Otíobre 1X60 La pioggia era venuta, la pioggia era andata via; ed il sole era risalito sul trono come un re assoluto che, allontanato per una senimana dalle barricate dei sudditi, ritorna a regnare iracondo ma raffrenato da carte costituzionali. II calore risto-rava senza ardere, la luce era autoritaria ma lasciava soprawive-re i colon, e dalla terra rispuntavano trifogli e mentucce cautelose, sui volti diffidenti speranze. Don Fabrizio insieme a Teresina ed Arguto, cani, e a don Ciccio Tumeo, seguace, passava Junghe ore a caccia, dall'alba al pomeriggio. La fatica era fuori d'ogni proporzione con i risultati. perché anche ai piú esperti tiratori riesce difficile colpire un bersaglio che non c'e quasi mai, ed era molto se il Principe rincasando poteva far portare in cucina un paio di pernici cosi come don Ciccio si reputava fonunato se a sera poteva sbattere sul tavolo un coniglio selvatico, il quale del resto veniva ipso facto promosso al grado di lepre, come si usa da noi. Un'abbondanza di bottino sarebbe stata d'altronde per il Principe un piacere secondario; il diletto dei giorni di caccia era altrove, suddiviso in molti episodi minuti. Cominciava con la rasatura nella camera ancora buia. al lume di una candela che rendeva enfatici i gesti sul soffitto dalle architetture dipinte; si acuiva nel traversare i saloni addormentati, nello scansare alia luce traballante i tavoli con le carte da gioco in 93 disordine fra gettoni e bicchierini vuoti, e nello scorgere fra esse il cavallo di spade che gli rivolgeva un augurio virile; nel percorrere il giardino immoto sotto la luce grigia nel quale gli uccelli piü mättinieri si strizzavano per far saltar via la rugiada dalle penne; nello sgusciare attraverso la porticina impedita dall'edera; nel fuggire, insomma; e poi sulla strada, innocentis-sima ancora ai primi albori, ritrovava don Ciccio sorridente fra i baffi ingialliti mentre sacramentava affettuoso contro i cani; a questi, nell'attesa, fremevano i muscoli sotto il velluto del pelo. Venere brillava, chicco d'uva sbucciato, trasparente e umido, e di giä sembrava di udire il rombo del carro solare che saliva l'erta sotto l'orizzonte; presto s'incontravano le prime greggi che avanzavano torpide come maree, guidate a sassate dai pastori calzati di pelli; le lane erano rese morbide e rosee dai primi raggi; poi bisognava dirimere oscuri litigi di precedenza fra i cani da mandria e i bracchi puntigliosi, e dopo quest'intermezzo assordante si svoltava su per un pendio e ci si trovava nell'immemoriale silenzio della Sicilia pastorale. Si era subito lontani da tutto, nello spazio e ancor piü nel tempo. Donnafugata con il suo palazzo e i suoi nuovi ricchi era appena a due miglia ma sembrava sbiadita nel ricordo come quei paesaggi che talvolta s'intravedono alio sbocco lontano di una galleria ferroviaria; le sue pene e il suo lusso apparivano ancor piü insignificanti che se fossero appartenuti al passato, perche rispetto all'immutabilitä di queste comrade fuori di mano sembravano far parte del futuro, esser ricavati non dalla pietra e dalla came ma dalla stoffa di un sognato awenire, estratte da una Utopia vagheggiata da un Platone rustico e che per un qualsiasi minimo accidente avrebbe anche potuto conformarsi in foggie del tutto diverse o addirittura non essere; sprowiste cosi anche di quel tanto di carica energetica che ogni cosa passata continua a possedere, non potevano piü recar fastidio. Don Fabrizio ne aveva avuto parecchi di fastidi in questi due ultimi mesi: erano sbucati da tutte le parti come formiche all'arrembaggio di una lucertola morta. Alcuni erano spuntati fuori dai crepacci della situazione politica; altri gli erano stati buttati addosso dalle passioni altrui; altri ancora (ed erano i piü mordaci) erano germogliati dal suo proprio interno, cioe dalle irrazionali reazioni sue alia politica ed ai capricci del prossimo (capricci chiamava, quando era irritato, cid che da calmo designava come passionil; e questi fastidi se li passava in rivista ogni giorno, li faceva manovrare, comporsi in colonna o spiegarsi in fila sulla piazza d'armi della propria coscienza sperando di scorgere nelle loro evoluzioni un qualsiasi senso di finalitä che potesse rassicurarlo; e non ci riusciva. Gli anni scorsi le seccature erano in numero minore e ad ogni modo U soggiorno a Donnafugata costituiva un periodo di riposo: i crucci lasciavano cadere il fucile, si disperdevano fra le anfrattuositä delle valli e stavano tanto tranquilli, intenti a mangiare pane e formaggio, che si dimenticava la bellicosita delle loro uniformi e potevano esser presi per bifolchi inoffensi- * vi. Quest'anno invece, come truppe ammutinate che vociasse-q ro brandendo le armi, erano rimasti adunati e, a casa sua, gli suscitavano lo sgomento di un colonnello che abbia detto: "Fate rompere le righe!" e che dopo vede U reggimento piü serrato e minaccioso che mai.£r(ebta.V\G4S vAwri^S. u6r\V*i^ Jt>£ Bande, mortaretti, campane, "zingarelle" e Te Deum all'ar-Vivo, va bene; ma dopo la rivoluzione borghese che saliva le sue scale nel frack di don Calogero, la bellezza di Angelica Bche poneva in ombra la grazia contegnosa della sua Concetta, Tancredi che precipitava i tempi dell'evoluzione prevista e •r cui anzi l'infatuazione sensuale dava modo d'infiorarne i motivi C realistici; gli scrupoli e gli equivoci del Plebiscito; le mille I astuzie alle quali doveva piegarsi lui, il Gattopardo, che per £ tanti anni aveva spazzato via le difficoltä con un rovescio della * zampa. Tancredi era partito giä da piü ai un mese e adesso se ne stava a Caserta accampato negli appartamenti del suo Re; da li inviava ogni tanto a Don Fabrizio lettere che questi leggeva con sorrisi e ringhi alternati e che poi riponeva nel piü remoto cassetto della scrivania. A Concetta non aveva scritto mai ma non dimenticava di farla salutare con la consueta affettuosa malizia; una volta anzi aveva scritto: "Bacio le mani di tutte le Gattopardine, e soprattutto quelle di Concetta" fräse che venne censurata dalla prudenza paterna quando la lettera «4 95 venne letta alia famiglia. Angelica yeniva a far visita quasi ogni giorno, piú seducente che mai accompagnata dal padre o da una cameriera iettatoria: ufficialmente le visite erano fatte alle amichette, alFe ragazze, ma di fatto si awertiva che il loro acme era raggiunto al momento in cui essa chiedeva con indifferenza: "E sono arrivate notizie del Principe?" "II Principe" nella bella bocca di Angelica non era ahimě! il vocabolo per designare lui, Don Fabrizio, ma quello usato per evocare il capitanuccio garibaldino; e ció provocava in Salina un sentimento buffo tessuto nel cotone dell'invidia sensuale e nella seta del compiacimento per il successo del caro Tancredi; sentimento, a conti fatti, sgradevole. Alia domanda rispondeva sempre lui stesso: in forma meditatissima riferiva quanto sape-va, avendo eura pero di presentare una pianticella di notizie ben rimondata alia quale le sue caute cesoie avevano asportato tanto le spine (narrazioni di frequenti gite a Napoli, allusioni chiarissime alia bellezza delle gambe di Aurora Schwarzwald, ballerinetta del San Carlo) quanto i bóccioli prematuri ("dam-mi notizie della signorina Angelica" - "nello studio di Ferdi-nando II ho visto una Madonna di Andrea del Sarto che mi ha ricordato la signorina Sedára"). Plasmava cosi una immagine insipida di Tancredi, assai poco veritiera, ma cosi, anche, non si poteva dire che egli recitasse la parte del guastafeste o quella del paraninfo. Queste precauzioni verbali corrispondevano assai bene ai propri sentimenti nei riguardi della ragionata passione di Tancredi ma lo irritavano in quanto lo stancavano; esse erano del resto soltanto un esemplare dei cento raggiri di linguaggio e di contegno che da qualche tempo era costretto a escogitare; ripensava con rimpianto alia situazione di un anno prima quando diceva tutto quanto gli passasse per il capo, sicuro che ogni sciocchezza sarebbe stata accettata come parola di Vangelo, e qualsiasi improntitudine come noncuranza principesca. Postosi sulla via del rimpianto del passato, nei momenti di peggior malumore si spingeva assai lontano giú per questa china pericolosa: una volta, mentre inzuccherava la tazza di tě tesagli da Angelica, si accorse che stava invidiando le possibilitá di quei tali Fabrizi Corběra e Tancredi Falconeri di tre secoli prima che si sarebbero cavati la voglia di andare a letto con le Angeliche dei loro tempi senza dover passare davanti al parroco, noncuranti delle doti delle villane (che del resto non esistevano) e scaricati della necessitä di costringere i loro rispettabili zii a danzar fra le uova per dire o tacere le cose appropriate. L'impulso di lussuria atavica (che poi non era del tutto lussuria ma anche atteggiamento sensuale della pigrizia) fu brutale al punto da fare arrossire il civilizzatissimo gentiluomo cinquantenne, e l'animo di lui che, pur attraverso numerosi filtri, aveva finito con tingersi di rousseauiani scrupoli, si vergognö profonda-mente; dal che venne dedotto un ancor piü acuto ribrezzo verso la congiuntura sociale nella quale era incappato. f il Hatttpardo c**> el* fa*) Utrte. La sensazione di trovarsi prigioniero di una situazione che evolvesse piü rapidamentc di quanto tosse prcvisto era particolarmente acuta quella mattina. La sera prima infam, la corriera che dentro la cassa giallina portava irregolarmente la scarsa posta di Donnafugata gli aveva recato una lettera di Tancredi. Prima ancora di esser letta essa aveva proclamato la propria importanza scritta com'era su sontuosi foglietti di carta lucida e con calligrafia chiara e armoniosa. Si rivelava subito come la "bella copia" di chissä quante bozze disordinate. II Principe in essa non veniva chiamato "zione," appellativo che gli era divenuto caro, ma "carissimo zio Fabrizio," formula che possedeva molteplici meriti: quello di allontanare fin dall'inizio qualsiasi sospetto di celia, quello di far presentire l'importanza di cid che sarebbe stato scritto in seguito, quello di permettere, all'occorrenza, di mostrare la lettera a chiunque ed anche quello di riallacciarsi ad antichissime tradizioni religiose che attribuivano un potere vincolatorio alia precisione del nome invocato. II "carissimo zio Fabrizio," dunque, era informato che il suo "affezionatissimo e devotissimo nipote" era da tre mesi preda del piü violento amore e che ne "i rischi della guerra" (leggi: passeggiate nel parco di Casertal ne "le molte attrattive di una grande cittä" (leggi: i vezzi della ballerina Schwarzwald) avevano sia pure un momento potuto allontanare dalla sua mente e dal suo cuore l'immagine della signorina Angelica 97 SedäYa (qui una lunga processione di aggettivi volti ad esaltare la bellezza, la grazia, la virtu, l'intelletto dell'oggetto amato); attraverso nitidi ghirigori d'inchiostro e di sentimenti si diceva poi come il Tancredi stesso, cosciente della propria indegnitä, avesse cercato di soffocare il proprio ardore ("lunghe ma vane J sono state le ore durante le quali o fra il chiasso di Napoli o fra J l'austeritä dei miei compagni d'arme ho cercato di reprimere i miei sentimenti"). Adesso perö l'amore aveva superato il rite-^3 gno, ed egli veniva a pregare 1'amatissimo zio di volere a suo .£ nome richiedere la mano della signorina Angelica al "suo ■5 stimabilissimo padre." "Tu sai, zio, che io non posso offrire alia fanciulla amata null'altro all'infuori del mio amore, del mio nome e della mia spada." Dopo questa frase a proposito § della quale occorre non dimenticare che allora ci si trovava in ^JC pieno meriggio romantico, Tancredi si abbandonava a lunghe ^ considerazioni sulla opportunity anzi sulia necessitä che unio-§ ni tra \amiglie come quella dei Falconeri e quella dei Sedära V (una VOlta_Sl_Spingeva fino a <:r-rivprp arrlitamenfp "rata S.pA*. ra") venissero incoraggiate per lapporto di sangue nuovo che jp e'sse recavano ai vecchi casati, e per l'azione di livellamento dei c'eti che era uno degli scopi deli'attuafe movimento politico in Italia. Questa fu la sola parte della lettera che don Fabrizio leggesse con piacere, non soltanto perche essa confermava le sue previsioni e gli conferiva 1'alloro di profeta, ma anche perche lo stile, riboccante di sottintesa ironia, gli evocava magicamente la figura del nipote, la nasalitä beffarda della voce, gli occhi sprizzanti malizia azzurrina, i ghignetti cortesi. Quando poi Don Fabrizio si awide che questo squarcio giacobino era esattamente racchiuso in un toglio cosicche, völendo, si poteva far leggere la lettera pur sottraendone il capitoletto rivoluzionario, la sua ammirazione per il tatto di Tancredi raggiunse lo zenith. Dopo aver narrato brevemente le piü recenti vicende guerresche ed espresso la convinzione che entro un anno si sarebbe raggiunta Roma "predestinata capitale augusta dell'Italia nuova," si ringraziava per le cure e l'affetto ricevuti in passato e si conchiudeva scusandosi per l'ardire avuto nell'affidare a lui l'incarico "dal quale dipende la mia felicitä futura." Poi si salutava (lui solo). La prima lettura di questo straordinario brano di prosa diede un po' di capogiro a Don Fabrizio. Egli noto di nuovo la stupefacente accelerazione della storia; per esprimersi in termini moderni diremo che egli venne a trovarsi nello stato d'animo di una persona che credendo, oggi, di esser salito a bordo di uno degli aerei paciocconi che fanno il cabotaggio fra Palermo e Napoli si accorge invece di trovarsi rinchiuso in un apparecchio supersonico e comprenda che sara alia meta prima di aver avuto il tempo di farsi il segno della croce. Un secondo strato, quello affettuoso, della sua personality si fece strada ed egli si rallegro della decisione di Tancredi che veniva ad assicurare la sua sodisfazione carnale, effimera, e la sua tranquillita economica, perenne. Dopo ancora pero noto l'incredibile sicumera del giovanotto che postulava il proprio desiderio come gia accettato da Angelica; ma alia fine tutti questi pensieri furono travolti da un grande senso di umiliazio-ne per trovarsi costretto a trattare con Don Calogero di argomenti tanto intimi e anche da un fastidio per dovere l'indomani intavolare trattative delicate con 1'uso di quelle precauzioni di accorgimenti che ripugnavano alia sua natura presunta leonina. II contenuto della lettera venne comunicato da Don Fabrizio soltanto alia moglie, quando gia erano a letto sotto il chiarore azzurrino del lumino a olio incappucciato nello schermo di vetro. Maria-Stella dapprima non disse parola ma si faceva una caterva di segni di croce; poi affermo che non con la destra ma con la sinistra avrebbe dovuto segnarsi; dopo questa espressione di somma sorpresa, si scatenarono i fulmini della sua eloquenza. Seduta nel letto, le dita di lei gualcivano il lenzuolo, mentre le parole rigavano l'atmosfera lunare della camera chiusa, rosse come torce iraconde. "Ed io che avevo sperato che sposasse Concetta' Un traditore e, come tutti i liberali della sua specie; prima ha tradito il Re, ora tradisce noi! Lui, con la sua faccia falsa, con le sue parole piene di miele e le azioni cariche di veleno! Ecco che cosa succede quando si porta nella casa gente che non e tutta del vostro sangue!" Qui lascio irrompere la carica di corazzieri delle scenate familiari: "Io lo avevo sempre detto! ma nessuno mi ascolta. Non ho mai potuto soffrirlo quel bellimbusto. Tu solo avevi perduto la testa per lui!" In realta anche lei era stata 98 99 soggicJgata dalle moine di Tancredi; anch'essa lo amava anco-ra; ma la voluttä di gridare "la colpa e tua!" essendo la piü forte che creatura umana possa godere, tutte le veritä e tutti i sentimenti venivano travolti. "E adesso ha anche la faccia tosta di incaricare te, suo zio, Principe di Salina e padrone suo cento volte, padre della creatura che ha ingannato di fare le sue indegne richieste a quel farabutto, padre di quella sgualdrina! Ma tu non lo devi fare, Fabrizio, non lo devi fare, non lo farai, non lo devi fare!" La voce diventava acuta, il corpo cominciava a irrigidirsi. Don Fabrizio ancora coricato sul dorso sogguardö di lato per assicurarsi che la Valeriana fosse sul cassettone. La bottiglia era li ed anche il cucchiaio d'argento posato di traverso sul turacciolo; nella semioscuritä glauca della camera brillavano come un faro rassicurante eretto contro le tempeste isteriche. Un momento voile alzarsi e prenderli; perö si accontentö di mettersi a sedere anche lui; cosi riacquistö una parte di prestigio. "Stelluccia, non dire troppe sciocchezze; non sai quel che dici. Angelica non e una sgualdrina; lo diventerä forse, ma per ora e una ragazza come tutte, piü bella delle altre e forse anche un tantino innamorata di Tancredi, come tutti. Soldi, intanto, ne avrä; soldi nostri in gran parte ma amministrati sin troppo bene da don Calogero; e Tancredi di questo ha gran bisogno: e un signore, e ambizioso, ha le mani bucate. A Concetta non aveva mai detto nulla, anzi e lei che da quando siamo arrivati qui lo trattava come un cane. E poi non e un traditore: segue i tempi, ecco tutto, in politica come nella vita privata, del resto e il piü caro giovane che io conosca, e tu lo sai quanto me, Stelluccia mia." Cinque enormi dita sfiorarono la minuscola scatola cranica di lei. Essa singhiozzava adesso; aveva avuto il buon senso di bere un sorso d'acqua e il fuoco dell'ira si era mutato in accoramento. Don Fabrizio cominciö a sperare che non sareb-be stato necessario di uscire dal letto tiepido, di affrontare a piedi nudi una traversata della stanza giä freschetta. Per esser sicuro della calma futura si rivesti di falsa furia: "E poi non voglio grida in casa mia, nella mia camera, nel mio letto! Niente di quejti 'farai' e 'non farai!' Decido io; ho giä deciso da quando tu non te lo sognavi neppure. E basta!" L'odiatore delJe grida urlava lui stesso con quanto fiato capiva nel torace smisurato. Credendo avere un tavolo dinanzi a se mend un gran pugno sul proprio ginocchio, si fece male e si calmo anche lui. La moglie era spaurita e guaiolava basso come un cucciolo minacciato. "Dormiamo ora. Domani vado a caccia e dovro alzarmi presto. Basta! Quel che e deciso e deciso. Buona notte, Stelluccia." Bacio la moglie, in fronte prima, segno di riconciliazione, in bocca poi, segno di amore. Si ridistese, si volto dalla parte del muro. Sulla seta della parete Pombra sua coricata si disegnava come il profilo di una giogaia montana su un orizzonte ceruleo. Stelluccia anch'essa si rimise a posto, e mentre la sua gamba destra sfiorava quella sinistra del Principe, essa si senti tutta consolata e orgogliosa di aver per marito un uomo tanto energico e fiero. Che importava Tancredi... ed anche Concetta... Queste marce sul filo del rasoio erano sospese del tutto per il momento, insieme agli altri pensieri, nell'arcaicitä odoro-sa della campagna, se cosi potevano chiamarsi i luoghi nei quali si trovava cosi spesso a cacciare. Nel termine "campagna" e implicito un senso di terra trasformata dal lavoro: la boscaglia invece, aggrappata alle pendici di un colle, si trovava nell'iden-tico stato d'intrico aromatico nel quäle la avevano trovata Fenici, Dori e Ioni quando sbarcarono in Sicilia, quest'Ameri-ca dell'antichitä. Don Fabrizio e Tumeo salivano, scendevano, sdrucciolavano erano graffiati dalle spine tal'e quäle come un Archedamo o un Filostrato qualunqui erano stati stancati e graffiati venticinque secoli prima; vedevano le Stesse piante, un sudore altrettanto appiccicaticcio bagnava i loro abiti, lo stesso indifferente vento senza soste, marino, muoveva i mirti e le ginestre, spandeva l'odore del timo. Le improwise soste pensose dei cani, la loro patetica tensione in attesa della preda era identica a quella dei giorni in cui per la caccia s'invocava Artemide. Ridotta a questi elementi essenziali, col volto lavato dal belletto delle preoccupazioni, la vita appariva sotto un aspetto tollerabile. 