DANTE rivista internazionale di studi su dante alighieri Direttore Dante Della Terza Condirettore Rino Caputo Comitato scientiico Dante Della Terza, Nino Borsellino, Rino Caputo, Zygmunt Baranski, Teodolinda Barolini, Domenico Cofano, Franco Ferrucci†, Franco Fido, Bodo Guthmüller, Richard Lansing, Nicola Longo, Karlheinz Stierle, John Scott, Jean-Charles Vegliante Responsabile della redazione Florinda Nardi Segreteria di redazione Paola Benigni * «Dante» is an International Peer-Reviewed Journal. The eContent is Archived with Clocks and Portico. DANTE rivista internazionale di studi su dante alighieri vii · 2010 pisa · roma fabrizio serra editore mmxi Amministrazione e abbonamenti Fabrizio Serra editore® Casella postale n. 1, succursale n. 8, I 56123 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, fse@libraweb.net I prezzi uiciali di abbonamento cartaceo e/o Online sono consultabili presso il sito Internet della casa editrice www.libraweb.net Print and/or Online òcial subscription rates are available at Publisher’s website www.libraweb.net I pagamenti possono essere efettuati tramite versamento su c.c.p. n. 17154550 o tramite carta di credito (American Express, Visa, Eurocard, Mastercard) * Autorizzazione del Tribunale di Pisa n. 20 del 15-ix-2004 Direttore responsabile: Fabrizio Serra Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo efettuati, compresi la copia fotostatica, il microilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore® , Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2011 by Fabrizio Serra editore® , Pisa · Roma. www.libraweb.net Stampato in Italia · Printed in Italy issn 1724-9058 issn elettronico 1824-9272 SOMMARIO studi Lino Pertile, L’Inferno, il Lager, la poesia 11 Ignazio Castiglia, La lupa e l’orsa. L’invettiva contro il clerus carnalis nel canto xix dell’Inferno 35 Giuseppe Ciavorella, Purgatorio vii: Virgilio e Sordello, la valletta iorita, i principi negligenti 57 traduzione e translazione a cura di Jean-Charles Vegliante Jean-Charles Vegliante, Secondo «tra cotanto senno»: Dante con Omero in un libro di Evanghelia Stead 85 Due sagi su Dante di Johann Jakob Bodmer. Introduzione, traduzione e commento, a cura di Tomas Sommadossi 93 dante contemporaneo a cura di Daniele Maria Pegorari Daniele Maria Pegorari, «Per dire» la storia: Dante nella prosa contemporanea 115 Gibson Monteiro da Rocha, Andréia Guerini, Dante e la letteratura brasiliana 149 note e riflessioni Dante Della Terza, Esperimenti danteschi. A proposito di una elaborata lettura della prima Cantica della Commedia 167 Annamaria De Palma, Una proposta per una lettura del Purgatorio nella scuola 179 Anna Langiano, Tradizioni esegetiche e problematiche della traduzione nel Convegno Leggere Dante oggi 199 recensioni Donato Pirovano, Dante e il vero amore. Tre letture dantesche (Stefano Lo Verme) 211 La poesia della natura nella Divina Commedia, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Ravenna, 10 novembre 2007 (Irene Baccarini) 214 sommario8 Mario Martelli, Ragione e talento. Studi su Dante e Petrarca (Arianna Previtali) 217 Bibliograia 2008-2010, a cura di Irene Baccarini 221 L’INFERNO, IL LAGER, LA POESIA Lino Pertile In epigrafe a Se questo è un uomo si leggono i seguenti versi: Considerate se questo è un uomo Che lavora nel fango Che non conosce pace Che lotta per un pezzo di pane Che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, Senza capelli e senza nome Senza più forza di ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d’inverno.1 Questi versi ci pongono una domanda tremenda: ino a che grado di soferenza un uomo o una donna rimangono esseri umani? C’è un punto oltre il quale il dolore, le privazioni, le umiliazioni distruggono l’umanità nell’essere umano senza ancora annientarlo del tutto? Un punto oltre il quale l’anima o, se si preferisce, lo spirito si spegne e quel che sopravvive è pura isiologia? E se così è, a quali risorse possiamo ricorrere per mantenere integra il più a lungo possibile la nostra umanità? È su queste domande che vorrei rilettere facendo ricorso a due inferni diversi, cioè ai sistemi di soferenza descritti da Dante nella Commedia e da Primo Levi in Se questo è un uomo. Prima però vorrei accennare brevemente a un genere di soferenza che, a quanto mi risulta, non viene associata né con Dante né con Levi. 1. In un sermone a celebrazione dei màrtiri cristiani, Rabano Mauro, abate benedettino del sec. ix, ricorda alcuni dei tormenti a cui venivano comunemente sottoposti gli antichi cristiani che non rinunciavano alla fede: * Nato nell’autunno del 2007 come conferenza destinata al Dipartimento di Lingue e Letterature Romanze dell’University of Oregon, questo scritto ne serba ancora alcuni dei tratti. Successivamente l’ho presentato agli studenti dei licei di Ferrara e ad amici e colleghi dell’Università di Firenze. Ringrazio in particolare Maurizio Lollini, Rachel Jacof, Gianni Venturi e mio iglio Giulio che l’hanno discusso con me nell’una o l’altra di varie versioni precedenti. 1 Primo Levi, Opere, a cura di Marco Belpoliti, introd. di Daniele Del Giudice, 2 voll., Torino, Einaudi, 1997, i, p. 3. lino pertile12 Alii vero virgis et lagellis diutissime sunt verberati, alii fustibus et plumbatis caesi, alii membratim laniati, alii gladio occisi, alii excoriati, pice et plumbo liquato perfusi, alii ardore prunarum cruciati, alii lammis exusti, alii in mare mersi, alii bestiis deputati, alii carcerum sunt horrore et fame necati. Quot enim poenarum et mortium genera hostis excogitare poterat, tot martyribus sine ulla miseratione inligebat; sed ipsi licet in aperto horrida paterentur, in occulto tamen inefabiliter coronabantur. [Alcuni vengono percossi lunghissimamente con fruste e lagelli, altri ammazzati con bastoni e lagelli muniti di pallottole di piombo; alcuni dilaniati a membro a membro, altri uccisi a il di spada; alcuni scorticati e cosparsi di pece e piombo liquefatto, altri fatti morire su carboni ardenti; alcuni bruciati nelle iamme, altri sommersi nel mare; alcuni dati in pasto a bestie feroci, altri ammazzati nell’orrore e nella fame delle carceri. Quanti generi di pene e di morti il nemico poteva escogitare, tanti erano quelli che inliggeva ai màrtiri senza alcuna misericordia; ma essi, benché alla vista sofrissero pene orrende, in segreto acquistavano inefabili corone.]1 Si dirà che questi sono discorsi tipici dei dottori della Chiesa medievale. Facciamo allora un salto in avanti di cinque secoli. Una dozzina d’anni dopo la morte di Dante, nel 1333, il mistico Simone Fidati da Cascia c’invita, usando per coincidenza lo stesso verbo di Levi, a considerare i mille modi in cui i màrtiri cristiani imitarono Cristo: Or considera li màrtiri i quali si dispuosoro ad ogni pena e tormenti molto lietamente e di nulla generazione di morte ispaventarono per potersi assimigliare a Cristo in pene e in tormenti; non reputando suicienti tutte le loro passioni per la eterna gloria. De’ quali alcuni furono morti di ferro, altri arsi in fuoco e in iamma; altri battuti con duri nerbi, altri perforati con bastoni, altri cruciissi, altri in acqua summersi, altri vivi scorticati, altri mancipati in crudeli ferri e catene, altri coricati nel letto dove era molto vetro rotto, altri strascinati da bestie, altri strascinati sopra molti sassi, altri lessati in olio, altri in pece e in solfo; altri messi in piombo bogliente, altri saettati, altri furono messi le stecche tra la carne e l’unghia, altri tagliato loro il capo, altri divelti loro i capelli e la barba; altri divelte loro le carni con uncini di ferro, altri vestiti di panziere di fuoco; altri battuti con palle di piombo, altri in martirii dilicati, cioè posti con femmine da sollicitarli a carnalità; altri coricati in piastre di ferro ardente, altri pettinati con pettini di ferro, altri morti abbavagliati, altri messi in acque ghiacce; altri missoro loro fuscellini per la natura, altri missoro loro bastoni noderosi per lo sesso, altri trassero loro le lingue; altri loro gli occhi; altri lapidati, altri alitti in freddo, altri angosciati in fame, altri mozze le mani, altri i piedi, altri troncate le loro membra, altri stecconati, altri attanagliati, altri isventrati, e le loro corpora fatte mangiare alle bestie; altri appiccati per gli capegli, altri appiccati per le mani, altri per li piedi, altri segati, altri schedionati a modo di bestie e posti ad arrostire, altri 1 Rabano Mauro, Homilia 36, pl 110, 68d. Qui e dove non ne sia esplicitamente indicata la fonte o l’autore, la traduzione è mia e mio il corsivo. l’inferno, il lager, la poesia 13 dati a divorare a bestie: a leoni ad orsi a leopardi; altri eniati a modo d’otre, altri messi infra serpenti, altri piantati; altri ripiena la bocca loro di piombo strutto, altri tagliati minuto con coltello e poscia insalati, altri ferrati a modo di cavagli, altri rotto l’ossa con bastoni, altri posti a cavare metallo e pietre e rena, ed altri diversi martirii, i quali iscrivere sarebbe