compiuti a Prato. Fu ucciso, per motivi a noi ignoti, da un certo Brodario della nobile famiglia fiorentina dei Sacchetti nell'aprile 1287. Nel 1300 nessun Alighieri aveva ancora vendicato la sua morte. Gib avverrä, per mano di due lontani parenti di Dante, molti anni dopo l'omicidio, forse intorno al 1317. Un patto formale di pace tra gli Alighieri e i Sacchetti sarä stipulato ancora piü tardi, il 10 ottobre 1342: lo sottoscriverä Francesco, fratello di Dante, anche a nome deifigli di quest'ulti- mo, Pietro e Iacopo. Che Dante si presenti comefautore della Vendetta non deve meraviglia-re: siccome tale pratica, molto diffusa a Firenze, era moralmente obbligatoria per lefamiglie nobili, di fatto, sostenendo il dovere e il diritto degli Alighieri di vendicarsi, Dante intende-va qualificare come nobile la sua famiglia (che nobile, invece, non era). Parlando, Dante e Virgilio giunsero al ponte sospeso sulla decima bolgia, l'ulti-ma di Malebolge. Al colmo del ponte, da dove si apriva la vista dei dannati, furono investiti da lamenti cosi acuti che Dante si copri le orecchie con le mani. Se i malati ricoverati negli ospedali della Val di Chiana, della Maremma e della Sardegna, zone paludose, tra Iuglio e settembre, quando imperversa la malaria, fossero tutti radunati in un unico fosso, da loro promanerebbe un coro di lamenti e un puzzo di carni in decomposizione simili a quelli che provenivano dalla bolgia sottostante. Dal ponte scesero sull'argine dell'ultimo cerchio e da Ii Dante pote osservare piü chiaramente la bolgia nella quäle la giustizia divina puniva i falsari. Non credo -commenta Dante - che la popolazione dell'isola di Egina, colpita dalla peste quando il contagio si propagö attraverso l'aria al punto che tutti gli animali, esclusi gli insetti, morirono (e poi, come i poeti danno per certo, quel popolo rinacque dalle formiche), offrisse alla vista uno spettacolo piü orribile di quello offerto dagli spiriti che in quella oscura bolgia languivano ammassati in strani mucchi. Ovidio, nelle Metamorfosi, narra lafavola degli abitanti dell'isola greca di Egina, ster-minati da un'epidemia di peste scatenata da Giunone, e del re Eaco, sopravvissuto, che ot-tenne da Giove di trasformare in uomini le formiche, unici essen animati rimasti in vita (questa sarebbe l'origine dei mirmidoni, dal nome greco della formica). Chi giaceva sul ventre, chi sulle spalle di un vicino, chi si spostava carponi. Dante e Virgilio camminavano lentamente, guardando e ascoltando quelle anime am-malate, incapaci di alzarsi in piedi. Dante scorse due dannati seduti schiena contro schiena, come due tegole messe a essiccare l'una appoggiata all'altra: erano rico-perti di croste dalla testa ai piedi. Non aveva mai visto un mozzo di stalla atteso con impazienza dal suo signore, ne uno stalliere costretto a lavorare mentre crolla-va dal sonno, dare colpi di striglia con la stessa furia con la quäle ognuno dei due si graffiava a causa del prurito che non trovava altro sollievo; le loro unghie raschia-vano le croste come il coltello le squame di una scardola o di un altro pesce piü grande. < ■<» Virgilio si rivolse a uno di loro e gli chiese se in quella bolgia ci fosse qualche italiano. «Noi siamo italiani, tutti e due» gli rispose il dannato. «Ma tu chi sei?» «Io accompagno quest'uomo vivo di cerchio in cerchio per mostrargli l'Infemo» spiegö Virgilio. A quelle parole, i due si divisero e, vacillando, si girarono verso Dante; anche al-tri dannati, che le avevano ascoltate sebbene non fossero dirette a loro, fecero lo stesso. «Paria pure» disse Virgilio a Dante, e questi allora cominciö: «Possa il ricordo di voi conservarsi per molti anni nella memoria dei viventi, ditemi chi siete e di quäle regione; la pena disgustosa a cui siete condannati non vi trattenga dal dirmelo». «Io fui di Arezzo» rispose uno dei due. «Albero da Siena mi fece mettere al rogo, ma a portarmi quaggiü non e stata l'accusa per cui fui condannato. E vero che, scherzando, io dissi ad Albero: "Volendo, potrei sollevarmi da terra" e che lui, cu-rioso ma poco intelligente, volle che gli insegnassi l'arte di levitare e che, per il solo fatto che non lo resi un nuovo Dedalo (che costrui le ali per se e il figlio Icaro), mi fece ardere sul rogo da uno che lo considerava come un figlio. E perö Minosse, giu-dice che non puö sbagliare, mi condanno all'ultima delle dieci bolge a causa dell'al-chimia che praticavo in vita». Paria Griffolino d'Arezzo, condannato al rogo per eresia o stregoneria prima dei 1272. II suo accusatore, Albero di Bernardino Prosperini, appartenente a unafamiglia senese nobile efacoltosa, era ancora in vita nel 1294. Si diceva che fosse un protetto o,forse, un figlio naturale dei vescovo di Siena, colui che avrebbe condannato al rogo Griffolino; di sicuro era in rapporti finanziari con l'inquisitore della citta. L'alchimia, considerata fraudolenta dalla Chiesa, era l'arte che si proponeva di tramutare in oro i metalli vili; labili erano i confini tra alchimia, magia ed eresia. «E mai esistito un popolo piü vanesio dei senese?» chiese Dante a Virgilio, a commento di quanto avevano appena ascoltato. «Nemmeno i francesi lo sono tanto!» «Eccetto Stricca,» si intromise ironicamente l'altro dannato «famoso per la sua moderazione nello spendere, ed eccetto Niccolö, che per primo introdusse l'uso di-spendioso dei chiodi di garofano in una cittä nella quäle tale usanza attecchisce fa- L n cilmente (all'epoca le spezie erano molto costose), e fai pure eccezione per la brigata nella quäle Caccia d'Asciano dissipö tutti i suoi averi e l'Abbagliato sprecö la sua intelligenza.» La brigata «godereccia» o «spendereccia», alla quäle sembra essere appartenuto anche il Lano incontrato da Dante tra gli scialacquatori, era costituita da una dozzina di ricchi se-nesi che dilapidarono i loro patrimoni in spese voluttuarie. Stricca dovrebbe essere il nome o il soprannome di un Salimbeni, che si dice fosse membro della brigata; Niccolö e identificato con il cavaliere Niccolö Bonsignori, nel 1311 nominato vicario di Milano da Enrico VII e morto nel 1315; Caccia, cioe Caccianemico di Trovato degli Scialenghi, era proprietario ter-riero nella Volle dell'Ombrone, mentre Abbagliato e il soprannome di Bartolomeo di Ranie-ro dei Folcacchieri, che ricopri cariche pubbliche anche fuori Siena e mori tra il 1300 e il 1305. «Per sapere chi sono io che mi unisco a te nel deridere i senesi» continuö il dannato «guardami attentamente: vedrai