100 101 Pbco prima di giungere in cima al colle, quella mattina, Arguto e Terěsina iniziarono la danza religiosa dei cani che hanno presentito la selvaggina: strisciamenti, irrigidimenti, caute alzate cB zampe, latrati repressi: dopo pochi minuti un culetto di peli bigi guizzô fra le erbe, due colpi quasi simultanei posero termine alla silenziosa attesa; Arguto depose ai piedi del Principe una bestiola agonizzante. Era un coniglio selvatico: la dimessa casacca color di creta non era bastata a salvarlo. Orrendi squarci gli avevano lacerato il muso e il petto. Don Fabrizio si vide fissato da due grandi occhi neri che, invasi rapidamente da un velo glauco, lo guardavano senza rimprove-ro nu che erano carichi di un dolore attonito rivolto contro tutto 1'ordinamento delle cose; le orecchie vellutate erano giá fredde, le zampette vigorose si contraevano in ritmo, simbolo soprawissuto di una inutile fuga; 1'animale mořiva torturato da un'ansiosa speranza di salvezza, immaginando di poter ancora cavarsela quando di giá era ghermito, proprio come tanti uomini; mentre i polpastrelli pietosi accarezzavano il musetto misero, la bestiola ebbe un ultimo fremito, e morí; ma Don Fabrizio e Tumeo avevano avuto il loro passatempo; il primo anzi aveva provato, in aggiunta al piacere di uccidere, anche quello rassicurante di compatire. Quando i cacciatori giunsero in cima al monte, di fra i tamerici e i sugheri radi apparve ľaspetto vero delia Sicília, quello nei cui riguardi cittä barocche ed aranceti non sono che fronzoli trascurabili. Ľaspetto di un'ariditä ondulante all'infinito, in groppe sopra groppe, sconfortate e irrazionali delle quali la mentě non poteva afferrare le linee principáli, concepite in una fase delirante della creazione; un mare che si fosse pietrificato in un attimo in cui un cambiamento di vento avesse reso dementi le onde. Donnafugata, rannicchiata, si nascondeva in una piega anonima del terreno. e non si vedeva un'anima: sparuti filari di víti denunziavano soli un qualche passaggio di uomini. Oltre le colline, da una parte, la macchia indaco del mare, ancor piú důro e infecondo della terra. II vento lieve passava su tutto, universalizzava odori di stereo, di carogne e di salvie, cancellava, elideva, ricomponeva ogni cosa nel proprio trascorrere noncurante; prosciugava le goccioline di 'sangue che erano 1'unico lascito del coniglio. molto piú in l.i andava ad agitare la capelliera di Garibaldi e dopo ancora cacciava il pulviscolo negli occhi dei soldáti napoletani che rafforzavano in fretta i bastioni di Gaeta, illusi da una speranza che era vana quanto lo era stata la fuga stramazzata della selvaggina. Nella circoseritta ombra dei sugheri il Principe e 1'organi-sta si riposarono: bevevano il vino tiepido delle borracce di legno, accompagnavano un pollo arrosto venuto fuori dal carniere di Don Fabrizio con i soavissimi "muffoletti" cosparsi di farina cruda che don Ciccio aveva portato con sé; degusta-vano la dolce "insölia" quell'uva tanto brutta da vedere quanto buona da mangiare; saziarono con larghe fette di pane la fame dei bracchi che stáváno di fronte a loro impassibili come uscieri concentrati nella riscossione dei propri crediti. Sotto il sole costituzionale Don Fabrizio e don Ciccio furono poi sul pumo di addormentarsi. Ma se una fucilata aveva ucciso il coniglio, se i cannoni rigati di Cialdini scoraggiavano giä i soldáti napoletani, se il calore meridiano addormentava gli uomini, niente invece poteva fermare le formiche. Richiamate da aleuni chiechi di uva stantia che don Ciccio aveva risputato via, le loro fitte schiere accorrevano, esaltate dal desiderio di annettersi quel po' di marciume intriso di saliva di organista. Si facevano avanti colme di baldanza, in disordine ma risolute: gruppetti di tre o quattro sostavano un po' a parlottare e, certo esaltavano la gloria secolare e la prosperita futura del formicaio n. 2 sotto il sughero n. 4 della cima di monte Morco; poi insieme alle altre riprendevano la marcia verso il sicuro awenire; i dorsi lucidi di quegli insetti vibravano di entusiasmo e, senza dubbio, al di sopra delle loro file, trasvolavano le note di un inno. Come conseguenza di aleune associazioni ďidee che non sarebbe opportuno precisare, 1'affaccendarsi delle formiche impedí il sonno a Don Fabrizio e gli fece ricordare i giorni del plebiscito quali egli li aveva vissuti poco tempo prima a Donnafugata stessa; oltre ad un senso di sorpresa quelle giorna-te gli avevano lasciato pareechi enigmi da sciogliere; adesso al cospetto di questa natura che, tranne le formiche, se ne infischiava evidentemente, era forse possibile cercare la soluzione di uno di essi. I cani dormivano distesi e appiattiti 11)2 lili come »figurine ritagliate, il coniglietto appeso con la testa in giu ad un ramo pendeva in diagonale sotto la spinta continua del vento, ma Tumeo, aiutato in questo dalla sua pipa, riusciva ancora a tenene gli occhi aperti. "E voi, don Ciccio, come avete votato il giorno Ventuno?" II pover'uomo sussulto. Preso alia sprowista, in un momen-to nel quale si trovava fuori del recinto di siepi precauzionali nel quale si chiudeva di solito come ogni suo compaesano, esitava, non sapendo come rispondere. II Principe scambid per timore quel che era soltanto sorpresa e si irrito. "Insomma, di chi avete paura? Qjujion ci siamo che noi, il vento e i cani." La lista dei testimoni rassicuranti non era, a dir vero, felice; il vento e chiacchierone per definizione, il Principe era per meta siciJiano. Di assoluta fiducia non c'erano che i cani e soltanto in quanto sprowisti di linguaggio articolato. Don Ciccio pero si era ripreso e la astuzia paesana gli aveva suggerito la risposta giusta, cioe nulla. "Scusate, Eccellenza, la vostra e una domanda inutile. Sapete gia che a Donnafugata tutti hanno votato per il 'si'." Questo Don Fabrizio lo sapeva, infatti; e appunto per cid la risposta non fece che trasformare un enigma piccolino in un enigma storico. Prima della votazione molte persone erano venute da lui a chiedere consiglio; tutte sinceramente erano state esortate a votare in modo affermativo. Don Fabrizio infatti non concepiva neppure come si potesse fare altrimenti, sia di fronte al fatto compiuto come rispetto alia teatrale banalita dell'atto, cosi di fronte alia necessity storica come anche in considerazione dei guai nei quali quelle umili persone sarebbe-ro forse capitate quando il loro atteggiamento negativo fosse stato scoperto. Si era accorto pero che molti non erano stati convinti dalle sue parole. Era entrato in gioco il machiavelli-smo incolto dei Siciliani che tanto spesso induceva, in quei tempi, questa gente, generosa per definizione, ad erigere impal-cature complesse fondate su fragilissime basi. Come dei clinici abilissimi nelle cure ma che si basassero su analisi del sangue e delle orine radicalmente erronee, e per far correggere le quali fossero troppo pigri, i Siciliani (di allora) finivano con l'uccidere l'ammalato, cioe loro stessi, proprio in seguito alia raffinatissima astuzia che non era quasi mai appoggiata a una reale conoscenza dei problemi o, per lo meno, degli interlocutori. Alcuni fra questi che avevano compiuto il viag-gio ad limina Gattopardorum stimavano cosa impossibile che un Principe di Salina potesse votare in favore della Rivoluzione (cosi in quel remoto paese venivano ancora designati i recenti mutamenti) e interpretavano i ragionamenti di lui come uscite ironiche volte a ottenere un risultato pratico opposto a quello suggerito a parole; questi pellegrini (ed erano i migliori) erano usciti dal suo studio ammiccando per quanto il rispetto lo permettesse loro, orgogliosi di aver penetrato il senso delle parole principesche e fregandosi le mani per congratularsi della propria perspicacia proprio nell'istante in cui questa si era ecclissata. Altri invece dopo averlo ascoltato si allontanava-no contristati, convinti che lui fosse un transfuga o un mente-catto e piú che mai decisi a non dargli retta e ad obbedire invece al proverbio millenario che esorta a preferire un male giá noto a un bene non sperimentato; questi erano riluttanti a ratificare la nuova realtá nazionale anche per ragioni personali, sia per fede religiosa, sia per aver ricevuto favori dal passato regime e non aver poi saputo inserirsi nel nuovo con sufficiente sveltezza; sia infine perché durante il trambusto della liberazio-ne erano loro scomparsi qualche paio di capponi e alcune misure di fave ed erano invece spuntate qualche paia di corna, o liberamente volontarie come le truppe garibaldine o di leva forzosa come i reggimenti borbonici. Per una diecina almeno di persone egli aveva avuta l'impressione penosa ma netta che avrebbero votato "no", una minoranza esigua certamente ma non trascurabile nel piccolo elettorato donnafugasco. Ove poi si voglia considerare che le persone venute da lui rappresenta-vano soltanto il fior fiore del paese e che qualche non convinto dovesse pur esserci fra quelle centinaia di elettori che non si erano neppur sognati di farsi vedere a palazzo, il Principe aveva calcolato che la compattezza affermativa di Donnafugata sarebbe stata variegata da una trentina di voti negativi. II giorno del Plebiscito era stato ventoso e coperto, e per le strade del paese si erano visti aggirarsi stanchi gruppetti di giovanotti con un cartellino recante tanto di "si" infilato nel nastro del cappello. Fra le cartacce e i rifiuti sollevati dai 104 105 turbini di vento, cantavano alcune strofe della "Bella Gigou-gin" trasformate in nenie arabe, sorte cui deve soggiacere qualsiasi melodietta vivace che sia cantata in Sicilia. Si erano anche viste due o tre "facce forestiere" (cioe di Girgenti) insediate nella taverna di zzu Menico dove decantavano le "magnifiche sorti e progressive" di una rmnovata Sicilia unita alia risona Italia; alcuni contadini stavano muti ad ascoltarli, abbrutiti com'erano, in parti eguali, da un immoderato impiego dello "zappone" e dai molti giorni di ozio coatto ed affamato. Scaracchiavano e sputavano spesso ma tacevano; tanto taceva-no che dovette essere allora (come disse poi Don Fabrizio) che le "facce forestiere" decisero di anteporre, fra le arti del Quadrivio, la Matematica alia Rettorica. Verso le quattro del pomeriggio il Principe si era recato a votare fiancheggiato a destra da Padre Pirrone, a sinistra da don Onofrio Rotolo; accigliato e pelli-chiaro procedeva cauto verso il Municipio e spesso con le mani si proteggeva gli occhi per impedire che quel ventaccio, carico di tutte le schifezze raccolte per via, gli cagionasse quella congiuntivite cui era soggetto; e andava dicendo a Padre Pirrone che senza vento l'aria sarebbe stata come uno stagno putrido ma che, anche, le ventate risanatrici trascinavano con se molte porcherie. Portava la stessa redingote nera con la quale tre anni fa, si era recato a Caserta per ossequiare quel povero Re Ferdinando che, per fortuna sua, era morto a tempo per non esser presente in questa giornata flagellata da un vento impuro durante la quale si poneva il suggello alia sua insipienza. Ma era poi stata insipienza dawero? Allora tanto vale dire che chi soccombe al tifo muore per insipienza. Ricordo quel Re affaccendato a dare corso a fiumi di cartacce inutili ed ad un tratto si awide quanto inconscio appello alia misericordia si fosse manifestato in quel volto antipatico. Questi pensieri erano sgradevoli come tutti quelli che ci fanno comprendere le cose troppo tardi e l'aspetto del Principe, la sua figura, divennero tanto solenni e neri che sembrava seguisse un carro funebre invisibile. Soltanto la violenza con la quale i ciottolini della strada venivano schizzati via dall'urto rabbioso dei piedi rivelava i conflitti interni; e superfluo dire che il nastro della sua tuba era vergine di qualsiasi cartello ma agli occhi di chi lo conoscesse un "si" e un "no" alternati s'inseguivano sulla lucentezza del feltro. Giunto in un locale del Municipio dove era il luogo di votazione fu sorpreso vedendo come tutti i membri del seggio si alzarono quando la sua statura riempi intera l'altezza della porta; vennero messi da parte alcuni contadini arrivati prima e che volevano votare e cosi, senza dover aspettare, Don Fabrizio consegnó il proprio "si" nelle patriottiche mani del sindaco Sedára. Padre Pirrone invece non votó affatto perché era stato attento a non farsi iscrivere come residente nel paese. Don 'Nofrio, lui, obbedendo agli ordini del Principe, manifesto la propria monosillabica opinione sulla complicata quistione italiana, capolavoro di concisione che venne compiuto con la medesima buona grazia con la quale un bambino beve I'olio di ricino. Dopo di che tutti furono invitati a "prendere un bicchieri-no" su, nello studio del sindaco; ma Padre Pirrone e don 'Nofrio misero avanti buone ragioni di astinenza l'uno, di mal di pancia l'altro e rimasero abbasso. Don Fabrizio dovette affrontare il rinfresco da solo. Dietro la scrivania di don Calogero fiammeggiava una oleografia di Garibaldi e (di giá) una di Vittorio Emanuele, fortunatamente collocata a destra; bell'uomo il primo, bruttissi-mo il secondo affratellati pero dal prodigioso rigoglio del loro pelame che quasi li mascherava. Su un tavolinetto vi era un piatto con biscotti anzianissimi che defecazioni di mosche Ustáváno a lutto e dodici bicchierini tozzi colmi di rosolio: quattro rossi, quattro verdi, quattro bianchi: questi, in centra; ingenua simbolizzazione della nuova bandiera che venó di un sorriso il rimorso del Principe che scelse per sé il liquore bianco perché presumibilmente meno indigesto e non, come si voile dire, come tardivo omaggio al vessillo borbonico. Le tre varieta di rosolio erano del resto egualmente zuccherose, attaccaticce e disgustevoli. Si ebbe il buon gusto di non brindare e comunque, come disse don Calogero, le grandi gioie sono mute. Venne mostrata a Don Fabrizio una lettera delle autorita di Girgenti che annunziava ai laboriosi cittadini di Donnafugata la concessione di un contributo di duemila lire per la fognatura, opera che sarebbe stata completata entro 106 107 il 1961, come assicurö U Sindaco, inciampando in uno di quei lapsus dei quali Freud doveva spiégare il meccanismo molti decenni dopo; e la riunione si sciolse. Prima del tfamonto le tre o quattro bagascette di Donnafu-gata (ve ne erano anche lí non raggruppate ma operose nelle loro aziende private) comparvero in piazza col crine adorno di nastrini tricolori per protestare contro l'esclusione delle donne dal voto; le poverine vennero beffeggiate via anche dai piú accesi liberáli e furono costrette a rintanarsi. Questo non impedí che U "Giornale di Trinacria" quattro giorni dopo facesse sapere ai Palermitani ehe a Donnafugata "aleune gentili rappresentanti del bei sesso hanno voluto manifestare la propria fede inconeussa nei nuovi ŕulgidi destini delia Patria amatissima, ed hanno sfilato nella piazza fra il generale consenso di quella patríottica popolazione." Dopo il seggio elettorale venne chiuso, gli serutatori si posero alľopera ed a notte fatta venne spalancato il balcone centrale del Municipio e don Calogero si rese visibile con panciera tricolore e tutto, ŕíancheggiato da due ragazzini con candelabri accesi che peraltro il vento spense senza indugio. Alia folia invisibile nelle tenebre annunziö che a Donnafugata il Plebiscito aveva dato questi risultati: Iscritti 515; votanti 512; "si" 512; "no" zero. Dal fondo oscuro della piazza salirono applausi ed ewiva; dal balconcino di casa sua Angelica, insieme alia cameriera funerea, batteva le belle mani rapaci; vennero pronunziati discorsi: aggettivi carichi di superlativi e di consonanti doppie rimbalzarono e si urtavano nel buio da una parete all'altra delle case; nel tuonare dei mortaretti si spedirono messaggi al Re (a quello nuovo) ed al Generale; qualche razzo tricolore si inerpicô dal paese al buio verso il cielo senza stelle; alle otto tutto era finito, e non rimase che ľoseuritá come ogni altra sera, da sempre. Sulla cima di monte Morco, adesso tutto era nitido sotto la gran luce; lavrupezza di quella notte pero ristagnava ancora in fondo all'anima di Don Fabrizio. II suo disagio assumeva forme tanto piü penose in quanto piü incerte: non era in alcun modo originato dalle grosse questioni delle quali il Plebiscito aveva iniziato la soluzione; i grandi interessi del Regno (delle Due Sicilie), gl'interessi della propria classe, i suoi vantaggi privati uscivano da tutti questi awenimenti ammaccati ma ancora vitali; date le circostanze non era Iecito chiedere di piü; il disagio suo non era di natura politica e doveva avere radici piü profonde radicate in una di quelle cagioni che chiamiamo irrazionali perche seppellite sotto cumuli d'igno-ranza di noi stessi. L'ltalia era nata in quell'accigliata sera a Donnafugata; nata proprio Ii in quel paese dimenticato quanto nell'ignavia di Palermo e nelle agitazioni di Napoli; una fata cattiva perö della quale non si conosceva il nome doveva esser stata presente; ad ogni modo era nata e bisognava sperare che avrebbe potuto vivere in questa forma; ogni altra sarebbe stata peggiore. D'accordo. Eppure questa persistente inquietudine qualcosa doveva significare; egli sentiva che durante quella troppo asciutta enunciazione di cifre come durante quei troppo enfatici discorsi, qualche cosa, qualcheduno era mor-to, Dio solo sapeva in quale andito del paese, in quale piega della coscienza popolare. II fresco aveva disperso la sonnolenza di don Ciccio, la massiccia imponenza del Principe aveva allontanato i suoi timori; ora a galla della sua coscienza emergeva soltanto il dispetto, inutile certo ma non ignobile. In piedi, parlava in dialetto e gesticolava, pietoso burattino che aveva ridicolmente ragione. im ?0(C«3 UfttfO WjJfß fXiWCS t\i« rVlsterjrOXJU "Io, Eccellenza, avevo votato no'. No,' cento volte no.' V Ricordavö quello che mi avevate detto; la necessitä, 1'inutilita, l'unita, I'opportunita. Avrete ragione voi, ma io di politica non j me ne sento. Lascio quesie cose agli altri Ma Ciccio Ttimeo 9 e un galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sforidati (e > percuore\a sulle sue chiappe gli accurati rattoppi dei.pantaloni da caccia) e il beneticio ricevuto non Io aveva dimenticato; e |j quei porci in Municipio s'inghiottono la mia opinione, la ^ masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. S Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco! Per una volta Ins 109 che potevo dice quello che pensavo quel succhiasangue di SedäraVni annulla, fa come se non fossi mai esistito, come se fossi niente immischiato con nessuno, io che sono Francesco Tumeo La Manna fu Leonardo, organista della Madre Chiesa di Donnafugata; padrone suo mille volle e che gli ho anche dedicato una mazurka composta da me ouando ě nata quella... (e si morse un dito per trenarsi) quella smorfiosa di sua figlia!" A questo punto la calma discese su Don Fabrizio che finalmente aveva sciolto l'enigma; adesso sapeva chi era stato strangolato a Donnafugata, in cento altri luoghi, nel corso di quella nottata di vento Iercio: una neonata, la buonafede; proprio quella creaturina che piú si sarebbe dovuta curare, il cui irrobustimento avrebbe giustificato altri stupidi vandalismi inutiü. II voto negativo di don Ciccio, cinquanta voti simili a Donnafugata, centomila "no" in tutto il Regno non avrebbero mutato nuüa al risultato, lo avrebbero anzi reso piú significati-vo, e si sarebbe evitata la storpiatura delle anime. Sei mesi fa si udiva la voce dispotica che diceva: "fai come dico io, o saranno bette." Adesso si aveva di giä l'impressione che la minaccia venisse sostituita dalle parole molli dell'usuraio: "Ma se hai firmato tu stesso? Non lo vedi? E tanto chiaro! Devi fare come diciamo noi, perché, guarda la cambiale! la tua volontä ě uguale alla nostra." Don Ciccio tuonava ancora: "Per voi signoři ě un'altra Cosa. Si puö essere ingrati per un feudo in piú; per un pezzo di pane la riconoscenza ě un obbligo. Un altro paio di maniche ancora ě per i trafficanti come Sedära per i quali approfittare ě legge di natura. Per noi piecola gente le cose sono come sono. Voi lo sapete, Eccellenza, la buon'anima di mio padre era guardacaccia nel Casino reale di S. Onofrio, giä al tempo di Ferdinando IV quando c'erano qui gl'Inglesi. Si faceva vita dura ma l'abito verde reale e la placca d'argento conferivano autorita. Fu la regina Isabella, la spagnuola, che era duchessa di Calabria allora, a farmi studiare a permettermi di essere quello che sono, Organista della Madre Chiesa, onorato della benevolenza di Vostra Eccellenza; e negli anni di maggior bisogno quando mia madre mandava una supplica a corte, le cinque 'onze' di soecorso arrivavano sicure come la morte, perché lä a Napoli ci volevano bene, sapevano che eravamo 110 buona gente e sudditi fedeli. Quando il Re veniva erano manacciate sulla spalla di mio padre e: 'Don Lionä, ne vurria taňte come a vuie, fedeli sostegni del Trono e della Persona mia.' L'aiutante di campo, poi, distribuiva le monete d'oro. Elemosine le chiamano ora, queste generosita di veri Re; lo dicono per non dover darle loro, ma erano giuste ricompense alla devozione. E oggi se questi santi Re e belle Regine guardano dal Cielo che dovrebbero dire? II figlio di don Leonardo Tumeo ci ha tradito!' Meno male che in Paradiso si conosce i la veritä. Lo so, Eccellenza, le persone come voi me lo hanno detto, queste cose da parte dei Reali non significano niente, fanno parte del loro mestiere! Sarä vero, ě vero, anzi. Ma le cinque onze d'oro c'erano, ě un fatto, e con esse ci si aiutava ! a campare l'inverno. E ora che potevo riparare il debito, ■ niente. 