malagevole.1 La creatività fantastica del mistico è indubbiamente superiore alle risorse tecniche dei carneici pagani incaricati del martirio dei cristiani. Ciò che la stimola è il senso esaltante che più dolorose sono le soferenze e più grande è il merito di chi le subisce. Per questo i màrtiri, come dichiara Simone, afrontano «pena e tormenti molto lietamente».2 Il martirio per loro non è la ine di tutto, ma la via più diretta per assicurarsi la gloria eterna imitando Cristo, perciò lo ricercano e desiderano. Scrive San Bernardo di Chiaravalle: Stat martyr tripudians et triumphans, toto licet lacero corpore; et rimante latera ferro, non modo fortiter, sed et alacriter sacrum e carne sua circumspicit ebullire cruorem. [Ecco il martire tripudiante e trionfante, sebbene abbia il corpo straziato; mentre il ferro gli penetra i ianchi, non solo con fortezza ma con entusiasmo vede uscir fuori bollente dalla sua carne il sangue che ha consacrato a Dio.]3 Come quella del iglio di Dio sulla croce, la passio o soferenza del martire è passione attiva, il dolore è salviico,4 e il martire conquista nell’estrema abiezione la vittoria. È il più sublime paradosso della religione cristiana. Com’è ben noto, nell’originale greco da cui deriva, il termine «martire» signiica ‘testimone’, e «màrtiri» furono detti in ambito cristiano coloro che arrivarono al punto di sacriicare la vita pur di testimoniare la loro fede.5 Famosissimo il caso dei sette fratelli Maccabei, precursori giudei dei màrtiri cristiani, che verso il 168 a.C., pur di non mangiare carne di porco, si fanno ammazzare tra le torture più atroci dagli sgherri del re Antioco Epifane di Siria (il secondo libro dei Maccabei racconta di lingue mozzate, 1 Simone Fidati da Cascia, Ordine della Vita Cristiana, in Mistici del Duecento e del Trecento, a cura di Arrigo Levasti, Milano-Roma, Rizzoli, 1935, pp. 617-18. 2 Di qui deriva secondo me il concetto della lieta soferenza del Purgatorio: vedi Purg. xxiii, 74: «quella voglia agli alberi ci mena / che menò Cristo lieto a dire ‘Elì,’/ quando ne liberò con la sua vena». 3 Sermones in cantica, lxi 8: pl 183, col. 1074. 4 Erich Auerbach, Gloria Passionis, in Idem, Literary Language and its Public in Late Latin Antiquity and in the Middle Ages, with a new foreword by J. M. Ziolkowski, Princeton, Princeton University Press, 1993, pp. 67-81. Vedi anche la lettera apostolica di Giovanni Paolo II Salviici doloris, 11 febbraio 1984. 5 Signiicato difuso anche nel Medioevo: vedi Uguccione da Pisa, Derivationes, edizione critica princeps a cura di Enzo Cecchini e di Guido Arbizzoni [et alii], Firenze, sismelEdizioni del Galluzzo, 2004, 2 voll., ii, m32 (p. 733): «Martir [...] latine dicitur testis, unde et testimonia grece martiria dicuntur: ideo testis dicitur quia propter testimonium Christi passiones sustinuit et usque ad mortem pro veritate certavit». lino pertile14 teste scotennate, padelle e caldaie arroventate e fumanti, piedi e mani mutilati), mentre la madre li esorta ad accettare con gioia i tormenti, anzi a considerarli i loro trioni. Non contenti di farsi macellare come maiali, i sette ragazzi scherniscono e, uno per uno, sidano il re Antioco perché le loro torture vengano rese più atroci e dolorose. In un rifacimento del racconto biblico Sant’Ambrogio descrive in questi termini la madre che, prima di farsi ammazzare, contempla il mucchio dei corpi martoriati dei igli: Cadebant ilii tormentis exulcerati, mortui super mortuos aduoluebantur, corpora super corpora uolutabantur, capita super capita exsecabantur, refertus locus erat cadaueribus iliorum: non leuit mater, non lamentata est, non oculos cuiusquam pressit aut ora morientis, non lauit uulnera sciens gloriosiores esse, si euiscerati et concreti pariter puluere et sanguine uiderentur, quales solent de bello redire uictores, quales solent tropaea ex hostibus reportare. [I igli cadevano, piagati dalle torture, i morti cadevano sui morti, i corpi rotolavano sopra i corpi, le teste venivano tagliate sopra le teste, il luogo era pieno dei cadaveri dei igli. La madre non pianse, non si lamentò, non chiuse gli occhi o la bocca di alcuno di loro in punto di morte, non lavò le loro ferite, sapendo che sarebbero stati più gloriosi se apparivano sventrati e rappresi, al tempo stesso, di polvere e di sangue, come sono soliti tornare dalla guerra i vincitori, come sono soliti riportare trofei dai nemici.]1 Simili macabre scene divengono comuni nel martirologio cristiano.2 La sete del martirio spinge giovani e vecchi, uomini e donne, fanciulli e fanciulle a sidare i carneici, a provocarli, a farsi befe dei loro strumenti di tortura: le corde, le verghe, i coltelli, le scuri, gli uncini, gli unghioni, le palle di piombo, le graticole, il ferro, il fuoco. Le Corone di Prudenzio – nell’originale latino Peristephanon liber – è una collezione di inni, non privi di una loro raccapricciante, truculenta bellezza, che celebrano l’eroismo dei màrtiri cristiani: Eulalia che enumera le sue piaghe mentre due carneici le dilaniano il tenero petto e un uncino di ferro le squarcia i ianchi virginei ino alle ossa; Vincenzo a cui si fanno scricchiolare le giunture spezzate membro a membro, poi con uncini gli si mettono a nudo le costole in quando le nude viscere non palpitano dagli squarci delle ferite; Romano, a cui, tanto per incominciare, si gonia la nuca lagellandola con corde di piombo, poi gli si stacca a brandelli barba e pelle dal volto con unghioni, lo si scotenna e gli si taglia la lingua con uno scalpello (il santo, 1 Sant’Ambrogio, De Iacob et uita beata, rec. Carolus Shenkl, trad. Roberto Palla, Milano, Biblioteca Ambrosiana – Roma, Città Nuova, 1982 (Opera Omnia di Sant’Ambrogio, 3), ii 12, 56, pp. 330-331. Il rifacimento di Sant’Ambrogio dipende in larga parte dall’apocrifo quarto libro dei Maccabei. 2 Vd. Judith Perkins, The Sufering Self. Pain and Narrative Representation in the Early Christian Era, London & New York, Routledge, 1995. l’inferno, il lager, la poesia 15 «immobile, bocca aperta, rimira lo splendore del suo petto insanguinato e si rallegra di tutto quel rosso, quasi si trattasse d’un mantello regale»); inine, la vergine Agnese, che a un efebo languido, tenero e profumato preferisce un soldato in armi, folle spietato, violento: «exulto talis quod potius venit vesanus, atrox, turbidus armiger, quam si veniret languidus ac tener mollisque ephebus tinctus aromate, qui me pudoris funere perderet. hic, hic amator iam, fateor, placet: ibo inruentis gressibus obviam, nec demorabor vota calentia: ferrum in papillas omne recepero pectusque ad imum vim gladii traham. sic nupta Christo transiliam poli omnes tenebras aethere celsior.» [«Quale felicità vedendo venire a me un soldato in armi, folle, spietato, violento, piuttosto che un efebo languido, tenero, molle, intriso di profumi, che violando la mia castità, mi volesse perduta. Questo – sì lo confesso – è l’amante che amo, correrò incontro ai suoi impetuosi passi quando si avvicinerà, né tratterrò l’ardente desiderio, riceverò tutt’intero nelle mammelle il ferro e lascerò che la violenta spada s’immerga ino al cuore. Così sposa di Cristo varcherò tutte le tenebre del mondo, e salirò più in alto nell’etere».]1 Il martirio si trasforma in rito sacro, un sacriicio umano, talvolta come qui a forti tinte erotiche, celebrato con uguale ardore da vittima e carneice-sacerdote. Sarà poi proprio questo agone, con la qualità delle torture in esso soferte, a deinire per sempre il carattere del santo màrtire molto più di tutta la sua vita precedente. Per questo i màrtiri vengono classiicati in una categoria speciale di santi, e l’epiteto ‘martire’ diventa parte integrale del loro nome. 1 Aurelio Prudenzio Clemente, Le Corone, con testo a fronte, a cura di Luca Canali, Firenze, Le Lettere, 2005, «Passione di Agnese», 70-80 (traduzione leggermente ritoccata). I riferimenti precedenti sono a: «(Inno) in onore della martire Eulalia», 131-135; «Passione di San Vincenzo», 109-115; «Discorso del martire Romano contro i pagani», 116-117, 556-560, 896-910. Il gesto di Agnese che si tira nel petto la spada del carneice e così facendo celebra le sue nozze con Cristo ricorda quello di Santa Chiara da Montefalco che si tira la croce nel cuore: si veda in proposito il mio articolo «Sul dolore nella Commedia», in Letteratura e ilologia tra Svizzera e Italia. Studi in onore di Guglielmo Gorni, 3 voll. a cura di Maria Antonietta Terzoli, Alberto Asor Rosa e Giorgio Inglese, Roma, Storia e Letteratura, 2010, i, pp. 105-120. lino pertile16 2. La stagione vera e propria dei màrtiri cristiani si conclude quando iniscono le persecuzioni e il cristianesimo diviene rapidamente religione egemonica, e più tardi unica, della cultura occidentale. Allo stesso tempo nella cultura cristiana ha luogo un fenomeno inaspettato: le antiche torture dei màrtiri si riconigurano nell’immaginario cristiano e divengono le torture a cui sono sottoposti in terra i criminali, veri o supposti, e