che sono l'ombra di quel Capocchio che falsi-ficava i metalli con l'alchimia. Dalla tua espressione capisco che mi riconosci e, dunque, devi ricordare come, con la mia arte, sapevo imitare bene la natura.» llfiorentino Capocchio fu bruciato sul rogo a Siena il 5 agosto 1293 con l'accusa di pra-ticare l'alchimia. Ignoriamo dove e quando Dante possa averlo conosciuto. < > CANTO 30 Contraffattori di persona (Gianni Schicchi), falsari (maestro Adamo) e mentitori (Sinone) Giunone, infuriata contro Tebe perché gelosa di Semele (la figlia del fondatore della citta, Cadmo, ingravidata da Giove), fece impazzire il re Atamante, tanto che questi, avendo incontrato la moglie Ino (sorella di Semele) con i due figlioletti in braccio, co-minciö a gridare: «Tendiamo le reti! Catturiamo questa leonessa e i suoi leoncini», e poi, allungate le mani a mo' di artigli, afferrö il piccolo Learco, lo roteo nell'aria e lo scagliö contro una roccia. Ino, disperata, si annegö in mare con l'altro figlioletto. Dopo che la Fortuna ebbe abbattuto la superbia di Troia cancellandone re e regno, Ecuba (moglie del re Priamo), straziata, privata di tutto e prigioniera, mentre sulla riva del mare si prendeva cura del cadavere della figlia Polissena (sacrificata dai Gre-ci sulla tomba di Achille) si vide davanti il corpo del suo amato figlio minore Polido-ro: il dolore la stravolse a tal punto che, fuori di sé, si mise a latrare come una ca-gna. Eppure, né fra i tebani né fra i Troiani si videro mai bestie o uomini cosi fero-cemente impazziti come le due ombre che Dante vide correre nude a quattro zam-pe mordendo, simili al porco che si slancia fuori dal porcile. Una di esse assali Ca-pocchio, lo azzannö alia nuca e, trascinandolo, gli fece grattare il ventre scabbioso sul fondo di pietra della bolgia. Griffolino, tremando di paura, disse a Dante: «Quel diavolo di dannato che, affetto dalla rabbia, si aggira riducendo gli altri in questo stato ě Gianni Schicchi» (coloro che hanno contraffatto la propria identita sono puniti con I'idrofobia). E Dante: «Ti auguro che l'altro dannato non ti azzanni, ma dimmi subito chi ě, prima che scappi via». «Ě l'anima della scellerata Mirra» gli rispose Griffolino «che, contro il lecito amore, divenne amante del padre: per poter peccare con lui si finse un'altra. Anche Gianni Schicchi, per accaparrarsi la piú bella cavalla del branco, osö assumere le sembianze di Buoso Donati: cosi travestito, dettö un regolare testamento.» Gianni Schicchi e Giovanni Schicchi Cavalcanti, cavaliere, morto prima del 1280. L'epi-sodio a cui Dante allude, benché abbia aspetti da novella, quasi sicuramente contiene un nucleo di verita. Si racconta che Simone Donati (padre di Corso, Forese e Piccarda) avesse indotto Gianni Schicchi a prendere il posto del morente Buoso di Vinciguerra Donati (zio del Buoso di Forese incontrato fra i ladri). Gianni, travestitosi cosi bene che nemmeno il no-taio si era accorto della sostituzione di persona, avrebbe dettato un testamento a favore di Simone, assegnando a sé stesso una cavalla di pregio. Mirra, figlia del re di Cipro, innamo-ratasi del padre, per soddisfare il suo desiderio si finse un'altra donna. Qui é punita non per I'incesto, ma per aver contraffatto la propria identita. Dante seguitó a guardare i due dannati finché non scomparvero, dopo di che si volse a osservare gli altri (sono i falsificatori di moneta, affetti da una grave forma di idropisia, malattia che gonfia il ventre, appesantisce le membra e provoca un'arsura inestin-guibile). Ne scorse uno che, a causa della pancia gonfia e del collo magro, sarebbe stato simile a un liuto, se solo non avesse avuto le gambe. L'idropisia, che rende sproporzionato il corpo smagrendo il viso e gonfiando la pancia, gli faceva tenere le labbra aperte, come il tisico che tiene un labbro ripiegato sul mento e l'altro all'msu. E l'anima di Adam de Anglia, maestro Adamo, un monetiere al servizio dei ghibellini conti Guidi di Romena, accusato di aver falsificato ilfiorino d'oro per conto dei suoi signoři e arso sul rogo, forse nei pressi di Romena, nel 1281. I Guidi, invece, sebbene condannati anch'essi in contumacia, furono graziati. Piu avanti Dante nominera esplicitamente i tre fratelli Guidi implicati in quell'affare: Guido, morto prima del 1292, forse a Campaldino; Alessandro, morto nel 1304; e Aghinolfo, che vivra fino al 1338. Si tenga presente che sia Alessandro sia Aghinolfo furono capitani generali dell'esercito dei Bianchi fuorusciti e dei low alleati ghibellini nei primi mesi della guerra contro Firenze, e pertanto Dante non solo fu low ospite nel Casentino, ma, in quanto membro del Consiglio dei Bianchi, anche stretto collaboratore. Le accuse infamanti che rivolge a low in questo canto rientrano dunque nel suo tentativo di pacificarsi con i Neri di Firenze, prendendo le distanze dagli ex compagni di lotta. «Voi che, non so perché, siete all'Inferno senza dover scontare alcuna pena» co-mincio il dannato «prestate attenzione al miserabile stato di maestro Adamo: in vita abbondavo di tutto, adesso, ahimě, sono ridotto a desiderare una goccia d'ac- < qua. Ho fissa negli occhi l'immagine dei ruscelletti che dai verdi colli del Casentino scendono in Arno e con la loro frescura coprono di morbidi prati le valli in cui scor-rono: ma il loro ricordo accresce la mia sete molto piü della malattia che mi scarni-fica il volto. L'inflessibile giustizia divina si serve perfino del luogo dove ho pecca-to per strapparmi sospiri piü profondi. Nel Casentino sorge il castello di Romena (dei Guidi dell'omonimo ramo), e fu proprio lä che falsificai la moneta sulla quale e impressa l'effigie di Giovanni Battista (protettore di Firenze): per questo delitto il mio corpo fu bruciato. Ma se potessi vedere qui all'Inferno l'anima dannata di Guido o d'Alessandro o del loro fratello Aghinolfo, non scambierei il piacere di vederle con tutta l'acqua della Fonte Branda (celebre fontana di Siena; meno probabile, dal momento che non e documentata ai tempi di Dante, che Vallusione sia alia Fonte Branda vicina al castello di Romena). Se i dannati rabbiosi che corrono per la bolgia non mentono, una di quelle anime (Guido) e giä qui; ma che me ne viene, visto che ho il corpo immo-bilizzato dalla malattia? Se fossi in grado di muovermi anche solo quel tanto che mi consentisse di spostarmi solo un paio di centimetri in cento anni, mi sarei giä messo a cercarlo, sebbene questa bolgia abbia una circonferenza di undid