'Tu non ci sei.' II mio no' diventa un 'si". Ero un «'fedele suddito,' sono diventato un 'borbonico schifoso.' Ora ftutti Savoiardi sono! ma io i Savoiardi me li mangio col caffě, , io!" E tenendo fra il pollice e l'indice un biscotto fittizio lo ! inzuppava in una immaginaria tazza.flfcv^^J^w140 iiSj'JJ^EJii Don Fabrizio aveva sempře voluto bene a clon Uiccio, ma«oiw > era stato un sentimento nato dalla compassione per ogni *5J*J? persona che da giovane si era creduta destinata all'arte e che tluyo ■ da vei'L'hio, accortosi dl non possedere talcnto, continua ad ►>* 1 esefcitare quella stessa attivitä su scalini piú bassi, con in tasca^J^^ 1 i propn poveri sogriT; e Compativa anche la sua contegnosa wy,»v\ , miSgrja Ma adesso provava anche una specie di ammirazione ue per lui e nel fondo, proprio nel fondo, della sua altera coscien- W** za una voce chiedeva se per caso don Ciccio non si fosse etato piú signorilmente del Principe di Salina; e i tutti questi Sedära da quello minuscolo che violentava tica a Donnafugata a quelli maggiori a Palermo, a iTorino, non avevano forse commesso un delitto strozzando queste coscienze? Don Fabrizio non poteva saperlo allora, ma una parte della neghittositä, dell'acquiescenza per la quäle durante i decenni seguenti si doveva vituperare la gente del Mezzogiorno, ebbe la propria origine nello stupido annullamen-to della prima espressione di libertä che a questo popolo si era mai presentata. Don Ciccio si era sfogato; ora alla sua autentica ma rara <^deua adtxd C*W>A' »MWsc\aW in personificazione del "galantuomo austero" subentrava l'altra, assai piii frequente e non meno genliina dello "snob." Perche Tumeo apparteneva alia specie zoologica degli "snob passivi," specie adesso ingiustamente vilipesa. Beninteso la parola "snob" era ignota nel 1860 in Sicilia, ma cosi come prima di Koch esistevano i tubercolotici, cosi in quelk remotissima eta esisteva la gente per la quale ubbidire, imitare e soprattutto non far della pena a chi si stima di levatura sociale superiore alia propria, e legge suprema di vita: lo "snob" essendo infatti il contrario dell'invidioso. Allora egli si presentava sotto nomi differenti: era chiamato "devoto," "affezionato," "fedele"; e trascorreva vita felice perche il piii fuggevole sorriso di un nobiluomo era sufficiente a riempire di sole una intera sua giornata; e, poiche si profilava accompagnato da quegli appellate i affettuosi, le grazie ristoratrici erano piii frequenti di quel che siano adesso. La cordiale natura snobistica di don Ciccio, dunque, temette di aver recato fastidio a Don Fabrizio e la di lui sollecitudine si affrettava a cercare i mezzi per fugare le ombre accumulatesi per sua colpa, credeva, sul ciglio olimpico del Principe; il mezzo piii immediatamente idoneo era quello di proporre di riprendere la caccia; e cosi fu fatto. Sorprese durante la loro siesta meridiana alcune sventurate beccaccie e un altro coniglio caddero sotto i colpi dei caccia-tori, colpi, quel giorno, particolarmente spietati perche tanto Salina quanto Tumeo si compiacevano nell'identificare con don Calogero Sedara quegli innocenti animali. Gli sparacchia-menti, pero, i batuffoli di pelo o di penne che gli spari facevano un istante brillare al sole, non bastavano pero quel giorno a rasserenare il Principe; via via che le ore passavano e che il ritorno a Donnafugata si awicinava, la preoccupazione, il dispetto, l'umiliazione per la imminente conversazione con il plebeo sindaco lo opprimevano, e l'aver chiamato in cuor suo "don Calogero" due beccacce e un coniglio non era servito dopo tutto a nulla; benche fosse gia. deciso a inghiottire lo schifosissimo rospo, senti il bisogno di possedere phi ampie informazioni sull'awersario o, per meglio dire, di sondare l'opinione della gente riguardo al passo che stava per compiere. Fu cosi che per la seconda volta in quel giorno don Ciccio venne sorpreso da una domanda a bruciapelo. "Don Ciccio, statemi a sentire. Voi che vedete tante persone in paese, che cosa si pensa veramente di don Calogero a Donnafugata?" A Tumeo, in veritä, sembrava di aver giä espresso con sufficiente chiarezza la propria opinione sul sindaco, e cosi stava per rispondere quando gli balenarono in mente le vaghe voci che aveva inteso sussurrare circa la dolcezza degli occhi con i quali Don Tancredi contemplava Angelica; ed allora venne assalito dal dispiacere di essersi lasciato trascinare a manifestazioni tribunizie che forse puzzavano alle narici del Principe se quel che si assumeva era vero; e ciö mentre in un altro compartimento della sua mente egli si raUegrava di non aver detto nulla di positivo contro Angelica; anzi il lieve dolore che ancora sentiva al suo indice destro gli fece l'effetto di un balsamo. "Dopo tutto, Eccellenza, don Calogero Sedära non e peggiore di tanta altra gente venuta su in questi ultimi mesi." L'elogio era modesto ma fu sufficiente a permettere a Don Fabrizio d'insistere "Perche, vedete, don Ciccio, a me interessa molto di conoscere la veritä su don Calogero e la sua famiglia." "La veritä, Eccellenza, e che don Calogero e molto ricco, e molto influente anche; che e avaro (quando la figlia era in collegio lui e la moglie mangiavano in due un uovo fritto) ma che quando occorre sa spendere; e poiche ogni tari' speso nel mondo finisce in tasca a qualcheduno e successo che molta gente ora dipende da lui; e poi quando e amico, e amico, bisogna dirlo; la sua terra la dä a quattro terraggi e i contadini debbono crepare per pagarlo, ma un mese fa ha prestato cinquanta onze a Pasquale Tripi che lo aveva aiutato nel periodo dello sbarco; e senza interessi, il che e il piii grande miracolo che si sia visto da quando Santa Rosalia fece cessare la peste a Palermo. Intelligente come un diavolo, del resto: Vostra Eccellenza avrebbe dovuto vederlo nella primavera scorsa: andava avanti e indietro in tutto il territorio come un pipistrello, in carrozzino, sul mulo, a piedi, pioggia o sereno che fosse; e dove era passato si formavano circoli segreti, si preparava la strada per quelli che dovevano venire. Un castigo di Dio, Eccellenza, un castigo di Dio! E ancora non vediamo che il principio della sua camera! fra qualche mese sarä i 12 113 depu,tato a Torino, e fra qualche anno, quando saranno posti in vendita i beni ecclesiastici, pagandb quattro soldi, si prenderá i feudi di Marca e di Masciddáro, e diventerá il piú gran proprietary della provincia. Questo ě don Calogero, Eccellen-za, l'uomo nuovo come dev'essere; ě peccato pero che debba essere cosi." Don Fabrizio ricordó la conversazione di qualche mese prima con Padre Pirrone nell'osservatorio sommerso nel sole; quel che aveva predetto il Gesuita si awerava; ma non era forse una buona tattica quella d'inserirsi nel movimento nuovo e farlo volgere, almeno in parte, a favore di alcuni individui della sua classe? II fastidio della conversazione vicina con don Calogero diminui. "Ma gli altri di casa, don Ciccio, gli altri, come sono veramente?" "Eccellenza, la moglie di Don Calogero non l'ha vista nessuno da anni, meno di me. Esce soltanto per andare a messa, alia prima messa, quella delle cinque, quando non c'e nessuno. A quell'ora servizio di organo non ce n'e; ma io una volta ho fatto una levataccia apposta per vederla. Donna Bastiana entró accompagnata dalla cameriera, ed io impedito dal confessionale dietro il quale mi ero nascosto, non riuscivo a vedere molto; ma alia fine del servizio il caldo fu piú forte della povera donna ed essa scartó il velo nero. Parola d'onore, Eccellenza, essa ě bella come il sole! e non si puó dar torto a don Calogero se, scarafaggio come ě lui, se la vuol tenere lontana dagli altri. Pero anche dalle case meglio custodite le notizie finiscono col gocciolare; le serve parlano; e pare che donna Bastiana sia una specie di animale: non sa leggere, non sa scrivere, non conosce 1'orologio, quasi non sa parlare: una bellissima giumenta, voluttuosa e rozza; ě incapace anche di voler bene alia figlia; buona ad andare a letto e basta." Don Ciccio che, pupillo di regine e seguace di principi, teneva molto alle proprie semplici maniere che stimava perfette, sorrideva compiaciuto; aveva scoperto il modo di prendersi un po' di rivincita sull'annientatore della propria personalita. "Del resto" continuava "non potrebbe essere altrimenti. Lo sapete, Eccellenza, di chi ě figlia donna Bastiana?" Voltatosi, si alzó sulla punta dei piedi e con l'indice mostrava un lontano gruppetto di case che sembravano scivolare giú dal dirupo di un colle ed esservi a mala pena inchiodate da un campanile miserabile: un borgo crocifisso. "É figlia di un vostro affittuario di Runci, Peppe Giunta si chiamava e tanto sudicio e torvo era che tutti lo chiamavano 'Peppe 'Mmerda'. Scusate la parola, Eccellenza." E, sodisfatto, awolgeva attorno a un suo dito un orecchio di Teresina. "Due anni dopo la fuga di don Calogero con Bastiana lo hanno trovato morto sulla trazzera che va a Rampinzeri, con dodici 'lupare' nella schiena. Sempre fortunato don Calogero, perché quello stava diventando im-portuno e prepotente." Molte di queste cose erano giá note a Don Fabrizio ed erano state passate in bilancio; ma il soprannome del nonno di Angelica non lo conosceva; esso apriva una prospettiva storica profonda, svelava abissi in paragone dei quali don Calogero sembrava un'aiuola da giardino. Senti veramente il terreno mancargli sotto i piedi; come avrebbe fatto Tancredi a mandar giu anche questo? e lui stesso? La sua testa si mise a calcolare quale legame di parentela avrebbe potuto unire il Principe di Salina, zio dello sposo, al nonno della sposa; non ne trovo, non ve n'erano. Angelica era Angelica, un fiore di ragazza, una rosa cui il soprannome del nonno era servito solo da fertilizzante. "Non olet" ripeteva "non olet" anzi "optime foemmam ac contubernium olet." "Di tutto mi avete parlato, don Ciccio, di madri selvagge e di nonni fecali, ma non di ció che mi interessa di piú, della signorina Angelica." II segreto sulle intenzioni matrimoniali di Tancredi, benché ancora embrionali sino a poche ore prima, sarebbe stato certa-mente divulgato se, per caso, non avesse avuto la fortuna di mimetizzarsi. Senza dubbio erano state notate le frequenti visite del giovane alia casa di don Calogero come pure i suoi sorrisi rapiti; le mille piccole premure, abituali e insignificanti in cittá, divenivano sintomi di violente brame agli occhi del puritanesimo donnafugasco. Lo scandalo maggiore era stato il primo: i vecchietti che si rosolavano al sole e i ragazzini che duellavano avevano visto tutto, compreso tutto e ripetuto tutto; sui significati ruffianeschi e afrodisiaci di quella dozzina di pesche erano state consultate megere espertissime e libri 114 115 disvalatori di arcani fra i quali in primo luogo il Rutilio Benincasa, l'Aristotile delle plebi contadine. Per fortuna si era prodotto un fenomeno relativamente frequente da noi: il desiderio di malignare aveva mascherato la veritá; tutti si erano costruiti il pupazzo di un Tancredi libertino che aveva fissato la propria lascivia su Angelica e che armeggiasse per sedurla, e bašta. II semplice pensiero di un matrimonio meditato fra un Principe di Falconeri e una nipote di Peppe 'Mmerda non traverse neppure l'immaginazione di quei villici che rendevano cosi alle case feudali un omaggio equivalente a quello che il bestemmiatore rende a Dio. La partenza di Tancredi troncó poi queste fantasie e non se ne parló piu. Sotto questo riguardo Tumeo era stato alia pari con gli altrí e perció accolse la domanda del Principe con l'aria divertita di un uomo anziano che parli delle bricconate di un giovanotto. "Delia signorina, Eccellenza, non c'e niente da dire: essa park da sé: i suoi occhi, la sua pelle, la sua magnificenza sono esplicite e si fanno capire da tutti. Credo che il linguaggio che parlano sia stato ben compreso da Don Tancredi; o sono troppo maligno a pensarlo? In lei c'e tutta la bellezza della madre senza l'odor di beccume del nonno. E intelligente poi! Avete visto come questi pochi anni a Firenze sono bastati a trasformarla? Ě diventata una vera signora" continuava don Ciccio che era insensibile alle sfumature "una signora comple-ta. Quando ě ritornata dal collegio mi ha fatto venire a casa sua e mi ha suonato la mia vecchia mazurka: suonava male ma vederla era una delizia, con quelle trecce nere, quegli occhi, quelle gambe, quel petto... Uuh! altro che odore di beccume! le sue lenzuola devono avere il profumo del para-diso!" II Principe si seccó: tanto geloso ě l'orgoglio di classe, anche nel momento in cui traligna, che quelle lodi orgiastiche alia procacia della futura nipote lo offesero; come ardiva don Ciccio esprimersi con questo lascivo lirismo nei riguardi della futura Principessa di Falconeri? Era vero pero che il pover'uomo non ne sapeva niente; bisognava raccontargli tutto; del resto fra qualche ora la notizia sarebbe stata pubblica. Si decise subito e rivolse a Tumeo un sorriso Gattopardesco ma amichevole: "Calmatevi, caro don Ciccio, calmatevi; a casa ho una lettera di mio nipote che mi incarica di fare una domanda di matrimonio per la signorina Angelica; da ora in poi ne parlerete col vostro consueto ossequio. Siete il primo a conoscere la notizia, ma per questo vantaggio dovrete pagare: ritornato a palazzo sarete rinchiuso a chiave insieme a Teresina nella stanza dei fucili; avrete il tempo di ripulirne e oliarne parecchi e sarete posto in liberta soltanto dopo la visita di don Calogero; non voglio che niente trapeli prima." Sorpresi cosi alia sprowista, le cento precauzioni, i cento snobismi di don Ciccio crollarono di botto come un gruppo di birilli centrati in pieno. Soprawisse solo un sentimento antichissimo. "Questa, Eccellenza, e una porcheria! Un nipote, quasi un figlio vostro non doveva sposare la figlia di quelli che sono i vostri nemici e che sempre vi hanno tirato i piedi. Cercare di sedurla, come credevo io, era un atto di conquista; cosi, e una resa senza condizioni. E la fine dei Falconeri, e anche dei Salina!" Detto questo chino il capo e desidero, angosciato, che la terra si aprisse sotto i suoi piedi. II Principe era diventato paonazzo, financo le orecchie, financo i globi degli occhi sembravano sangue. Strinse 1 magli dei suoi pugni e fece un passo verso don Ciccio. Ma era un uomo di scienza, abituato dopo tutto a vedere il pro e contro delle cose; inoltre sotto l'aspetto leonino era uno scettico. Aveva di gia subito tanto oggi: il risultato del Plebiscite il soprannome del nonno di Angelica, le "lupare"! E Tumeo aveva ragione, in lui parlava la tradizione schietta. Pero era uno stupido: questo matrimonio non era la fine di niente ma il principio di tutto; era nell'ambito di secolari consuetudini. I pugni si riaprirono, i segni delle unghia rimasero impressi nei palmi. "Andiamo a casa, don Ciccio; voi certe cose non le potete capire. D'accordo come prima, siamo intesi?" E mentre discendevano verso la strada sarebbe stato difficile dire quale dei due fosse don Chisciotte e quale Sancio. Quando alle quattro e mezza precise gli venne annunziata la venuta puntualissima di don Calogero, il Principe non aveva 116 ancora finita la propria toletta; fece pregare il signor Sindaco di aspettare un momento nello studio e, continuö, placido a farsi bello. Si unse i capelli con il lemo-lisao, il Lime-juice di Atkinson, densa lozione biancastra che gli arrivava a cassette da Londra e che subiva, nel nome, la medesima deformazione etnica delle canzoni; rifiuto la redtngote nera e la fece sostituire con una di tenuissima tinta Ulla che gli sembrava piú adatta all'occasione presunta festosa, indugiö ancora un poco per strapparsi dal mento, con una pinzetta, uno sfacciato peluzzo biondo che era riuscito a farla franca la mattina nell'affrettata rasatura; fece chiamare Padre Pirrone; prima di uscire prese su un tavolo un estratto delle Blätter der Himmels/orscbung e con il fascicoletto arrotolato si fece il segno della croce, gesto di devozione che ha in Sicilia un significato non religioso piú frequente di quanto s'immagini. Traversando le due stanze che precedevano lo studio si illuse di essere un Gattopardo imponente dal pelo liscio e profumato che si preparasse a sbranare uno sciacalletto timoro-so; ma per una di quelle involontarie associazioni di idee che sono la croce delle nature come la sua, davanti alia memoria gli passö l'immagine di uno di quei quadri storici francesi nei quali marescialli e generali austriaci, carichi di pennacchi e gale, sfilano, arrendendosi dinanzi a un ironico Napoleone; loro sono piú eleganti, ě indubbio, ma il vincitore ě l'omiciatto-lo in cappottino grigio; e cosi, oltraggiato da questi inopportu-ni ricordi di Mantova e di Ulma, fu invece un Gattopardo irritato a entrare nello studio. Don Calogero se ne stava Ii all'impiedi, piccolissimo, minuto e imperfettamente rasato; sarebbe dawero sembrato uno sciacalletto non