nell’inferno i dannati. Molti dei martìri descritti da Prudenzio o sciorinati da Simone da Cascia si ritrovano nell’Inferno di Dante, e Dante in efetti li chiama proprio così: martìri.1 Qui però non hanno più l’uicio di provare la fede dei cristiani, ma di punire coloro che in vita non hanno avuto fede suiciente a vincere il peccato. Màrtiri e dannati condividono dunque le stesse soferenze, solo che per i màrtiri sono temporanee e portano alla beatitudine del paradiso, mentre per i dannati sono pene eterne che non portano da nessuna parte. C’è anche un’altra grande diferenza. Le torture inlitte ai màrtiri cristiani sono gratuite in quanto non hanno nessun rapporto con il carattere o i meriti delle vittime. Esse dipendono interamente dall’arbitrio degli aguzzini di turno; invece nell’Inferno c’è un rapporto molto stretto, un rapporto di necessità, si direbbe, tra delitto e pena. Una volta raggiunta la loro particolare destinazione, le anime dell’Inferno di Dante sono non soltanto private della visione di Dio, ma sottoposte a ininterrotto dolore isico e costante vulnerabilità. Al pari del piacere in Paradiso, il dolore dell’inferno è sempre nuovo, fresco e giovane, non gli è mai permesso di divenire un’abitudine, stanca e debole, e molte anime sono ritratte in uno stato di terrore al pensiero della pena che le aspetta. Gli scialacquatori tentano di sfuggire alle cagne negre e fameliche che li inseguono attraverso il bosco dei suicidi, ma vengono sempre presi e fatti a brani. I violenti contro Dio cercano disperatamente di proteggersi con le mani dalla pioggia di fuoco, ma le iamme continuano a cadere, sempre fresche, sempre nuove, sempre brucianti. I corpi squarciati degli scismatici e seminatori di discordia si ricompongono mentre fanno il giro della nona bolgia, ma ad ogni giro c’è un diavolo che con la spada riapre gli osceni squarci. L’idea dell’inferno e in particolare la versione dantesca di esso è presente nella nostra cultura da così lungo tempo che ci siamo abituati ad essa e la trattiamo con una certa leggerezza. Non sempre ci fermiamo a rilettere su quella che è la ragion d’essere dell’inferno, il suo scopo primario, che è quello di punire i dannati inliggendo loro ogni sorta di soferenze. Distin- 1 Inf. iv, 28; v, 116; ix, 133; x, 2; xii, 61; ecc. Dante usa lo stesso termine anche per il martirio di Cristo, Inf. xxiii, 117, le pene del purgatorio (Purg. iv, 128; xxiii, 86), e il martirio dei cristiani (Par. xviii, 123 e 135), inclusa la morte del proprio avo Cacciaguida (Par. xv, 148). l’inferno, il lager, la poesia 17 guendo la semplice tortura dal supplizio, Michel Foucault ci permette di mettere a fuoco l’enormità terriicante della nozione che Dante ha in mente. Tortura e supplizio, scrive Foucault, sono entrambe praticate sul corpo della vittima, ma sono forme di violenza diverse. La tortura è una pratica che mira a estrarre dalla vittima una confessione; in questa pratica il dolore isico non è il ine, ma il mezzo con il quale si cerca di forzare la vittima a dire o ammettere cose che, secondo i torturatori, essa conosce. Il supplizio è invece una forma pubblica di tortura che, pur inendo sempre con la morte del condannato, non si preigge di ucciderlo, ma di umiliarlo, degradarlo e soprattutto sottoporne il corpo al dolore più atroce possibile prima che muoia. L’arte del carneice consiste nella capacità di inliggere il massimo dolore possibile senza uccidere la vittima perché, una volta morta, la vittima si sottrae alla pena e al dolore, cioè alla giustizia. Un condannato che muoia prematuramente è un condannato che sfugge alla sua sentenza. Per questo il carneice più abile è quello che mantiene più a lungo nel dolore la sua vittima.1 Ora, se trasferiamo questo ragionamento a Dante, vediamo che l’Inferno mette in scena proprio la forma ideale del supplizio descritto da Foucault, in quanto, paradossalmente, essendo già morti, i dannati di Dante non possono mai più, morendo, sottrarsi ai loro carneici. Le punizioni dell’inferno dantesco sono supplizi che non iniscono mai, supplizi in cui la tortura e la degradazione del corpo condannato sono protratti o ripetuti all’ininito. Sono l’incubo peggiore per il peccatore e il sogno supremo del sadico. Il loro scopo è quello di risarcire la giustizia divina ofesa, ma essendo il creatore ininitamente superiore alla creatura, la creatura non riuscirà mai a soddisfarlo e il dolore durerà in eterno. Completamente diversa è la situazione del purgatorio, dove le soferenze, benché feroci quanto quelle infernali, sono liberamente scelte, anzi lietamente ricercate dai penitenti, e hanno quindi un ruolo beneico; il dolore in purgatorio libera l’anima dalle incrostazioni del peccato e apre le porte del paradiso. Come la soferenza degli antichi màrtiri, quella del purgatorio è una soferenza temporanea e ‘attiva’, vittoriosa e lieta; è una testimonianza di fede, per quanto tarda; un mezzo, non un ine. Il «buon dolor ch’a Dio ne rimarita», la chiama Dante (Purg. xxiii, 81), e «Io dico pena e dovria dir sollazzo», esclama appunto Forese Donati nel descrivere la sua condizione di penitente. In inferno invece il dolore non insegna nulla ai dannati né tanto meno li matura o redime; esso li aligge isicamente ma non ne cambia l’anima. 1 Michel Foucault, Surveiller et punir: naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975, pp. 36-72 (in particolare, pp. 43-44 e 37-38); a p. 49 Foucault deinisce il supplizio «théâtre de l’enfer». lino pertile18 Anzi, ci sono peccatori così incalliti che sembrano provare un piacere perverso a provocare l’ira divina, e arrivano al punto da schernire e farsi befe di tutte le soferenze che essa impone o inventa (proprio come i màrtiri con i loro carneici): basti pensare a Farinata che sembra avere «l’inferno a gran dispitto» (Inf. x, 36); o al rabbioso Capaneo che sida Giove a punirlo assicurandolo con protervia che da lui non estrarrà mai «vendetta allegra» (Inf. xiv, 60); o a Vanni Fucci che a Dio squadra «amendue le iche» (Inf. xxv, 2-3). A chi fosse sorpreso all’idea di anime che sentono proprio come fossero munite di corpi, Dante risponde che la morte non provoca una dissociazione dell’unità psicoisica dell’uomo; o meglio, con la morte il corpo viene sí dissociato dall’anima, ma viene simultaneamente sostituito da un corpo aereo che sente e sofre esattamente come il corpo isico che l’anima ha lasciato in terra e con il quale si ricongiungerà il giorno del giudizio universale (Purg. xxv, 70-108). A quel punto, Dante aggiunge, i dolori dell’inferno, come le gioie del paradiso, raggiungeranno l’intensità appropriata per ogni individuo, ma perfetta e deinitiva per tutti. (Inf. vi, 94-99; xiii 103-05; Par. xiv, 43-60). Con la sua geniale immaginazione Dante concepisce l’essere umano come simbiosi, interazione ininterrotta di anima e corpo, un’unità psicoisica che non conosce pause nemmeno dopo la morte. Senza il corpo l’anima non avrebbe emozioni, sentimenti, idee, e perciò non potrebbe nemmeno sofrire. Per questo il corpo, anche se in forma aerea, deve sopravvivere anche nell’intervallo tra morte individuale e resurrezione, perché è esso il luogo d’incontro e comunicazione, frontiera viva tra mondo dei vivi e mondo dei morti.1 Secondo il poema dantesco la giustizia di Dio è dunque sistematica e implacabile. Le pene che essa impone non conoscono né grazia né libertà provvisoria o condizionata. Una volta incominciate non iniscono mai. Vespe e mosconi pungono gli ignavi al punto da farli sanguinare, e fastidiosi vermi si nutrono del sangue che, misto a lacrime, cola ai loro piedi. I golosi si voltolano nella melma e una pioggia sudicia e puzzolente li infradicia. Gli assassini bolliscono nel sangue del Flegetonte; le foglie dei pruni-suicidi vengono dilaniate dalle ripugnanti Arpie; gli scialacquatori vengono lacerati a brano a brano da nere cagne. I ruiani e i seduttori sono presi a frustate, gli adulatori sono immersi nello sterco, i simoniaci coniccati a testa in giù nella roccia, gli indovini camminano all’indietro col capo travolto, i barattieri sono immersi nella pece bollente, gli ipocriti ricoperti da cappe di piombo, i ladri corrono aggrediti e violati da serpenti e alcuni sono trasformati in serpi loro stessi, i cattivi consiglieri inviluppati 1 Sulla soferenza isica in inferno vd. Donald Mowbray, Pain and Sufering in Medieval Theology. Academic Debates at the University of Paris in the Thirteenth Century, Woodbridge, Boydell Press, 2009, pp. 131-58. l’inferno, il lager, la poesia 19 nel fuoco bruciano ma non si consumano, gli scismatici vengono mutilati e macellati, tra i falsari gli alchimisti sono sigurati da una scabbia ripugnante, i falsatori di persona sono alitti da idrofobia, l’idropisia gonia grottescamente i corpi dei contrafattori di moneta e una febbre acuta brucia i falsiicatori della parola. Inine una fame insaziabile costringe il conte Ugolino a rodere per sempre il teschio dell’arcivescovo Ruggieri. È una galleria di orrori