miglia (circa sei chilometri) e sia larga piü di mezzo miglio (oltre duecento metri). Per causa loro mi ritrovo in questa compagnia di falsari; furono loro a spingermi a coniare fiorini con tre carati di materia vile.» Ilfiorino, coniato nel 1252, era una moneta d'oro puro a ventiquattro carati; essendo il perno dell'economia fiorentina, basata sulla finanza e sul commercio, ai falsari erano com-minate pene molto severe. Dante chiese a maestro Adamo chi fossero i due poveretti che giacevano attacca-ti l'uno all'altro alia sua destra: i loro corpi fumavano come d'inverno evapora l'acqua dalle mani bagnate. II dannato rispose di averli trovati li quando era precipita-to in quella bolgia: da allora non si erano mossi e, forse, non l'avrebbero fatto per reternitä. Una era la donna che accusö falsamente Giuseppe, I'altro il greco Sinone, che si finse troiano: a farli sudare in modo puzzolente era la febbre acuta che li bruciava. La donna e la moglie di Putifarre, eunuco delfaraone, la quale, rifiutata da Giuseppe, fi-glio di Giacobbe, nonostante gli si fosse offerta piü volte, per vendetta lo accusö di aver ten- tato di violentarla. L'altro e Sinone che, racconta Z'Eneide, si lasciö catturare dai Troiani e li convinse con un falsa racconto a portare dentro la citta il cavallo di legno. Sinone, forse offeso per essere stato nominato in modo disonorevole, diede un pugno al ventre deformato di maestro Adamo, che risuonö come un tamburo; que-sti, allora, lo colpi sulla faccia altrettanto duramente e gli disse: «Anche se non pos-so muovermi, ho il braccio libero per colpirti». «Quando, legato, ti portavano al rogo, non l'avevi cosi svelto; e invece, l'avevi ancora piü svelto quando coniavi i fiorini» ribatte Sinone. E l'idropisiaco maestro Adamo: «Dici il vero, ma non lo dicesti quando a Troia ti chiesero la veritä sul cavallo». «Se io dissi il falso» ribatte Sinone «tu falsificasti il conio: dunque, io sono qui per un solo peccato, ma nessun altro qui dentro ha commesso tanti peccati quanti te.» (Ogni singolo fiorino falsificato era un peccato.) «Ricordati dei cavallo» replicö il dannato dalla pancia gonfia «e ti faccia soffrire il fatto che tutto il mondo conosce il tuo spergiuro.» E il greco: «Facciano soffrire te la sete che ti screpola la lingua e il putrido umore che ti gonfia il ventre tanto da coprirti gli occhi». Allora maestro Adamo: «Ma la tua bocca per sempre va in pezzi bruciata dalla febbre. Se io sono assetato e rigonfio d'umore, tu, riarso e con la testa che duole, non ti faresti pregare per poter dare anche solo una leccatina all'acqua nella quäle si specchiö Narciso». (7/ bellissimo Narciso si innamorb di se stesso vedendo la proprio immagine riflessa in una fonte.) Dante, completamente preso dallo scontro fra i due, fu riscosso dal rimprovero di Virgilio: «Bada! Ancora un po' e litigo con te». Allora si riempi di vergogna. De-siderava scusarsi e non si accorgeva che proprio con il suo silenzio lo stava facen-do, come colui che sogna una sventura e mentre lo fa si augura che si tratti sola-mente di un sogno, senza accorgersi di stare desiderando proprio ciö che giä avvie-ne. Virgilio lo consolö dicendogli che una vergogna minore di quella che stava ora provando avrebbe lavato una colpa anche peggiore. Se per caso si fosse trovato ancora ad assistere a qualche lite di quel tipo, doveva pensare di avere lui accanto a se: cosi avrebbe scacciato il vile desiderio di ascoltare risse verbali di quel genere. < CANTO 31 II pozzo dei giganti Virgilio, commenta Dante autore, prima lo aveva ferito con i suoi rimproveri, fa-cendolo arrossire di vergogna, e poi lo aveva guarito con parole di consolazione; si dice che facesse lo stesso la lancia di Peleo, padre di Achille, che al primo colpo fe-riva e al secondo guariva. Date le spalle alia decima bolgia, Dante e Virgilio attraversarono in silenzio l'ar-gine che la circondava. Nella penombra che impediva di guardare lontano, Dante senti il suono di un corno cosi assordante da far sembrare flebile il rombo di qual-siasi tuono (nemmeno Orlando, dopo la sconfitta di Roncisvalle, dove Carlo Magno perse la santa schiera dei suoi paladini, suonö il corno con tanta forza): allora rivolse gli occhi in quella direzione. La strage della retroguardia cristiana a Roncisvalle (778) e. raccontata dalla Chanson de Roland (canzone di gesta della fine dell'XI secolo): solo quand'era ormai troppo tardi Orlando si decise a suonare il corno per chiedere I'aiuto dell'esercito di Carlo. Orlando e Carlo Magno saranno nominati insieme anche nel canto 18 del Paradiso. Si era appena voltato che subito gli parve di vedere molte torri, tanto che chiese a Virgilio che cittä fosse quella. Lui gli rispose che era troppo lontano per vedere distintamente; che si affrettasse, dunque, e, una volta avvicinatosi, avrebbe capito di essersi ingannato. Ma poi, presolo premurosamente per mano, aggiunse che giä subito, affinché la cosa in seguito non gli risultasse troppo paurosa, era bene sapes-se che non erano torri, ma giganti, immersi dall'ombelico in giú tutťintorno al pozzo centrale dell'Inferno, in prossimitä dell'argine che stavano attraversando. Come, quando si dissipa la nebbia, lo sguardo a poco a poco distingue ciö che essa nascondeva, cosi, a mano a mano che si avvicinava, attraverso 1'aria densa di scuri vapori Dante vide che quelle non erano torri. La nuova immagine, perö, ac-crebbe la sua paura, perché sul bordo del pozzo si innalzavano, anche se solo per meta del loro corpo, gli spaventosi giganti che Giove ancora minaccia ogni volta che tuona. La loro disposizione ricordava la corona di torri ehe si erge sulle mura circolari di Monteriggioni. Ľassalto dei giganti all'Olimpo, respinto da Giove grazie ai fulmini fabbricati per lui da Vulcano, giä accennato dal bestemmiatore Capaneo, sarä qui ricordato altre due volte. Monteriggioni é unafortezza senese, sulla via per Firenze, cinta da mura circolari munite di nu-merose torri. Di uno di quei giganti Dante, adesso, poteva distinguere la faccia, le spalle, il petto, gran parte del ventre e le braccia distese lungo il tronco. Pensô che la natura aveva fatto bene a non generare piu esseri di quel genere, sottraendo cosi a Marte, dio della guerra, guerrieri tanto possenti. Ě vero che continuava a creare elefanti e balene, ma, a ben considerare, ciô era un segno ulteriore della sua saggezza; in ef-fetti, se alia loro potenza fisica si fossero aggiunte malvagitä e intelligenza, come era per