fosse stato per i suoi occhietti sprizzanti intelligenza; ma poiché questo ingegno aveva uno scopo materiále opposto a quello astratto cui credeva tendere quello del Principe, esso venne considerato come segno di malignita. Sprowisto del senso di adattamento dell'abito alle circostanze che nel Principe era innato, il sindaco aveva creduto far bene vestendosi quasi in gramaglie; egli era nero quasi quanto Padre Pirrone; ma, mentre questi si sedette in un cantuccio assumendo l'aria marmoreamente astratta dei sacerdoti che non vogliono" pensare sulle decisioni altrui, il volto di lui esprimeva un sentimento di avida attesa quasi penoso da guardare. S'iniziarono subito le scaramuccie di parole insignifi-canti che precedono le grandi battaglie verbali. Ma fu don Calogero a disegnare il grande attacco: "Eccellenza" chiese "ha ricevuto buone notizie da Don Tancredi?" Nei piccoli paesi allora il sindaco aveva modo di controllare, inofficiosamente, la posta, e l'inconsueta eleganza della lettera di Tancredi lo aveva forse posto in guardia. II Principe quando questa idea gli passö per la testa, cominciö ad irritarsi. "No, don Calogero, no. Mio nipote ě diventato pazzo..." Ma esiste una Dea protettrice dei principi. Essa si chiama Buone Creanze, e spesso interviene a salvare i Gattopardi dai mali passi. Perö gli si deve pagare un forte tributo. Come Pallade Athena interviene a frenare le intemperanze di Odisseo cosi Buone Creanze si manifestö a Don Fabrizio per fermarlo suU'orlo dell'abisso; ma egli dovette pagare la salvezza divenen-do esplicito una volta tanto in vita sua. Con perfetta naturalez-za, senza un attimo di sosta conchiuse la fräse: "pazzo di amore per vostra figlia, don Calogero; e me lo ha scritto ieri." II sindaco conservö una sorprendente equanimitä; sorrise e si diede a scrutare il nastro dei proprio cappello; Padre Pirrone aveva gli occhi rivolti al soffitto come se fosse un capomastro incaricato di saggiarne la soliditä. Don Fabrizio rimase male: quelle taciturnitä congiunte gli sottraevano anche la minima soddisfazione di aver stupefatto gli ascoltatori. Fu quindi con sollievo che si accorse che don Calogero stava per parlare. "Lo sapevo, Eccellenza, lo sapevo. Sono stati visti baciarsi Martedí 25 Settembre, la vigilia della partenza di Don Tancredi; nel vostro giardino, vicino alla fontána. Le siepi di alloro non sempre sono ritte come si crede. Per un mese ho atteso un passo di vostro nipote, e adesso pensavo giä di venire a chiedere a Vostra Eccellenza quali fossero le intenzioni di lui." Vespe numerose e pungenti assalirono Don Fabrizio. Anzi tutto, come si conviene ad ogni uomo non ancora decrepito, quella della gelosia carnale: Tancredi aveva assaporato quel gusto di fragole che a lui sarebbe rimasto sempre ignoto. Dopo, 118 un senso di ufniliazione sociale, quello di ritrovarsi ad essere l'accusato invece che il messaggero di buone nuove. Terzo un dispetto personale, quello di chi si sia illuso di controllare tutti e che invece trova che molte cose si svolgono senza che lui lo sappia. "Don Calogero, non cambiamo le carte in tavola. Ricorda-tevi che sono stato io a pregarvi di venire qui. Volevo comuni-carvi una lettera di mio nipote che e arrivata ieri. In essa si dichiara la passione sua per la signorina vostra figlia, passione che io..." (qui il Principe titubo un poco perche le bugie sono talvolta difficili da dire davanti a degli occhi a succhiello come quelli del sindaco) "della quale io ignoravo tutta l'intensita; ed a conclusione di essa egli mi ha incaricato di chiedere a voi la mano della signorina Angelica." Don Calogero continuava a rimanere impassibile; Padre Pirrone da perito edile si era trasformato in santone mussulma-no e, incrociate quattro dita della sua destra con quattro della sinistra, faceva roteare i pollici 1'uno attorno all'altro, invertendone e mutandone la direzione con sfoggio di fantasia coreografica. II silenzio duro a lungo, il Principe si spazienti: "Adesso, don Calogero, sono io che aspetto che mi dichiariate le vostre intenzioni." II sindaco che aveva tenuto gli occhi rivolti verso la frangia arancione della poltrona del Principe, se li copri un istante con la destra, poi li rialzo; adesso apparivano candidi, colmi di stupefatta sorpresa, come se dawero se li fosse cambiati in quell'atto. "Scusatemi, Principe." (Alia fulminea omissione del]"'Ec-cellenza" don Fabrizio capi che tutto era felicemente consu-mato.) "Ma la bella sorpresa mi aveva toko la parola. lo pero sono un padre moderno e non potro darvi una risposta definitiva se non dopo aver interrogato quell'angelo che e la consolazione della nostra casa. I diritti sacri di un padre, pero, so anche esercitarli; io conosco tutto cio che awiene nel cuore e nella mente di Angelica, e credo poter dire che l'affetto di Don Tancredi, che tanto ci onora tutti, e sinceramente ricambiato." Don Fabrizio fu sopraffatto da sincera commozione: il rospo era stafb ingoiato, la testa e gl'intestini maciullati scende- vano giii per la sua gola: restavano ancora da masticate le zampe ma era roba di poco conto in confronto del resto; il piu era fatto. Assaporato questo senso di liberazione, cominciö in lui a farsi strada l'affetto per Tancredi; si raffiguro gli stretti occhi azzurri che avrebbero sfavillato leggendo la risposta festosa; immaginö, ricordö per dir meglio, i primi mesi di un matrimonio di amore durante i quali le frenesie, le acrobazie dei sensi sono smaltate e sorrette da tutte le gerarchie angeliche, benevole benche sorprese. Ancor piu in la intravide la vita sicura, la possibilita di sviluppo dei talenti di Tancredi, cui, senza questo, la mancanza di quattrini avrebbe tarpato le ali. II nobiluomo si alzd, fece un passo verso don Calogero attonito, lo soUevö dalla poltrona, se Io strinse al petto; le gambe cone del Sindaco rimasero sospese in aria. In quella stanza di remota provincia siciliana venne a raffigurarsi una stampa giapponese nella quale un moscone peloso pendesse da un enorme iris violaceo. Quando don Calogero ritoccd il pavimento: "Debbo proprio regalargli un paio di rasoi inglesi" pensö Don Fabrizio "cosi non pud andare avanti." Padre Pirrone bloccö il turbinare dei propri pollici, si alzd, strinse la mano al Principe. "Eccellenza, invoco la protezione divina su queste nozze; la vostra gioia e divenuta la mia." A don Calogero porse le punte delle dita senza parlare. Poi con una nocca percosse un barometro appeso al muro; calava; brutto tempo in vista. Si risiedette, apri il breviario. "Don Calogero" diceva il Principe "l'amore di questi due giovani e la base di tutto, l'unico fondamento sul quale puö sorgere la loro felicitä futura. Questo lo sappiamo; punto e basta. Ma noi, uomini anziani, siamo costretti a preoccuparci di altre cose. E inutile dirvi quanto sia illustre la famiglia Falconeri: venuta in Sicilia con Carlo d'Angiö, essa ha trovato modo di continuare a fiorire sotto gli Aragonesi, gli Spagnoli, i re Borboni (se mi e permesso nominarli dinanzi a voi) e sono sicuro che prospererä anche sotto la nuova dinastia continentale. (Dio guardi)." (Non era mai possibile conoscere quando Don Fabrizio ironizzasse o quando si sbagliasse); "furo-no Pari del Regno, Grandi di Spagna, Cavalieri di Santiago, e quando salta loro il ticchio di essere cavalieri di Malta non hanno che da alzare un dito, e via Condotti sforna loro i 120 121 dipldmi senza fiatare, come se fossero maritozzi, almeno fino ad oggi." (Questa insinuazione perfida fu del tutto sprecata, che don Calogero ignorava nel modo piü completo gli statuti del Sovrano ©rdine Gerosolimitano di San Giovanni.) "Sono sicuro che vostra figlia con la sua rara bellezza ornera ancor di piü il vecchio tronco dei Falconeri, e con la sua virtü sapra emulare quella delle same Principesse, l'ultima delle quali, mia sorella buon'anima, certo benedirä dal cielo gli sposi." E Don Fabrizio si commosse di nuovo ricordando la sua cara Giulia la cui vita spregiata era stata un perpetuo sacrificio dinanzi alle stravaganze frenetiche del padre di Tancredi. "In quanto al ragazzo, lo conoscete; e, se non lo conosceste, ci son qua io che potrei garantirvelo in tutto e per tutto. Tonnellate di bontä ci sono in lui, e non sono io solo che lo dico, non e vero, padre Pirrone?" L'ottimo Gesuita, tirato fuori dalla propria lettura, venne a trovarsi ad un tratto dinanzi a un dilemma penoso. Era stato confessore di Tancredi, e di peccatucci suoi ne conosceva piü d'uno: nessuno veramente grave, s'intende, pero tali ad ogni modo da detrarre parecchi quintali alia massiccia bontä della quale si parlava; di natura poi, tutti, da garantire una ferrea infedeltä coniugale. Questo, va da se, non poteva esser detto tanto per ragioni sacramentali come per convenienze mondäne; d'altra parte egli voleva bene al ragazzo e benche disapprovasse quel matrimonio dal fondo del proprio cuore, non avrebbe mai detto una parola che avesse potuto, non si dice neppure impedire ma offuscarne la scorrevolezza. Trovd rifugio nella Prudenza fra le virtü cardinali la piü duttile e quella di piü agevole maneggio. "II fondo di bontä del nostro caro Tancredi e grande, don Calogero, ed egli sorretto dalla Grazia divina e dalle virtü terrene della signorina Angelica, poträ diventare un giorno un buon sposo cristiano." La profe-zia arrischiata ma prudentemente condizionata passö liscia. "Ma, don Calogero," proseguiva il Principe masticando le ultime cartilagini del rospo "se e inutile parlarvi dell'antichitä di casa Falconeri, e anche, disgraziatamente, inutile, perche lo sapete di giä, dirvi che le attuali condizioni economiche di mio nipote non sono eguali alia grandezza del suo nome; il padre di Taricredi, mio cognato Ferdinando, non era quel che si chiama un padre preveggente; le sue magnificenze di gran signore, aiutate dalla leggerezza dei suoi amministratori, hanno gravemente scosso il patrimonio del mio caro nipote e pupillo; i grandi feudi intorno a Mazzara, la pistacchiera di Ravanusa, le piantagioni di gelsi a Oliveri, il palazzo di Palermo, tutto, tutto e andato via; voi lo sapete, don Calogero." Don Calogero infatti lo sapeva: era stata la piü grande migrazione di rondini della quale si avesse ricordo, e la memoria di essa incuteva ancora terrore, ma non prudenza, a tutta la nobiltä siciliana, mentre era fonte di delizia appunto per tutti i Sedära. "Durante U periodo della mia tutela sono riuscito a salvare la sola villa, quella vicino alia mia, mediante molti cavilli legali ed anche in grazia di qualche sacrificio che, del resto, ho compiuto con gioia tanto in memoria della mia santa sorella Giulia come per affetto per quel caro ragazzo. E una bella villa: la scala e disegnata da Marvuglia, i salotti erano stati decorati dal Serena-rio; ma, per ora, 1'ambiente in miglior stato pud appena servire da stalla per le capre." Gli ultimi ossicini del rospo erano stati piü disgustosi del previsto; ma, insomma, erano andati giü anch'essi. Adesso bisognava sciacquarsi la bocca con qualche frase piacevole, del resto sincera. "Ma, don Calogero, il risultato di tutti questi guai, di tutti questi crepacuori, e stato Tancredi; noialtri queste cose le sappiamo: e forse impossibile ottenere la distin-zione, la delicatezza, il fascino di un ragazzo come lui senza che i suoi maggiori abbiano dilapidato una mezza dozzina di grossi patrimonii almeno in Sicilia e cosi; una specie di legge di natura, come quelle che regolano i terremoti e le siccitä." Tacque perche entrava un camenere che recava su di un vassoio due lumi accesi; mentre essi venivano collocati al loro posto Don Fabrizio lasciö regnare nello studio un silenzio carico di compiaciuto accoramento. Dopo: "Tancredi non e un giovane qualsiasi, don Calogero;" prosegui, "egli non e soltanto signorile ed elegante; ha appreso poco, ma conosce tutto quello che si deve conoscere nel suo ambiente: gli uomini, le donne, le circostanze, U colore del tempo; e ambizioso ed ha ragione di esserlo, andrä lontano; e la vostra Angelica, don Calogero, sarä fortunata se vorrä salire la strada insieme a lui. 12) Soluzioni I Trenitalia ^ MLOL - Emilia Digital Library - Sched.. A archive.org I gattopardo : Giuseppe Tomasi di La.. @ Corriere della Sera: news e ultime not.. QUO _L Mail - daniela shalom vagata - Outlook E pdí quando si ě con Tancredi ci si puó forse kritare qualche volta, ma non ci si annoia mai; e questo ě molto." Sarebbe esagerato dire ché il sindaco apprezzasse le sfuma-ture mondané di questa parte della conversazione del Principe; essa all'ingrosso non fece che confermarlo nella propria som-maria convinzione dell'astuzia e dell'opportunismo di Tancredi, e di un uomo astuto e tempista egli aveva bisogno a casa, e di null'altro. Si sentiva, si credeva uguale a chiunque; gli rincresceva financo di notare nella figlia un certo sentimento amoroso per il giovanotto. "Principe, queste cose le sapevo, ed altre ancora; e non me ne importa niente." Si rivesti di sentimentalita. "L'amore, Principe, l'amore ě tutto, ed io lo posso sapere." E forse era sincere il pover'uomo se si ammetteva la probabile sua definizione dell'amore. "Ma io sono un uomo di mondo e voglio anch'io porre le mie carte in tavola. Sarebbe inutile parlare della dote di mia figlia; essa ě il sangue del mio cuore, il fegato fra le mie viscere; non ho altra persona cui lasciare quello che posseggo, e quello che ě mio ě suo. Ma ě giusto che i giovani conoscano quello su cui possono contare subito: nel contratto matrimoniale assegneró a mia figlia il feudo di Settesoli, di salme 644, cioě ettari 1680, come vogliono chia-marli oggi, tutto a frumento; terre di prima qualitá ventilate e fresche, e 180 salme di vigneto e uliveto a Gibildolce; e il giorno del matrimonio consegneró alio sposo venti sacchetti di tela con mille 'onze' ognuno. Io resto con una canna nelle mani" aggiunse, convinto e lieto di non essere creduto "ma una figlia ě una figlia. E con questo si possono rifare tutte le scale di Marruggia e tutti i soffitti di Sorcionero che esistono al mondo. Angelica dev'essere alloggiata bene." La volgaritá ignorante gli sprizzava da ogni poro; malgrado ció i suoi due ascoltatori furono sbalorditi: Don Fabrizio ebbe necessitá di tutto il suo potere di controllarsi per nascondere la sorpresa. II colpo di Tancredi era piú sbardellato di quanto potesse supporsi. Una sensazione di disgusto stava per assalirlo, ma la bellezza di Angelica, la cinicitá dello sposo riuscivano ancora a velare di poesia la brutalita del contratto. Padre Pirrone, lui, fece schioccare la lingua sul palato; poi, infastidi-to per aver rivelato il proprio stupore, si provó a trovare una rima all'improwido suono facendo scricchiolare la sedia e le scarpe, sfogliando con fragore il breviario; non riusci a nulla e Pimpressione rimase. Per fortuna una improntitudine di don Calogero, la sola della conversazione, tiro tutti dall'imbarazzo: "Principe" disse "so che quello che sto per dire non fara effetto su di voi che discendete da Titone imperatore e Berenice regina, ma anche i Sedara sono nobili; fino a me essi sono stati una razza sfortunata seppellita in provincia e senza lustre, ma io ci ho le carte in regola nel cassetto, e un giorno si sapra che vostro nipote ha sposato la baronessina Sedara del Biscotto; titolo concesso da Sua Maesta Ferdinando IV sulle secrezie del potto di Mazzara. Debbo fare le pratiche: mi manca solo un attacco." Quella degli "attacchi" mancanti, delle secrezie, delle quasi omonimie era, cento anni fa, un elemento importante della vita di molti siciliani, e forniva alternate esaltazioni e depressioni a migliaia di persone, buone o meno che fossero; ma questo e argomento troppo importante per essere trattato di sfuggita e qui ci contenteremo di dire che l'uscita araldica di don Calogero reco al Principe l'impareggiabile godimento artistico di vedere un tipo realizzarsi in tutti i suoi particolari e che il proprio riso represso gli addolci la bocca, fino alia nausea. La conversazione in seguito si disperse in mille rivoli inutili: Don Fabrizio si ricordo di Tumeo rinchiuso all'oscuro nella stanza dei fucili, e per 1'ennesima volta in vita deplore la durata delle visite paesane e fini col rinchiudersi in un silenzio risentito; don Calogero capi, promise di ritornare l'indomani mattina per recare il non dubbio consenso di Angelica e si congedo. Fu accompagnato per due salotti, fu riabbracciato e scese le scale mentre il Principe torreggiando dall'alto, guardava rimpicciolirsi quel mucchietto di astuzia, di abiti mal tagliati, di ore e d'ignoranza che adesso entrava quasi a far pane della famiglia. Tenendo in mano una candela andó poi a liberare Tumeo che se ne stava rassegnato al buio fumando la propria pipa. 124 125 I a r- i i , „ PARTE QUARTA Mi displace don Liccio, ma, tapirete, lo dovevo tare. "Capisco, Eccelknza, capisco. Tutto ě andato bene, aJmeno?" "Benissimo, non si poteva meglio." Tumeo biascicó delle congratulazioni, rimise il laccio al collare di Teresina che dormiva stremata dalla caccia, raccattó il carniere. "Prendete anche le mie beccacce, ve le siete meritate. Arrivederci, caro don Ciccio, fatevi vedere presto. E scusatemi per ogni cosa." Una potente manacciata sulle spalle servi da segno di riconci- liazione e da richiamo di potenza; l'ultimo fedele di casa Salina se ne andó alle sue povere stanze. Quando i] Principe ritornó nel suo studio trovó che Padre Pirrone era sgattaiolato via per evitare discussioni; e si diresse verso la camera della moglie per raccontarle i fatti. U rumore dei suoi passi vigorosi e rapidi lo preannunciava a dieci metri di distanza. Traverse la stanza di soggiorno delle ragazze: Carolina e Caterina arrotolavano un gomitolo di lana ed al suo passaggio si alzarono sorridenti; mademoiselle Dombreuil si tolse in fretta gli occhiali e rispose compunta al suo saluto; Concetta aveva le spalle voltate; ricamava al tombolo e, poiché non udí passare il padre, non si volse neppure. 