Mito e Modernità nei Dialoghi con Leucò D’Arrigo Patrizia In una canzone di Francesco De Gregori un tale di nome Cesare aspetta sotto la pioggia per sei ore il suo amore, che non arriva. Mentre si bagna ancora un po’, l’ultimo tram va via. La canzone è Alice e quel tale è Cesare Pavese.Per un modulo didattico si tratta di un inizio un po’ frivolo per un autore che frivolo non era affatto. Perché Cesare Pavese era serio. Anzi serissimo. La canzone però permette di introdurre questo autore in modo coinvolgente. In fondo nella letteratura tutti, docenti e alunni, cerchiamo l’uomo. E dunque per prima cosa di Pavese va offerto ai ragazzi l’uomo con il suo dolore, la sua disperazione spesso sedata da una operosità continua e costante quanto l’amore non fu mai nella sua vita. Bisogna dare l’immagine di un uomo che svolse il mestiere di scrivere con una caparbietà assoluta, forse per dimenticare quanto difficile fosse invece il mestiere di vivere. E si può fare anche ascoltando con loro una canzone. La canzone di De Gregori focalizza un momento nodale della vita di Pavese, il momento della frustrazione dell’attesa, facendone il simbolo, ormai da trentacinque anni, di chiunque aspetti una donna che non arriva mai. Certo, avere una donna che ti aspetta, che dormirà con te, è come il tepore di qualcosa che dovrai dire, e ti scalda e t’accompagna e ti fa vivere. Sei solo. Avere una donna che parla con te non è nulla. Conta solo la stretta dei corpi. Perchè perchè non ce l’hai? <>. Tutto si paga.1 Cesare questo amore costante e caldo non lo ebbe mai. Lo inseguì certo e con desiderio, con rabbia, con dolore. Ma non lo ebbe mai. Lui stesso avrebbe detto: “ quel che è stato sarà”. Alice fu scritta nel 1973, periodo in cui Pavese era un autore simbolo. I giovani (come De Gregori) lo leggevano cercando se stessi nelle sue parole, nelle sue contraddizioni, nella sua disperazione. La canzone esibiva delicatamente l’esigenza di recuperare l’uomo proprio quando si parlava tanto di Pavese dal punto di vista politico, come dell’intellettuale impegnato, del militante, seppur tardivo, del PCI. Si cercava di mistificare il disinteresse dell’autore nei confronti della politica, i suoi tentativi velleitari di inserirsi all’interno di un gruppo che fra gli intellettuali, all’indomani della seconda guerra mondiale, era dominante. La prova del tuo disinteresse per la politica è che credendo al liberismo (= la possibilità di ignorare la vita politica) vorresti applicarlo tirannicamente. Senti cioè la vita politica soltanto in momenti di crisi totalitaria, e allora t’infiammi e contraddici al tuo stesso liberismo pur di realizzare presto le condizioni liberali in cui potrai vivere ignorando la politica.2 1 Nota dell’8 febbraio 1946 in Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Torino, Einaudi, 1952, p. 280 2 Nota del 9 gennaio 1940, ivi, p. 158 Tanti hanno amato Pavese, ma molti se ne sono allontanati anche per una repulsione generata dalla sua politicizzazione. Oggi Pavese è un autore che si propone a scuola, ma se il tempo stringe, senza troppe ansie, viene messo da parte per fare altro. Difficilmente la sua opera si riesce a inquadrare in schemi. E talora appare datato. Invece, scegliendo con cura le opere da presentare (alcune poesie di Lavorare stanca, alcuni Dialoghi con Leucò, La casa in collina e La luna e i falò), Pavese è un autore modernissimo, sia rispetto ai nostri tempi, per l’attualità dei temi (la solitudine, la morte, l’inadeguatezza, la marginalità e l’incapacità di aderire al reale da parte dell’intellettuale etc), sia, al di là del neorealismo di tanta sua opera, rispetto al suo periodo storico. È noto l’amore di Pavese per la letteratura americana. Naturalmente non potevano ammettere che noi cercassimo in America, in Russia, in Cina, e chi sa dove, un calore umano che l’Italia ufficiale non ci dava. Meno ancora che cercassimo semplicemente noi stessi. Invece fu proprio così. Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi. Dalle pagine dure e bizzarre di quei romanzi... venne a noi la prima certezza che il disordine, lo stato violento, l’inquietudine della nostra adolescenza e di tutta la società che ci avvolgeva, potevano risolversi e placarsi in uno stile, in un ordine nuovo, potevano e dovevano trasfigurarsi in una nuova leggenda dell’uomo.3 Ma una risposta al disordine della storia presente Pavese la dà anche attraverso la sua intima adesione al sistema del mito classico, apparentemente molto coerente. L’interesse per il mito è originario e interiore. Ma la scelta di Pavese di scrivere miti è anche una scelta da intellettuale non organico, direi marginale nonostante il ruolo ricoperto all’Einaudi. Egli di fronte a una realtà storica che non accetta e nella quale non trova il proprio ruolo, nè come uomo nè come intellettuale, sceglie di rifugiarsi nel mito. Fondamentale la lettura di classici greci e latini, ma anche quella di testi mitografici, etno-antropologici, psicologici, da Frazer a Kerenji, da Levy-Bruhl a Jung a Freud. Questi interessi si collocano nel solco di una tendenza che, già a partire dagli inizi del Novecento, riguarda prepotentemente tutta l’Europa, ma non l’Italia. Quando Pavese infatti avvia, nel 1948, la pubblicazione di testi di questo ambito culturale incorre nell’ostilità dei comunisti “ortodossi” a giudizio dei quali gli studi sul primitivismo, sul mito e sul selvaggio non fanno altro che spianare la strada a un insano irrazionalismo. Pavese, nonostante le contrarietà, persegue e approfondisce caparbiamente la sua teoria del mito, elaborata fra il 1943 e il 1950 in una serie di saggi pubblicati in Feria d’agosto4 e su riviste. Inoltre pubblica, già nel 1947, i Dialoghi con Leucò, intrisi di mito, e stende un romanzo come La casa in collina, in cui spietatamente e coraggiosamente smaschera 3 Ritorno all’uomo, «L’Unità» del 20 Maggio del 1945, ora in Cesare Pavese, Letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1990, p. 197. 4 Cesare Pavese, Feria d’agosto, Torino, Einaudi, 1946. I saggi presenti in Feria d’agosto furono poi pubblicati insieme ad altri, col titolo Mito, in Letteratura americana, cit. l’estraneità sociale e l’inadeguatezza dell’intellettuale (di se stesso). Corrado non solo è inadeguato a intervenire attivamente nella guerra, a fare la Resistenza, ma non riesce in alcun modo a dare un senso alla morte da essa causata. «L’estraneità alla guerra è in realtà estraneità alla storia, incapacità di attribuirle un senso e un valore»5 . L’impegno è impensabile, l’unica possibilità è la fuga. Questa fuga di Corrado corrisponde alla fuga di Pavese nel mito. La teoria del mito è in actu nei bellissimi Dialoghi con Leucò. In essi Pavese elabora una rappresentazione dei miti, dei vichiani universali fantastici da lui tanto amati, attraverso i quali veicola i drammi esistenziali e perenni dell’uomo: l’infanzia, la solitudine, il sesso, il destino, la morte, la poesia. La stesura dei ventisette Dialoghi avviene fra il dicembre del 1945 e il marzo del 1947. Il titolo è un omaggio a Bianca Garufi, con la quale Pavese ha avuto una passionale relazione. Leucò, infatti, è la traduzione greca di bianca. Ma è anche il diminutivo della dea Leucotea, la dea bianca. Mito poco frequentato quello di Leucotea, in origine Ino, zia di Dioniso. Era, irata, fece impazzire Ino