indicibili, ma che non hanno nulla di fantastico per i lettori di Dante, adusati come sono a veder corpi devastati da fame e malattie, mutilati dal ferro nemico, o dilaniati, squartati, bruciati dai carneici sulla pubblica piazza. Tuttavia, gli orrori della vita hanno una consolazione certa: la morte. Non così gli orrori dell’inferno. Uno dei punti più spaventevoli dell’intero Inferno è quello in cui Dante introduce lo scialacquatore Lano da Siena che fugge disperato e ignudo gridando: «Or accorri, accorri, morte!» (xiii, 118). È già morto, ben s’intende, ma il suo orrore è tale che implora la morte totale. Vuole cessare di esistere, e invece continua a scontrarsi con quella che è la più grande consolazione e allo stesso tempo il dono più terriicante che il cristianesimo abbia fatto ai suoi credenti: l’assoluta indistruttibilità dell’esistenza umana.1 La straordinaria novità di Dante è che di questo tema religioso e didattico egli fa poesia, e la poesia trasforma il suo soggetto. Immutato rimane il giudizio sulla gravità dei peccati, immutate o addirittura perfezionate le orrende punizioni che sappiamo, ma rispetto alla tradizionale rappresentazione della soferenza si veriica un cambiamento radicale. Le torture dei peccatori non sono più l’oggetto esclusivo né principale dell’attenzione del poeta; sono invece i peccatori stessi che con le loro personalità complesse, tormentate, tragiche prendono forma sotto i suoi occhi o, per dir meglio, sotto la sua penna. Dalla dottrina della Chiesa Dante accetta la nozione che, per esempio, gli eretici e gli omosessuali sono invisi a Dio, e punisce gli uni imprigionandoli in tombe infuocate e gli altri facendoli camminare eternamente sopra un sabbione scottante e sotto una pioggia di fuoco. Ma punendoli, il poeta non riduce questi peccatori ad anonimi oggetti, non li de-umanizza, ma ne conserva, anzi ne scopre e rivela l’individualità unica e viva. In ultima analisi questi peccatori sono individui con i quali Dante come personaggio e noi come lettori/spettatori abbiamo un rapporto di simpatia o antipatia, compassione o odio, rispetto o disprezzo, insomma, un rapporto che non è dissimile a quello che abbiamo con i vivi. La scritta che leggono nel passare attraverso l’ingresso dell’inferno ricorda ai peccatori che la loro condanna è eterna e che non si dà grazia o 1 Cfr. Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 1956, p. 218 («indistruttibilità cristiana dell’uomo totale») e p. 220 («l’indistruttibilità dell’uomo storico e individuale»). lino pertile20 riscatto o redenzione in inferno: «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate». E tuttavia la perdita della speranza non annienta o riduce le loro passioni, né i dolori strazianti a cui sono sottoposti distruggono la loro umanità. Anzi, dopo la morte del corpo le passioni che l’hanno agitato in vita si fanno più chiare e più forti. Forse senza rendersene conto, la poesia di Dante scopre una verità che solo nel ventesimo secolo diverrà di pubblico dominio: è più uomo l’uomo che sofre, e in quanto sofrono, i peccatori di Dante sono più vivi e più umani che mai.1 Questo è appunto quel che s’intende quando si parla di ‘realismo’ dantesco. 3. Passo ora a Se questo è un uomo di Primo Levi. I campi di sterminio nazisti sono stati spesso paragonati all’inferno di Dante.2 Anzi, si è detto addirittura che l’inferno dantesco prepara proprio quei campi. In un saggio famoso apparso quasi quarant’anni fa, George Steiner scrive: Il campo di concentramento incarna, spesso in nei minimi particolari, le immagini e le cronache dell’Inferno nell’arte e nel pensiero europeo dal xii al xviii secolo. Sono queste rappresentazioni che dettero ai folli orrori di Belsen una certa “logica prevista”. Le realtà materiali dell’inumano sono descritte nei loro ininiti dettagli nell’iconograia occidentale, dai mosaici di Torcello ai pannelli di Bosch [...]. È appunto nelle fantasie infernali che letteralmente ossessionano la sensibilità occidentale che si trova la tecnologia del dolore senza senso, della bestialità senza ine, del terrore gratuito. Per seicento anni l’immaginazione si è fermata a contemplare scene di dannati scuoiati, messi alla ruota, irrisi, in un luogo fatto di fruste e segugi infernali, forni e aria fetida. La letteratura dei campi è estesa. Ma nessuna opera uguaglia la completezza delle osservazioni di Dante. [...] I campi di concentramento e di sterminio del xx secolo, ovunque esistano, sotto qualsiasi regime, sono l’Inferno reso immanente. Sono un trapianto dell’Inferno dal sottosuolo alla supericie della terra. Sono la realizzazione, la messa in opera, di una lunga e precisa immaginazione. In quanto l’ha immaginato in maniera più esauriente di ogni altro testo, in quanto ha dimostrato la centralità dell’Inferno nell’ordine occidentale, la Commedia rimane letteralmente il nostro libro-guida alle iamme, ai campi di ghiaccio, agli uncini da macellaio.3 I punti essenziali del discorso di Steiner sono due. Primo, c’è un’analogia formale tra l’inferno di Dante e il lager, o campo di sterminio, in termini di «enormità, sida all’immaginazione, grado di orrore, questioni terrii- 1 «Uccidete un uomo; egli sarà più uomo. E così è più uomo un malato, un afamato; è più genere umano il genere umano dei morti di fame», Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia (1941), Torino, Einaudi, 1966, pp. 106-107. 2 Si veda con ricca bibliograia pregressa François Rastier, Ulysse à Auschwitz. Primo Levi, le survivant, Paris, Cerf, 2005, in particolare pp. 101-104. 3 George Steiner, In Bluebeard’s Castle. Some Notes Towards the Redeinition of Culture, New Haven ct, Yale University Press, 1971, pp. 54-55. l’inferno, il lager, la poesia 21 canti che essi sollevano»;1 secondo, il lager è la realizzazione concreta di una fantasia, radicata e difusissima nel mondo occidentale, di cui Dante ci ha oferto il migliore esempio. Per quanto riguarda il primo punto, le diferenze sembrano a me molto più illuminanti delle analogie, poiché queste riguardano i dettagli dei due soggetti, mentre quelle ne toccano l’essenza. Per incominciare, l’inferno, compreso l’inferno dantesco, esiste come parte di un ordine che punisce i cattivi e premia i buoni; esso si fonda su un’idea di giustizia largamente condivisa nella cultura occidentale. Certo le punizioni a cui tale giustizia sottopone i suoi trasgressori sono atroci, ad alcuni potranno sembrare anche eccessive, ma non sono né arbitrarie né insensate o incomprensibili. Al contrario, il lager è una macchina inventata esclusivamente per annientare esseri umani, buoni o cattivi che siano; il suo unico scopo, per dirla con Hannah Arendt, è la «fabbricazione di cadaveri».2 Il lager non esiste per insegnare qualcosa a qualcuno; non ha nessun ine esterno né ha rapporti con il mondo. I nuovi arrivati lo trovano incomprensibile, indecifrabile. È un mondo in cui giusto e ingiusto, bene e male, amici e nemici, e persino «noi» e «loro» non sono più demarcati.3 Al suo centro è l’inumanità dell’uomo sull’uomo. Giorgio Agamben ha sostenuto con argomenti persuasivi che i campi di sterminio nacquero sotto il regime nazista quando lo stato di emergenza divenne normale, cioè quando divenne legale per lo stato nazista commettere qualsiasi illegalità.4 I campi erano spazi del territorio nazionale legalmente illegali, cioè posti legalmente al di fuori della legalità, al di fuori del codice penale e carcerario. Come negli incubi peggiori, all’interno di questi luoghi qualsiasi cosa era non soltanto legittima e permessa, ma possibile. Questi erano luoghi in cui tutto poteva avvenire. Perciò il terrore pervade la vita del campo. Non il terrore ordinario che i regimi autoritari impiegano per intimidire e controllare la popolazione, ma quello che la Arendt chiama il «terrore totale»,5 il terrore che si usa «quando non c’è più nessuna opposizione da distruggere o intimidire», il terrore ine a se stesso, coincidente, come 1 Così il poeta americano Robert Pinsky, traduttore dell’Inferno, in un’intervista citata in «The Jewish Exponent», 19 giugno 1997, p. ix. Pinsky continua: «Ma non si deve mai dimenticare il difetto di questa analogia. Le anime sono assegnate all’Inferno secondo un sistema di giustizia; nei campi le anime sono assegnate secondo un sistema di ingiustizia». 2 Hannah Arendt, Essays in Understanding, 1930-1954, a cura di Jerome Kohn, New York: Harcourt, Brace & Co., 1994, p. 13; vedi in proposito Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 65. 3 Primo Levi, I sommersi e i salvati, in Idem, Opere, ii, cit., pp. 1018-1019. 4 Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la vita nuda, Torino, Einaudi, 1995, pp. 185-193. 