126 Novembre 1860 Dai piú frequenti contatti derivati dall'accordo nuziale cominció a nascere in Don Fabrizio una curiosa ammirazione per i meriti di Sedára. La consuetudine fini con 1'abituarlo alle guance mal rasate, alTaccento plebeo, agli abiti bislacchi ed al persistente olezzo di sudore, ed egli fu libero di awedersi della rara intelligenza dell'uomo; molti problemi che appariva-no insolubili al Principe venivano risolti in quattro e quattro Otto da don Calogero; liberato come questi era dalle cento pastoie che 1'onestá, la decenza e magari la buona educazione impongono alle azioni di molti altri uomini, egli procedeva nella foresta della vita con la sicurezza di un elefante che, svellendo alberi e calpestando tane avanza in linea retta non awertendo neppure i graffi delle spině e i guaiti dei sopraffatti. Allevato, invece, in vallette amene percorse dagli zeffiri cortesi dei "Per piacere" "ti sarei grato" "mi faresti un favore" "sei stato molto gentile," il Principe adesso, quando chiacchierava con don Calogero si trovava allo scoperto su una landa spazzata da venti asciutti e, pur continuando a preferire in cuor suo gli anfratti dei monti, non poteva non ammirare la foga di queste correnti ďaria che dai lecci e dai cedri di Donnafugata traeva arpeggi mai uditi prima. Pian piano, quasi senza awedersene, Don Fabrizio espone-va a don Calogero i propri affari che erano numerosi, complessi e da lui stesso mal conosciuti; questo non giá per difetto di 129 pcnetrazionc ma per una sorta - prewigio. a sua liglia Ma gia ion la sua loMosicnza del Tancredi dell'epoca |n istganlialdina si era trovato ill Ironte ad un caiiipioiic inatteso di giovane nubile, arido quanto liit, capaie di barattare assai vaiitaggiosanientc sornsi e tituli propri con avvenenze e sostan zc altrui, pin sapendn rivestne quisle azioni "scdarcsche" di una grazta e di un lascmo i he egli sentiva ill non possedere, die subiva senza rendeisene contn e st-n/a in alcun modo poter disi ernerne le origini Quando, poi, eboC unparato a CQOOScere meglio Don labrizio rilrovo si in lui la molle/./a e I'liicapacita a dllendeisi the irann It- i arattei istu lie del sun pre liiini.itu Mobile peiora, m.i in pin una tor/a ill attrazione ainerente in'tono ma uguale in inletisita .1 quella del giovane Falconeri; inoltre ancora una certa energia tendeMte verso I'astrazione, una disposizionc a ccrcare la forma di vita in cid che da lui stesso uscisse c non in cid che poteva strappare agli altri; da questa energia astrattiva egli rimase lortemeute colpito benche gli si presentasse grezza e non riducibile in parole come qui si e tentato di tare; si awide pcr6 che buona parte di questo fascino scaturiva dalle buone maniere e si rcse conto di quanto un uomo beneducato sia piacevole, pcrche in fondo non e altro che qualcheduno che elimina le manifesta-zioni sempre sgradevoli di tanta parte della condizione uiii.111.1 e che esercita una specie di prolittevole altruismo (formula nella quale l'efficacia dell'aggettivo gli lece lollerare l'inutilita del sostantivo). Lentamente don (]alogero capiva che un pasto in comune non deve di necessita esserc un uragano di rumori masticatori e di macchie d'unto; che una conversazione puo benissimo non rassomigliare a una lite I1.1 cani; che dar la precedenza a una donna e segno di torza e non, come aveva creduto, di debolezza; che da un interlocutore si puo ottencre di piu se gli si dice "non mi sono spiegato bene" anziche "non hai capito un corno," e che adoperando simili accorgimenti, cibi, donne, argomenti e interlocutori vengono a guadagnarci a tutto protitto anche di chi li ha trattati bene. Sarebbe ardito aftermare che don C'.alogero approlittasse subito di quanto aveva appreso; egli seppe da allora in poi radersi un po' meglio e spaventarsi meno della quantita di sapone adoperato nel bucato, e null'altro; ma tu da quel momento che si inizio, per lui ed t sum, quel costante ratlinarsi di una classe che nel corso di tre generazioni traslorma efficienti cafoni in gentiluomini indilesi. La prima visita di Angelica alia tamiglia Salina da lidanzata si era svolta regolata da una regia impeccabile. II contegno della ragazza era stato perfetto a tal punto che sembrava suggerito gesto per gesto, parola per parola, da Tancredi; ma le comunicazioni lente del tempo rendevano insostenibile questa eventualita e si fu costretti a ricorrere a una ipotesi, a quella di suggerimenti anteriori alio stesso fidanzamenm ufficiale; ipotesi arrischiata anche per chi meglio crcdesse di in conoscere la preveggenza del Principino, ma non del tutto assurda. Angelica giunse alle sei di sera in bianco e rosa; le soffici trecce pere ombreggiate da una grande paglia ancora estiva sulla quale grappoli di uva artificiale e spighe dorate evocavano discrete i vigneti di Gibildolce e i granai di Settesoli. In sala d'ingresso piantö Ii ü padre; nello sventolio dell'ampia gonna sali leggera i non pochi scalini della scala interna e si gettö nelle braccia di Don Fabrizio; gli diede, sulle basette, due bei bacioni che furono ricambiati con genuino affetto; il Principe si attardö un attimo forse piú del necessario a fiutare l'aroma di gardenia delle guance adolescenti. Dopo di che Angelica arrossi, retrocedette di mezzo passo: "Sono tanto, tanto felice..." Si awicinö di nuovo e, ritta sulla punta delle scarpine gli sospird all'orecchio: "Zione!". Felicissimo gag, di regia paragonabile in efficacia addirittura alia carrozzella da bambini di Eisenstein, e che, esplicito e segreto com'era, mandö in visibilio il cuore semplice del Principe e lo aggiogö definitivamente alia bella figliola. Don Calogero intanto saliva le scale e diceva quanto dolente fosse sua moglie di non poter essere li, ma ieri sera aveva inciampato in casa e si era prodotta una distorsione al piede sinistro, assai dolorosa. "Ha il collo del piede come una melanzana, Principe." Don Fabrizio, esilarato dalla carezza verbale e che, d'altra parte, le rivelazioni di Tumeo avevano rassicurato sulla innocuitä della propria cortesia, si procuro il piačere di proporre di andare lui stesso subito dalla signora Sedära, proposta che sbigotti don Calogero che venne costretto per respingerla ad appioppare un secondo malanno alia consorte, una emicrania questa volta, che costrin-geva la poveretta a stare nell'oscuritä. Intanto il Principe dava il braccio ad Angelica; si traversa-rono parecchi saloni quasi all'oscuro, vagamente rischiarati da lumini a olio che permettevano a malapena di trovare la strada; in fondo alla prospettiva delle sale splendeva invece il "salone di Leopoldo," dove stava il resto della famiglia e questo procedere attraverso il buio deserto verso il chiaro centro dell'intimitä aveva il ritmo di una iniziazione massonica. La famiglia si affollava sulla porta. La Principessa aveva ritirato le proprie riserve dinanzi all'ira maritale che le aveva, non ě sufficiente dire respinte, ma addirittura fulminate nel nulla; bacio ripetutamente la bella futura nipotc e la strinse a se tanto forte che alla giovinetta riinase impresso sulla pelle il contorno della famosa collana di rubini dei Salina che Maria Stella aveva tenuto a portare, benche fosse giorno, in segno di festa grande, Francesco Paolo, il sedicenne, fu lieto di avere l'opportunita eccezionale di baciare anch'egli Angelica sotto lo sguardo impotentemente geloso del padre; Concetta fu affettuosa in modo particolare; la sua gioia era cosi intensa da farle salire le lagrime agli occhi; le altre sorelle si stringevano attorno a lei rumorosamente liete appunto perche non com-mosse; Padre Pirrone, poi, che santamente non era insensibile al fascino muliebre nel quale si compiaceva di rawisare una prova irrefutable della Bonta Divina, senti fondere tutte le proprie obiezioni dinanzi al tepore della grazia (col g minusco-lo). E le mormoro: "Veni, >/><•>; .; de Libano"; dovette poi un po' contrastare per non tare risalire alla propria memoria altri piu calorosi versetti; mademoiselle Dombreuil, come si conviene alle governanti, piangeva di emozione, stringeva fra le sue mani deluse le spalle fiorenti della fanciulla dicendo: "Angelica, Angelica, pensons a la joie de Tancredc " Bendico soltanto, in contrasto con la consueta sua socievolezzaj rin-ghiava nel fondo della propria gola, finche venne energicamen-te messo a posto da un Francesco Paolo indignato cui le labbra fremevano ancora. Su ventiquattro dei quarantotto bracci del lampadario era stata accesa una candela e ognuno di questi ceri candido e acceso insieme, poteva sembrare una vergine che si struggesse di amore; i fiori bicolori di Murano sul loro stelo di curvo vetro guardavano in giu, ammiravano colei che entrava e le rivolgevano un sorriso cangiante e fragile. II grande caminetto era acceso piu in segno di giubilo che per riscaldare l'ambiente ancora tiepido e la luce delle fiamme palpitava sul pavimento, sprigionava intermittent! bagliori dalle dorature svanite del mobilio; esso rappresentava dawero il focolare domestico, il simbolo della casa, e in esso i tizzoni alludevano a sfavillii di desideri, la brace a contenuti ardori. Dalla Principessa, che possedeva in grado eminente la falcolta di ridurre le emozioni al minimo comun denominatore, vennero narrati sublimi episodi della fanciullezza di Tancredi; 133 e tanto essa insistette su questi che dawero si sarebbe potuto credere che Angelica dovesse. riputarsi fortunata di sposare un uomo che ajsei anni era stato tanto ragionevole da sottomet-tersi ai clisterini indispensabili senza far storie, e a dodici tanto ardito da aver osato rubare una manata di ciliegie; mentre questo episodio di banditismo temerario veniva ricordato, Concetta si mise a ridere: "Questo ě un vizio che Tancredi non si ě ancora potuto togliere" disse "ricordi, papá, quando due mesi fa ti ha portato via quelle pesche alle quali tenevi tanto?"; poi si rabbuió ad un tratto come se fosse stata presidente di una societa di frutticoltura danneggiata. Presto la voce di Don Fabrizio pose in ombra queste inezie; parló del Tancredi di adesso, del giovanotto sveglio e attento, sempre pronto a una di quelle uscite che rapivano chi gli voleva bene ed esasperavano gli altri; racconto come durante un soggiorno a Napoli, presentato alia duchessa di Sanqualche-cosa questa si fosse presa di una passione per lui e voleva vederlo a casa mattina, pomeriggio e sera, non importa se si trovasse in salotto o a letto, perché, diceva, nessuno sapeva raccontare les petits riens come lui; e benché Don Fabrizio si affrettasse a precisare come allora Tancredi non avesse ancora sedici anni e la duchessa fosse al di la della cinquantina, gli occhi di Angelica lampeggiarono perché essa possedeva precise informazioni sui giovanottini palermitani e forti intui-zioni sul conto delle duchesse napoletane. Se da questa attitudine di Angelica si volesse dedurre che essa amava Tancredi, ci si sbaglierebbe: essa possedeva troppo orgoglio e troppa ambizione per essere capace di quell'annulla-mento, prowisorio, della propria personalita senza il quale non c'e amore; inoltre la propria limitata esperienza giovanile e sociále non le permetteva ancora di apprezzare le reali qualitá di lui, composte tutte di sfumature sottili; pero, pur non amandolo, essa era, allora, innamorata di lui, il che ě assai differente; gli occhi azzurri, l'affettuosita scherzosa, čerti toni improwisamente gravi della sua voce le causavano, anche nel ricordo, un turbamento precise e in quei giorni non desiderava altro che di esser piegata da quelle mani; piegata che fosse stata le avrebbe dimenticate e sostituite, come infatti awenne, ma per il momento ad esser ghermita da lui essa teneva assai. Quindi la rivelazione di quella possibile relazione galante (che era, del resto, inesistente) le causö un attacco del piú assurdo fra i flagelli, quello della gelosia retrospettiva; attacco presto dissipato, perö, da un freddo esame dei vantaggi erotici ed extra-erotici che le sue nozze con Tancredi recavano. Don Fabrizio continuava ad esaltare Tancredi; trascinato dall'affetto parlava di lui come di un Mirabeau: "Ha comincia-to presto ed ha cominciato bene; la strada che farä ě molta." La fronte liscia di Angelica si chinava nell'assenso; in realtä all'awenire politico di Tancredi non badava. Era una delle molte ragazze che considerano gli awenimenti pubblici come svolgentisi in un universo separato e non immaginava neppure che un discorso di Cavour potesse con I'andar del tempo, attraverso mille ingranaggi minuti, influire sulla vita di lei e mutarla. Pensava in siciliano: "Noi avremo il 'furmento' e questo ci bašta; che strada e strada!" Ingenuitä giovanili queste, che essa doveva in seguito rinnegare quando, nel corso degli anni, divenne una delle piú viperine Egerie di Montecitorio e della Consulta. "E poi, Angelica, voi non sápete ancora quanto ě divertente Trancredi! Sa tutto, di tutto coglie un aspetto imprevisto. Quando si ě con lui, quando ě in vena, il mondo appare piú buffo di come appaia sempre, talvolta anche piú serio." Che Tancredi fosse divertente Angelica lo sapeva; che fosse capace di rivelare mondi nuovi essa non soltanto lo sperava ma aveva ragione di sospettarlo fin dalla fine del mese scorso, nei giorni del famoso ma non unico bacio ufficialmente constatato che era stato infatti qualcosa di molto piú sottile e sapido di quel che fosse stato il solo altro suo esemplare, quello regalatole dal ragazzotto giardiniere a Poggio a Caiano, piú di un anno fa. Ma ad Angelica importava poco dei tratti di spirito, della intelligenza anche, del fidanzato, assai meno ad ogni modo di quanto queste cose importassero a quel caro Don Fabrizio, tanto caro dawero, ma anche tanto "intellettuale." In Tancredi essa vedeva la possibilitä di avere un posto eminente nel mondo nobile della Sicilia, mondo che essa considerava pieno di meraviglie assai differenti da quelle che esso in realtä conteneva ed in lui desiderava anche un vivace compagno di abbracciamenti. Se per di piú era anche intellettualmente IJ4 133 supenore, tantp meglio; ma lei, per conto suo, non ci teneva. Divertirsi si poteva sempre. Per il momento, spiritoso o scioc-co che fosse ^vrebbe volutö averlo qui, che le stuzzicasse almeno la nuca, di sotto le trecce, come soleva fare, fra l'altro. "Dio, Dio, come vorrei che fosse qui, tra noi, ora!" Esclamazione che commosse tutti, sia per la evidente sinceritä, come per l'ignoranza in cui restava la sua cagione e che conchiuse la felicissima prima visita. Poco dopo infatti Angelica e suo padre si congedarono; preceduti da un mozzo di scuderia con una lanterna accesa che con l'oro incerto della sua luce accendeva il rosso delle foglie cadute dei platani, padre e figlia rientrarono in quella loro casa l'ingresso della quale era stato vietato a Peppe 'Mmerda dalle "lupare" che gli strafotterono i reni. Un'abitudine nella quale si era riannidato Don Fabrizio ridiventato sereno era quella delle letture serali. In autunno, dopo il Rosario, poiche faceva troppo buio per uscire la famiglia si riuniva attorno al caminetto aspettando l'ora di pranzo, ed il Principe leggeva ai suoi, a puntate, un romanzo moderno; e sprizzava dignitosa benevolenza da ognuno dei propri pori. Erano quelli, appunto, gli anni durante i quali, attraverso i romanzi si andavano formando quei miti letterari che ancor oggi dominano le menti europee; la Sicilia pero, in parte per la sua tradizionale impermeabilitä al nuovo, in parte per la diffusa misconoscenza di qualsiasi lingua, in parte anche, occorre dirlo, per la vessatoria censura borbonica che agiva per mezzo delle dogane, ignorava l'esistenza di Dickens, di Eliot, della Sand e di Flaubert, financo quella di Dumas. Un paio di volumi di Balzac, e vero, era giunto attraverso sotterfugi fino alle mani di Don Fabrizio che si era attribuito la carica di censore familiäre; Ii aveva letti e prestati via, disgustato, ad un amico cui voleva del male, dicendo che essi erano il frutto di un ingegno senza dubbio vigoroso ma stravagante e "fissato" (oggi avrebbe detto monomaniaco); giudizio frettoloso, come si vede, non privo per altro di una certa acutezza. II livello delle letture era quindi piuttosto basso, condizionato com'era dal rispetto per i pudori verginali delle ragazze, da quello per gli scrupoli religiosi della Principessa e dallo stesso senso di dignitä dei Principe che si sarebbe rifiutato a far udire delle "porcherie" ai suoi familiari riuniti. Si era verso il dieci di Novembre ed anche alla fine dei soggiorno a Donnafugata. Pioveva fitto, imperversava un maestrale che spingeva rabbiosi schiaffi di pioggia sulle fine-stre; lontano si udiva un rotolio di tuoni; ogni tanto alcune gocce, avendo trovato la strada per penetrare negli ingenui fumaioli siciliani, friggevano un attimo sul fuoco e picchietta-vano di nero gli ardenti tizzoni di ulivo. Si leggeva "Angiola Maria" e quella sera si era giunti alle ultime pagine: la descrizio-ne dello sgomento viaggio della giovinetta attraverso la diaccia Lombardia invernale intirizziva U cuore siciliano delle signori-ne, pur nelle loro tiepide poltrone. Ad un tratto si udi un gran tramestio nella stanza vicina e Mimi il cameriere entrö col fiato grosso: "Eccellenze" gridö dimenticando tutta la propria stilizzazione "Eccellenze! e arrivato il signorino Tancredi! E in cortile che fa scaricare i bagagli dal carrozzino. Bella Madre, Madonna mia, con questo tempo!" E fuggi via. La sorpresa rapi Concetta in un tempo che non corrispon-deva piü a quello reale, ed essa esclamö: "Caro!" ma il suono stesso della propria voce la ricondusse allo sconfortato presente e, com'e facile vedere, questi bruschi trapassi da una temporalitä segregata e calorosa ad un'altra palese ma gelida le fecero molto male; per fortuna Tesclamazione, sommersa nell'emozione generale non venne udita. Preceduti dai lunghi passi di Don Fabrizio tutti si precipita-rono verso la scala; si traversarono in fretta i saloni bui, si discese; la grande porta era spalancata sullo scalone esterno e giü sul cortile; il vento irrompeva, faceva fremere le tele dei ritratti, spingendo innanzi a se umiditä e odor di terra; sullo sfondo dei cielo lampeggiante gli alberi dei giardino si dibatte vano, e frusciavano come sete strapazzate. Don Fabrizio stava per infilare la porta quando sull'ultimo gradino comparve una massa informe e pesante: era Tancredi awolto nell'enorme mantella azzurra della cavalleria piemontese, talmente inzuppa-ta d'acqua da pesare cinquanta chili e da apparire nera. "Stai attento, zione: non mi toccare, sono una spugna!" La luce 137 della lanterna della saJa fece intravedere U suo volto. Entrö, sganciö la catenella che tratteneva il mantello al collo, lasciö cadere l'indumento che si afflosciö a terra con un rumore viscido. Odorava di can bagnato e da tre giorni non si era tolto gli stivali, ma era lui, per Don Fabrizio che Io abbracciava, ü ragazzo piü amato che non i propri figli, per Maria Stella il caro nipote perfidamente calunniato, per Padre Pirrone la pecorella sempre smarrita e sempre ritrovata, per Concetta un caro fantasma rassomigliante al suo amore perduto; anche mademoiselle Dombreuil lo baciö con la bocca disawezza alle carezze e gridava, la poveretta: "Tancrede, Tancrede, pensons ä la joie d'Angelica," tante poche corde aveva il proprio arco, sempre costretta a raffigurarsi le gioie degli altri. Bendicö pure ritrovava il caro compagno di giochi, colui che come nessun altro sapeva soffiargli dentro il muso attraverso il pugno chiuso, ma, caninamente, dimostrava la propria estasi galoppando frenetico attorno alla sala e non curandosi dell'amato. Fu un momento dawero commovente quello del raggrup-parsi della famiglia attorno al giovane che ritornava, tanto piü caro in quanto non proprio della famiglia, tanto piü lieto in quanto veniva a cogliere l'amore insieme ad un senso di perenne sicurezza. Momento commovente, ma anche lungo. Quando i primi impeti furono trascorsi, Don Fabrizio si accor-se che sul limitare della porta stavano due altre figure, goccio-lanti anch'esse ed anch'esse sorridenti. Tancredi se ne accorse pure e rise. "Scusatemi tutti, ma l'emozione mi aveva fatto perdere la testa. Zia" disse rivolto alla Principessa "mi sono permesso di portare qui un mio caro amico il conte Carlo Cavriaghi; del resto lo conoscete, e venuto tante volte alla villa quando era in servizio presso il generale. E quell'altro e il lanciere Moroni, il mio attendente." II soldato sorrideva nella sua faccia ottusamente onesta, se ne stava sull'attenti mentre dal grosso panno del pastrano l'acqua gli sgocciolava sul pavimento. Ma il contino non stava sull'attenti: toltosi il berrettino fradicio e sformato baciava la mano alla Principessa, sorrideva e abbagliava le ragazze con i baffetti biondi e l'insop-primibile erre moscia. "E pensare che a me avevano detto che quaggiü da voi non pioveva mai! Mamma mia, sono due giorni che siamo stati come dentro un fiume!" Dopo si fece serio: "Ma insomma, Falconeri, dov'e la signorina Angelica? Mi hai trascinato da Napoli fin qui per farmela