che, disperata per la morte di uno dei figli, si gettò in mare. Il mare ebbe pietà di lei e la trasformò in una divinità marina, appunto Leucotea, caritatevole verso i naviganti che guidava e proteggeva nella tempesta. E dunque Leucotea guida i lettori in questo pavesiano viaggio attraverso i dolori e i misteri dell’esistere, esattamente come assiste Odisseo nella tempesta6 . Alcuni dialoghi consentono di presentare dei temi molto cari a Pavese. Si tratta di cinque dialoghi: Schiuma d’onda, L’inconsolabile, L’isola, Le streghe e Le Muse. Dominano i temi dell’amore, della poesia e dell’ineludibilità del destino umano. I dialoghi sono estremamente lirici per il ritmo cadenzato che li percorre, per il gioco continuo di ripetizioni, semanticamente forti, ma anche per le numerose contrapposizioni antitetiche o chiastiche. In tre dei cinque dialoghi i protagonisti sono poeti: Saffo, Orfeo ed Esiodo. Odisseo il protagonista, in praesentia e in absentia, degli altri due. Il collegamento non manca: Orfeo fu il cantore per eccellenza, musico e poeta. Secondo la più nota versione sulla sua morte, le donne tracie dopo aver dilaniato il suo corpo, ne gettarono i pezzi nel fiume che li portò fino al mare. La testa e le labbra di Orfeo giunsero a Lesbo, che dunque fu per eccellenza la terra della poesia lirica. E nativa di Lesbo era Saffo. Secondo un’altra tradizione la testa di Orfeo giunse fino alla foce del fiume Melete, presso Smirne, dove in seguito nacque Omero, che scrisse il nostos di Odisseo. E, secondo un’altra tradizione, Orfeo fu anche l’antenato di Esiodo. Schiuma d’onda è uno dei dialoghi più belli. Saffo e Britomarti (la dolce vergine) introducono il tema fondamentale dell’opera, l’ineludibilità del destino umano. I due personaggi, in linea col gioco di contrapposizioni presente in tutta l’opera, sono l’uno l’opposto dell’altro: Saffo cerca la morte nelle onde del mare per fuggire il non-amore, Britomarti per fuggire il furente amore di Minosse. Il suicidio di Saffo nasce dal desiderio di placare il tumulto d’amore, quello di Britomarti dalla 5 Romano Luperini, Il Novecento, Torino, Loescher editore, 1981, p..585. 6 Odissea, V, vv. 333 e sgg., trad. a cura di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1989 volontà assoluta di preservarsi vergine. Tuttavia Britomarti, non essendo umana, accetta il proprio destino, Saffo, pur sapendo che esso è ineludibile, non può accettarlo. Da qui il suo suicidio, mentre quello di Britomarti, in realtà, è solo un mutamento da uno stato a un altro (da ninfa dei monti a ninfa marina). Saffo sceglie il non essere. Tuttavia cercando il nulla, cercando di sfuggire al proprio destino Saffo non fa altro che perpetuarlo nell’eternità del mare, nel cui tedio tutto macera e ribolle, muore e rivive (percezione del mare che Pavese ebbe ai tempi del confino a Brancaleone). «Anch’io Britomarti nei giorni sapevo fuggire. E la mia fuga era guardare nelle cose e nel tumulto, e farne un canto, una parola. Ma il destino è ben altro.»7 Il mestiere di scrivere, dunque, è fuga dal mondo, ma fuga spietatamente conoscitiva. Saffo, nella sua infinita tristezza, è un alter ego di Pavese: è una poetessa che guarda la vita e ne fa canto, per capirla, per chiarirla. Ma vive anche di un desiderio d’amore così forte da sentirsi come schiuma d’onda che sbatte contro lo scoglio della realtà, il cui senso resta sempre insondabile. La produzione poetica di Saffo affronta un unico tema: l’amore. La Saffo di Pavese vive e muore di passione. In lei coesistono la razionalità e l’irrazionalità. Britomarti la definisce “donna d’amore” ed era l’amore a farla sorridere in vita, non l’accettazione nè la