5 Adriana Cavarero, Orrorismo ovvero della violenza sull’inerme, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 57-59. lino pertile22 scrive Adriana Cavarero, con «la forma estrema dell’orrore» che inchioda e agghiaccia ogni azione umana.1 Quando i deportati arrivano a Auschwitz alla ine di viaggi lunghi e estenuanti, in condizioni inutilmente crudeli e umilianti, essi si sentono «alla soglia del buio e del terrore di uno spazio non terrestre».2 Approdano in una terra dove anche i diritti umani più elementari hanno cessato di esistere. Essi non hanno nessuna colpa e non c’è nessuna ragione logica perché sono initi qui. Sono initi qui perché sono vivi, mentre, secondo la volontà nazista, dovrebbero essere morti e cancellati dalla faccia della terra. Se li hanno trasportati in qui è appunto perché qui vengano eliminati; tutte le ininite, meticolose regole del campo hanno il solo scopo di eseguire meglio, in maniera più sistematica e ordinata, quell’esecuzione di massa. In breve, una volta passati attraverso i riti degradanti dell’arrivo, la stragrande maggioranza dei deportati viene inviata alle camere a gas. Alcuni, i più forti o utili, vengono temporaneamente risparmiati e forzati a lavorare in condizioni subumane. Di questa piccola minoranza, pochi – i più forti e fortunati, i più crudeli e disonesti – sopravvivono più a lungo degli altri – gli sfortunati, i passivi, i miti e obbedienti – i quali, attraverso il lavoro, le percosse, il gelo, la fame, la sete, le malattie, le condizioni bestiali dei dormitori vengono presto ridotti allo stato dei cosiddetti musulmani e spediti alle camere a gas. Il musulmano è il non-uomo, l’essere umano che non sente più nulla, nemmeno il dolore.3 Esso rappresenta l’espressione estrema della vita del campo e il risultato ultimo di quello che Levi chiama un processo sistematico di «demolizione». Demolire un essere umano signiica privarlo della sua individualità e unicità; signiica ridurlo a semplice esistenza biologica, allo stato di «morto che vive» o «cadavere ambulante»: la Arendt li chiama «sinistre marionette».4 Questo risultato si raggiunge in breve sottoponendo l’internato non solo a continue, inimmaginabili torture, ma privandolo di tutti i punti di riferimento che costituiscono la sua identità sociale, materiale e psicologica: non solo famiglia, amicizie, casa, abitudini, ma anche indumenti, calzature e ogni altra proprietà, capelli inclusi e incluso il nome che viene sostituito da un numero. Il lager riduce il prigioniero 1 Ivi, pp. 14-16 e 58. 2 Primo Levi, I sommersi e i salvati, in Idem, Opere, ii, cit., p. 1029. 3 «Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero»: così descrive Levi i musulmani in Se questo è un uomo, nel capitolo «I sommersi e i salvati» (Opere, cit., i, p. 86), titolo poi dato nel 1986 al volume omonimo, dove Levi ritorna sull’argomento dei musulmani nel cap. iii, pp. 1055- 57. 4 Cit. in Adriana Cavarero, op. cit., p. 61. l’inferno, il lager, la poesia 23 a un guscio vuoto, un essere che ha dimenticato ogni dignità e conosce soltanto bisogno. Un essere ridotto a questo grado di abbrutimento si sottometterà a qualsiasi pena e indignità, perché con la capacità di sperare e sentire altro che fame, sete e dolore, avrà perduto interamente il senso della propria soggettività e con essa ogni paura: quando non si ha più nulla da perdere, nemmeno la propria vita, non si ha nemmeno più paura.1 Allora, proprio perché non può più sofrire e perciò non sembra più un essere umano, il prigioniero verrà liquidato – fucilato, picchiato a morte, impiccato o asissiato e cremato – senza il minimo scrupolo, come si schiaccia una zanzara. Come scrive Hannah Arendt, l’orrore ontologico essenziale dei campi di sterminio non sono tanto le uccisioni di massa, quanto la sistematica privazione dell’unicità individuale.2 4. Ebbene, ritorniamo ora alla colonia penale tardomedievale ritratta da Dante Alighieri e confrontiamola pure con il campo di sterminio descritto da Primo Levi. È essenziale fare fra questi due termini di confronto una distinzione preliminare, per quanto ovvia. La ‘realtà’ descritta da Dante è una costruzione ittizia, visione o incubo, in cui il poeta immagina che si realizzi il giudizio divino: noi lettori siamo chiamati a prender nota di quel giudizio e imparare da esso. La funzione del rapporto di Dante sull’aldilà è quella di documentare la giustizia di Dio non come sospensione della giustizia terrena, ma come ideale adempimento di essa. È vero che, come dicevo poco fa, l’inferno dantesco punisce i dannati con ferocia, tormentandoli senza sosta, ma un simile trattamento è conforme agli standard della giustizia contemporanea. L’inferno di Dante esprime una cultura e una società in cui si riteneva del tutto normale punire isicamente i peccatori, torturare e bruciare eretici e streghe, lasciar morire d’inedia i traditori, e via dicendo. A ragione noi consideriamo ripugnanti questi atti, ma nel loro contesto storico essi non rappresentano una perversione della giustizia. La realtà testimoniata da Levi è invece una realtà storica, da lui vissuta in prima persona, che ci dice: «Questo è ciò che l’uomo è capace di fare all’uomo in questa vita, in questo mondo»; a noi essa chiede di essere giu- dici.3 Allo stesso tempo essa ci dice qualcosa di molto importante per la nostra comprensione del realismo dantesco. Non può essere un caso che Levi chiami «sommersi»4 i non-uomini, i miti, inermi, vulnerabilissimi musulmani, che la testimonianza se la portarono con sé, e «salvati» chiami invece i sopravvissuti, cioè i forti o astuti o fortunati abbastanza da riuscire 1 Giorgio Agamben, Homo sacer, cit., pp. 206-07; anche Idem, Quel che resta, capp. ii e iv. 2 Cit. in Adriana Cavarero, op. cit., p. 60. 3 In «Appendice» (1976) a Primo Levi, Se questo è un uomo, in Idem, Opere, i, cit., p. 175. 4 Vedi Inf. xx, 3: «la prima canzon, ch’è d’i sommersi». lino pertile24 a emergere vivi dal lager e, in certi casi, testimoniare.1 I due termini sono, come ben si sa, danteschi. Con la sostanziale diferenza che nella Commedia «sommersi» sono i peccatori condannati all’Inferno, e «salvati» gli spiriti che salgono in Purgatorio o addirittura immediatamente in Paradiso. La nomenclatura leviana capovolge dunque quella dantesca, mettendo in evidenza con amara ironia come la ‘giustizia’ nazista condanni i buoni, e premi i cattivi. Il lager è una parodia tragica dell’inferno, nel senso che le strutture infernali il lager le utilizza per punire meglio quelli che si sottomettono sùbito, senza tentare nemmeno di resistere alla sua inutile violenza. «Nella storia e nella vita», commenta Levi, «pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona “a chi ha, sarà dato; a chi non ha, a quello sarà tolto”».2 Tuttavia, il punto fondamentale da tener presente per il nostro confronto tra inferno e lager è un altro. Nell’inferno dantesco i dannati, lungi dall’essere privati di individualità, realizzano paradossalmente la quintessenza del loro essere; il loro carattere non viene minimamente alterato dal trattamento disumano a cui sono sottoposti. Anzi, lungi dal cancellarne i nomi e ridurli a numeri, l’inferno ne mette in grande evidenza l’identità storica e psicologica, e il modo d’essere così raggiunto, più che il dolore e l’umiliazione loro imposti, diviene per ognuno di essi la sua punizione, il suo orrore ontologico. Se questo è un uomo ci ofre invece una testimonianza molto diversa sugli efetti del dolore. Nel lager i «sommersi» vengono annientati come individui ben prima di venire cancellati come esistenze – ben prima, cioè, di venire ridotti, letteralmente, a un pugno di cenere.3 Si potrebbe dire che proprio in questa estinzione prematura dell’individuo consista, giusta l’analisi di Foucault sopra ricordata, l’‘errore’ del carneice nazista. Il grado di dolore e umiliazione che egli inligge è tale che a un certo punto esso spegne completamente la capacità di sentire della vittima, e la vittima, non più sofrendo, gli sfugge. In realtà, agli occhi del carneice, quel che gli sfugge non è più un uomo, ma un’immonda massa vivente che va spazzata via al più presto. Nel percorso del condannato il lager crea uno stadio non contemplato nel paradigma di Foucault: lo stadio del «non-uomo», in cui appunto l’uomo esiste ancora isicamente ma non è più essere umano, e si presta perciò all’atto inale di eliminazione ordinata e metodica a cui è destinato senza nemmeno più creare sensi di colpa nei suoi aguzzini. Questo stadio, ignoto ai carneici di un tempo, è 1 Lo nota Valeria M. M. Traversi, Per dire l’orrore: Primo Levi e Dante, «Dante. Rivista Internazionale di Studi su Dante Alighieri», v, 2008, pp. 114-115. 2 Primo Levi, Se questo è un uomo, in Idem, Opere, i, cit., p. 84. 