i giganti, nessuna difesa sarebbe stata possibile. La faccia del gigante sem-brava a Dante lunga e larga come la pigna di San Pietro a Roma (una pigna di bronzo alta circa quattro metri che ai tempi di Dante era collocata nell'atrio della basilica), e il re-sto del corpo era in proporzione: l'altezza della meta che sporgeva dal pozzo era tale che tre uomini molto alti messi uno sopra ľaltro non sarebbero arrivati alia capigliatura. II gigante cominciô a gridare bestialmente: «Raphěl mai aměcche zabi almi». Al che Virgilio reagi: «Sciocco, per sfogare le tue passioni accontentati del corno! Ce ľhai legato al collo, ti pende a bandoliera sul petto». Poi si rivolse a Dante: «Si presenta da sé: ě Nembrot. Si deve al suo malvagio progetto se ľumanitä non usa un unico linguaggio. Lasciamolo dov'e e non parliamo inutilmente, tanto lui non comprende nessuna lingua, e nessuno, del resto, capisce la sua». Secondo la tradizione patristica, Nembrot, re di Babilonia, sarebbe stato il costruttore della torre di Babele, superbo tentativo di scalata al cielo punito da Dio con la confusione delle lingue: del mito della torre si riparlerä nel canto 26 del Paradiso. Dante e Virgilio procedettero oltre. A un tiro di balestra trovarono il secondo gigante, molto piú feroce e grande del primo. Chi fosse stato il fabbro che ľaveva in-catenato, Dante non lo sapeva, ma sta di fatto che quello aveva il braccio sinistro, davanti, e il destro, dietro, legati da una catena che, avvolgendosi cinque volte sulla parte visibile del corpo, lo bloccava dal collo in giú. < «Questo superbo volle sperimentare la sua potenza contro il sommo Giove» spiego Virgilio «e questa ě la sua ricompensa. Si chiama Fialte (o Efialte), compi le ben note imprese quando i giganti fecero paura agli děi dando 1'assalto al cielo.» Virgilio, nelle Georgiche, attribuisce a lui e alfratello Oto Vimpresa di avere sovrappo-sto ben Ire montagne durante 1'assalto al cielo. Dante disse a Virgilio che avrebbe desiderato vedere lo smisurato Briareo. Virgilio gli rispose che, li vicino, avrebbe visto Anteo, il gigante che li avrebbe deposti sul fondo di tutti i mali {il Cocito). Briareo era molto piú in lá e, a differenza di Anteo, era legato. Per il resto, invece, a parte il fatto che aveva un aspetto piú truce, era simile a lui. A quelle parole Fialte diede alle sue catene uno scossone piú forte di un violento terremoto. Dante temette di morire, e la paura che provó sarebbe ba-stata a ucciderlo, se non avesse visto le catene. Briareo, di proporzioni enormi, aveva partecipato alla guerra contro gli děi; Anteo, invece, famoso cacciatore di leoni ucciso da Ercole non ě incatenato perché, essendo nato dopo, non aveva partecipato a quella guerra. Dante e Virgilio procedettero, finché non arrivarono vicini ad Anteo. Virgilio gli parló: «0 tu, che nella fortunata valle resa gloriosa da Scipione quando mise in fuga Annibale (la valle del fiume Bágrada, vicino a Zama, dove Scipione 1'Africano nel 202 a.C. sconfisse Vesercito cartaginese mettendo fine alla seconda guerra punica) cacciasti innumerevoli leoni e che, dicono alcuni, se avessi partecipato alla guerra contro gli děi, avresti assicurato la vittoria ai giganti, figli della Terra, non ti rincresca deporci laggiú dove il freddo ghiaccia 1'acqua di Cocito (il lago dove si raccolgono le acque in-fernali, ghiacciato a causa di una corrente ďaria fredda prodotta da Lucifero). Non ci co-stringere ad andare fino da Tizio e da Tifone (il primo ucciso da Apollo, il secondoful-minato da Giove e incarcerato sotto VEtna). Questi che ě con me puó elargire ció che qui si desidera: puó darti fama nel mondo, perché ě vivo e ha ancora molto da vi-vere, se la grazia divina non lo chiama a sé anzitempo; percio non ti rincresca di chinarti». Subito Anteo protese le máni, di cui Ercole aveva provato la potente stretta prima di riuscire a uccidere il gigante con molta fatica, e afferró Virgilio; questi, quando si senti agguantare, disse a Dante di awicinarsi e lo abbracció. A chi la guarda dalla parte della pendenza, la Garisenda, se passa una nuvola in direzione contra- ria all'inclinazione, da l'impressione di muoversi e di cadergli addosso; la stessa sensazione provö Dante nel vedere Anteo chinarsi verso di lui, e in quel momento avrebbe desiderato scendere in altro modo. La Garisenda e una celebre torre di Bologna, allora molto piü alta di oggi, nelle cui vici-nanze Danteforse alloggiö durante il suo primo soggiorno in quella cittä nel 1287. E invece Anteo Ii depose delicatamente sul fondo che inghiotte nel suo ghiaccio Lucifero e Giuda, ovvero nel nono e ultimo cerchio; e non rimase Ii chinato in avan-ti, ma subito si rialzö come si rialza l'albero di una nave inclinato dal moto delle onde. CANTO 32 I traditori dei parenti (Camicione dei Pazzi) e i traditori politici (Bocca degli Abati) Se io possedessi una lingua che fosse capace di rappresentare in poesia con suoni rauchi e aspri la terribile realta del pozzo sul quale gravita l'intero Inferno - dichia-ra Dante autore - potrei esprimere l'essenza dei miei concetti, ma siccome non la possiedo, e con paura che mi induco a poetare: descrivere il fondo di tutto 1'univer-so (perche il fondo dell'lnferno e anche il centro della Terra) non e impresa da prendere alia leggera ne da affrontare con una lingua da bambini. Le Muse mi aiutino a far si che la mia poesia sia adeguata a questa materia. O dannati in questo luogo, di cui e cosi arduo parlare, quanto sarebbe stato meglio per voi, i piu spregevoli di tutto l'lnferno, essere nati bestie! Deposto sul fondo del pozzo, Dante osservava ancora l'alta parete rocciosa da cui era disceso quando si senti dire: «Guarda dove metti i piedi! Fai attenzione a non calpestare le teste degli sventurati fratelli {i due dannati che appariranno tra poco)». Si volto, e vide un lago ghiacciato. £ il Cocito, il quarto deifiumi infernali, che sul fondo dell'lnferno si allarga formando un lago di ghiaccio. E presente nell'Ade pagano, ma il suo essere ghiacciato e un'invenzione dantesca. Ne il Danubio in Austria ne il Don nelle fredde regioni settentrionali durante l'inverno hanno mai formato sulla loro superficie uno strato di ghiaccio cosi spesso come quello di quel lago: se anche vi fossero cadute sopra due alte montagne, quali la Tambura e la Pania della Croce {vette delle alpi Apuane), non avrebbe scricchiolato neppure sull'orlo. Come aH'inizio dell'estate, quando la contadina spera di poter fare un'abbondante