coscienza del destino, che è terribile. Di tutte le donne, dice Saffo, solo una accettò il proprio destino: Elena Tindaride. Fu molto amata, ma lei non amò mai e non sorrise mai. Tante altre donne invece, per amore o per l’incapacità di accettare il destino, hanno trovato la morte anche in quel mare in cui nacque Afrodite, dea dell’amore, che Saffo aveva invocato nel bellissimo Inno ad Afrodite. Nella conclusione si delineano due opposti esistenziali eterni: amore e morte. L’inconsolabile è uno dei dialoghi più noti e profondi, in cui Pavese presenta una variante del notissimo mito di Orfeo ed Euridice. Il dialogo sembra essere una risposta a Kerényi che ne Gli dei e gli eroi della Grecia si chiede con forza perchè Orfeo si sia voltato perdendo per sempre Euridice. Orfeo, in un attacco estremamente lirico e ritmato, sostiene di essersi voltato volontariamente, di aver scelto di perdere Euridice. Ridicolo infatti sarebbe stato voltarsi per un errore. Orfeo crede di cercare Euridice nell’Ade, ma in realtà sta cercando se stesso, un passato a lei precedente. Egli lo capisce solo quando, dopo aver piegato col suo canto dolcissimo la volontà di Ade e Persefone, risalendo (e ciò è significativo), vede un barlume di luce. Ma sente anche il freddo della morte, cioè il freddo della coscienza-conoscenza. Capisce che ognuno ha il proprio destino dentro, fin dall’infanzia, che ciò che è stato sarà, poichè l’uomo cammina lungo un percorso predeterminato, come un treno sui binari, in cui le esperienze ritornano inesorabili. Orfeo sa che la sua vita con Euridice sarebbe ormai la vita di chi con orrore attende la nota morte. Se Orfeo rappresenta la poesia, Euridice è il mito ed è il sesso. Euridice è “una stagione della vita”, è la spensieratezza, 7 Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino, Einaudi, 1999, p. 45 l’amore, è la capacità di ignorare la morte. Nel momento in cui il destino ineludibile la uccide, anche Orfeo conosce la morte e diventa uomo (questo tema si trova nella poesia MITO del 1935). Orfeo è la poesia che cerca di razionalizzare il mito, il quale nel momento in cui si dipana muore. Per questo Orfeo deve voltarsi. «É necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, cantando secondo i miei modi la vita e la morte.»8 L’Ade è l’inconscio. Un incoscio che non può prevalere. Pena la morte dell’individuo, o la follia. L’uomo, l’Orfeo-poesia, ha bisogno, per sopravvivere, di una razionalità che controlli l’Euridice-mito, che la riduca a chiarezza, ma che sappia anche affondare le mani nel passato, nell’infanzia perchè lì sta il nodo esistenziale. L’interlocutrice di Orfeo è Bacca, la quale non può capire la scelta di Orfeo. Bacca è l’istinto irrazionale, è il selvaggio, Bacca è colei che attraverso il rito del sangue si avvicina al dio. Come può un istinto primordiale, il principio del piacere comprendere il principio di realtà? L’opposto è invece possibile. Fondamentale, dunque, la poesia che segna per l’uomo un cammino di conoscenza profonda di sè, anche a costo di un enorme dolore, anche a costo di distruggere il passato, comunque necessario, per costruire l’uomo. Il canto dice l’orrore del destino, attraverso la parola. Ma dicendolo ce ne libera, è salvifico. Euridice è anche il sesso, di cui l’uomo cosciente attraverso il canto si libera (Orfeo non amerà più nessuno dopo Euridice). “Non c’è dio sopra il sesso” dice Tiresia nel dialogo I ciechi9 . Il sesso è il primordiale, il selvaggio. Spesso nei dialoghi il serpe è il simbolo del sesso e da un serpente è morsa Euridice. Orfeo deve liberarsene. Se Saffo si uccide perchè prevale in lei l’irrazionalità, perchè non riesce a scandagliare