3 Ivi, p. 60: «Nelle immagini tradizionali dell’inferno, i dannati mantengono la loro identità individuale. Nell’inferno dei lager, invece, è proprio questa identità a essere annientata in modo sistematico». l’inferno, il lager, la poesia 25 del tutto funzionale al progetto genocida nazista; è un punto di passaggio obbligato per realizzare con eicienza ed economia lo sterminio di massa pianiicato. Del resto, la macchina nazista ha una scorta inesauribile di vittime e, una volta desensibilizzato un uomo, il carneice ne trova mille di freschi su cui esercitare la propria arte. Questo Dante non l’aveva capito e non l’aveva previsto. Non aveva capito che il dolore, la violenza, la crudeltà, il male inebetiscono l’uomo al punto da ridurlo a non-uomo. Il confronto con il rapporto sul lager di Levi ci insegna, implicitamente, che il realismo dantesco è, per così dire, ingenuo. Le torture, i maltrattamenti, le privazioni demoliscono l’unità psicoisica che è l’uomo, non la realizzano. Ma il libro di Levi suggerisce anche un’altra cosa. L’inferno di Dante è di una natura integralmente diversa da quella del lager di Levi: come la pentola che bolle sul focolare di Pinocchio senza cuocer nulla di buono da mangiare, è un’opera d’arte, è poesia. E qui passo alla seconda osservazione di Steiner, cioè che il lager è la realizzazione concreta di una fantasia di cui Dante ci ha lasciato il migliore esempio. La memoria del testo dell’Inferno dantesco aiora in vari punti di Se questo è un uomo, ma è ragionevole supporre che tali intertesti nascano al tempo della stesura del racconto, non quando Levi visse gli eventi narrati in esso.1 C’è però una grande eccezione a questa regola, un caso in cui un episodio dell’Inferno diviene protagonista della storia narrata da Levi. Si tratta del noto capitolo «Il canto di Ulisse», un titolo che si può applicare ugualmente al cap. xi di Se questo è un uomo e al canto xxvi dell’Inferno. Immagino che ricorderete quel che avviene nell’xi di Se questo è un uomo. In una mite e chiara mattina del giugno 1944, mentre Primo e Jean, il Pikolo del Kommando, stanno andando a prelevare la marmitta di zuppa dalle cucine del campo, Primo incomincia a recitare e spiegare a Jean ciò che ricorda dell’Ulisse di Dante, cioè come, oltrepassate le colonne d’Ercole in cerca di un mondo «sanza gente», Ulisse e i suoi pochi compagni naufragarono, «come altrui piacque», proprio quando si rallegravano alla vista di un’isola alta e bruna in mezzo all’oceano. Il ricordo dell’Ulisse dantesco tocca Primo profondamente. Esso trasforma la Essenholen – l’umile corvée di andare a ritirare il rancio – in un esaltante viaggio in cui Primo riscopre la sua umanità e per pochi intensi momenti dimentica gli orrori del lager. La situazione non potrebbe essere più paradossale e straordinaria. Alcuni versi dell’Inferno hanno il potere di liberare la mente di Primo da Auschwitz. Perché? Che cosa avviene? 1 Si veda in proposito Giovanni Falaschi, Ulisse e la sida ebraica in «Se questo è un uomo» di Primo Levi, «Italianistica», xxxi, 2002, pp. 123-131: molto penetranti le pagine sull’Ulisse di Levi. Sulla memoria dantesca in Levi si veda da ultimo, con bibliograia pregressa, il sopracitato articolo di Valeria M. M. Traversi, Per dire l’orrore, cit., pp. 109-125; sull’episodio di Ulisse le pp. 116-117. lino pertile26 Come si sa, imprigionato dentro a una iamma che brucia e non consuma, l’Ulisse di Dante sofre dolori atroci a cui il poeta accenna soltanto all’inizio del canto successivo, il xxvii. Chiaramente non è con l’Ulisse che sofre che s’identiica Primo, ma con l’Ulisse che a tutto, compresi moglie, iglio, padre e patria, antepone la libertà di andare oltre ogni limite e barriera. È il verso «ma misi me per l’alto mare aperto» che scatena in Primo l’emozione più intensa: quell’idea di infrangere un vincolo, di «scagliare se stessi al di là di una barriera» – la visione di un mare aperto senza limiti né conini. Qui Primo Levi nota e apprezza per la prima volta dei particolari tecnici del testo dantesco su cui non aveva mai indugiato a scuola. Sono piccoli dettagli di vocabolario (il ricorrere di due forme diverse dello stesso verbo «mettere») e di sintassi (la natura consecutiva, non comparativa, di una proposizione), ma dettagli che ora lo commuovono ed esaltano, perché nel momento in cui li scopre, sente che sta spezzando una catena, infrangendo una barriera, comportandosi come un uomo libero che studi alla scrivania di casa sua a Torino, e non come un internato in attesa di passare per il camino di Auschwitz. Ma perché questi particolari lo colpiscono ora tanto profondamente, se non perché lo riguardano da vicino, se non perché testimoniano della sua dignità di essere umano unico e libero? Quel che avviene è veramente straordinario: alcuni versi di un poema cristiano medievale, sei secoli dopo la loro composizione, innalzano un giovane ebreo italiano al di sopra del potere che lo vorrebbe eliminare in quanto ebreo e distruggere come essere umano. La memoria di Primo è intermittente. Ricorda certi versi ma non il passo intero. Qua e là si aprono nel testo lacune che Primo non riesce a colmare. Un punto ricorda con estrema chiarezza: la terzina in cui Ulisse rivolge ai suoi compagni la parte più esaltante della sua orazion picciola. Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca: Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.1 Che cosa sente Primo, che cos’è lo squillo di tromba che lo desta dal sonno disumano in cui era caduto? È quel verso «Considerate la vostra semenza», che oggi lo colpisce con una forza nuova, una sconvolgente evidenza. «Considerate la vostra semenza» signiica “considerate chi siete, da dove venite, di che cosa siete fatti”; in altre parole, considerate che siete uomini, e come tali non foste fatti per vivere come animali. Cioè, essere 1 Primo Levi, Se questo è un uomo, in Idem, Opere, i, cit., p. 109. l’inferno, il lager, la poesia 27 uomini signiica avere una vita in cui si sceglie il bene e non il male, la virtù e non il vizio, il giusto e non l’ingiusto; e signiica avere una vita intellettuale, cioè una mente attivamente impegnata a ricercare, chiedere, analizzare, esaminare, confrontare, giudicare e così via secondo le regole imposte da ragione e logica. Questo è ciò che Primo oggi sente, mentre gli ritornano sulle labbra le parole di Ulisse ai suoi compagni. Grazie a quelle parole Primo non dimentica chi è e dov’è, ma ritrova in sé l’essere umano che temeva fosse stato demolito.1 Mentre recita quei versi, aferma la sua insopprimibile dignità umana e si ribella contro tutti i suoi aguzzini. Il gesto di chi osa «ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle» è un gesto inebriante e sublime, analogo a quello di Ulisse che all’ignoranza preferisce il sapere, al chiuso Mediterraneo l’alto mare aperto, alla vecchia Itaca la montagna bruna al di là delle colonne d’Ercole. Quando giunge al punto dell’episodio in cui Ulisse, «come altrui piacque», afonda per sempre nel gorgo, Primo tocca il punto più alto della sua commozione: Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque Alla quarta levar la poppa in suso E la prora ire in giù, come altrui piacque... Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del cosí umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui...2 Qui la poesia si fa rivelazione.3 Primo si identiica personalmente con un Ulisse che ha il desiderio, il bisogno e il coraggio di scagliarsi «al di là» di ogni barriera e conine, e perciò viene anacronisticamente schiacciato da un Dio che non conosce. Nel momento in cui le acque dell’oceano sommergono l’eroe greco, Primo intuisce qualcosa che riguarda non soltanto lui ma l’intero popolo ebraico, il popolo dei perseguitati di cui lui e Pikolo sono qui i rappresentanti. Quell’improvviso, ansioso slittamento dalla prima persona singolare («Trattengo... devo dirgli... io stesso ho visto») alla prima plurale (sùbito sottolineata dalla ripetizione «il perché 1 A simili conclusioni arriva Stefano Lazzarin, «Fatti non foste a viver come bruti». A proposito di Primo Levi e del fantastico, «Testo», xxii, 42, 2001, pp. 67-90: 76-80. 2 Primo Levi, Se questo è un uomo, in Idem, Opere, i, cit., p. 110. 3 Su questo punto, e su tutto il capitolo di Levi in rapporto al canto di Dante, ha scritto pagine magistrali Piero Boitani, che tra i nostri contemporanei è di gran lunga il più dotto, sensibile e acuto cultore di Ulisse: si veda in particolare L’ombra di Ulisse. Figure di un mito, Bologna, il Mulino, 1992, pp. 182-88 e Sulle orme di Ulisse, Bologna, il Mulino, 1998 (nuova ed. 2007), pp. 86-88. lino pertile28 del nostro destino, del nostro essere oggi qui»), segnala questo repentino, enorme, spaventoso balzo intellettuale, una vera e propria rivelazione, che lascia intravvedere la tragedia di tutto un popolo dove prima era soltanto una tragedia individuale, e un’impari, inaspettata guerra fra un popolo e un potere ostile e soverchiante, estraneo alla sua storia, dove prima era una battaglia fra uguali. Levi non lo dice in maniera esplicita, ma in quel momento il lettore avverte che l’Ulisse dantesco diviene eroe ebreo1 e la sua tragedia – umana, necessaria, inaspettata – tragedia del popolo ebraico.2 A questo punto Primo darebbe volentieri la sua razione di zuppa per ricordare alcune parole in più, i versi che gli permettano di colmare le lacune della memoria e forse vedere e capire meglio quel che ha visto. Quei versi sono diventati ora più essenziali della zuppa stessa, sono alimento vitale per il suo spirito afamato. Ma il viaggio è terminato e sopra quei pochi momenti di libertà il lager si richiude come l’oceano sopra i corpi di Ulisse e dei suoi compagni. Considerate se questo è un uomo – scrive Levi in limine al suo rapporto su Auschwitz, riprendendo, non a caso, il verbo con cui Ulisse apre la sua magniica terzina. Ora forse intuiamo da quali profondità derivi il titolo del libro di Levi, che cosa signiichi e come esso sia veramente la chiave per capire non solo il libro, ma anche l’esperienza dell’inferno di Auschwitz. Ulisse dice «Considerate la vostra semenza», cioè pensate che siete uomi- 1 Per un’argomentazione più dettagliata si rimanda nuovamente a Giovanni Falaschi, Ulisse e la sida ebraica, cit., pp. 129-131. 