spigolatura, le rane se ne stanno a gracidare con il muso fuori dall'acqua, cosi le anime dannate, livide per il freddo, stavano conficcate nel ghiaccio fino al collo e coi denti facevano un suono simile a quello della cicogna quando batte il becco. Ogni anima teneva la faccia rivolta all'ingiu: il battito dei denti mani-festava il tormento esteriore, gli occhi bassi quello interiore. Dopo essersi guardato attorno, Dante rivolse lo sguardo ai suoi piedi e vide due dannati avvinti 1'uno al-1'altro tanto strettamente da formare una sola capigliatura. Chiese a loro chi fossero. Quelli sollevarono il viso: le lacrime sgocciolarono dagli occhi sulle labbra e il gelo le solidificó rinserrando le loro bocche. Allora, rabbiosi, cercarono di separarsi e si urtarono con la fronte come caproni. Un altro dannato, che per il freddo aveva perduto entrambe le orecchie, conti-nuando a tenere la faccia all'ingiú chiese a Dante: «Perché ci fissi con tanta insisten-za? Vuoi sapere chi sono questi due? Ebbene, a loro e al loro padre appartenne la valle nella quale il fiume Bisenzio scorre verso l'Arno. Furono figli di una stessa madre. In tutta la Caina {la zona del nono cerchio cosi denominata da Caino, uccisore del fratéllo Ábele, nella quale sono puniti i traditori dei parenti) non troverai dannati piú de-gni di essere conficcati nel ghiaccio, non Mordret, al quale con lo stesso colpo di lancia Artú perforó il petto e 1'ombra {perché laferita lasció passare un raggio di sole), non Focaccia, non costui il cui capo mi toglie la visuale: si chiama Sassolo Masche-roni, e tu che sei toscano adesso sai di chi si tratta. Non mi infastidire con altre do-mande. Ti dico che io fui Camicione dei Pazzi: aspetto che qui arrivi Carlino, il cui tradimento fara apparire piú lieve il mio». A parlare é liberto Camicione dei Pazzi di Valdarno, famiglia ghibellina che conduceva un'endemica guerriglia nei confronti del Comune di Firenze, morto prima del 1290: avrebbe ucciso per interesse il cugino Ubertino. II Carlino atteso allTnferno é un nipote di Camicione: alleato dei fuorusciti «bianchi», nel luglio 1302, dietro la promessa di un compenso in denaro e della restituzione dei suoi possedimenti confiscati, consegnerá il castello di Castel del Piano (o Pian tra Vigne) aifiorentini che lo assediavano da tre settimane. Camicione no-mina nelVordine: i fratelli Napoleone e Alessandro degli Alberti, conti di Mangona, nella valle del Bisenzio, piccolo fiume che scorre nelle vicinanze di Pralo; divisi anche politica-mente (ghibellino il primo, guelfo il secondo), furono in continua lotta per 1'eredita del padre Alberto, tanto da uccidersi tra loro (ma in realta Alessandro uccise o fece uccidere Napoleone e poifu soppresso da unfiglio di Napoleone, ucciso a sua volta da unfiglio di Alessandro); Mordret, personaggio letterario del ciclo arturiano, fu trapassato da parte a parte con un colpo di lancia da re Artú, suo zio o, secondo altra tradizione, suo padre, e attraverso laferita passb il sole rompendo la sua ombra; il pistoiese Vanni dei Cancellieri detto Focaccia (marito della Selvaggia cantata da Cino da Pistoia), morto nel 1295/96, un guelfo «bian- < ■<» co» che uccise un cugino di parte «nera» scatenando cruente lotte cittadine; Sassolo Ma-scheroni dei Toschi, fiorentino, decapitato per aver ucciso un nipote di cui era tutore. Dante scorse poi una moltitudine di peccatori che avevano anche il collo immer-so nel ghiaccio: i loro volti erano bluastri per il freddo. Mentre insieme a Virgilio si dirigeva verso il centro dellTnferno e del cosmo, tremava in quella tenebra eterna-mente gelida. Sono le anime punite neu'Antenora (dal troiano Antenore, che avrebbe aperto lo sportel-lo del cavallo di legno), la zona del Cocito che ospita i traditori della patria o del partito. Passeggiando fra le teste confitte nel ghiaccio, Dante colpi con un piede il viso di una delle anime: non avrebbe saputo dire se lo avesse fatto deliberatamente o in-dotto dalla volontä divina o, semplicemente, per caso. II colpito gridö: «Perche mi calpesti? Vuoi aggravare il castigo del mio tradimento a Montaperti?». Si tratta del ghibellino di Firenze Bocca degli Abati, ancora vivo nel 1280, che, non cac-ciato dalla citta nell'epurazione del 1258, nel corso della battaglia di Montaperti tradi pas-sando al nemico. II suo tradimento, tuttavia, dovette essere meno grave di quanto Dante af-ferma se Bocca, nel 1268, fu punito solamente con il bando. Dante, allora, chiese a Virgilio di fermarsi finche non si fosse tolto un dubbio su-scitatogli dalla vista di quel dannato, dopo di che, aggiunse, avrebbe potuto met-tergli tutta la fretta che voleva. Virgilio si fermö e lui si rivolse a quell'anima che ancora imprecava per il calcio subito: «Chi sei tu che mi rimproveri?». «Chi sei tu» fu la risposta «che ti aggiri per l'Antenora scalciandomi in faccia? Se io fossi ancora in vita, certo non lo tollererei.» «Sono io a essere vivo» replicö Dante «e dovrebbe esserti gradito, se desideri fama nel mondo, che io metta anche il tuo nome tra i miei ricordi.» E l'altro: «Io desidero proprio il contrario. Vattene e non seccarmi piü: qui nessu-no vuole essere ricordato dai viventi». A quel punto Dante lo afferrö per la collottola e lo minacciö: «Dimmi il tuo nome o in testa non ti resterä nemmeno un capello». «Non te lo dico e non te lo rivelo in alcun modo, nemmeno se mi strappi tutti i capelli e mi colpisci mille volte sulla testa.» Dante, attorcigliati i capelli intorno alla mano, giä gliene aveva strappati a cioc-che, e quello urlava come un cane, quando un altro dannato gridö: «Che hai, Boc- ca? Non ti basta battere i denti, devi anche metterti a gridare? Che diavolo ti succede?». «Adesso, perfido traditore,» gli intimö Dante «non dire altro. Per tua infamia, io porterö nel mondo notizie veritiere su di te.» «Va' via» replicö quello «e racconta ciö che ti pare. Ma, se mai tu uscissi da qui, riferisci anche di colui che e stato cosi lesto a parlare. Potrai dire di aver visto tra i peccatori conficcati nel ghiaccio quel tale da Dovara: qui sconta il denaro avuto dai francesi. E se qualcuno ti chiedesse se ce n'erano altri, ecco, proprio accanto a te, quel tizio dei Beccaria a cui Firenze tagliö la gola. Credo che un po' piü in lä ci sia Gianni dei Soldanieri, insieme a Gano e a Tebaldello, che di notte apri le porte di Faenza.» Buoso da Dovara o Duera, capo dei Ghibellini di Cremona e molto legato a re Enzo,figlio di Federico II, nel 