vedere. Vedo molte belle, ma lei no." Si rivolse a Don Fabrizio: "Sa, principe, a sentire lui e la regina di Sabal Andiamo subito a riverire la formostssima et nigerrtma Muoviti, testone!" Pariava cosi e trasportava il linguaggio delle mense ufficiali nell'arcigno salone con la sua doppia fila di antenati corazzati e infiocchettati; e tutti si divertivano. Ma Don Fabrizio e Tancredi la sapevano piü lunga: conoscevano Don Calogero, conoscevano la "Bella Bestia" di sua moglie, I'incredibile trascuratezza della casa di quel riccone: cose queste che la Candida Lombardia ignora. Don Fabrizio intervenne: "Senta, conte; Lei credeva che in Sicilia non piovesse mai e puö vedere invece come diluvia Non vorrei che credesse che da noi non ci sono le polmoniti e poi si trovasse a letto con quaranta di febbre. "Mimi" disse al suo cameriere "fai accendere i caminetti nella stanza del signorino Tancredi e in quella verde di foresteria. Fai preparare lo stanzino accanto per il soldato. E lei, conte, vada ad asciugarsi bene e a cambiar abito Le larö portare un ponce e dei biscotti; c il pranzo e alle Otto, fra due ore." Cavriaghi era da troppi mesi abituato al servizio militarc per non piegarsi subito alla voce autoritaria; salutö e segui mogio mogio, il cameriere. Moroni si trascinö dietro le cassette degli ufficiali e le sciabole nelle loro fodere di flanella verde. Intanto Tancredi scriveva: "Carissima Angelica, sono arri-vato, e arrivato per te. Sono innamorato come un gatto, ma anche bagnato come un ranocchio, sudiciocome un cane sperso e affamato come un lupo. Appena mi sarö ripulito e mi stimerö degno di mostrarmi alla bella Ira le belle mi preeipi-terö da te; fra due ore. I miei ossequi ai tuoi cari genitori. A te... niente, per ora." II testo lu sottoposto all'approvazione del Principe; questi che era sempre stato un ammiratorc dello stile epistolare di Tancredi lo approvö sorridendo; ed il biglietto venne subito inviato dirimpetto. Tale era la foga della letizia generale che un quarto d'ora basto i mi che i due giovani si asciugassero, si ripulissero, 139 cambiassero divise e si ritrovassero. nel "Leopoldo" attorno al caminetto: bevěvano tě e cognac e si lasciavano ammirare. In quei tempi non vi era nulla di meno militare delle famiglie aristocratiche slciliane: gli ufficiali borbonici non si erano mai visti nei salotti palermitani ed i pochi garibaldini che vi erano penetrati vi avevano fatto piú l'effetto di spaventapasseri pitto-reschi che di militari veri e propri. Perció quei due giovani ufficiali erano in veritá i primi che le ragazze Salina vedessero da vicino; tutti e due in "doppio petto," Tancredi con i bottoni d'argento dei lancieri, Carlo con quelli dorati dei bersaglieri, con l'alto colletto di velluto nero bordato d'arancio-ne il primo; cremisi l'altro, allungavano verso la brace le gambe rivestite di panno azzurro e di panno nero. Sulle maniche i "fiori" d'argento o d'oro si snodavano in ghirigori, slanci e riprese senza fine: un incanto per quelle figliole awezze alle redingotes severe ed ai "tracks" funerei. II romanzo edificante giaceva rovesciato dietro una poltrona. Don Fabrizio non capiva bene: li ricordava entrambi rossi come gamberi e trasandati. "Ma insomma, voialtri garibaldini non portate piú la camicia rossa?" I due si voltarono come se li avesse morsi una vipera. "Ma che garibaldini e garibaldini, zione! Lo siamo stati, ora basta. Cavriaghi ed io siamo ufficiali dell'esercito regolare di Sua Maestá il re di Sardegna per qualche mese ancora, d'ltalia fra poco. Quando l'esercito di Garibaldi si sciolse si poteva scegliere: andare a casa o restare nell'esercito del Re. Lui ed io come tutte le persone per bene siamo entrati nell'esercito "vero.". Con quelli li non si poteva restare, non ě cosi, Cavriaghi?" "Mamma mia che gentaglia! Uomini da colpi di mano, buoni a sparacchiare, e basta! Adesso siamo fra persone come si deve, siamo ufficiali sul serio, insomma" e sollevava i baffetti in una smorfia di adolescente disgusto. "Ci hanno tolto un grado, sai, zione; tanta poca stima avevano della serieta della nostra esperienza militare; io da capitano son ridiventato tenente, vedi" e mostrava gli intrichi dei 'fiori' "lui da tenente ě sottotenente. Ma siamo contenti come se ci avessero promossi. Siamo rispettati in tutt'altro modo adessot con le nostre divise." "Sfido io" interruppe Cavriaghi "la gente non ha piú paura che rubiamo le galline, ora." "Dovevi vedere da Palermo a qui quando ci fermavamo alle stazioni di posta per il cambio dei cavalli! Bastava dire: 'ordini urgenti per il servizio di Sua Maestá,' ed i cavalli comparivano come per incanto; e noi a mostrare gli ordini che erano poi i conti dell'albergo di Napoli bene awolti e sigillati." Esaurita la conversazione sui mutamenti militari si passó a piu vaghi argomenti. Concetta e Cavriaghi si erano seduti insieme un po' discosti ed il contino mostrava a lei il regalo che aveva portato da Napoli: i "Canti" di Aleardo Aleardi che aveva fatto splendidamente rilegare. SulTazzurro cupo della pelle una corona principesca era profondamente incisa e, sotto, le cifre di lei: "CCS" Piú sotto ancora caratteri grandi e vagamente gotici dicevano: "Sempře sorda." Concetta, di-vertita, rideva. "Ma perché sorda, conte? CCS. ci sente benissimo." II volto del contino s'infiammo di fanciullesca passione. "Sorda, si, sorda, signorina, sorda ai miei sospiri, sorda ai miei gemiti, e cieca anche, cieca alle suppliche che i miei occhi le rivolgono. Sapesse quanto ho patito a Palermo, quando loro sono partiti per qui: nemmeno un saluto, nemme-no un cenno, mentre le vetture scomparivano nel viale! E vuole che non la chiami sorda? 'Crudele' avrei dovuto far scrivere." La concitazione letteraria di lui fu congelata dal riserbo della ragazza. "Lei ě ancora stanco per il lungo viaggio, i suoi nervi non sono a posto. Si calmi: mi faccia piuttosto sentire qualche bella poesia." Mentre il bersagliere leggeva i molli versi con una voce accorata e pause piene di sconforto, davanti al caminetto Tancredi estraeva di tasca un astuccetto di raso celeste. "Ecco l'anello, zione, l'anello che dono ad Angelica; o piuttosto quello che tu per mia mano le regali." Fece scattare la molletta ed apparve uno zaffiro scurissimo, tagliato in ottagono schiacciato, serrato tutt'intorno stretto stretto da una moltitu-dine di piccoli purissimi diamantini. Un gioiello un po' tetro ma altamente consono al gusto cimiteriale del tempo, e che valeva chiaramente le trecento onze spedite da Don Fabrizio. In realtá era costato assai meno: in quei mesi di semi-saccheg-gio e di fughe a Napoli si trovavano bellissimi gioielli d'occasio- 140 141 ne; dalla differenza di prezzo era saltata fuori una spilla, un ricordo per la Schwarzwald. Anche Concetta e Cavriaghi vennero chiamati ad ammirarlo ma non si mossero perché il contino 1'aveva^giá visto e Concetta rimandó quel piacere a piú tardi. L'anello giro di mano in mano, fu ammirato, lodato; e venne esaltato il prevedibile buon gusto di Trancredi. Don Fabrizio chiese "Ma per la misura come si fara? bisognerá mandare l'anello a Girgenti per farla fare giusta." Gli occhi di Tancredi sprizzarono malizia: "Non ci sará bisogno, zio; la misura ě esatta; la avevo presa prima." E Don Fabrizio tacque: aveva riconosciuto un maestro. L'astuccetto aveva compiuto tutto il giro attorno al cami-netto ed era ritornato nelle mani di Tancredi, quando da dietro la porta si udí un sommesso "Si puö?" Era Angelica. Nella fretta e nell'emozione non aveva trovato di meglio per ripararsi dalla pioggia dirotta che mettersi uno "scappolare ", uno di quegli immensi tabarri da contadino di ruvidissimo panno: awiluppato nelle rigide pieghe bleu-scure, il corpo di lei appariva snellissimo; di sorto al cappuccio bagnato gli occhi verdi erano ansiosi e smarriti; parlavano di voluttá Da quella vista, da quel contrasto anche fra la bellezza della persona e Ja rusticitä del mantello, Tancredi ricevette come una frustata: si alzö, corse verso di lei senza parlare e la baciö sulla bocca. L'astuccio che teneva nella destra solleti-cava la nuca recline. Poi fece scattare la molla, prese l'anello lo passö all'anulare di lei; l'astuccio cadde per terra. "Tieni, bella, ě per te, dal tuo Tancredi." L'ironia si ridestö: "E ringrazia anche zione per esso." Poi la riabbracciö: 1'ansia sensuale li faceva tremare entrambi: il salone, gli astanti per essi sembravano molto lontani; ed a lui parve dawero che in quei baci riprendesse possesso della Sicilia, della terra bella e infida sulla quale i Falconeri avevano per secoli spadroneggiato e che adesso, dopo una vana rivolta si arrendeva di nuovo a lui, come ai suoi da sempře, fatta di delizie carnali e di raccolti dorati. In seguito all'arrivo degli ospiti benvenuti il ritorno a Palermo fu rihviato; e seguirono due settimane ďincanti. L'uragano che aveva accompagnato il viaggio dei due ufficiali, era stato l'ultimo di una série e dopo di esso risplendette Testate di San Martino che ě la vera stagione di voluttá in Sicilia: temperie luminosa e azzurra, oasi di mitezza nell'anda-mento aspro delle stagioni, che con la mollezza persuade e travia i sensi mentre con il tepore invita alle nudita segrete. Di nudita erotiche nel palazzo di Donnafugata non era il caso di parlare ma vi era copia di esaltata sensualitä tanto piú acre quanto maggiormente rattenuta. II palazzo dei Salina era stato ottanťanni prima un ritrovo per quegli oscuri piaceri nei quali si era compiaciuto il Settecento agonizzante; ma la reggenza severa della principessa Carolina, la neoreligiositá della Restau-razione, il carattere soltanto bonariamente carnale delTattuale Don Fabrizio avevano perfino fatto dimenticare i suoi bizzarri trascorsi; i diavoletti incipriati erano stati posti in fuga; esiste-vano ancora, certamente, ma alio stato larvale ed ibernavano sotto cumuli di polvere in chissá quale soffitta dello smisurato edificio. La venuta a palazzo della bella Angelica aveva fatto un po' rinvenire quelle larvě, come forse si ricorderá; ma fu 1'arrivo dei giovanotti innamorati che ridestö dawero gli istinti rimpiattati nella casa; essi adesso si mostravano dappertutto, come formiche destate dal sole, disintossicati forse ma oltre-modo vivaci. L'architettura, la decorazione stessa rococo con le loro curve impreviste evocavano anche distese e seni eretti; l'aprirsi di ogni portale frusciava come una cortina ďalcova. Cavriaghi era innamorato di Concetta; ma, fanciullo co-m'egli era e non soltanto nell'aspetto come Tancredi ma nel proprio intimo, il suo amore si sfogava nei facili ritmi di Prati e di Aleardi, nel sognare ratti al chiaro di luna dei quali non si arrischiava a contemplare il logico seguito e che del resto la sorditä di Concetta schiacciava in embrione. Non si sa se nella reclusione della sua camera verde egli non si abbandonas-se a un piú concreto vagheggiare; certo ě che alia scenografia galante di quell'autunno donnaťugasco egli contribuiva solo come abbozzatore di nuvole e di orizzonti evanescenti e non come ideatore di masse architettoniche. Le due altre ragazze invece Carolina e Caterina, tenevano assai bene la loro pane nella sinfonia di desideri che in quel Novembre risuonava per tutto il palazzo mescolandosi al mormorio delle fontáne, alio 142 143 scalciare dei cavalli in amore nelle scuderie ed al tenace scavo di nidi nuziali dei tarli nei vecchi mobili. Erano giovanissime ed awenenti e Ijenché prive d'innamorati particolari si ritrova-vano immerse nella corrente di stimoli che s'incrociavano fra gli altri; e spesso il bacio che Concetta negava a Cavriaghi, la stretta di Angelica che non aveva saziato Tancredi si riverberavano sulle loro persone, sfiorava i loro corpi intatti e per esse si sognava, esse stesse sognavano ciocche madide di speciosi sudori, gemiti brevi. Financo l'infelice mademoiselle Dombreuil a forza di dover funzionare da parafulmine, come gli psichiatri si infettano e soccombono alle frenesie dei loro ammalati, fu attratta in quel vonice torbido e ridente; quando dopo una giornata d'inseguimenti e agguati moralistici essa si stendeva sul suo letto solingo palpava i propri seni appassiti e mormorava indiscriminate invocazioni a Tancredi, a Carlo, a Fabrizio... Centro e motore di questa esaltazione sensuale era natural mentě la coppia Tancredi-Angelica. Le nozze sicure benché non vicine stendevano in anticipo le loro ombre rassicuranti sul terriccio arso dei loro mutui desideri; la differenza di ceti faceva credere a don Calogero normali nella nobiltá i lunghi colloqui appjrt.ui, ed alia principessa Maria Stella abituali nel rango dei Sedára la frequenza delle visite di Angelica ed una čerta liberta di contegno che essa, certamente, non avrebbe trovata lecita nelle proprie figlie; e cosi le visite di Angelica al palazzo divennero sempře piú frequenti sino ad essere quasi perpetue ed essa fini con 1'essere solo formalmente accompagnata dal padre che si recava subito in Amministra-zione per scoprire (o per tessere) nascoste tramě o dalla cameriera che scompariva nel riposto per bere il caffě ed incupire i domestici sventurati. Tancredi voleva che Angelica conoscesse tutto il palazzo nel suo complesso inestricabile di foresterie vecchie e foreste-rie nuove, appartamenti di rappresentanza, cucine, cappelle, teatri, quadrerie, rimesse odorose di cuoi, scuderie, serre afose, passaggi, anditi, scalette, terrazzine e porticati, e soprattutto di una serie di appartamenti smessi e disabitati, abbandonati da decenni e che formavano un intrico labirintico e misterioso. Tancredi non si rendeva conto (oppure si rendeva conto berussimoi che vi trascinava la ragazza verso il centro nascosto del ciclone sensuale. ed Angelica, in quel tempo, voleva ck> che Tancredi aveva deciso Le scornbande attraverso il quasi illimitato edificio erano interminabili. si partrva come verso una terra incognita, ed incognita era dawero perch* in parecchi di qucgli appartamenti sperduti neppure Don Fabnzio aveva mai posto piede. il che del resto. gli era cagione di non piccolo compiacimento perche soleva dire che un palazzo del quale si conoscessero turte le stanze non era degno di essere abitato I due innamorati s'unbarcavano verso Cuera su una nave tana di came re cupe e di came re solatie. di ambienti sfarzosi o miscrabili. vuoti o affollati di relitti di mobilio eterogeneo Partrvano accompagnati da mademoiselle Dombreuil o da Cavnaghi | padre Pirrone con la sagacia del suo Ordine si rifiuid sempre a farlo). taholta da tutti e due. la decenza esteriore era saha Ma nel palazzo non era difficile di fuorvure cm volesse seguirvi bastava lnftlare un corndoio ive nc erano lunghissimi. stretti e tortuosi con finestnne gngliate che non si potevano percorrere senza angosciai. svoltare per un ballatoio. salire una scaletta complice, e 1 due ragazzi erano lontano. invisibili. soli come su un'isola deserta Restavano a guardarli soltanto un ntrarto a pastello sfumato via e che l'inespenenza del pittore aveva creato senza sguardo o su un softitto obliterate una pastorella subito conservziente Cavnaghi. del resto. si stancava presto ed appena trovava sulla propria rotta un ambiente conosciuto o una scaletta che scendeva in giardino se la svignava. tanto per far piacere allamico che per an dare a sospirare guardando le gelide mam di Concetta La governante resisteva piu a lungo. ma non per sempre. per qualche tempo si udivano sempre. piu lontani. 1 suoi appelli. mai corhsposti: "Tancrede. Angelic*, ou etesvous3 Poi tutto si richiudeva nel silenzio. stnato solo dal galoppo dei topi al di sopra dei sottim. dallo stnsciare di una lencra centenana dimenticata che il vento faceva errare sul pavimento pretesti per desiderate paure. per un adenre rassicurante delle membra E l'Eros era sempre con loro. malizioso e tenace. il gioco in cui rrascinava i due fidanzati era pieno di azzardi e di malia Tutti e due vicinissimi ancora all'infanzia prendevano piacere al gioco in se. godevano nell'mscguirsi. nel perdersi. nel ntrovarsi. ma 14) quando si erano raggiunti i loro sensi aguzzati prendevano il soprawento e le cinque dita di lui che s'incastravano nelle dita di lei, col gesto caro ai sensuali indecisi, il soffregamento soave dei polpástrelli sulle vene pallide del dorso, turbava tutto il loro essere, preludeva a piú insinuate carezze. Una volta lei si era nascosta dietro un enorme quadro posato per terra; e per un po' "Arturo Corbera all'assedio di Antiochia" protesse l'ansia speranzosa della ragazza; ma quando fu scopena, col sorriso intriso di ragnatele e le mani velate di polvere, venne awinghiata e stretta, e rimase una eternitá a dire "No, Tancredi, no," diniego che era un invito perché di fatto lui non faceva altro che fissare nei verdissimi occhi di lei l'azzurro dei propri. Una volta in una mattinata luminosa e fredda essa tremava nella veste ancora estiva; su di un divano coperto di stoffa a brandelli lui la strinse a sé per riscaldarla; il fiato odoroso di lei gli agitava i capelli sulla fronte; e furono momenti estatici e penosi, durante i quali il desiderio diventava tormento, i freni a loro volta, delizia. Negli appartamenti abbandonati le camere non avevano né fisionomia precisa né nome. e come gli scopritori del Nuovo Mondo essi battezzavano gli ambienti attraversati col nome di ció che in essi era accaduto a loro: una vasta stanza da letto nella cui alcova stava lo spettro di un letto adorno sul baldacchino da scheletri di penne di struzzo, fu ricordata poi come la "camera delle pene"; una scaletta dai gradini di lavagna lisi e sbrecciati venne chiamata da Tancredi "la scala dello scivolone felice." Piú duna volta non seppero piu dove erano: a furia di giravolte, di ritorni, d'inseguimenti, di lunghe soste riempite di mormorii e contatti perdevano l'orientamento e dovevano sporgersi da una finestra senza vetri per compren-dere dall'aspetto di un cortile, dalla prospettiva del giardino in quale ala del palazzo si trovassero. Talvolta pero non si raccapezzavano lo stesso perché la finestra guardava non su uno dei grandi cortili ma su di un cortiletto interno, anonimo anch'esso e mai intravisto, contrassegnato soltanto dalla caro-gna di un gatto o dalla solita manciata di pasta al pomidoro non si sa mai se vomitata o buttata via; e da un'altra finestra li scorgevanq gli occhi di una cameriera pensionata. Un pomeriggio rinvennero dentro un cassettone con tre gambe 146 I quattro carillons, di quelle scatole per musica delle quali si I dilettava I'artificiosa ingenuitá del Settecento. Tre di esse, sommerse nella polvere e nelle ragnatele, rimasero mute, ma la quarta, piú recente, meglio chiusa nello scrignetto di legno scuro, mise in moto il proprio cilindro di rame irto di punte I e le linguette di acciaio sollevate fecero a un tratto udire una musichetta gracile, tutta in acuti argentini: il famoso "Carnevale di Venezia"; ed essi ritmarono i loro baci in accordo con quei suoni di gioconditá disillusa; e quando la loro stretta si allentó si sorpresero nell'accorgersi che i suoni erano cessati da tempo e che le loro carezze non avevano seguito altra traccia che quella del ricordo di quel fantasma di musica. Una volta la sorpresa fu di colore diverse In una stanza della foresteria vecchia si awidero di una porta nascosta da un armadio; la serratura centenaria cedette presto a quelle dita che godevano nell'intrecciarsi e soffregarsi per forzarla: dietro, una lunga scala stretta si svolgeva in soffici curve con i suoi scalini di marmo rosa. In cima un'altra porta, aperta, e con spesse imbottiture disfatte, e poi un appartamentino vezzo-so e strambo, sei piccole camere raccolte attorno a un salotto di mediocre grandezza, tutte e il salotto stesso con pavimenti di bianchissimo marmo, un po' in pendio, declinanti verso una canaletta laterale. Sui soffitti bassi bizzarn stucchi colorati che l'umidita aveva fortunatamente resi incomprensibili; sulle pareti grandi specchi attoniti, appesi troppo in giú, uno fracas-sato da un colpo quasi nel centra, ciascuno col contorto reggi-candela del Settecento; le finestre davano su un cortiletto segregato, una specie di pozzo cieco e sordo che lasciava entrare una luce grigia e sul quale non spuntava nessun'altra apertura. In ogni camera ed anche nel salotto ampi, troppo ampi, divani che mostravano sulle inchiodature tracce di una seta strappata via; appoggiatoi maculati; sui caminetti, delicati, intricati intagli nel marmo, nudi parossistici, martoriati, pero, mutilati da martellate rabbiose. L'umidita aveva macchiato le pareti in alto e, sembrava almeno, in basso ad altezza d'uomo, dove essa aveva assunto configurazioni straně, time cupe, inconsueti rilievi. Tancredi, inquieto, non voile che Angelica toccasse un armadio a muro del salotto; lo schiuse lui stesso. 