2 Che cosa ha visto Primo? che cos’è quest’idea gigantesca che l’ha colpito, un’intuizione di un attimo capace di spiegare il perché del genocidio degli ebrei? In una nota all’ed. scolastica di Se questo è un uomo (Torino, Einaudi, 1986, ma la prima ed. con prefazione e note è del 1973) Levi scrive: «all’autore pare di intravvedere una conturbante analogia fra il naufragio di Ulisse e il destino dei prigionieri: l’uno e gli altri sono stati paradossalmente “puniti”, Ulisse per aver infranto le barriere della tradizione, i prigionieri perché hanno osato opporsi a una forza soverchiante, qual era allora l’ordine fascista in Europa. Ancora: fra le varie radici dell’antisemitismo tedesco, e quindi del Lager, c’era l’odio e il timore per l’“acutezza” intellettuale dell’ebraismo europeo, che i due giovani sentono simile a quella dei compagni di Ulisse, e di cui in quel momento si riconoscono rappresentanti ed eredi». Il motivo del disprezzo nazista per l’intelligenza ebraica ricorre proprio all’inizio del capitolo di Ulisse, dove Alex, il Kapo, viene descritto nell’atto di deridere i chimici ebrei «cenciosi e afamati»: «– Ihr Doktoren! Ihr Intelligenten! – sghignazzava ogni giorno vedendoli accalcarsi colle gamelle tese alla distribuzione del rancio». Ma è una spiegazione riduttiva e pudica, ad uso e consumo dei ragazzi delle scuole. In realtà, quello che Primo ha visto in azione nel naufragio dell’Ulisse dantesco è, a mio sentire, la stessa “invidia degli dei” che ora per mano dei nazisti si sta scagliando contro il popolo ebraico e la sua intelligenza. Questa interpretazione del naufragio di Ulisse in chiave tragica trova sostegno nella parte iniziale del canto di Ulisse, dove, alla vista dell’ottava bolgia, Dante si propone di tenere a freno il proprio ingegno «perché non corra che virtù nol guidi; / sì che, se stella bona o miglior cosa / m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi», Inf. xxvi, 22-24. l’inferno, il lager, la poesia 29 ni e non bruti, e Levi ci chiede ino a che punto di dolore e abbrutimento un uomo conservi la propria umanità, se sia ancora uomo colui Che lavora nel fango Che non conosce pace Che lotta per un pezzo di pane Che muore per un sì o per un no. Se sia ancora donna una donna, Senza capelli e senza nome Senza più forza di ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d’inverno. Ora noi possiamo dire che sì, questo è un uomo e questa è una donna intanto che alcuni versi di poesia che risuonino nella loro mente testimonino della loro umanità. In ultima analisi quei versi saranno la loro unica garanzia di salvezza anche nella morte. Nel 1987 Levi scriveva: A me, la cultura è stata utile; non sempre, a volte forse per vie sotterranee ed impreviste, ma mi ha servito e forse mi ha salvato. Rileggo dopo quarant’anni in Se questo è un uomo il capitolo Il canto di Ulisse [...] Ebbene, dove ho scritto «darei la zuppa di oggi per saper saldare “non ne avevo alcuna”col inale»,1 non mentivo e non esageravo. Avrei dato veramente pane e zuppa, cioè sangue, per salvare dal nulla quei ricordi, che oggi, col supporto sicuro della carta stampata, posso rinfrescare quando voglio e gratis, e che perciò sembrano valere poco. Allora e là, valevano molto. Mi permettevano di ristabilire un legame col passato, salvandolo dall’oblio e fortiicando la mia identità. Mi convincevano che la mia mente, benché stretta dalle necessità quotidiane, non aveva cessato di funzionare. Mi promuovevano, ai miei occhi ed a quelli del mio interlocutore. Mi concedevano una vacanza eimera ma non ebete, anzi liberatoria e diferenziale: un modo insomma di ritrovare me stesso.2 Proprio qui dunque troviamo la risposta di Levi all’osservazione di Steiner sull’analogia tra l’inferno di Dante e i campi di sterminio. Nel suo resoconto Levi incorpora dei frammenti dell’Inferno, ma lo fa per motivi che sono diametralmente opposti a quelli suggeriti da Steiner. Per Levi, l’Inferno dantesco non è l’antenato medievale e letterario del lager, ma caso mai il suo antidoto. Nell’Inferno di Dante, che è come dire nella poesia, Levi trova la libertà dall’orrore che paralizza, e il coraggio e la forza di resistere al processo di demolizione dell’uomo perpetrato dal lager. 1 Sono i versi 136-138 di Inf. xxvi: «Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; / ché de la nova terra un turbo nacque / e percosse del legno il primo canto». 2 Primo Levi, I sommersi e i salvati, in Idem, Opere, ii, cit., pp. 1100-1101. lino pertile30 5. Già una trentina d’anni dopo l’orrore di Auschwitz, uno studente che avesse studiato l’Inferno, specialmente in America, avrebbe avuto più di qualche perplessità a leggere il canto di Ulisse nella chiave esemplarmente positiva di Levi – con il risultato che purtroppo le parole di Ulisse non l’avrebbero né confortato né tantomeno salvato in caso di bisogno. Per noi oggi, uno degli aspetti più appariscenti della lettura di Levi è la sua totale decontestualizzazione del testo originale. Levi accenna telegraicamente all’inferno dantesco («Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso») ma passa sùbito al discorso di Ulisse senza sofermarsi sulla iamma che avvolge l’eroe o sulle colpe per cui, secondo la spiegazione di Virgilio, è condannato a quella pena nell’ottava bolgia del cerchio dei fraudolenti. Del canto di Ulisse in Se questo è un uomo aiora soltanto la storia dell’ultimo viaggio. Tutto il contesto viene ignorato: esito a dire ‘rimosso’, perché la decontestualizzazione dei grandi personaggi dell’Inferno era del tutto normale nella scuola italiana degli anni Trenta (e Quaranta e Cinquanta!). È anzi molto probabile che Primo ricordi solo il racconto dell’ultimo viaggio di Ulisse, perché proprio quello era il segmento – il ‘medaglione’ costituito dai versi 85-142 – che aveva imparato a memoria a scuola. Una tale lettura, che teneva nettamente separati i tre inganni di Ulisse dalla sua ultima impresa, era perfettamente solidale con l’interpretazione classica di Francesco De Sanctis (Ulisse come «precursore di Colombo», «grand’uomo solitario di Malebolge», «piramide piantata in mezzo al fango», personaggio nel quale «il peccato diviene virtù»), se non con quella più recente e complessa di Benedetto Croce (Ulisse «peccaminoso ma di sublime peccato, eroe tragico»).1 Ma anche all’interno di questa lettura fortemente selettiva i frammenti dell’episodio che Primo ricorda sono funzionali a un ritratto di Ulisse come nobile, eroico, indomito esploratore. La memoria di Primo cede infatti (non dico ‘censura’, perché non credo che l’omissione sia volontaria) proprio in corrispondenza ad accenni testuali che potrebbero incrinare o disturbare quel ritratto. Interessante, ad esempio, che Primo non consideri «utilizzabile» uno dei primi frammenti che gli tornano a mente: «... la piéta del vecchio padre, né ’l debito amore che doveva Penelope far lieta». Questi versi dovrebbero ricordargli la sua città, la sua casa, i suoi afetti familiari. Invece nulla. Benché sofra di profondissima nostalgia, Primo lascia passare senza una parola di commento la decisione di Ulisse di non ritornare a casa; come Ulisse, punta sùbito verso «l’alto 1 Vedi Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di Gianfranco Contini, Torino, utet, 1968, p. 239; Benedetto Croce, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 19223 , p. 98. l’inferno, il lager, la poesia 31 mare aperto» senza nemmeno registrare il sintagma «folle volo» con cui Ulisse deinisce a posteriori il suo viaggio.1 Tutta l’attenzione di Primo è concentrata su quella superice libera e sconinata che si apre «al di là di una barriera», «al di là delle colonne d’Ercole». L’immagine che lo esalta e che vuole comunicare al suo compagno Pikolo è di un Ulisse magnanimo che aferma la sua libertà di andare, esplorare, ricercare il mondo al di là di ogni restrizione, vincolo o barriera. È un impulso – dice – che proprio loro, gli internati di Auschwitz, conoscono molto bene, e inché lo sentono, sanno di essere vivi e di essere uomini. Ma ciò di necessità signiica che, pur abitando l’inferno, l’Ulisse di Levi non è un «sommerso»; è bensì un eroe tragico, che soccombe ma non si sottomette e, come