l’insondabile mistero di una realtà troppo dolorosa, Orfeo rappresenta la vittoria della poesia. Egli col suo canto comprende questo mistero e a morire non sarà lui ma Euridice. Ne Le Muse compare il terzo poeta: Esiodo. Esiodo è il primo poeta la cui individualità emerge nell’opera, il primo che, pronunciando il proprio nome, diventa conscio mediatore dell’atto poetico. Egli narra nella Teogonia che le Muse, sul monte Elicona, gli insegnarono il bel canto «noi sappiamo raccontare molte menzogne, simili a verità»10 . Poi, come simbolo dell’investitura poetica, gli offrirono un ramo d’alloro «... e m’ispirarono un canto divino, perchè celebrassi le cose che saranno e che furono...»11 . Pavese immagina la parte conclusiva del dialogo fra Esiodo e Mnemosine, immagine che racchiude quella di tutte le Muse. Mnemosine, in quanto ricordo, è madre della poesia in ogni sua forma, è la poesia. 8 Ivi, p. 79 9 Ivi, pp. 19-23 10 Esiodo, Teogonia, v. 27, trad. a cura di Silvia Romani, Milano, Mondadori, 1997 11 Ivi, vv. 31-32 Esiodo percepisce un forte disagio esistenziale. Per placarsi si rifugia sul monte dove vive Mneme. «Oggi mi piace questo monte, l’Elicona, forse perchè tu (Esiodo) lo frequenti. Amo stare dove sono gli uomini, ma un poco in disparte. Io non cerco nessuno e discorro con chi sa parlare.»12 La poesia, che ha tanti nomi, è un tipo riservato. È senza tempo ed è una condizione ontologica, esiste e basta. Il poeta, con la sua soggettività e con la sua storicità, entra in relazione con la poesia, perchè solo tramite essa, che nomina le cose rendendole inedite e nuove ma allo stesso tempo familiari, sente venir meno il fastidio della vita. Nel dialogo la poesia svela al poeta questa sua magia. La vita di Mneme è fatta di attimi nei quali il tempo si ferma. In questi attimi le cose, un ulivo, un’occhiata, una nube, diventano ricordo e dunque un modello, un simbolo. Esiodo ha colto talvolta questi attimi, ma sente di non saperli esprimere e ad essi, ancora, contrappone la vita dell’uomo, il doloroso mestiere di vivere: «...nè la morte nè i grossi dolori scoraggiano. Ma la fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate – quest’è il vivere che taglia le gambe, Melete.»13 Ma anche la miseria e il dolore di questa vita, ribatte Mneme, hanno dentro il divino, nella forma del destino . Scrive Pavese: Nel dialogo Le Muse si definisce la poesia – si dice, tra l’altro, di ogni gesto che l’uomo fa, che “ripete un modello divino” e giorno e notte l’uomo non ha un istante “che non sgorghi dal silenzio delle origini”. Esiodo viene invitato da Mnemosine a riferir questo ai mortali – nasce la poesia.14 E ancora:«dobbiamo accettare i simboli – il mistero di ognuno- con la pacata convinzione con cui si accettano le cose naturali.»15 Questa è la poetica del destino: anche la vita umana, come il mito, è un simbolo, senza tempo e unica. Essa è destino, appare prefissata per l’eternità, ma in essa esplode anche l’imprevedibilità della libertà umana, che rende imprevisto ogni nuovo giorno. La poesia nasce da questo scontro vitalissimo dei due aspetti contraddittori, libertà e destino («le cose che saranno e che furono»). Al poeta l’abilità e il genio per cogliere questa vitalità. Esiodo va oltre Saffo e oltre Orfeo. Egli deve comunicare agli altri uomini ciò che sa, deve esprimere il senso dei giorni, qualunque esso sia. Odisseo è il protagonista de L’isola e de Le streghe. Nei due dialoghi il tema è l’ineludibilità del destino e in entrambi le immortali invidiano il destino dell’uomo. Nel primo emerge la disperata richiesta d’amore di Calipso, che offre l’immortalità a Odisseo, pur di tenerlo con sè. 12 Pavese, Dialoghi, cit., p. 163 13 Ivi, p. 166 14 Cesare Pavese, La poetica del destino, in Letteratura americana, cit., p. 311. 