147 Era profondissimo e conteneva bizzarre cose: rotolini di corda di seta, sottile; scatolucce di argénto impudicamente ornáte con sul fondo esterno etichetrine minuscole recanti in eleganti grafie indicazioni oscure, come le sigle che si leggevano sui vaši delle farmacie: "Estr. catch." "Tirch-stram." "Part-opp."; bottigliette dal contenuto evaporato; un rotolo di stoffa sudicia, ritto in un angolo; dentro vi era un fascio di piccole fruste, di scudisci in nervo di bue, alcuni con maníci in argento, altri rivestiti sino a metá da una graziosa seta molto vecchia, bianca a righine azzurre, sulla quale si scorgevano tre filé di macchie nerastre; attrezzini metallici inspiegabili. Tancredi ebbe paura, anche di sé stesso, comprese di aver raggiunto il nucleo segreto centro ďirradiazione delle irrequie-tudini carnali del palazzo. "Andiamo via, cara, qui non c'ě niente ďinteressante." Richiusero bene la porta, ridiscesero in silenzio la scala, rimisero a posto Parmadio; tutto il giorno poi i baci di Tancredi furono lievi, come dati in sogno ed in espiazione. Dopo il Gattopardo, a dire il vero, la frusta sembrava essere 1'oggetto piú frequente a Donnafugata. L'indomani della loro scoperta dell'appanamentino enigmatico i due innamorati simbatterono in un altro frustino, di carattere ben diverse Questo, in veritá, non era negli appartamenti ignorati ma anzi in quello venerato detto del Duca-Santo, il piú remoto del palazzo. Li, a metá del Seicento un Salina si era ritirato come in un convento privato ed aveva fatto penitenza e predisposto il proprio itinerario verso il Cielo. Erano stanze ristrette, basse di soffitto, con 1'ammattonato di umile creta, con le pareti candide a calce, simili a quelle dei contadini piú derelitti. L'ultima dava su un poggiuolo dal quale si dominava la distesa gialla dei feudi accavallati ai feudi, tutti immersi in una triste luce. Su di una parete un enorme Crocifisso piú grande del vero: la těsta del Dio martoriato toccava il soffitto, i piedi sanguinanti sfioravano il pavimento: la piaga sul costato sembrava una bocca cui la brutalita avesse vietato di pronunziare le parole della salvezza ultima. Accanto al cadavere divino pendeva giú da un chiodo una frusta col manico corto dal quale si dipartivano sei strisce di cuoio ormai indurito, termi-nanti in sei' palle di piombo grosse come nocciole. Era la "disciplina" del Duca-Santo. In quella stanza Giuseppe Corbe-ra, duca di Salina, si fustigava solo, al cospetto del proprio Dio e del proprio feudo, e doveva sembrargli che le gocce del sangue suo andassero a piovere sulle terre per redimerle; nella sua pia esaltazione doveva sembrargli che solo mediante questo battesimo espiatorio esse divenissero realmente sue, sangue del suo sangue, carne della sua carne, come si dice. Invece le zolle erano sfuggite e molte di quelle che da lassü si vedevano appartenevano ad altri, a don Calogero anche; a don Calogero, cioe ad Angelica, quindi al loro futuro figlio. L'evidenza del riscatto attraverso la bellezza, parallelo all'altro riscatto attraverso il sangue diede a Tancredi come una vertigine. Angelica inginocchiata baciava i picdi trafitti di Cristo. "Vedi, tu sei come quell'arnese Ii, servi agli stessi scopi." E mostrava la disciplina; e poiche Angelica non capiva ed alzato il capo sorrideva, bella ma vacua, lui si chinö e cosi genuflessa com'era le diede un aspro bacio che la fece gemere perche le feri il labbro e le raschiö ü palato. I due passavano cosi quelle giomate in vagabondaggi traso-gnati; scoprirono inferni che I'amore poi redimeva, rinveniva-no paradisi trascurati che quello stesso amore dopo profanava; il pericolo di far cessare il giuoco per incassarne subito la posta si acuiva, urgeva per tutti e due; alia fine non cercavano piu, ma se ne andavano assorti nelle stanze piu isolate, quelle dalle quali nessun grido avrebbe potuto giungere a nessuno; ma grida non vi sarebbero state, solo invocazioni e singulti bassi. Invece se ne stavano li tutti e due stretti ed innocenti, a compatirsi l'un l'altro. Le piii pericolose per loro erano le stanze della foresteria vecchia: appartate, meglio curate, ciascuna col suo bei Ietto dalle materassa arrotolate che un colpo della mano avrebbe bastato a distendere... Un giorno, non il cervello di Tancredi che in questo non aveva nulla da dire, ma tutto il suo sangue aveva deciso di finirla: quella mattina Angelica, da quella bella canaglia che era, gli aveva detto: "Sono la tua novizia," richiamando alia mente di lui con la chiarezza di un invito, il primo incontro di desideri corso fra loro; e giä la donna resa scarmigliata si offriva, giä il maschio stava per sopraffare l'uomo, quando il boato del campanone della chiesa piombo quasi a picco sui loro corpi 148 149 giaccntt, aggrunse U proprio fremito agli attri; le bocche compenetrate dovettero disgiungersi per un sorriso. Si riprese-ro; e l'indomani Tancredi doveva partire. Quelli fujono i giorni migliori della vita di Tancredi e di quella di Angelica, vite che dovevano poi essere tanto variegate, tanto peccaminose sull'inevitabile sfondo di dolore. Ma essi allora non lo sapevano ed inseguivano un awenire che stimavano piü concreto benche poi risultasse formato di fumo e di vento soltanto. Quando furono divenuti vecchi e inutil-mente saggi 1 loro pensieri ritornavano a quei giorni con rimpianto insistente: erano stati i giorni del desiderio sempre presente perche sempre vinto, dei letti, molti, che si erano offerti e che erano stati respinti, dello stimolo sensuale che appunto perche inibito si era, un attimo, sublimato in rinunzia, cioe in vero amore. Quei giorni furono la preparazione a quel loro matrimonio che, anche eroticamente, fu mal riuscito; una preparazione perö che si atteggiö in un insieme a se stante, squisito e breve: come quelle sinfonie che soprawivono alle opere dimenticate e che contengono, accennati e con la loro giocositä velata di pudore, tutte quelle arie che poi nell'opera dovevano essere sviluppate senza destrezza, e fallire. Quando Angelica e Tancredi ritornavano nel mondo dei viventi dal loro esilio nell'universo dei vizi estinti, delle virtü dimenticate e, sopratutto, del desiderio perenne, venivano accolti con bonaria ironia. "Siete proprio scemi, ragazzi, ad andare a impolverarvi cosi. Ma guarda un po' come sei ridotto, Tancredi" sorrideva Don Fabrizio; e il nipote andava a farsi spazzolare. Cavriaghi a cavalcioni di una sedia fumava com-punto un "virginia" e guardava l'amico che si lavava la faccia e il collo e che sbuffava per il dispetto di veder l'acqua diventare nera come il carbone. "Io non dico di no, Falconeri: la signorina Angelica e la piü bella 'tosa' che abbia mai visto; ma questo non ti giustifica: Santo Dio, un po' di freni ci vogliono! oggi siete stati soli tre ore; se siete tanto innamorati sposatevi subito e non fate ridere la gente. Avresti dovuto vedere la faccia che ha fatto il padre oggi quando, uscito daH'amministrazione ha visto che voi stavate ancora navigando in quell'oceano di stanze! Freni, caro amico, freni ci vogliono, e voi Siciliani ne avete pochini!" Pontificava, lieto d'infliggere la propria saggezza al camera-ta piii anziano, al cugino della "sorda" Concetta. Ma Tancredi mentre si asciugava i capelli era furibondo: essere accusato di mancare di freni, lui, che ne aveva tanti da poter fermare un treno! D'altra parte l'insolente bersagliere non aveva poi tutti i torti: anche alle apparenze bisognava pensare; pero era divenuto tanto moralista per invidia, perche ormai era chiaro che la sua corte a Concetta non approdava a nulla. E poi quell'Angelica: quel gusto soavissimo di sangue oggi, quando le aveva morso l'interno del labbro! e quel suo piegarsi soffice sotto 1'abbraccio! Ma era vero, non aveva senso comune. "Domani andremo a visitare la chiesa con tanto di Padre Pirrone e Monsignor Trottolino di scorta." Intanto Angelica era andata a mutar d'abito nella stanza delle ragazze. "Mats, Angelica, est-ce Dieu possible de se mettre en un tel eta:?" s'indignava la Dombreuil mentre la bella in corpetto e sottanina si lavava le braccia. L'acqua fredda le faceva sbollire l'eccitazione e doveva convenire fra se che la governante aveva ragione: valeva la pena di stancarsi tanto, d'impolverarsi a quel modo, di far sorridere la gente e per che cosa, poi? per farsi guardare negli occhi, per lasciarsi percorrere da quelle dita sottili, per poco di piii... E il labbro le doleva ancora. "Adesso basta. Domani resteremo in salotto con gli altri." Ma l'indomani quegli stessi occhi, quelle stesse dita avrebbero riacquistato il loro sortilegio e di nuovo i due avrebbero ripreso il loro pazzesco gioco a nascondersi, a mostrarsi. II risultato paradossale di questi propositi, separati ma convergenti, era che la sera a pranzo i due piu innamorati erano i due piu sereni, poggiati sulle illusorie buone intenzioni per l'indomani e si divertivano a ironizzare sulle manifestazioni amorose degli altri, pur tanto minori. Concetta aveva deluso Tancredi: a Napoli aveva patito per un certo rimorso nei riguardi di lei e per questo si era tirato dietro Cavriaghi col quale sperava di rimpiazzare se stesso nei riguardi della cugina; anche la compassione faceva parte della sua preveggenza. Sottilmente ma anche bonariamente astuto com'era, arrivando, 150 151 aveva avuto l'aria di condolersi quasi con lei per il suo proprio abbandono; e spingeva avanti l'amico. Niente. Concetta dipa-nava il proDrio chiacchiericcio da collegiale, guardava il sentimentale 'contino con occhi gelidi dentro i quali si poteva financo notáre un po' di disprezzo. Quella ragazza era una sciocca, non se ne poteva tirar fuori niente di buono. Alia fine, cosa voleva? Cavriaghi era un bel ragazzo, una buona pasta d'uomo, aveva un buon nome, grasse cascine in Brianza; era insomma quel che con termine refrigerante si chiama un "ottimo partito." Giá: Concetta voleva lui, non era cosi? Anche lui la aveva voluta un tempo: era meno bella, assai meno ricca di Angelica, ma aveva in sé qualche cosa che la donnafugasca non avrebbe posseduto mai. Ma la vita ě una cosa seria, che diamine! Concetta avrebbe dovuto capirlo; e poi perché aveva cominciato a trattarlo tanto male? Quella partaccia a Santo Spirito, taňte altre dopo. II Gattopardo, sicuro, il Gattopardo; ma dovrebbero esistere dei limiti anche per quella bestiaccia superba. "Freni ci vogliono, cara cugina, freni! E voi Siciliane ne avete pochini." In cuor suo Angelica dava invece ragione a Concetta: Cavriaghi mancava troppo di pepe; dopo esser stata innamora-ta di Tancredi sposare lui sarebbe stato come bere dell'acqua dopo aver gustato questo Marsala che le stava davanti. Concetta, va bene, la capiva a causa dei precedenti. Ma le altre due stupide, Carolina e Caterina, guardavano Cavriaghi con occhi di pesce mono e "fricchicchiavano," si sdilinquivano tutte quando lui le awicinava. E allora! Con la mancanza di scrupoli paterna essa non capiva perché una delle due non cercasse di distogliere il contino da Concetta a proprio profitto. "A quell'eta i giovanotti sono come cagnolini: basta fischiettare e si avanzano subito. Sono delle stupide: a forza di riguardi, divieti, superbie, finiranno si sa giá come." Nel salotto dove dopo la cena gli uomini si ritiravano per fumare, anche le conversazioni fra Tancredi e Cavriaghi, i soli due fumatori della casa e quindi i due soli esiliati, assumevano un tono particolare. II contino fini col confessare all'amico il fallimento delle proprie speranze amorose: "£ troppo bella, troppo pur^ per me; non mi ama; sono stato temerario a sperarlo; trie ne andró da qui col pugnale del rimpianto infitto 1 nel cuore. Non ho osato farle una proposta precisa. Sento che i per lei sono come un verme della terra, ed e giusto che sia : cosi; debbo trovare una vermessa che si accontenti di me." E i suoi diciannove anni lo facevano ridere della propria , sventura. Tancredi, dall'alto della propria felicitä assicurata, si pro-vava a consolarlo: "Sai conosco Concetta dalla nascita; e la piü cara creatura che esista, uno specchio d'ogni virtü; ma e un po' chiusa, ha troppo ritegno, temo che stimi troppo se stessa; e poi e siciliana sino al midollo delle ossa; non e mai uscita da qui; chi sa se si sarebbe mai trov.itj bene a Milano, un paesaccio dove per mangiare un piatto di maccheroni bisogna pensarci una settimana prima!" L'uscita di Tancredi, una delle prime manifestazioni dell'u-nitä nazionale, riusci a far di nuovo sorridere Cavriaghi; su di lui pene e dolori non riuscivano a fermarsi. "Ma gliene avrei procurato delle casse dei vostri maccheroni, io! Ad ogni modo quel che e fatto e fatto; spero solo che i tuoi zii che sono stati tanto carini con me non mi odieranno poi per essermi venuto a cacciare fra voi senza costrutto.' Fu rassicurato, e sincera-mente perche Cavriaghi era piaciuto a tutti, tranne che a Concetta (e dei resto forse anche a Concetta) per il rumoroso buon umore che in lui si univa al sentimentalismo piü flebile; e si parlö d'altro, cioe si parlö di Angelica. "Vedi, tu Falconeri, tu si che sei fortunato! Andare a scovare un gioiello come la signorina Angelica in questo porcile (scusa sai, caro). Che bella. Dio Signore, che bella! Bricconaccio tu che te la porti a spasso per delle ore negli angoli piü remoti di questa casa che e grande quanto il nostro Duomo! E poi non solo bella ma intelligente anche e colta; e poi buona: le si vede negli occhi la sua bontä, la sua cara ingenuitä innocente." Cavriaghi continuava ad estasiarsi per la bontä di Angelica, sotto lo sguardo divertito di Tancredi. "In tutto questo il veramente buono sei tu, Cavriaghi." La fräse scivolö inawertita dall'ottimismo ambrosiano. Poi: "Senti" disse il contino "fra pochi giorni partiremo: non ti sembra che sarebbe ora che fossi presentato alla madre della baronessina?" Era la prima volta che cosi, da una voce lombarda, Tancre- 153 di udiva chiamare con un titolo. la sua bella. Per un attimo non capi di chi si parlava. Poi il principe in lui si ribellö: "Ma che baronessina, Cavriaghi! E una bella e cara figliola cui | voglio bene, e basta!" Che fosse proprio "basta" non era vero; perö Tancredi parlava sincero; con l'abitudine atavica ai larghi possessi gli sembrava dawero che Gibildolce, Settesoli e i sacchetti di tela fossero stati suoi dai tempi di Carlo d'Angiö, da sempre. "Mi displace, ma credo che la madre di Angelica non potrai vederla; parte domani per Sciacca a far la cura delle stufe; e molto ammalata, poverina." Schiacciö ne! buttacenere quel che avanzava del Virginia. "Andiamo in salotto, abbiamo fatto gli orsi abbastanza." Uno di quei giorni Don Fabrizio aveva ricevuto una lettera del prefetto di Girgenti, redatta in stile di estrema cortesia, che gli annunziava l'arrivo a Donnafugata del cavaliere Aimone Che\'alley di Monterzuolo, segretario della prefettura che avrebbe dovuto intrattenerlo di un argomento che stava molto a cuore al Governo. Don Fabrizio, sorpreso, spedi l'indomani il figlio Francesco Paolo alla stazione di posta per ricevere il missus domimcus e invitarlo a venire ad alloggiare a palazzo, atto di vera misericordia quanto di ospitalitä consistente nel non abbandonare il corpo del nobiluomo piemontese alle mille belvette che lo avrebbero straziato nella locanda-spelonca di Zzu Menico. La corriera giunse sul far della notte con la sua guardia armata a cassetta e con lo scarso carico di volti chiusi. Da essa discese anche Chevalley di Monterzuolo, riconoscibile subito dall'aspetto esterrefatto e dal sorrisetto guardingo; egli si trovava da un mese in Sicilia, nella parte piü strenuamente indigena dell'isola per di piü, e vi era stato sbalzato dritto dritto dalla propria terricciuola del Monferrato. Di natura timida e congenitamente burocratica si trovava molto a disagio. Aveva avuto la testa imbottita da quei racconti briganteschi mediante i quali i Siciliani amavano saggiare la resistenza nervosa dei nuovi arrivati e da un mese individuava un sicario in ciascun usciere del proprio ufficio ed un pugnale in ogni tagliacarte di legno sul proprio scrittoio; inoltre, la cucina all'olio aveva da un mese posto in disordine le sue viscere. Adesso se ne stava Ii, nel crepuscok), con la sua valigetta di tela bigia e guatava l'aspetto pnvo di qualsiasi civetteria della strada in mezzo alla quale era stato scaricato; l'iscrizione "Corso Vittorio Emanuele" che con i suoi caratteri azzurri su fondo bianco ornava la casa in sfacelo che gli stava di tronte, non bastava a convincerlo che si trovasse in un posto che dopo tutto era la sua stessa nazione; e non osava rivolgersi ad alcuno dei contadini addossati alle case come cariatidi. sicuro di non esser compreso e timoroso di ricevere una gratuita coltellata nelle budella sue che gli erano care benche sconvolte. Quando Francesco Paolo gli si awicinö presentandosi strabuzzö gli occhi perche si credette spacciato ma l'aspetto composto e onesto del ragazzone biondo lo rassicurö alquanto e quando poi comprese che era invitato ad alloggiare a palazzo Salina, fu sorpreso e sollevato; il percorso al buio sino al palazzo fu allietato da continue schermaglie fra la cortesia piemontese e quella siciliana (le due piü puntigliose d'Italia) a proposito della valigia che fini con l'essere portata, benche leggerissima, da ambedue i cavallereschi contendenti. Giunto a palazzo, i volti barbuti dei "campieri" che stazio-navano armati nel primo cortile turbarono di nuovo l'anima di Chevalley di Monterzuolo, mentre poi la bonarietä distante dell'accoglienza del Principe insieme aH'cvidentc lasto degli ambienti intravisti lo precipitarono in opposte cogitazioni. Rampollo di una di quelle famiglie della piccola nobiltä piemontese che viveva in dignitosa ristrettezza sulla propria terra, era la prima volta che si trovava ospite di una grande casa e questo raddoppiava la sua timiditä; mentre gli aneddoti sanguinosi uditi raccontare a Girgenti, l'aspetto oltremodo protervo del paese nel quale era giunto, e gli "sgherri" (come pensava lui) accampati nel cortile gli incutevano spavento; in modo che scese a pranzo martoriato dai contrastanti timori di chi e capitato in un ambiente al di sopra delle proprie abitudini e da quelle dell'innocente