gli antichi màrtiri cristiani, trionfa nel momento in cui sembra essere vinto. La religione è diversa, uguale il gesto di sida. C’è qualcosa di paradossale in questo. Mentre la realtà del dolore inebetisce e uccide, la letteratura del dolore salva. Ai «musulmani», ai «sommersi» veri del lager Levi contrappone la igura ittizia di un eroe che cade ma non è vinto. Letteratura, si dirà. Ed è vero: col suo resoconto di un anno ad Auschwitz Levi, senza volere, mostra quanto possa essere astratto e irreale il realismo letterario; allo stesso tempo mette in esemplare evidenza il ruolo unico della letteratura per la sopravvivenza della nostra umanità. Vorrei inire qui, con queste parole di ottimismo, ma non sarebbe interamente onesto da parte mia. Nonché fare a pugni con il canto nel suo insieme, la generosa lettura di Primo è palesemente in conlitto con la realtà della sua esperienza. È una lettura più emotiva che razionale, buona per quel passo della Commedia e quel momento storico, quella mattina ad Auschwitz, «allora e là». Purtroppo, come tutte le religioni, anche la religione della poesia trova adepti buoni e cattivi. Non si può dimenticare, per quanto risulti molesto, che proprio coloro che avevano immaginato e organizzato i campi di sterminio erano amanti tenerissimi di poesia e arte, e che molto probabilmente anche loro si sarebbero commossi alla lettura dei versi di Dante che tanto commossero Primo. E non si può nemmeno dimenticare che Levi stesso, che era riuscito a sopravvivere al campo di sterminio, non riuscì alla ine a sopravvivere al ricordo di esso, nonostante il sostegno di tutta la letteratura a sua disposizione. Del resto, con il passare degli anni, il giudizio dello stesso Levi sull’Inferno dantesco si fece più complesso. Avendolo ovviamente riletto e meditato, Levi segnala in un’intervista del 1987 analogie inquietanti tra il lager e l’inferno. Proprio come nel lager «molte delle azioni compiute 1 Al «folle vole» di Ulisse Levi accenna nella nota di commento che accompagna il inale del capitolo nella sua già citata edizione scolastica di Se questo è un uomo, p. 153. lino pertile32 dai nazisti non rilettono altro che il desiderio ine a se stesso di inliggere delle soferenze», così nell’Inferno si danno casi, scrive Levi, di «violenza inutile» perpetrata ai danni dei «sommersi». L’esempio oferto è «un episodio nel quale Dante inierisce su uno dei dannati»,1 facendosi prima raccontare la sua storia e poi venendo meno alla promessa di togliergli il ghiaccio che gli blocca gli occhi al punto da impedirgli persino di piangere. Si tratta dell’episodio di frate Alberigo (Inf. xxxiii, 109-150), che si conclude col verso famoso «e cortesia fu lui esser villano». Questo verso col quale Dante con gran disinvoltura dichiara di non aver mantenuto la promessa fatta ad Alberigo, Levi lo spiega giustamente così: «In altre parole, fu dovere di Dante mostrarsi crudele»; e poi prosegue: Io credo che qualcosa di simile accadde in Germania. Il sentimento che Dante, un cattolico fervente, provava nei confronti dei dannati, i quali non possono più appellarsi ad alcun diritto e sono costretti a sofrire, fu forse simile alla posizione che i nazisti assunsero nei confronti degli ebrei: sentivano che questi dovevano essere costretti a sopportare la massima soferenza possibile.2 La data di queste parole è 1987, la stessa in cui Levi scriveva, come s’è visto sopra, che nel lager i versi di Dante gli avevano concesso «una vacanza eimera ma non ebete, anzi liberatoria e diferenziale: un modo insomma di ritrovare me stesso». Qui invece, in questa intervista, i dannati di Dante sono davvero trattati come non-uomini e, contrariamente a quanto si diceva poco fa, lungi dall’essere l’antidoto al lager, l’Inferno si presenta come il suo modello medievale, e il fervore religioso del Dante cattolico non diverso dal fervore delle guardie naziste. Evidentemente, per il Levi del 1987, ultimo anno della sua vita, coesistono in Dante l’una e l’altra anima: quella di Ulisse che sfugge all’inferno e, morendo alla ricerca di virtù e conoscenza, aferma la sua umanità, e quella di un Dante che all’ordine dell’inferno si sottomette quando ne adotta la spietatezza. Forse è per questo dunque che Levi decise di togliersi la vita nel 1987 – perché non aveva più fede nel potere della letteratura di giustiicare la sua vita e salvarlo? Forse perché non aveva più fede nell’umanità? Ha dunque ragione Adorno quando dichiara che «scrivere poesia dopo Auschwitz è barbarico»? Direi di no, anche se si capisce che cosa lo muova a dirlo. Del resto è una dichiarazione che Adorno stesso ha sconfessato più tardi afermando che «la soferenza perenne ha lo stesso diritto di 1 A ragione, secondo me, Levi non distingue nel suo discorso Dante-personaggio/ narratore da Dante uomo. 2 Da Un’intervista con Primo Levi di Risa Sodi («Partisan Review», liv, 1987), ora in Primo Levi, Conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, pp. 234-235. l’inferno, il lager, la poesia 33 esprimersi che uno che sia torturato ha di urlare».1 È una questione maledettamente complicata. Mi sia permesso di terminare con una poesia di Paul Celan, Fadensonnen, in italiano «Filamenti di sole»: Fadensonnen über der grauschwarzen Ödnis. Ein baumhoher Gedanke greift sich den Lichtton: es sind noch Lieder zu singen jenseits der Menschen. Filamenti di sole, sopra il deserto grigionero. Un albero – più alto un pensiero s’appropria il tono della luce: vi sono ancora canti da cantare al di là dell’uomo.2 È stato mio iglio Giulio a segnalarmi questa lirica scarna. «Al di là / dell’uomo», mi ha scritto Giulio, si riferisce probabilmente a Se questo è un uomo, sia alla questione centrale del libro di Levi – oltre quali limiti l’uomo non sia più uomo – sia ai limiti spaziali entro cui è coninata l’azione di quel libro, la «barriera» al di là della quale i prigionieri vorrebbero scagliarsi, «il ilo spinato» reale che recinge il lager, ma anche quello metaforico delle regole feroci e folli che separano il lager dal mondo e dalla vita. Il genio di questa poesia, mi ha detto Giulio, consiste nell’enjambement tra il penultimo e l’ultimo verso, cioè tra «al di là» e «dell’uomo». Preso da solo, il penultimo verso sembra alludere al mondo che si trova al di là, dall’altra parte del ilo spinato, e in tale prospettiva la poesia potrebbe essere una risposta polemica alla dichiarazione di Adorno. Ma è proprio quando Celan aggiunge il verso «dell’uomo» che la poesia diventa inesprimibilmente signiicativa e commovente, perché allora si intuisce che al di là allude anche a una realtà che è al di qua del ilo, dentro al lager: la realtà del musulmano, del non-uomo. Ci sono ancora canti da cantare anche in questo luogo tremendo, dove l’umanità e tutto quello che la caratterizza e distingue – poesia, bellezza, pensiero – sembrerebbero irrimediabilmen- 1 In proposito si veda Klaus Hofmann, Poetry after Auschwitz - Adorno’s Dictum, «German Life and Letters», 58, 2005, pp. 182-194. 2 Traduzione mia. Ecco come traduce Giuseppe Bevilacqua, curatore del Meridiano Paul Celan, Poesie, Milano, Mondadori, 20056 , p. 541: «Filamenti di sole, / sopra lo squallore grigionero. / Un pensiero ad altezza / d’albero s’appropria il tono / che è della luce: ancora / vi sono melodie da cantare / al di là degli uomini». lino pertile34 te devastati. Questo verso inale, mi ha detto mio iglio, potrebbe essere allora un accenno o commento al canto che Ulisse canta nell’inferno di Dante e Levi nel lager. Credo che Giulio abbia ragione. «Al di là» è ripetuto due volte nel passo di Levi («al di là di una barriera», «al di là delle colonne d’Ercole»), ma l’idea che esso esprime pervade l’intero episodio, ed è l’idea/ desiderio della libertà, dell’aperto, della ribellione in antitesi alla realtà attuale e atroce del carcere, del chiuso, della sottomissione. Questo «al di là» (jenseits) è il nucleo metaforico attorno al quale si organizza tutta la poesia di Celan: «deserto» (Ödnis) ha un corrispettivo in Levi e Dante; «albero» (baum) è la «iamma antica» di Ulisse che prima di dire parola si crolla «pur come quella cui vento afatica» (Inf. xxvi, 85-87); i «Filamenti di sole» (Fadensonnen) sono forse, riscritta da Celan, la luce che dal di fuori penetra nella cisterna di Primo; «il tono della luce» (Lichtton) corrisponde allora allo «splendore del giorno» a cui Primo si deve assuefare uscendo all’aperto; e inine – di questo siamo sicuri – non è forse il «canto» (Lieder) di Dante quello che Levi «canta» (singen) nel lager, e il canto di Levi («Il canto di Ulisse») che Celan nel suo modo tormentato riscrive? Mi fermo qui, tra umili riscontri e intertesti. Non fosse per Primo Levi, avremmo potuto scartarli come insigniicanti. Ora sappiamo che di queste sottili corrispondenze si nutre l’anima. composto in carattere dante monotype dalla fabrizio serra editore, pisa · roma. stampato e rilegato nella tipografia di agnano, agnano pisano (pisa). * Aprile 2011 (cz 2 · fg 13)