1265, quando militava con Manfredi, si sarebbe lasciato corrompere da Carlo d'Angib consentendo il passaggio delle milizie francesi in marcia verso Roma. II pa-vese Tesauro dei Beccaria, abate di Vallombrosa e in relazioni con il cardinale Ottaviano degli Ubaldini (da Dante collocato tra gli eretici),fu decapitato a Firenze nel 1258 con l'accu-sa di aver tramato con i Ghibellini fuorusciti. Ne il tradimento di Buoso ne quello di Tesauro sono provati: in entrambi i casi Dante fa sue le tesi sostenute dalla propaganda guelfa. II ghibellino Gianni dei Soldanieri nel 1266, dopo la morte di Manfredi (nel periodo della po-desteria dei duefrati Godenti puniti tra gli ipocriti), si mise a capo di una sollevazione po-polare contro i Ghibellini. Gano di Maganza e il traditore della Chanson de Roland che provocb la morte di Orlando. Tebaldello degli Zambrasi, benche ghibellino, nel 1280 apri le porte di Faenza alla consorteria guelfa dei Geremei di Bologna in lotta con lafazione ghibel-lina dei Lambertazzi rifugiatasi in quella citta. Dante e Virgilio si allontanarono da Bocca degli Abati. Camminando, Dante scorse due dannati imprigionati insieme dal ghiaccio in modo che la testa di uno sembrava fare da cappello a quella dell'altro. Quello di sopra addentava la nuca sotto di lui con la stessa voracitä con la quäle un affamato divora un pezzo di pane: non diversamente Tideo rose per spregio il cranio di Menalippo. Nella Tebaide Stazio racconta che Tideo, uno dei sette re che assediarono Tebe, uccise Menalippo dopo essere stato da luiferito e,fattosi portare la sua testa mozzata, la addentb. I < due dannati sono il conte Ugolino e ľarcivescovo Ruggieri, protagonisti dei canto successivo. Dante si rivolse a colui che mangiava il cranio delľaltro dannato chiedendogli di dirgli quale fosse la causa delľodio che manifestava in modo cosi bestiale. Promise che, una volta conosciute la loro identita e la colpa commessa dal dannato sul quale si stáva vendicando, se avesse trovato giuste le sue ragioni lo avrebbe compensato, se non gli si fosse seccata la lingua, vendicandolo anche nel mondo dei vivi. CANTO 33 Altri traditori politici (conte Ugolino) e traditori degli ospiti (frate Alberigo) Udita la richiesta fattagli da Dante, il peccatore sollevö la bocca dal pasto bestiale pulendola con i capelli di quella testa di cui aveva devastato la nuca, e poi comin-cib a parlare. II protagonista di questo episodio e. Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico. Dopo la rovinosa sconfitta subita a opera dei genovesi nella battaglia navale della Meloria (6 agosto 1284), Pisa, tradizionalmente ghibellina, dovendo far fronte a una lega ostilefor-mata da Genova, Lucca e Firenze gli aveva affidato una sorta di signoria difatto sulla citta. 11 conte, poi, aveva associate al potere il nipote Nino Visconti, signore del giudicato di Galium, in Sardegna. I due erano di sentimenti guelfi (soprattutto Visconti). Ugolino aveva compiuto atti distensivi nei confronti di Lucca e Firenze, cedendo loro alcuni castelli. Fu proprio questa apertura ai nemici guelfi a fornire al ghibellino arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini (nipote del cardinale Ottaviano, all'Inferno tra gli eretici insieme a Farinata e a Federico II) il pretesto per accusare Ugolino di tradimento. A seguito di una sollevazione popolare orchestrata, il l°luglio 1288 il conte, con ifigli Gaddo (Gherardo) e Uguccione e i nipoti Nino detto il Brigata e Anselmuccio, venne rinchiuso nella torre dei Gualandi, in una stanza nella quale si tenevano i falconi durante il periodo della muta (e perci'o delta «della Muda»), e costretto a piu riprese a pagare ingenti somme per il riscatto. Dopo otto mesi, esaurite le risorse economiche dei Gherardeschi, i prigionieri furono lasciati morire di fame e senza conforti religiosi. I loro corpi furono portati via dalla torre solo il 18 marzo 1289. «Tu vuoi che io rinnovi il disperato dolore che mi opprime il cuore anche solo a pensarci, prima ancora che ne parli. Tuttavia, se le mie parole possono arrecare in-famia al traditore di cui sto rodendo il capo, parlerö tra le lacrime. Non so chi tu sia né come tu sia arrivato quaggiů, ma a sentirti parlare mi sembri proprio fiorentino. Sappi che io fui il conte Ugolino e che questi ě l'arcivescovo Ruggieri: ora ti rivelo perché mi sfogo cosi crudelmente su di lui. Non ho bisogno di dirti che fui cattura- to e fatto morire a causa del tradimento di costui, di cui mi fidavo; invece ti raccon-terb, cosa che nessun altro pub fare, come la mia morte fu crudele. E cosi giudiche-rai se ho buone ragioni per vendicarmi. Attraverso una stretta feritoia della torre della Muda - che da me prende il nome di torre della Fame -, nella quale altri ancora saranno sicuramente rinchiusi, avevo visto piu volte rinnovarsi la luna quando feci il brutto sogno che squarcib il velo che mi nascondeva il future Nel sogno mi apparve Ruggieri mentre sul monte che ai pisani impedisce di vedere Lucca stava cacciando un lupo e i suoi cuccioli. Lui era il capocaccia, con se aveva una muta di cagne affamate e ben addestrate e da-vanti aveva schierato i Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi.» Le cagne rappresentano il popolo aizzato dall'arcivescovo contro Ugolino; alia testa della battuta di caccia sono le principali famiglie ghibelline di Pisa. «Gia dopo una breve fuga, il lupo e i suoi cuccioli mi apparivano stanchi; vidi che i denti aguzzi dei cani li sbranavano ai fianchi. Svegliatomi che non era ancora giorno, udii i miei figliuoli piangere nel sonno e domandare del pane. Se gia adesso non ti addolori nel pensare a rib che il mio cuore presagiva, devi essere privo d'ogni umanita. Se ora non piangi, cosa mai ti fa piangere? I figlioletti si erano sve-gliati, anch'essi paurosi per rib che avevano sognato. Si awicinava l'ora in cui, di solito, ci portavano da mangiare e, invece, sentii che in basso stavano inchiodando la porta d'ingresso della torre: a quel rumore guardai in faccia i miei figli senza dire una sola parola. Mi feci di pietra. Io non piangevo, ma loro si. Anselmuccio, il piu piccolo, mi disse: "Padre, il tuo sguardo e strano, che hai?". Non risposi. Rimasi in silenzio, senza piangere, per tutto il giorno e tutta la notte. Alia fioca luce che all'al-ba penetrb nel carcere vidi sui quattro volti dei figli (anche se in realta sono due figli e due nipoti) l'espressione che doveva avere il mio: il dolore fu tale che mi morsi le