15 Id., La selva, ivi, p. 291. Calipso spiega a Odisseo: «Ma se tu non rinunci ai tuoi ricordi, ai sogni, se non deponi la smania e non accetti l’orizzonte, non uscirai da quel destino che conosci.»16 Ma Odisseo è troppo legato alla condizione umana per accettare questa rinuncia. A cosa vale essere immortali se anche Calipso, dopotutto, ha bisogno di Odisseo, un uomo, per sopportare la sua disperata condizione? «Di morire non spero. E non spero di vivere»17 dice Calipso. E ancora, ad un incredulo Odisseo, dice: «Quello che sono è quasi nulla caro. Quasi mortale, quasi un’ombra come te. È un lungo sonno cominciato chissà quando e tu sei giunto in questo sonno come un sogno. Temo l’alba, il risveglio. Se tu vai via, è il risveglio.»18 Odisseo è un sogno, il sogno della vita vera. La vita dell’immortale, che sa il destino e lo accetta, è sonno e non è preferibile a quella dell’uomo per il quale ogni giorno è una scoperta, che ama e che attende il domani, perchè nel domani può sperare, anche se sa che il suo destino è invecchiare e morire. La morte è speranza e opportunità. Calipso è solo un’isola di silenzio e solitudine. Anche Odisseo ha un’isola dentro ( «Ma da quando sei giunto hai portato un’altr’isola in te»19 ) che è il suo destino e la sua vita. Le due isole possono talora toccarsi, ma sono pur sempre isole. L’abbandono è necessario. Odisseo, semplicemente, spiega il perchè : «Quello che cerco l’ho nel cuore, come te.»20 . È il ritorno. Questa superiorità intangibile dell’uomo emerge anche nel dialogo Le streghe. Alla caparbia volontà e al desiderio di tornare di Odisseo, alla sua necessità di vivere seriamente ogni giorno nella sua imprevedibilità, come nel gioco degli scacchi, si contrappone l’eterno sorriso di Circe, il sorriso degli immortali che tutto sanno. Odisseo in quanto uomo ha bisogno di nominare le cose per renderle umane e chiarirle, ha bisogno dei ricordi. « L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo.»21 Circe potrebbe lasciare andare Odisseo o ucciderlo, invece lo tiene con sè per vivere, un istante, anche lei. L’uomo la travolge con la sua vita, la fa mortale parlandole di sè, chiamandola Penelope e chiedendole il canto. Allora il sorriso dell’immortale si smorza: anche Circe farà di Odisseo un ricordo. Pavese nei dialoghi effettua, attraverso il mito, una vera autoanalisi, che è anche, attraverso la definizione della poesia e del destino dell’uomo, ricerca di un ruolo. In essi emerge la capacità della poesia di scandagliare i misteri della vita umana e di comunicarli, la necessità dei ricordi, in quanto essenza informatrice dell’uomo, e della parola eternatrice. In Saffo, in Orfeo, in Esiodo c’è Pavese. 16 Pavese, Dialoghi, cit., p. 101 17 Ivi, p. 102 18 Ibidem. 19 Ivi, p. 103 20 Ibidem. 21 Ivi, p. 116 E c’è anche in Odisseo, nella sua caparbietà di vivere la vita, nel suo bisogno di ricordi e nella sua esigenza del ritorno per recuperarsi in quanto uomo totale (come Anguilla ne La luna e i falò). Mentre gli immortali saranno dimenticati e sostituiti con altri dei, l’uomo sarà sempre, con la bellezza della sua vita e col suo dolore. Chiudo con le parole di Pavese, la cui solitudine di uomo e di intellettuale, nonostante i successi, nessuno riuscì a rompere: «...Andremo se mai verso l’uomo. Perchè questo è l’ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell’uomo, di noi e degli altri. La nuova leggenda, il nuovo stile sta tutto qui.»22 22 Cesare Pavese, Ritorno all’uomo, in «L’Unità» del 20 Maggio 1945, ora in Letteratura americana, cit., p. 197