caduto in un agguato brigantesco. A cena mangiö bene per la prima volta da quando aveva toccato le sponde sicule, e l'awenenza delle ragazze, l'austerita 154 di Padre Pirrone e le grandi maniere di Don Fabrizio lo convinsero che il palazzo di Donnafugata non era 1'antro del bandito Capyaro e che da esso sarebbe probabilmente uscito vivo; ció che piú lo consoló řu la presenza di Cavriaghi che, come apprese, abitava lí da dieci giorni ed aveva 1'aria di star benissimo ed anche di essere un grande amico di quel giovanottino Falconeri, amicizia questa fra un siciliano ed un lombardo che gli apparve miracolosa. Alla fine del pranzo si awicinó a Don Fabrizio e lo pregó di voler concedergli un colloquio privato perché intendeva ripartire l'indomani mattina; ma ti Principe gli spiaccicó una spalla con una manata e col piú gattopardesco sorriso: "Niente affatto, caro cavaliere" gli disse "adesso Lei ě a casa mia e la terró in ostaggio sinché mi piacerá; domani non partirá e per esserne sicuro mi priveró del piacere di parlare con lei a quattťocchi sino al pomeriggio." Questa frase che avrebbe terrorizzato l'ottimo cavaliere tře ore prima lo rallegró invece adesso; Angelica quella sera non c'era e quindi si giocó a wbtst; in un tavolo insieme a Don Fabrizio, Tancredi e Padre Pirrone vinše due rubbers e guadagnó tre lire e trentacinque centesimi, dopo di che si ritiró in camera sua, apprezzó la freschezza deíle lenzuola e si addormentó del sonno fiducioso del giusto. La mattina dopo Tancťedi e Cavriaghi lo condussero in giro per il giardino, gli fecero ammirare la quadreria e la collezione di arazzi; gli fecero anche fare un giretto in paese; sotto il sole color di miele di Novembre esso appariva meno sinistro della sera prima; si vide financo in giro qualche sorriso, e Chevalley di Monterzuolo cominciava a rassicurarsi anche nei riguardi della Sicilia rustica. Questo fu notáto da Tancredi che venne subito assalito dal singolare prurito isolano di raccontare ai forestieri storie raccapriccianti, purtroppo sempře autentiche. Si passava davanti a un divertente palazzo con la facciata adorna di maldestri bugnati. "Questa, caro Chevalley, ě la casa del barone Mútolo; adesso ě vuota e chiusa perché la famiglia vive a Girgenti da quando il figlio del barone, dieei anni fa, ě stato sequestrato dai brigami." II piemontese cominciava a fremere. "Poverino! chissá quanto I ha dovuto pagare per liberarlo!" "No, non ha pagato nulla; si I trovavano giä in difficoltä finanziarie, privi di denaro contante [ come tutti qui. Ma il ragazzo ě stato restituito lo stesso; a ra-I te, pero." "Come, principe, cosa intende dire?" "A rate, dico : bene, a rate; pezzo per pezzo. Prima ě arrivato 1'indice della mano destra. Dopo una settimana il piede sinistro ed infine in un bel paniere, sotto uno strato di fichi (si era in Agosto) la těsta; aveva gli occhi sbarrati e del sangue rappreso all'angolo I delle labbra. Io non 1'ho visto, ero un bambino allora; ma mi i hanno detto che lo spettacolo non era bello. II paniere era stato lasciato su quel gradino lí, il secondo davanti la porta da una vecchia con uno scialle nero sulla těsta: non la ha riconosciuta nessuno." Gli occhi di Chevalley si irrigidirono i nel disgusto; aveva giä udito narrare il fatto ma adesso, vedere I sotto questo bel sole, lo scalino sul quale era stato deposto il dono insolito era unaltra cosa. La sua anima di funzionario lo soccorse: "Che polizia inetta avevano quei Borboni. Fra poco quando verranno qui i nostri carabinieri, tutto questo cesserä." "Senza dubbio, Chevalley, senza dubbio." Si passó poi davanti al Circolo dei Civili che allombra dei platani della piazza faceva la propria mostra quotidiana di sedie in ferro e di uomini in lutto. Ossequi, sorrisi. "Li guardi bene, Chevalley, s'imprima la scéna nella memoria: un paio di volte all'anno uno di questi signoři vien lasciato stecchito sulla sua poltroncina: una fucilata sparata nella luce incerta del tramonto; e nessuno capisce mai chi sia stato a sparare." Chevalley provö il bisogno di appoggiarsi al braccio di Cavriaghi per sentire vicino a sé un po' di sangue continentale. Poco dopo, in cima a una stradetta ripida, attraverso i festoni multicolori delle mutande sciorinate, s'intravide una chiesuola ingenuamente barocca. "Quella ě Santa Ninfa. II parroco cinque anni fa ě stato ucciso lí dentro mentre celebra-va la messa." "Che orrore! una fucilata in chiesa!" "Ma che fucilata, Chevalley! siamo troppo buoni cattolici per fare delle malcreanze simili. Hanno messo semplicemente del veleno nel vino della Comunione; ě piú discreto, piú liturgico vorrei dire. Non si ě mai saputo chi lo abbia fatto: il parroco era un'ottima persona e non aveva nemici." Come un uomo che svegliatosi la notte vede uno spettro 06 seduto ai piedi del letto sui propri calzini, si salva dal terrore sforzandosi di credere ad una burla degli amici buontemponi, cosi Chevalley si rifugiö nella credenza di esser preso in giro: "Molto divertente, principe, dawero spassoso! Lei dovrebbe scrivere dei romanzi, racconta cosi bene queste frottole!" Ma la voce gli tremava; Tancredi ne ebbe compassione e benche prima di rincasare passassero davanti a tre o quattro luoghi per lo meno altrettanto evocatori, si astenne dal fare il cronista e parlö di Bellini e di Verdi, le sempiterne pomate curative delle piaghe nazionali. Alle quattro del pomeriggio il Principe fece dire a Chevalley che lo aspettava nello studio. Era questo una piccola stanza con ai muri sotto vetro alcune pernici imbalsamate, di quelle grigie a zampette rosse stimate rare, trofei di caccie passate; una parete era nobilitata da una libreria aha e stretta colma di annate di riviste matematiche; al di sopra della grande poltrona destinata ai visitatori, una costellazione di miniature di fami-glia: il padre di Don Fabrizio, il principe Paolo, fosco di carnagione e sensuale di labbra quanto un Saraceno, con la nera uniforme di Cone tagliata a sghembo dal cordone di S. Gennaro; la principessa Carolina, giä da vedova, i capelli biondissimi accumulati in una pettinatura a torre ed i severi occhi azzurri; la sorella del Principe, Giulia, la principessa di Falconeri seduta su una panca in un giardino, con alia destra la macchia amaranto di un piccolo parasole poggiato aperto per terra ed alia sinistra quella gialla di un Tancredi di tre anni che le reca dei fiori di campo (questa miniatura Don Fabrizio se la era cacciata in tasca di nascosto mentre gli uscieri inventariavano il mobilio di villa Falconeri). Poi piü sotto, Paolo, il primogenito, in attillati calzoni da cavalcare, in atto di salire su un cavallo focoso dal collo arcuato e dagli occhi sfavillanti; zii e zie varie non meglio identificati, ostentavano gioielloni o indicavano, dolenti, il busto di un caro estinto. Al sommo della costellazione, perö, in funzione di Stella polare, spiccava una miniatura piü grande: Don Fabrizio stesso, poco piü che ventenne con la giovanissima sposa che poggiava la testa sulla spalla di lui in atto di completo abbandono amoroso; lei bruna; lui roseo nelTuniformě azzurra e argentea delle Guardie del Corpo del Re sorrideva compia-. ciuto col volto incorniciato dalle basette biondissime di primo pelo. Appena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato: "Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna, ě intenzione del governo di Torino di procedere alia nomina a Senátoři del Regno di alcuni illustri siciliani; le autorita provincial son state incaricate di redigere una lišta di personalita da proporre all'esame del governo centrále ed eventual-mente, poi, alia nomina regia e, come ě owio, a Girgenti si ě subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per antichitá, per il prestigio personále di chi lo porta, per i meriti scientifici, per l'attitudine dignitosa e liberaie, anche, assunta durante i recenti awenimenti." II discorsetto era stato prepara-to da tempo, anzi era stato oggetto di succinte note a matita sul calepino che adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di Chevalley. Don Fabrizio pero non dava segno di vita, le palpebre pesanti lasciavano appena intravedere lo sguardo. Immobile la zampaccia dai peli biondastri ncopriva interamente una cupola di S. Pietro in alabastro che stava sul tavolo. Ormai awezzo alia sornioneria dei loquaci siciliani quando si propone loro qualcosa, Chevalley non si lasció smontare: "Prima di far pervenire la lista a Torino i miei superioři hanno creduto dover informare lei stesso, e farle chiedere se questa proposta sarebbe di Suo gradimento. Richiedere il suo assenso, nel quale le autorita sperano molto ě stato l'oggetto della mia missione qui, missione che per altro mi ha valso l'onore e il piacere di conoscere Lei ed i suoi, questo magnifico palazzo e questa Donnafugata tanto pittoresca." Le lusinghe scivolavano via dalla personalita del Principe come l'acqua dalle foglie delle ninfee: questo ě uno dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono nello stesso tempo orgogliosi ed abituati a esserlo. "Adesso questo qui s'immagina di venire a farmi un grande onore" pensava "a me, che sono quel che sono, fra l'altro anche Pari del Regno di Sicilia, il che dev'essere press'a poco come essere senátore. E L5Í 159 vera che i doni bisogna valutarli in relazione a chi li offre: un contadino che mi da il suo pezzo di pecorino mi fa un regalo piú grande di Giulio Läscari quando m'invita a pranzo. I guaio ě che il?pecorino mi da la nausea; e cosi non resta che1 la gratitudine ehe non si vede e il naso arricciato dal disgusto^|| ehe si vede fin troppo.7f-Le idee sue in fatto di Senátu*" erano del resto vaghissime; malgrado ogni suo sforzo esse lo-' riconducevano sempre al Senato Romano, al senátore Papirio ehe aveva spezzato una bacehetta sulla testa di un Gallo -y^Cmaleducato, a un cavallo Inatatus che- Caligola aveva tattuaJ senátore, onore questo ehe soltaňTo suo figlio Paolo non'*?: avrebbe trovato eccessivo; lo infastidiva anche il riaffacciarsiS' insistente di una frase detta talvolta da Padre Pirrone; "Senator resJ>f}r" "'" "'np'"^ autem mala bestia." Adesso vi era anchee il Senato dell'Impero di Pangi, ma non era che una assemblea« di profittatori muniti di larghe prebende. Vi era o vi era stato^ un Senato anche a Palermo ma si era trattato soltanto di un comitato di amministratori civici, e di quali amministratori! Robetta per un Salina. Volle sincerarsi: "Ma insomma, cavalie-re, mi spieghi un po' che cosa ě veramente essere senátori. La stampa delia passata monarchia non lasciava passare notizie \j ^sul sistema costituzionale degli altri stati italiani, e un soggiorno a[*ä/di una settimana a Torino due anni fa non ě stato sufficiente ij^ a illuminarmi. Cosa ě? un semplice appellativo onorifico, una &•ff1 specie di decorazione? o bisogna svolgere funzioni legislative, deliberative?" fifi II Piemontese, il rappresentante del solo stato liberale ^ italiano, s'inalberô: "Ma, Principe, il Senato ě la Camera Aha del Regno! In essa il fiore degli uomini politici del nostra paese, prescelti dalla saggezza del Sovrano, esaminano, diseutono, approvano o respingono quelle leggi ehe il Governo o essi stessi propongono per il progresso del paese; esso funziona 'ello stesso tempo da sprone e da briglia, incita al ben fare, impedisce di strafare. Quando avra accettato di prendervi posto, Lei rappresenterä la Sicília alia pari dei deputati eletti, fara udire la voce di questa sua bellissima terra che si affaccia adesso al panorama del sanare, con tanti giusti Chevailey avrebbe f| 160 londo moderno, con tante piaghe da lesideri da esa'udire." rse continuato a lungo su questo tono, se Bendico non avesse da dietro la porta chiesto alia "saggezza del Sovrano" di essere ammesso; Don Fabrizio fece l'atto di alzarsi per aprire ma lo fece con tanta mollezza da dar tempo al Piemontese di lasciarlo entrare lui; Bendico, meticoloso, fiuto a lungo i calzoni di Chevailey; dopo, persuaso di aver da fare con un buon uomo si accovaccio sotto la finestra e dormi. "Stia a sentirmi, Chevailey; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare; trovo che in questo momento decisivo per il futuro dello stato italiano e dovere di ognuno dare la propria adesione, evitare l'impressione di screzi dinanzi a quegli stati esteri che ci guardano con un timore o con una speranza che si riveleranno ingiustificati ma che per ora esistono." -fteuicifd ^tnt aipcplt fakaf "Ma allora, principe, perche non accettare?'ia-fl»*«, ^ ^vuJUj>^ "Abbia pazienza, Chevailey, adesso mi spieghero; noi Sici-liani siamo stati awezzi da una lunghissima egemonia di gover-nanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva cosi non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai vicere spagnoli. Adesso la piega e presa, siamo fatti cosi. Avevo detto 'adesione' non 'partecipazione.' In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perche adesso si possa chiedere a un membra della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se cio che si e fatto e stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato "male; ma voglio dirle subito cio che Lei capira da solo quando sara stato, un ^anno fra noi,{In Sicilia non importa tar male o far benq^il *\peccato che noTSiciliani non perduniamo mai e semplicemen-te quello di taje'. Siamo vecchi, Chevailey, vecchissimi. Sono vghticinque secoli almcno che puriiamo sullc spalle il peso di magnitiche civilta eterogenee, tutte venule da tuori gia comple-te e. perte?ninaif ncssnna yenno^'liata da noisTessi. nessuna a cui abbiamo dato il 'la'; noi siamo dei bianchi quanto lo e~ lei, Chevailey, e quanto'la regina d'lnghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia Non lo dico per lagnarmi: e in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso." Adesso Chevalley era turbato. "Ma ad ogni modo questo adesso e finitb; adesso la Sicilia non e piu terra di conquista ma libera parte di un libero stato." "L'intenzione e buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho gia detto che in massima parte e colpa nostra; Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; pej conto mio mi sembra piuttosto una centenaria trascinata in carrozzella alia Esposi-zione Universale di Londra, che non comprende nulla, che s'impipa di__tmto, delle acciaiene di Sheffield come delle filahde di Manchester, e che agogna soltanto di ritrovare il proprio dormiveglia fra i suoi cuscini sbavati e il suo orinale sotto il letto." L'aVJttvwUvve e*»%<£** ogrip Parlava ancora piano, ma la mano attorno a S. Pietro si stringeva; l'indomani la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata. "II sonno, caro Chevalley, il sonno e cio che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorra svegliare, sia pure per portar loro i piii bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni f* siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le piu viojenfe: la nostra sensualita e desiderio di oblio, le schioppettate e le .1/ coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilita Coluttuosa, cioe ancora di morte, la nostra pigrizia. i riostri ' ' ' Sorbet!! di scofSofiera o di cafmellaTTT nostro aspetto meditativo ■ e quello del nulla""che vbglia scrutare gli enigmi del nirvana, cio proviene li prepotere da noi di certe persone, di coloro ffi n. "C'e un nome che io vorrei suggerire per ilSenato: quello di Calogero Sedära; egli ha piú~1Ťiěritr3rrňe per sedervi; il casato, mi é stato detto, ě antico o tinirá corTesserlo; piú che quel che Lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza dei menti scientific! ne ha dt pratici, eccezionali; la sua attitudine durante la crisi. io scorso piú che ineccepi bile_e stata utilissima; fllusioni rion credo che ne abbia piü dij^*^ me, ma e abbastanza s\7tliu pefsapere crearsele quando occor- cerrg_ ra. E l'individuo che fa per voi. Ma dovete far presto, perche p.p ho inteso dire che vuol porre la propria candidatura alla camera dei deputati." Di Sedära si era molto parlato in Prefet-tura, le attivitä di lui quale sindaco e quale privato erano note; Chevalley sussultö: era un onest'uomo e la propria stima delle camere legislative era pari alla puritä delle proprie intenzioni; per questo credette opportuno non fiatare, e fece bene a non compromettersi perche, infatti, dieci anni piü tardi, l'ottimo don Calogero doveva ottenere il laticlavio. Benche onesfo, perö, Chevalley non era stupido; mancava si di quella prontez-za di spirito che in Sicilia usurpa il nome di intelligenza, ma si rendeva conto delle cose con lenta soliditä, e poi non aveva la impenetrabilitä meridionale agli äff anni altrui. Comprese l'amarezza e lo sconforto di Don Fabrizio, rivide in un attimo lo spettacolo di miseria, di abiezione, di nera indifferenza del quale per un mese era stato testimonio; nelle ore passate aveva invidiato l'opulenza, la signorilitä dei Salina, adesso ricordava con tenerezza la propria vignicciuola, il suo Monterzuolo vicino a Casale, brutto, mediocre, ma sereno e vivente; ebbe pietä tanto del principe senza speranze come dei bimbi scalzi, delle donne malariche, delle non innocenti vittime i cui elenchi giungevano cosi spesso al suo ufficio; tutti eguali, in fondo, compagni di sventura segregati nel medesimo pozzo. Volle fare un ultimo sforzo; si alzö e l'emozione conferiva pathos alla sua voce: "Principe, ma e proprio sul serio che Iei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare 165 Soluzioni I Trenitalia ^ MLOL - Emilia Digital Líbrary - Sched.. A archive.org I gattopardo : Giuseppe Tomasi di La.. @ Corriere della Sera: news e ultime not.. o a o _l Mail - daniela shalom vagata - Outlook allo stato di poverte materiále, di. cieca miseria morale nelle quali giace questo che é il suo stesso popolo? II clima si vince, ij ricordo deiscattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano, la stráda rimarrä libera alla gente senza scrupoli e senza prospettive, ai Sedära; e tutto sarä di nuovo come prima, per altri secoli. Ascolti la sua coscienza, princípe, e non le orgogliose veritä che ha detto. Collabori." Don Fabrizio gli sorrideva, lo preše per la mano, lo fece sedere vicino a lui sul divano: "Lei é un gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto; Lei ha ragione in tutto; si é sbagliató soltanto quando ha detto: i Siciliani vorranno migliorare'" Le racconteró un aneddoto personale. Due o tre giorni prima che Garibaldi entrasse a Palermo mi furono presentati alcuni ufficiali di marina inglesi, in servizio su quelle ^V^'-r navi che stavano in rada per rendersi conto degli awenimenti. Yir jf Essi avevano appreso, non so come, che io posseggo una casa .j/r t alla Marina, di fronte al mare, con sul tetto una terrazza dalla (ŕ*^ quale si scorge la cerchia dei monti intorno alla cittä; mi f*** chiesero di visitare la casa, di venire a guardare quel panorama nel quale si diceva che i Garibaldini si aggiravano e dei quale, dalle loro navi non si erano fatti una idea chiara. Vennero a casa, li accompagnai lassú in cima; erano dei giovanottoni ingenui malgrado i loro scopettoni rossastri. Rimasero estasiati dal panorama, della irruenza della luce; confessarono pero che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustä, >v.v«i il sudiciume delle strade di accesso. Non spiegai loro che una 5 J cosa era derivata dall'altra, come ho tentato di fare a lei. Uno s W- di loro, poi, mi chiese che cosa veramente venissero a fare, Q ^x^qui ui Sicília, quei volontari italiani. 'They are coming to teach !JS