mani. Ma quelli, pensando che lo facessi per fame, subito si alzarono in piedi di-cendo: "Padre, ci dara meno dolore se ti nutri di noi. Tu ci hai vestito di queste mi-sere carni, e tu puoi togliercele". Allora, per non angosciarli di piu, mi calmai. Quel giorno e il seguente restammo in silenzio. Ahi terra crudele, perche non ci inghiot-tisti? Al quarto giorno Gaddo si buttb ai miei piedi implorando: "Padre mio, perche non mi aiuti?", e li mori. Tra il quinto e il sesto giorno vidi cadere gli altri tre a < ■<» uno a uno: io, cieco, cominciai a cercarli a tentoni, e, morti, per due giorni li chia-mai per nome. Dopo, la fame fu piú forte del dolore.» Dette queste parole, il dannato abbassó la těsta, appoggió di nuovo la bocca su quel teschio straziato e i denti, fořti come quelli di un cane, gli si avventarono all'osso. A questo punto Dante autore prorompe in un'invettiva: «Ahi Pisa, vergogna de-gli italiani, siccome i tuoi vicini (lucchesi e fiorentini) tardano a punirti, si muovano la Capraia e la Gorgona (isolette prospicienti la costa pisana), sbarrino la foce dell'Ar-no che cosi anneghi tutti i tuoi abitanti! Ě vero, si diceva che il conte Ugolino ti avesse tradita consegnando i castelli (a Lucca e Firenze), ma non per questo, emula dell'antica Tebe (famosa per i suoi orrori), dovevi infliggere ai figli quell'atroce sup-plizio: la giovane etá li rendeva innocenti». Dante e Virgilio proseguirono il cammino e giunsero dove il ghiaccio copriva di un manto pungente un'altra specie di peccatori (i traditori degli ospiti), i quali non tenevano la těsta rivolta in basso, ma rovesciata all'indietro, cosicché era proprio il pianto a impedire loro di piangere: le lacrime, infatti, solidificate dal gelo, riempi-vano la cavitá degli occhi, e quel blocco le costringeva a rifluire aU'interno accre-scendo cosi la pena dei dannati. A Dante, sebbene la sua faccia a causa del freddo avesse perso ogni sensibilita, sembro di sentire soffi di vento, e allora, stupito per-ché allTnferno il sole non poteva certo trasformare in vento 1'umiditá della terra, chiese a Virgilio cosa li producesse. Questi gli rispose che presto avrebbe visto con i suoi occhi la causa di quella corrente ďaria. Uno dei dannati si rivolse a loro: «0 anime cosi scellerate da aver meritato il posto piú basso dellTnferno, levatemi dal viso il velo di ghiaccio cosicché, per un mo-mento, prima che le nuove si congelino, io possa sfogare le lacrime che riempiono di pianto il mio cuore». E Dante a lui: «Se vuoi che ti aiuti, dimmi prima chi sei. Possa io scendere nel fondo del ghiacciaio, se non lo faccio». «Io sono frate Alberigo» rispose il dannato. «Sono quello della frutta malefica: qui ricevo datteri per fichi (cioé sono ripagato ampiamente del malefatto).» Alberigo dei Manfredi, frate godente di Faenza e capo dei Guelfi della citta, nel 1285 uc-cise, per questioni patrimoniali, il cugino Manfredo e il di luifiglio durante un banchetto. Ancora vivente nel 1300, sarebbe morto nel 1302 o poco dopo. Pare che il segnale convenuto per i sicari fasse la fräse: «Venga lafruttal», in seguito divenuta proverbiale. L'espressione «datteri per fichi» equivale a «pan per focaccia»: i datteri, esotici, erano molto piü costosi dei fichi nostrani. «Oh,» chiese Dante stupito «sei giä morto?» E l'altro: «Come stia il mio corpo su nel mondo, non lo so. I dannati in questa Tolomea (cosi detta dal Tolomeo biblico che face uccidere a tradimento il suocero Simone Maccabeo e i suoi due figli, e la zona del Cocito dove si trovano i traditori degli ospiti) go-dono del bei privilegio che la loro anima, a volte, e qui precipitata prima ancora che Atropo (la Parca che taglia ilfilo della vita) le dia il segnale della partenza. Per in-vogliarti a liberarmi gli occhi, ti dico che l'anima macchiatasi di un tradimento come il mio e subito privata del corpo da un diavolo, che poi vi abita, reggendolo, per tutto il tempo destinato alia sua vita; l'anima, invece, cade in questo pozzo ghiacciato. Forse sulla Terra e ancora visibile il corpo dell'anima che sverna qui dentro: se tu ne sei sceso proprio adesso, lo devi sapere. Quello lä e Branca Doria, e sono passati molti anni da quando e imprigionato in questo ghiaccio». «Credo che tu mi stia ingannando» obiettö Dante «perche Branca Doria e tutt'al-tro che morto: mangia, beve, dorme e si veste come tutti.» «Nella bolgia dei Malebranche dove bolle la pece non era ancora arrivato l'ucci-so Michele Zanche che giä le anime di Branca e del suo parente complice nell'assas-sinio avevano lasciato un diavolo a governare il corpo al loro posto. Ma allunga fi-nalmente la mano, aprimi gli occhi...» Ma Dante non glieli apri: e fargli quel torto non fu una villania, ma, al contrario, un atto cortese nei confronti della giustizia. Branca Doria, appartenente a una delle piü cospicue famiglie genovesi, morira solamente nel 1325. In una data imprecisata, ma di parecchio anteriore al 1300, avrebbe trucidato il suocero, il sardo Michele Zanche, signore di Logudoro (da Dante collocato nella bolgia dei barattieri), dopo averlo invitato a un banchetto, e cid per impadronirsi dei suoi domini sar-di. Di questa vicenda le cronache e i documenti tacciono, sieche le uniche fonti risultano il raeconto dantesco e i commenti alla Commedia. Dante ne sara venuto a conoscenza presso i Malaspina, imparentati alla lontana con Zanche. E probabile, infatti, che dietro l'oscuro < episodic* ci siano implicazioni che toccavano gli interessi o le alleanze di questa famiglia, protettrice di Dante. Per la seconda volta in questo canto, Dante autore prorompe in un'invettiva: «Ahi genovesi, privi di ogni buon costume e pieni invece di ogni difetto, perché non siete cancellati dal mondo? Lo dico perché in compagnia del peggiore spirito di tutta la Romagna (Alberigo) ho trovato uno di voi che, per il suo delitto, con I'ani-ma sta a bagno nel Cocito mentre sulla Terra il corpo appare ancora vivo». CANTO 34 Traditori dei benefattori. Lucifero «Vexilla regis prodeunt inferni» (Si awicinano le insegne del re dell'lnferno) declamö Vir-gilio «e perciö guarda davanti a te» aggiunse rivolto a Dante. Virgilio riprende, adattandolo al contesto, l'inizio di un inno alla Croce di Venanzio Fortunata, vescovo di Poitiers del VI secolo. Come, quando si diffonde una fitta nebbia o sul nostro emisfero cala la notte, da lontano si scorge in modo indistinto un mulino a vento, cosi a Dante sembrö di in-travvedere una costruzione; il vento, perö, soffiava sempre piü forte e, siccome non c'erano altri ripari, lui dovette rifugiarsi dietro Virgilio. In quel luogo le anime era-no interamente coperte dal ghiaccio, dal quäle trasparivano come pagliuzze nel ve-tro. Alcune erano sdraiate, altre erano erette, ma chi con la testa in su, chi con i pie-di in alto; altre ancora erano piegate ad arco, con la faccia a toccare i piedi. I due si trovano nella Giudecca, cosi detta da Giuda, la zona del Cocito nella quäle sono puniti i traditori della patria. Dante e Virgilio procedettero, uno dietro l'altro, verso il centro del lago ghiaccia-to, finche Virgilio non decise che Dante poteva finalmente vedere colui che era sta-to il piü bello del creato. Allora si scostö, lo fece fermare e gli disse: «Ecco Dite, qui devi armarti di tutto il tuo coraggio». Dante gelö di paura e ammutoli; era cosi stordito da non sapere se fosse vivo o morto. Lucifero, il sovrano di quel regno di dolore, sporgeva dal ghiaccio da metä petto in su: era talmente smisurato che le dimensioni di Dante rispetto a un gigante sa-rebbero State meno sproporzionate di quelle del braccio di un gigante rispetto a Lucifero stesso. Se era stato cosi bello quanto adesso era brutto, e nonostante ciö si era ribellato al suo creatore, non stupiva, pensö Dante, che da lui provenisse ogni male. E, cosa assolutamente straordinaria, la sua testa aveva tre facce. Una, rossa, sul davanti. Le altre due si attaccavano a questa partendo dalla metä delle spalle e con- giungendosi tra loro alla sommitä del capo, sormontato da una cresta: la faccia di destra era di un colore tra il bianco e il giallo, quella di sinistra aveva il colore nero degli etiopi. Sotto ciascuna faccia spuntavano due ali proporzionate a un cosi enorme uccello, nessuna vela di nave avrebbe mai potuto eguagliarle in grandezza: non avevano penne, ma erano fatte come quelle dei pipistrelli, Lucifero le agitava susci-tando tre venti, ed erano questi che facevano ghiacciare il Cocito. Piangeva da sei occhi, e il suo pianto colava su tre menti mescolato a una bava sanguinolenta: con le bocche, infatti, maciullava tre peccatori contemporaneamente. Ma per il peccato-re addentato nella bocca di mezzo i morsi erano ben poca cosa rispetto ai graffi che, qua e lä, gli scorticavano la schiena. «Quello tormentato piü degli altri, che lassü tiene la testa nella bocca e fuori di-mena le gambe» disse Virgilio «e Giuda Iscariota. Degli altri due, la cui testa pende al di fuori, quello che si contorce in silenzio e Bruto e l'altro, cosi robusto, e Cassio. Ma si sta facendo nuovamente notte, e ora di andarsene: all'Inferno non c'e nien-t'altro da vedere.» Giuda Iscariota e Vapostolo che tradi Cristo, il massimo benefattore dell'umanitä. Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino sono i congiurati che nel 44 a.C. uccisero Giulio Cesa-re, fondatore dell'impero. II viaggio all'Inferno e terminato: sono passate ventiquattr'ore da quando Dante e Virgilio vi sono entrati; dunque, sono le sei del pomeriggio (ora di Gerusa-lemme) del 26 marzo. Su invito di Virgilio, Dante gli si awinghiö al collo. Virgilio si mise all'erta per cogliere il momento e la presa opportuni e, quando Lucifero apri le ali a sufficien-za, si aggrappö alle sue costole pelose; quindi, di ciuffo in ciuffo, cominciö a scen-dere nell'interstizio tra il corpo e la crosta di ghiaccio del lago. Giunti al punto dove la coscia si articola, proprio lä dove l'anca si ingrossa, Virgilio, con fatica e af-fanno, si rovesciö e, rivolta la testa verso le gambe di Lucifero, cominciö a salire su per i peli: Dante pensö con paura di stare ritornando all'Inferno. I due avevano raggiunto e superato il centro della Terra, e pertanto stavano risalendo verso la superficie dell'altro emisfero. «Tieniti forte» gli disse Virgilio, ansimando per la stanchezza «perche da questo luogo orribile si puö uscire solo attraverso scale come questa.» < Infine sbucö da quella strettoia attraverso un'apertura nella roccia: fece sedere Dante sul bordo e poi, con cautela, lo raggiunse. Dante alzö lo sguardo, aspettan-dosi di vedere Lucifero a testa in su come lo aveva lasciato, e invece ne vide solo le gambe (che adesso sporgevano dal fondo di quella specie di caverna nella quäle Dante si trovava). «Alzati in piedi,» lo sollecitö Virgilio «la via e lunga e impervia, e sono giä le set-te del mattino passate (nell'emisfero meridionale il giorno sorge quando in quello setten-trionale cala la notte).» II luogo dove si trovavano non era certo la sala di un palazzo, ma una caverna naturale poco illuminata e dal fondo accidentato. Levatosi in piedi, Dante chiese a Virgilio di sciogliergli una serie di dubbi: dov'e-ra il lago ghiacciato? Perche Lucifero era capovolto? In che modo, in cosi poco tem-po, il sole era passato dalla sera alla mattina? E Virgilio gli spiegö: «Tu immagini di esser ancora al di lä del centro della Terra, dove mi afferrai ai peli della bestia ripugnante che buca il mondo al suo centro, ma Ii sei stato per il tempo durante il quäle io sono disceso; quando mi capovolsi, an-che tu hai superato il punto verso cui gravitano tutte le cose che hanno peso (il centro della Terra e anche il centro della gravitä universale). Adesso ti trovi nell'emisfero Celeste opposto a quello che ricopre le terre emerse e sotto il cui punto mediano e situata Gerusalemme, la cittä dove Cristo fu ucciso. Appoggi i piedi sul piccolo cer-chio al quäle, dall'altra parte, corrisponde la Giudecca: in questo emisfero e mattina quando nell'altro e sera. Lucifero non ha cambiato posizione: precipitö dal Cielo su questa parte della Terra, e questa, che prima emergeva proprio qua dove ora sia-mo, per paura di lui si ritrasse, facendosi schermo del mare, ed emerse nell'emisfero nostro; e forse, fu proprio per fuggire da lui che lasciö qui uno spazio vuoto (la caverna) emergendo anche in questo emisfero (dove formö la montagna del Purgatorio)». Ai margini della caverna, lontano da Lucifero, c'era un luogo precluso alla vista, ma di cui si indovinava la posizione grazie al mormorio di un ruscelletto che vi scendeva attraverso un cunicolo che la sua corrente, procedendo a spirale e quindi con leggera pendenza, aveva scavato nella roccia. Virgilio e Dante, per salire nel mondo della luce, entrarono in quel cunicolo sotterraneo e senza mai riposarsi lo risalirono, uno dietro l'altro, fino a quando Dante, attraverso un foro tondo, non scorse alcune stelle. E da Ii uscirono a rivedere la volta stellata. < >